Diritto dell'UE e della CEDU
La Corte di giustizia sta ridisegnando, con alcune importanti pronunce, i tasselli fondamentali della procedura di consegna basata sul mandato d’arresto europeo attraverso una delimitazione della portata applicativa del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, nella prospettiva di un rafforzamento della tutela dei diritti fondamentali delle persone ricercate.
La Corte di giustizia UE si è di recente pronunciata, in più occasioni, sui limiti della cooperazione giudiziaria nel funzionamento della procedura di consegna basata sul mandato di arresto europeo, per un verso colmando, sia pure in parte, il vuoto relativo all’assenza di un motivo di rifiuto nell’ipotesi di una grave violazione dei diritti fondamentali, per altro verso rafforzando la sua funzione “nomofilattica” attraverso la individuazione di concetti e nozioni comuni, cui viene assegnato un significato “autonomo” rispetto alle legislazioni degli Stati membri, al fine di favorirne una applicazione uniforme sul territorio europeo.
La Corte sembra voler privilegiare lo strumento dialogico per risolvere i problemi legati al concreto funzionamento delle procedure di cooperazione nello spazio territoriale europeo, ponendo in un rapporto di diretta collaborazione le autorità competenti dei rispettivi Stati membri.
In tal senso, le pronunce ora in esame sembrano arricchire il ventaglio di opzioni sinora disponibili, affiancando al dialogo di tipo pregiudiziale tra Corte di giustizia e giudici interni ed a quello, “a distanza”, tra Corte di Lussemburgo e C. eur. dir. uomo, una ulteriore forma di dialogo, quasi “imposta”, tra le stesse autorità giudiziarie nazionali. Non soltanto un rapporto dialogico “multidirezionale”, pertanto, bensì anche “multimodale”1.
Muovendosi entro tale prospettiva ermeneutica, la Corte di Lussemburgo ha riconosciuto – e procedimentalizzato – la facoltà, per le autorità giudiziarie nazionali, di non eseguire un m.a.e. nel caso in cui sussistano motivi seri e comprovati che la persona ricercata corra un rischio concreto e “individualizzato” di subire trattamenti inumani o degradanti a causa delle condizioni detentive nelle apposite strutture dello Stato membro di emissione2.
È necessario, tuttavia, che l’autorità giudiziaria di esecuzione disponga di elementi oggettivi ed aggiornati, che attestino la presenza di un rischio reale di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro di emissione, tenuto conto del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto UE, e segnatamente dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali. Potranno essere oggetto di verifica, in tale contesto, sia carenze di tipo sistemico
o generalizzato, sia quelle riguardanti determinati centri di detenzione: il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri, a fronte di evenienze che mettono in discussione il rispetto della dignità umana, cede il passo ad un preciso obbligo di verifica da parte dell’autorità di esecuzione, che dovrà chiedere la trasmissione di informazioni complementari all’autorità emittente, la quale, a sua volta, dovrà trasmettere tali informazioni entro il limite eventualmente fissato dall’autorità di esecuzione. Quest’ultima, poi, dovrà rinviare la propria decisione sulla consegna dell’interessato fino all’acquisizione degli elementi informativi che le consentano di valutare l’effettiva sussistenza del rischio: qualora tale situazione non possa essere esclusa entro un termine ragionevole, l’autorità di esecuzione dovrà decidere se occorra porre fine alla procedura di consegna3.
Con tale pronuncia, dunque, la Corte di giustizia porta a compimento il disegno avviato con la sentenza “Melloni”, chiarendo che i principi del mutuo riconoscimento e della fiducia reciproca richiedono, per essere messi in discussione, che a venire in gioco sia un valore riconoscibile come equiparato o superiore ad essi, purché però tale riconoscimento sia operato dallo stesso diritto eurounitario e non autonomamente dai singoli ordinamenti nazionali: un processo di “europeizzazione” dei limiti da porre all’esecuzione del m.a.e., che poggia sulla combinazione tra il richiamo ad un valore guida come quello della dignità umana nell’accezione di cui all’art. 1 della Carta e, accanto ad esso, al divieto di trattamenti inumani e degradanti di cui all’art. 3 CEDU, secondo l’interpretazione fornita dalla C.eur. dir. uomo4.
La Corte di cassazione ha prontamente recepito tali indicazioni, stabilendo che il motivo di rifiuto della consegna di cui all’art. 18, co.1, lett. h), l. 22.4.2005, n. 69 – che ricorre in caso di “serio pericolo” che la persona ricercata venga sottoposta alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti – impone all’autorità giudiziaria di esecuzione, in conformità a quanto chiarito dalla C. eur. dir. uomo (10.6.2014, 13054/2012, Bujorean c. Romania; 10.6.2014, n. 51318/2012, Constantin Aurelian Burlacu c.Romania; sent.10.6.2014, n. 79857/2012, Mihai Laurentiu Marin c. Romania), di verificare, dopo aver accertato l’esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro, se, in concreto, la persona oggetto del m.a.e. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano, sicché a tal fine potrà essere richiesta allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria, anche nella prospettiva di un’adeguata motivazione circa l’eventuale inesistenza del rischio paventato5.
Altro aspetto rilevante nella riflessione avviata dalla Corte di Lussemburgo riguarda la delimitazione della nozione di custodia nelle procedure di consegna e la necessità di esaminare, ai fini della deduzione del periodo custodiale scontato nello Stato di esecuzione del m.a.e., se le misure prese nei confronti della persona interessata in quest’ultimo Stato abbiano avuto un effetto realmente privativo della libertà personale.
Tale nozione, secondo la Corte, non può essere desunta dagli ordinamenti nazionali perché è propria dell’ordinamento europeo e deve essere ricostruita tenendo conto delle finalità dell’atto normativo in questione: le misure restrittive della libertà personale, infatti, non possono essere di per sé equiparate a quelle privative come la detenzione, richiedendosi a tale fine un accertamento concreto basato sulla disamina della tipologia, della durata, degli effetti e delle modalità di esecuzione della misura presa in esame. Se quest’ultima può in concreto essere assimilata, proprio per la sua intensità, ad una privazione della libertà, lo Stato di emissione del m.a.e. è tenuto a decurtare dalla pena che il condannato deve scontare il periodo in cui il destinatario del provvedimento è stato sottoposto a misure cautelari come arresti domiciliari e braccialetto elettronico nello Stato di esecuzione.
La nozione di «custodia», pertanto, designa una misura non semplicemente restrittiva, ma privativa della libertà personale e comprende, oltre all’incarcerazione, qualsiasi misura o insieme di misure imposte alla persona interessata che, in ragione del tipo, della durata, degli effetti e delle modalità di esecuzione, la privino della sua libertà in modo analogo ad un’incarcerazione. Grava sullo Stato di emissione l’onere di esaminare, ai fini della deduzione del periodo custodiale subito nello Stato di esecuzione, se le misure adottate nei confronti della persona richiesta in quest’ultimo Stato abbiano avuto un reale effetto privativo della libertà6.
Un chiarimento opportuno riguardo alla natura della cd. “eurordinanza” deriva dalla precisazione che il mandato di arresto europeo deve contenere l’indicazione dell’esistenza di un mandato nazionale, ossia di un provvedimento “a monte”, poiché, in caso contrario, le autorità di esecuzione sono tenute a negarla7.
Il mandato di arresto nazionale, infatti, è una condizione indispensabile per l’emissione e l’esecuzione successiva di quello europeo, con la conseguenza che, nel caso in cui il provvedimento interno manchi in forza di una procedura semplificata prevista dallo Stato di emissione, il m.a.e. non deve essere eseguito perché, non essendosi validamente formato, l’atto stesso non viene ad esistenza.
Non viene più in rilievo, secondo la Corte, un problema di motivi facoltativi o tassativi di non esecuzione, i quali vengono propriamente in discussione solo in presenza di un atto valido, ma assume un ruolo dirimente il profilo dell’inesistenza stessa del provvedimento, con la conseguente impossibilità di esecuzione della procedura di consegna. Prima di negare l’esecuzione, tuttavia, l’autorità chiamata a dare seguito alla consegna deve chiedere allo Stato di emissione «di fornire con urgenza qualsiasi informazione supplementare necessaria», per chiarire se il mandato di arresto nazionale esiste e non è stato indicato, ovvero è del tutto mancante.
Qualora l’autorità di esecuzione, alla luce di tali informazioni, nonché di tutti gli altri elementi informativi in suo possesso, giunga alla conclusione che il m.a.e., pur essendo fondato sull’esistenza di un «mandato d’arresto» ai sensi dell’art. 8, par. 1, lett. c), della decisione quadro, è stato emesso senza che fosse stato effettivamente spiccato un mandato d’arresto nazionale distinto dal mandato d’arresto europeo, è tenuta a non dare corso alla procedura, in quanto quest’ultima non soddisfa i requisiti di regolarità previsti dall’art. 8, par.1, della decisione quadro.
La procedura di consegna basata sul m.a.e. comporta dunque una tutela articolata su due livelli dei diritti in materia procedurale e dei diritti fondamentali di cui deve beneficiare la persona ricercata, in quanto alla tutela giudiziaria prevista al primo livello, nell’ambito dell’adozione di una decisione giudiziaria nazionale, come un mandato d’arresto nazionale, si aggiunge quella che deve essere garantita al secondo livello, in sede di emissione del mandato d’arresto europeo, la quale può eventualmente intervenire in tempi brevi, dopo l’adozione della suddetta decisione giudiziaria nazionale.
Siffatte modalità di tutela giudiziaria devono ritenersi in via di principio assenti in tutte quelle situazioni in cui nel procedimento principale venga applicata una procedura cosiddetta «semplificata» di emissione del m.a.e., in quanto quest’ultima implica che, prima della sua emissione, le autorità giudiziarie nazionali non abbiano adottato alcuna decisione interna, come l’emissione di un mandato d’arresto nazionale, sulla cui base si innesti poi quello europeo.
La Corte è intervenuta anche sulla delimitazione dei rapporti tra processo in absentia e mandato d’arresto europeo, stabilendo che:
a) l’art. 4 bis, par.1, lett. a) ed i) della decisione quadro relativa al m.a.e., quale modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, dev’essere interpretato nel senso che le espressioni «citato personalmente» e «di fatto informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo, in modo tale che si è stabilito inequivocabilmente che era al corrente del processo fissato», che figurano in tale disposizione, costituiscono nozioni autonome del diritto dell’Unione e devono essere interpretate in modo uniforme in tutta l’Unione europea;
b) la suddetta disposizione dev’essere interpretata nel senso che una citazione che non sia stata notificata direttamente all’interessato, ma che sia stata consegnata, presso l’indirizzo di quest’ultimo, ad un adulto convivente che si è impegnato a recapitargliela, senza che il m.a.e. permetta di determinare se, ed eventualmente quando, tale adulto abbia effettivamente recapitato tale citazione all’interessato, non soddisfa, da sola, i requisiti enunciati in tale disposizione8.
La norma in parola esclude la possibilità per il giudice dello Stato richiesto di rifiutare l’esecuzione di un m.a.e., quando il provvedimento indichi che l’interessato – non comparso personalmente nel giudizio esitato nella pronuncia che si vuole eseguire con l’euromandato – in conformità alle procedure previste dallo Stato richiedente, «a tempo debito ... è stato citato personalmente ed è quindi stato informato della data e del luogo fissati per il processo terminato con la decisione o è stato di fatto informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo, in modo tale che si è stabilito inequivocabilmente che era al corrente del processo fissato».
Secondo la Corte, dunque, non può in linea di principio escludersi che la consegna di una citazione ad un terzo risponda ai requisiti di cui al citato art. 4 bis della decisione quadro 2002/584, ma per raggiungere tale obiettivo si deve stabilire inequivocabilmente che la terza persona abbia di fatto recapitato la citazione all’interessato. Al riguardo spetta all’autorità giudiziaria emittente indicare, nel modulo relativo al m.a.e., gli elementi sulla cui base essa ha constatato che l’interessato ha di fatto ufficialmente ricevuto le informazioni relative alla data e al luogo del processo nei suoi confronti instaurato.
Trattandosi di eccezioni ad un motivo facoltativo di non riconoscimento, l’autorità di esecuzione può, in ogni caso, anche dopo aver constatato che esse non ricomprendono il caso di cui trattasi, tenere conto di altre circostanze che le permettano di garantire che la consegna dell’interessato non comporta una violazione dei suoi diritti di difesa.
Nel contesto della valutazione di tale motivo facoltativo di non riconoscimento, l’autorità di esecuzione potrà tenere conto non solo della condotta tenuta dall’interessato (ad es., un’eventuale manifesta mancanza di diligenza, quando risulta che egli abbia cercato di evitare la notifica dell’informazione a lui indirizzata), ma anche della circostanza secondo cui il diritto nazionale dello Stato emittente conceda, in ogni caso, all’interessato il diritto di richiedere un nuovo processo quando la notifica della citazione sia ritenuta effettuata con il deposito della stessa presso un adulto convivente.
In ogni caso, l’autorità giudiziaria di esecuzione ha la possibilità di chiedere d’urgenza la trasmissione di informazioni complementari, ove ritenga che quelle comunicatele dallo Stato emittente siano insufficienti per permetterle di prendere una decisione sulla consegna.
Anche in relazione al nostro sistema si aprono, alla luce di tale quadro di principi, rilevanti questioni problematiche, poiché la Corte di giustizia ha tentato, con l’ultima delle su menzionate pronunce, di definire una linea interpretativa unica, per tutto lo spazio territoriale europeo, della normativa relativa ai requisiti di effettiva conoscenza della vocatio in iudicium: tematica, questa, che sembra destinata ad esercitare effetti riflessi sulla complessiva “tenuta” dei nuovi istituti processuali introdotti nella legislazione interna, anche a fronte dei numerosi dubbi ed aspetti critici sollevati in sede di prima applicazione della novella legislativa 28.4.2014, n. 67.
Sotto altro profilo, poi, deve rilevarsi che l’art. 16, co.1, l. n. 69/2005 prevede che il giudice abbia soltanto la facoltà di domandare le informazioni integrative ritenute necessarie ai fini della decisione definitiva sul mandato. In linea con lo spirito della pronuncia relativa al caso Aranyosi e Căldăraru deve ritenersi che tale adempimento sia oggi obbligatorio allorché, d’ufficio o su istanza di parte, vengano rilevate carenze sistemiche o generalizzate nel sistema penitenziario dello Stato emittente. Inoltre, mentre secondo la nostra consolidata giurisprudenza di legittimità la mancata o incompleta trasmissione di informazioni integrative non obbliga di per sé ad una decisione di rigetto9, a conclusioni opposte si dovrebbe giungere nell’ipotesi in cui le indicazioni richieste vertano sull’accertamento del “rischio specifico” di trattamenti inumani. In tal caso, infatti, la carenza dei necessari elementi conoscitivi basterebbe a motivare il rifiuto, stante, in caso contrario, il rischio di eseguire un mandato illegittimo per contrasto con l’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali. Se è vero, infatti, che nel nostro ordinamento risulta espressamente prevista la possibilità di negare la consegna in presenza di un “serio rischio” che la persona venga sottoposta a “trattamenti o altre pene inumane o degradanti”, è pur vero che la svolta impressa dalla Corte UE ponga oggi a carico del giudice nazionale un accresciuto onere informativo in merito al trattamento riservato ai detenuti nello Stato di emissione10.
Note
1 Asta, G., La sentenza della Corte di Lussemburgo sul caso Aranyosi e Căldăraru: una (difficile) coesistenza tra tutela dei diritti fondamentali e mandato di arresto europeo, in www.osservatorioaic.it, 19.7.2016, 16.
2 C. giust., 5.4.2016, C404/15 e C659/15, Aranyosi e Caldararu.
3 Asta, G., La sentenza della Corte di Lussemburgo, cit., 5 ss.
4 Repetto, G., Ancora su mandato d’arresto e diritti fondamentali di fronte alla Corte di Giustizia: il caso Aranyosi, in www.diritticomparati.it, 19.5.2016, 1 ss.
5 Cass. pen, 1.6.2016, n. 23277, in CED rv. n. 267296, Barbu, in relazione ad una fattispecie riguardante la situazione delle carceri della Romania, in cui la Corte ha chiarito che se, dalle informazioni, non venga escluso il rischio concreto di trattamento degradante, l’autorità giudiziaria deve rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando, entro un termine ragionevole, non ottenga notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio.
6 C. giust., 28.7.2016, C294/16, PPU, JZ, ha escluso che gli arresti domiciliari per nove ore al giorno, associati alla sorveglianza tramite braccialetto elettronico, abbiano, in linea di massima, un tale effetto.
7 C. giust., 1.6.2016, C241/15, Bob Dogi.
8 C. giust., 24.5.2016, C108/16 PPU, Pawel Dworzecki, in relazione ad una fattispecie in cui le informazioni comparivano nel formulario dell’euromandato, senza, però, che da lì potesse evincersi se e quando l’interessato avesse effettivamente avuto contezza della citazione in giudizio.
9 Cass. pen, 30.12.2014, n. 53, in CED rv. n. 261804, Petrescu.
10 Martufi, A., La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività‚ del mandato d’arresto e inviolabilità‚ dei diritti fondamentali, in Dir.pen.e processo, 2016, 1243 ss.