Diritto di informazione e all’informazione
Il binomio diritto/informazione assume, e non solo nella lingua italiana, una serie di significati legati solitamente alla preposizione che unisce i due termini: diritto dell’informazione, diritto di informazione, diritto sull’informazione, diritto all’informazione.
I giuristi amano classificare e usano queste diverse formule, attribuendo a esse significati diversi ma, spesso, non univoci. La varietà dipende dalle funzioni o dalle finalità che si perseguono; oppure da più generali ricostruzioni del sistema giuridico.
L’osservatore esterno – il non giurista – constata il più delle volte nelle prospettazioni un’astrazione dalla realtà e dalle altre scienze che di informazione si occupano. Il risultato è quello di una difficile comprensione e di una problematica applicazione dei concetti in tale modo enucleati.
Laddove poi si faccia riferimento a una realtà, l’osservatore esterno nota che il termine informazione riflette concezioni ormai ampiamente obsolete e che non rispecchiano più da tempo le complesse articolazioni semantiche del termine.
In sintesi si continua tuttora, da parte di molti giuristi le cui opinioni ancora si impongono a legislatori e giudici, a identificare il termine informazione con il prodotto dell’attività dei mezzi di comunicazione di massa tradizionali (per es., quotidiani, periodici, radio, televisione ecc.).
Con queste premesse il diritto di informazione o diritto all’informazione consiste in una larga etichetta posta su un contenitore giuridico il quale raccoglie le norme, di vario livello, che disciplinano tali mezzi. Nel corso della trattazione che segue si cercherà di mettere in luce come questa prospettiva racchiuda soltanto una frazione di un mondo che risulta assai più ampio e variegato.
Nei paragrafi che seguono verrà esposta una serie di concetti in forma di postulati. In realtà si tratta di teorie che studiosi di altre discipline hanno approfonditamente indagato e dimostrato e non compete al giurista esporre o porre in discussione tali postulati in questa sede.
Tutto è informazione
Si parla spesso della società contemporanea come società dell’informazione, nel senso che praticamente ogni elemento della realtà che ci circonda è sintetizzabile in un dato informativo. Ovviamente molte di queste informazioni esistevano già da anni, decenni, secoli o anche millenni. Quel che cambia è la disponibilità di tali informazioni, la loro circolazione, l’utilizzo che ne viene fatto, l’importanza che vi si attribuisce. Tutto ciò è frutto di un processo di tipo circolare (ciascun elemento è al tempo stesso causa ed effetto) che vede intrecciarsi informazioni, tecnologie digitali, reti di telecomunicazioni.
Volendo individuare un punto di svolta, il momento in cui, cioè, le informazioni assumono un ruolo di preminenza nelle società contemporanee, si può risalire ai primi anni Ottanta del 20° sec., quando le tecnologie informatiche – fino ad allora riservate alle organizzazioni pubbliche e alle medie e grandi imprese – diventano ‘di massa’ con l’immissione sul mercato dei primi personal computer, una locuzione rapidamente sintetizzata nel comune acronimo PC.
L’utilizzo diffuso, le ridotte dimensioni, la varietà di interessi costituiscono un significativo impulso alla digitalizzazione delle informazioni. Il termine usato, informatica, rischia di smarrire con il tempo il ricordo del suo senso, ovvero l’applicazione di processi di automazione alla raccolta, sistemazione, estrazione di informazioni.
L’applicazione di un codice binario (0 e 1) per esprimere ogni informazione conduce a quel processo di digitalizzazione che giunto fino ai giorni nostri comporta la rappresentazione informatica di qualsiasi dato, partendo da quelli più semplici (numeri, parole) per arrivare ai suoni, alle immagini semplici e infine a quelle in movimento.
La digitalizzazione ne rende quindi possibile (si direbbe, naturale) la circolazione, la diffusione, il trasferimento attraverso reti di comunicazione elettronica, le quali sono coinvolte nel rapido passaggio dall’analogico – un sistema che ha le sue radici nella trasmissione di impulsi elettrici (si pensi all’origine del telegrafo) – al digitale. Queste reti, costituite sia da segmenti fisici (cavi) sia da segmenti non materiali (onde hertziane), crescono in capillarità e capacità trasmissiva, consentendo un invio sempre più rapido di grandi quantità di dati (si passa dai kilobyte, ai megabyte per arrivare ai gigabyte), e dunque incentivando la digitalizzazione di contenuti sempre più complessi.
Vi sono poi due ulteriori aspetti della digitalizzazione sintetizzabili nei termini della duplicabilità e della modificabilità. Nel mondo digitale, a differenza di quello precedente in cui il dato era incorporato in un supporto fisico (carta, vinile, nastro, pellicola), non esistono ‘originali’ e ‘copie’, ma un infinito numero di esemplari indistinguibili l’uno dall’altro.
Ciò è dovuto alla tecnica di riproduzione, semplice e poco onerosa, ed è causa di una costante possibilità di duplicazione, aumentando a dismisura il numero dei dati. Nel contempo chi dispone di un esemplare, con tecniche elementari o comunque sempre più semplici, può alterarlo, non solo sopprimendone alcune parti, ma soprattutto inserendovi nuovi elementi, ovvero estraendone parti da inserire altrove. Non vi è più dunque un utente ‘finale’ – come normalmente avviene con un supporto cartaceo – ma ciascuno può, volendo, trasformare i dati in qualcosa di nuovo e di diverso.
I produttori di informazioni diventano dunque, potenzialmente, tutti coloro che dispongono di tecnologie digitali, anche semplici e a basso costo: un computer, un telefono mobile, una macchina fotografica, una telecamera. Lo straordinario successo di piattaforme che consentono a soggetti privati di pubblicare i propri prodotti informativi sono la migliore conferma dell’inarrestabile evoluzione della nozione stessa di informazione.
Giuridificazione dell’informazione
Il tumultuoso processo che si è tentato di sintetizzare nelle pagine che precedono ha ovviamente interessato il diritto e il giurista.
I legislatori, i giudici, gli operatori pratici, gli accademici, in tutti gli ordinamenti, si sono sforzati di dare una collocazione più solida a questi fenomeni e ancora continuano a occuparsene. Il tentativo di giuridificazione incontra tuttavia una serie di ostacoli che non sono di poco conto.
In primis, la tecnologia cammina sempre molti passi avanti il diritto. Quando questo pensa di aver raggiunto la prima, quella si è già mossa ed evoluta. E mentre per il diritto la certezza e la stabilità costituiscono un valore immanente (un diritto che cambia costantemente è non-conoscibile e non-osservabile), la tecnologia conosce solo il limite dell’utilità. Il diritto presuppone che si abbia in mente un disegno regolatorio di processi sociali. Ma se questi sono incerti le leggi finiscono per essere solo dei lacci che vorrebbero imbrigliare la società.
Inoltre, il processo di digitalizzazione smaterializza elementi della realtà. Un testo aveva bisogno di essere affidato alla stampa per essere conosciuto e circolare e proprio quel supporto fisico finiva per essere tutt’uno con il suo contenuto. Nel mondo digitale l’espressione informatica è oggetto di infiniti utilizzi senza bisogno di essere materializzata. E il diritto si trova sempre in difficoltà quando ha a che fare con entità immateriali. Deve capire di che cosa si tratta, deve classificare, distinguere, attribuire. Il principio di eguaglianza lo porta ad applicare regole uguali a realtà simili, ma questo è possibile solamente dopo che siano state collaudate.
Il termine informazione, nella sua polisemia, non si presta a quelle operazioni di chiarificazione e sistemazione che piacciono tanto ai giuristi.
E ancora, il diritto – e i giuristi che lo costruiscono – da più di duemila anni opera seguendo percorsi evolutivi, applicando schemi del passato a realtà del presente. Nel caso dell’informazione il cambiamento è avvenuto assai rapidamente: si è passati dall’irrilevanza giuridica di tanti aspetti dell’informazione a una loro estrema importanza, determinando sia incertezze sia perplessità.
L’informazione, poi, nelle sue molteplici accezioni, è fenomeno tutt’altro che neutrale. Esso suscita interessi spesso contrapposti i quali – come è naturale che sia – si contendono le soluzioni, imponendo lo stallo e un faticoso compromesso. Altre volte la sua regolamentazione tocca aspetti percepiti come particolarmente delicati, suscitando dubbi paralizzanti.
Le sfaccettature giuridiche dell’informazione, poi, sono talmente numerose da rendere comunque problematica una teoria unitaria, ammesso che essa possa avere una sua utilità.
In questa sede si prospetteranno dunque tre diversi modi attraverso i quali il giurista osserva il fenomeno informazione. Il punto di osservazione ovviamente influisce sul risultato; ogni conclusione, però, va collegata alle altre. Alla fine dovrebbero emergere le differenze ma anche i punti di unione.
Libertà
Il primo – e ovvio – angolo visuale dei problemi giuridici connessi all’informazione è quello della libertà. Beninteso, vi sono aspetti giuridici anche quando non vi è una libertà di informare o di ricevere l’informazione. Ma in questa sede ci si occupa della problematica nei Paesi di democrazia avanzata, ai quali a buon titolo – e a dispetto di talune autolesioniste e provinciali lamentazioni – l’Italia appartiene. Dunque quel che interessa qui comprendere è quale sia il contenuto e quali siano i limiti di tale libertà.
Il primo punto che occorre mettere in luce è che l’attività informativa e la possibilità di accedere alle informazioni si collocano lungo un percorso storico che partendo dalla libertà di pensiero e di coscienza, passa alla libertà di espressione, a quella di narrazione, a quella di utilizzare i più svariati mezzi per esercitare tali libertà.
Volendo periodizzare, è un processo che inizia nel 16° sec., non a caso in coincidenza con la progressiva diffusione delle tecniche tipografiche, le quali renderanno accessibili, trasmissibili, permanenti le idee e le opere. Tutte queste libertà si tengono assieme e richiedono una coerente disciplina.
A partire dalla fine del 18° sec. tali libertà assumono una dimensione giuridica che è corretto definire costituzionale nel senso che vengono, assieme ad altre, poste alla base dello Stato. I riferimenti tuttora attuali sono all’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che nel 1789 segnerà l’arrivo della Rivoluzione francese, e al primo emendamento alla Costituzione americana, del 1791, il quale, ancor più che in Francia, costituirà la cifra identificativa del modello politico statunitense. In seguito, dagli Statuti concessi dai sovrani dell’Ottocento ai loro cittadini, passando alle Costituzioni del Novecento (quella di Weimar e quella austriaca nel primo dopoguerra; quelle italiana e tedesca nel secondo dopoguerra), sino al consolidamento anche in atti sovranazionali, la libertà di informazione come aspetto della libertà d’espressione viene considerata una condizione essenziale per la democraticità dello Stato e per la libertà dei suoi cittadini.
Si è dunque creata (quanto meno nella percezione comune) una relazione quasi necessitata fra libertà di informazione e libertà tout-court, ingenerando talvolta l’illusoria impressione che tanto più si è liberi, quanto più si gode della libertà di espressione. Illusoria perché occorre pur sempre bilanciare interessi confliggenti (il segreto di Stato, il rispetto per gruppi e individui, la sfera di intimità di ciascuno ecc.).
Al di là di tali puntualizzazioni, però, quel che è pacifico è che la disciplina della libertà di informazione è una questione costituzionale e pertanto è posta all’apice delle fonti del diritto, il che ne accresce l’importanza ma anche la delicatezza della disciplina.
Si è accennato al riconoscimento della libertà di informazione in atti internazionali. Il fenomeno è imponente: si comincia dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che è posta alla base dell’ONU, per passare poi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) del 1950; al Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966; infine alla Carta europea dei diritti fondamentali firmata a Nizza nel 2000.
Il loro rilievo è duplice. Da un alto le disposizioni hanno un effetto diretto nel nostro ordinamento: l’art. 10 della CEDU viene infatti utilizzato abitualmente dai giudici italiani.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, quotidianamente applica la disposizione accertando o negando che uno Stato aderente alla Convenzione abbia rispettato la norma.
La Carta di Nizza del 2000 è ora parte integrante dei trattati sull’Unione Europea. Se e quando il Trattato di Lisbona entrerà in vigore, tutti gli Stati membri troveranno nell’art. 11 una base comune per la disciplina della libertà di espressione. In ogni caso, per il momento, esso vincola le istituzioni comunitarie. Ma al di là delle ricadute immediate degli atti internazionali, la loro importanza sta anche nel fatto che essi creano un quadro di riferimento complessivo nel quale l’interprete, il quale voglia dare un senso compiuto all’art. 21 della Costituzione italiana, deve muoversi, trovando conferme, letture alternative, spunti innovativi. Viene a crearsi in tal modo una comune visione della problematica, assai importante se si considera la crescente dimensione transnazionale dell’attività informativa.
Per comprendere quale sia la consistenza attuale del diritto dell’informazione e all’informazione conviene ripercorrere brevemente la sua evoluzione dai testi costituzionali primigeni che si sono citati in precedenza. Per tutto l’Ottocento l’unico strumento attraverso il quale effettivamente si potesse diffondere il pensiero era la stampa.
Libertà di stampa diventa dunque una formula sintetica della possibilità/liceità di diffusione del pensiero. Il problema è che – a parte forme marginali – l’utilizzo della stampa comporta crescenti costi tipografici e di distribuzione ove si voglia diffondere il pensiero in una cerchia ampia di persone.
Formalmente attribuita a tutti, di fatto essa è esercitata da pochi. La situazione non cambia quando a partire dai primi decenni del Novecento vengono introdotte nuove tecnologie particolarmente diffusive, come la radio e la televisione. In assoluto contrasto con i principi della libertà di espressione, tali mezzi vengono subito (in Europa, non negli Stati Uniti) monopolizzati dallo Stato il quale afferma di essere l’unico in grado di garantirne l’uso corretto.
In questo quadro, in cui da un lato vi è lo Stato e dall’altro un numero limitato di imprese, si comprende come la problematica principale sia stata quella di controllare i contenuti informativi e le concentrazioni nel settore della stampa periodica. Poiché, per usare una battuta, «la libertà della stampa appartiene a tutti coloro che ne sono proprietari», ci si concentra su come fare in modo che le voci diffuse dai giornali, dalla radio e dalla televisione siano le più varie e a tutti accessibili. Per realizzare quest’obiettivo è necessario che gli operatori della comunicazione siano titolari di un particolare privilegio (la libertà d’informare) funzionale al diritto dei cittadini a essere informati. In termini giuridici ciò significa norme meno restrittive in materia di tutela di segreto, riservatezza e reputazione; agevolazioni per la distribuzione; riserva di quote di pubblicità.
A coloro i quali lavorano nelle imprese di comunicazione, i giornalisti, è attribuito, socialmente ma spesso anche giuridicamente, uno status legato all’assolvimento di funzioni di interesse pubblico.
Si tratta di una condizione non infrequente nelle nostre società con riguardo ad altre professioni: si pensi al ruolo degli avvocati nel consentire ai cittadini l’accesso alle procedure giudiziali o al ruolo dei medici nel rapporto fra il paziente e la cura. Dunque, in una situazione in cui l’attività informativa è, di fatto, affidata a un numero ristretto di imprese (pubbliche o private), i giornalisti intermediano (i media, appunto) fra il pubblico e l’universo dell’informazione.
Di qui poi alcune rappresentazioni – più sociologiche che giuridiche – dei giornalisti come detentori di un potere di controllo – di cui la libertà d’informare è l’esplicazione – nei confronti dei soggetti pubblici (il ‘quarto potere’). E dall’esperienza americana – veicolata più da pellicole cinematografiche che da reali studi scientifici – si recepisce l’etichetta di watch-dogs (cani da guardia).
Questo quadro appare fortemente mutato nel corso degli ultimi tre lustri dal prepotente avvento delle nuove tecnologie dell’informazione cui si è fatto cenno all’inizio del saggio.
Esse, infatti, fanno sì che i singoli possano essere creatori e diffusori a costi bassissimi di prodotti informativi della più varia natura. Ciò comporta una straordinaria moltiplicazione dei soggetti di informazione. È ovvio che solo una parte modesta sarà di interesse tale da meritare un’ampia platea di pubblico, ma quel che di solito viene apprezzato in tali contenuti (solitamente audiovisivi) è l’essere di prima mano, testimonianza diretta dell’evento. Tradizionalmente spettava al professionista rintracciare il testimone oculare, ovvero attingere ai rapporti di polizia. La documentazione fotografica o filmata era rara e il più delle volte molto distanziata nel tempo dall’evento. Olim il testimone cercava il professionista cui riferire il fatto. Ora diventa egli stesso comunicatore del medesimo.
I singoli, inoltre, sono in grado di creare (sempre a basso costo) degli strumenti di dibattito critico fortemente interattivo, nel senso che, al contrario dei media tradizionali, in cui il flusso di informazioni e di opinioni è quasi interamente unidirezionale, questi nuovi strumenti sono precipuamente costruiti, anche dal punto di vista tecnico, per favorire e mantenere un dialogo fra chi gestisce il ‘sito’ di discussione e coloro che hanno interesse a intervenire.
L’altra faccia – connessa – delle nuove realtà è che i singoli non solo sono in grado di essere, ed effettivamente sono, produttori di notizie e commenti, ma possono anche attingere direttamente alla fonte senza passare attraverso l’intermediazione dei media.
Ciò ha una duplice conseguenza sul piano giuridico: in primo luogo, la libertà di informazione perde la sua connotazione ‘corporativa’ e funzionale, cioè di un diritto attribuito a un gruppo professionale per finalità di interesse pubblico, ed è invece estrinsecazione della libertà di espressione che viene attribuita a ogni essere umano per partecipare alla vita politica, culturale, spirituale, sociale della propria comunità – sia essa un piccolo borgo o il mondo intero. Vengono ora progressivamente riuniti quei due aspetti, che l’analfabetismo prima, la complessità e il costo dei mezzi poi, uniti alla difficoltà di diffusione, avevano separato, attribuendo (in teoria) l’espressione a tutti e (in pratica) l’informazione a pochi. Beninteso si tratta di un processo appena avviato e che, nonostante i suoi ritmi di accelerazione incrementali, richiederà decenni per affermarsi definitivamente. Tuttavia esso fa comprendere la profonda deviazione dal passato e la connotazione fortemente individuale, nel senso di una libertà che è posta per l’affermazione dell’individuo, sia pure con una serie di limiti, taluni intrinseci altri contingenti. La seconda conseguenza è che, in un contesto in cui tutti hanno la concreta possibilità di esercitare la libertà d’informare, diventa essenziale assicurare a tutti l’accesso alle informazioni, altrimenti la prima libertà è puramente illusoria e si torna all’ipocrisia vittoriana dello speaker’s corner londinese dove chiunque può recarsi e dire ciò che vuole: tanto non c’è nessuno che lo ascolti.
Parlare di accesso significa abbandonare impostazioni basate sul predominio del mezzo a stampa: le biblioteche, gli archivi e le emeroteche assolvono al compito di consentire anche a chi non è abbiente di accedere a libri, documenti e periodici. Le tariffe postali preferenziali consentono di calmierare i costi di distribuzione. Come pure occorre lasciare alle spalle la logica del servizio pubblico radiotelevisivo, dominante in Europa per circa otto decenni e fondato sull’idea di controllare i contenuti delle trasmissioni radiofoniche e televisive che, essendo accessibili a tutti (come utenti passivi), dovevano offrire una variegata rappresentazione della società. Nell’epoca delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione (ICT, Information and Communication Technologies) accesso vuol dire reti fisse o mobili che consentano a chiunque (anybody) di connettersi da dovunque (anywhere), in qualsiasi tempo (anytime), per usufruire di qualsiasi contenuto (anything). Il discorso si sposta dall’ossessivo controllo sul come venga utilizzato il mezzo (da Johann Gutenberg in poi ogni Stato cerca di regolarlo più o meno rigidamente), alla struttura tecnica di tali reti, agli standard adottati, alla capacità trasmissiva, alla capillarità della rete, alla sua fruibilità in condizioni di mobilità, ai costi di accesso. Allo stesso tempo viene presa in considerazione la piaga dell’analfabetismo informatico che crea il cosiddetto digital divide, una barriera che impedisce a una parte considerevole della popolazione di esercitare – o di esercitare pienamente – la propria libertà di informare e di accedere alle informazioni.
Mentre nella tradizionale impostazione per assicurare tali libertà era necessario accrescere il ruolo degli intermediari, oggi ciò sembra di secondaria importanza. Quel che appare ben più rilevante sono le politiche pubbliche che incentivano gli investimenti privati o suppliscono a essi. Dal ‘servizio pubblico’ informativo, costruito attorno al mezzo radiotelevisivo, si passa alla nozione di ‘servizio universale’ che, originaria del servizio postale e poi trasmigrata nelle telecomunicazioni, implica la disponibilità del mezzo per comunicare, non importa a quali fini, purché leciti, e a costi accessibili e paritari. Non si tratta certo di questioni di poco conto, ma agli occhi del giurista tradizionale esse non sembrano avere quel valore costituzionale che invece è stato attribuito alla disciplina della stampa, della radio e della televisione. Risulta sufficiente, tuttavia, uscire dalle pagine della manualistica affermata, dalle aule dei palazzi di giustizia e delle più importanti istituzioni, e guardare la realtà (ancor più come essa viene anticipata in Paesi simili al nostro per sviluppo e cultura), per rendersi conto che le problematiche sottese a quelle che oggi sono definite banda larga e banda ultra larga (ma che presto saranno probabilmente superate) hanno un impatto assai più rilevante sul diritto che ognuno di noi ha di esprimere le proprie opinioni e, prima ancora, di formarle accedendo a tutti i contenuti e alle idee disponibili.
Il diritto di informare e accedere alle informazioni (quest’ultima formula appare preferibile al ‘diritto a essere informati’ che esprime una posizione passiva) non è definito una volta per sempre, ma varia in relazione alle epoche storiche e ai contesti sociali. Come si è visto nelle pagine che precedono, esso appare fortemente condizionato dai mezzi utilizzabili per informare e informarsi, come pure dai soggetti cui esso è attribuito. Dipende – lo voglia o no il giurista – da fattori esogeni quali lo sviluppo di nuove tecnologie e l’utilizzazione sociale che se ne fa e farà. E dipende anche dall’economia, sotto due aspetti: il primo è quello della profittabilità delle attività sottese all’ICT. Sarebbe ingenuo ignorare che lo straordinario sviluppo cui si è assistito in questi anni è stato condizionato dalla forte domanda di servizi di comunicazione elettronica, la quale ha stimolato la creazione di reti sempre più potenti e l’offerta di prestazioni sempre più creative. Come pure non si può ignorare l’andamento generale delle economie mondiali che conoscono – al di là di fenomeni di transeunte turbolenza – una costante crescita, cui le nuove tecnologie hanno contribuito in maniera significante. Si tratta di un ulteriore aspetto che si inquadra a fatica nell’impostazione del giurista tradizionale, il quale è abituato allo schema di una libertà senza costo.
Nell’attuale prospettiva, invece, non solo per accedere alla rete occorre pagare (in realtà anche ora vi è un canone radiotelevisivo, ma la circostanza viene trascurata) ed è per questo che si controlla il settore, proprio per fare in modo che le tariffe siano accessibili a tutti, ma in generale conta molto la politica di spesa dello Stato nell’incentivare o meno la creazione delle reti, la loro capacità, la loro diffusione.
In tal modo, il diritto di informare e il diritto d’informarsi perdono parte della loro caratteristica di libertà in senso stretto (sono libero di agire e nessuno può ostacolarmi, ma neanche è tenuto ad agevolarmi), e acquisiscono una caratura ‘sociale’ (così come per assicurare il diritto alla salute è necessario costruire gli ospedali).
In tutto ciò non vi è nulla che sia di per sé negativo o positivo: occorre tuttavia essere consapevoli del cambiamento per non rischiare di applicare schemi antichi a realtà profondamente diverse.
Proprietà
Quando si parla di ‘proprietà dell’informazione’ l’uso delle virgolette è cautelativo. Si tratta infatti di una locuzione che qui è usata in senso figurato come sintesi delle diverse forme di titolarità e di appartenenza, e benché da oltre tre decenni si parli, da parte dei giuristi, di appropriazione dell’informazione, i risultati sistematici e pratici sono quanto mai incerti e oggetto di divergenti opinioni. Il problema di fondo è che se tutto è informazione, e l’informazione è tutto (o comunque gran parte) nella società contemporanea, riesce piuttosto difficile (ri)costruire un sistema dalle fondamenta attorno ai dati informativi.
Conviene a questo punto partire da alcune considerazioni elementari.
Tutti gli ordinamenti giuridici occidentali hanno difficoltà nell’inquadrare entità non materiali. In quelli che hanno alla loro base il diritto romano (i cosiddetti sistemi di civil law) la nozione di proprietà si costruisce attorno a oggetti tangibili (la terra, una cosa) che si possono materialmente possedere, escludendo gli altri attraverso misure fisiche (la porta, il muro, la cassaforte) idonee ad assicurare al titolare il godimento esclusivo del bene. Quando, a partire dall’Ottocento, emerse la necessità di tutelare entità non materiali (le opere dell’ingegno, le invenzioni, i segni distintivi), si provvide a introdurre una legislazione ad hoc che definisse tali beni, stabilisse modi di creazione, di acquisto, di circolazione, fissasse le utilità che se ne potevano trarre, indicasse la durata e le forme di tutela giuridica. Per ragioni evocative e di retorica giuridica si parla di proprietà intellettuale o di proprietà industriale. Ma si è ben consapevoli che fra essere proprietari di una casa, di un terreno, di un anello ed essere titolari dei diritti su una canzone c’è una differenza incommensurabile.
Anche nei sistemi che non hanno una base di diritto romano e che poggiano invece sul diritto inglese e sulla sua evoluzione e diffusione (i cosiddetti sistemi di common law), nei quali vi è una forte tendenza verso l’astrazione delle relazioni giuridiche, l’atteggiamento di fondo non cambia. Quando si affacciano sulla scena economica nuove entità non materiali non basta affermare di essere titolari per vedersi protetto il diritto. Sono necessari puntuali interventi legislativi per chiarire contenuti e limiti.
La ragione di questa comune tendenza è che le cosiddette property rules (è il termine ormai entrato nel gergo del giurista) hanno una chiara funzione di allocazione delle risorse fra i privati, fra pubblico e privato, fra collettività e individuo. Si pensi banalmente alla facoltà – concessa o non concessa – di edificare su un terreno e sulle conseguenze che tale regola ha sul valore dell’immobile, su quelli confinanti, sull’ambiente in generale. Stabilire che un’entità non materiale appartiene a un soggetto in via esclusiva significa attribuire a questo una risorsa che invece viene sottratta a tutti gli altri. Gli esempi più evidenti ci vengono dal settore agroalimentare: se solo aziende casearie di un certo tipo della provincia di Parma e di Reggio possono produrre il parmigiano questo vuol dire che il prodotto di un’azienda trevigiana o olandese non può fregiarsi della stessa denominazione. Se si trasferisce questa logica all’informazione ci si rende facilmente conto delle numerose questioni che si pongono. L’informazione, infatti, presenta alcune caratteristiche ben individuate dagli economisti: si tratta di un bene non consumabile (sapere la data della scoperta dell’America non ne diminuisce il valore); non rivale (la circostanza che uno scolaro sappia quella data non impedisce al resto della classe di conoscerla); non escludibile (o viene tutelata con un segreto, oppure una volta che un soggetto la conosce tutti possono conoscerla).
E ovviamente tutto questo è accentuato dallo sviluppo delle nuove tecnologie le quali consentono un’illimitata diffusione e duplicazione. Ma soprattutto quel che pone i problemi più difficili è chi possa dirsi titolare di un’informazione e come possa in concreto far valere il suo diritto. Si immagini un dato finora sconosciuto o controverso (per es., la causa dell’estinzione dei dinosauri o la vera identità di Jack lo Squartatore): potrebbe lo scopritore pretendere di essere pagato da tutti coloro che riproducano tale informazione? Potrebbe impedire che soggetti non autorizzati la diffondano?
La risposta a tali domande è intuitivamente negativa e non solo per ragioni pratiche e di buon senso. La privativa concessa a uno solo priverebbe tutti gli altri della conoscenza di un dato importante.
Il vantaggio individuale andrebbe a completo discapito dell’interesse pubblico, e, dal punto di vista più propriamente giuridico, del diritto ad accedere alle informazioni che abbiamo visto essere una delle libertà fondamentali.
Le difficoltà che si sono evidenziate hanno portato gli operatori a ‘incorporare’ l’informazione in altre entità più complesse di cui fosse possibile assicurare la tutela. Gli esempi sono molteplici: un libro di storia o scientifico, un catalogo o un annuario, un programma per elaboratore, una domanda per brevetto, una banca di dati. In tutti questi casi i dati informativi sono contenuti all’interno di un’entità che incontra la protezione dell’ordinamento. Non è il singolo dato che viene protetto ma l’elemento composito in cui è inserito.
L’osservatore esterno vede l’entità complessa; il contenuto informativo è tuttavia ormai confuso con essa e ne costituisce parte integrante. L’esempio più ovvio è quello di un programma per elaboratore il quale costituisce la formalizzazione logico-matematica di una serie di informazioni relative a un procedimento in grado di farlo operare automaticamente. Quelle informazioni sono al tempo stesso preziose e indispensabili, ma isolate ed espresse in una forma naturale (per es. la descrizione scritta) non godrebbero di protezione.
Ciò porta a tenere in crescente considerazione il contenuto informativo delle invenzioni e ad attribuire sempre più rilievo a quelle che incorporano un elevato contenuto informativo. Beninteso, non è che tutto ciò fosse assente nei procedimenti inventivi dei due secoli scorsi, ma a esso non veniva data la stessa importanza. Nell’attuale prospettiva vi è sicuramente una buona dose di enfasi, ma vi è anche il tentativo di scomporre i fattori produttivi di ricchezza individuando quelli di maggiore valore. Ciò è particolarmente evidente nei casi di cosiddetto patent pooling, quando più titolari mettono assieme (pool) più brevetti (patent) per la realizzazione di una macchina complessa. Più le informazioni brevettate sono nuove e innovative più avranno valore.
Solitamente si è portati a considerare i dati informativi come appartenenti al mondo esterno, con tutte le difficoltà, che si sono viste, dell’apprensione dell’‘altro da sé’. Le regole relative all’allocazione di queste risorse partono dal presupposto che se si concede un’esclusiva si toglie dalla libera disponibilità e circolazione un elemento di cui tutti in teoria potrebbero appropriarsi. Vi sono, però, delle informazioni che sono tutt’uno con il soggetto che ne è il ‘produttore’. Si sta parlando dei cosiddetti dati personali per i quali si dispone ormai di una vastissima disciplina normativa in Europa e altrove. La differenza dai ‘comuni’ dati informativi è evidente: questi sono impersonali – un evento meteorologico, un dato statistico, una misurazione, un incidente – al contrario di quelli, appunto, personali che attengono direttamente al soggetto, alle sue attività, alla sua identità. Si comprende come il soggetto possa, su tali dati, vantare una propria titolarità e affermare che essi sono un tutt’uno con la sua personalità. In tale prospettiva la disciplina dei dati personali disegna variegate regole per l’appropriazione dei dati in riferimento alla loro natura. Torna utile in questo caso la metafora dei cerchi concentrici: nella parte esterna vi sono quei dati che possiamo qualificare come pubblici, nel senso che sono disponibili attraverso registri tenuti da soggetti pubblici (si pensi ai dati anagrafici). Per questi, il regime è quello di una generale accessibilità, pur con alcune limitazioni sull’uso.
Vi è poi un cerchio intermedio di dati che si potrebbero qualificare come ‘quasi sensibili’ rispetto ai quali l’appropriazione da parte di terzi è consentita solo in talune circostanze e con un consenso ‘semplificato’ da parte dell’interessato (si pensi ai dati personali che vengono trattati per adempiere a un contratto o quelli relativi ad attività di rilievo economico). Soggetti diversi dall’interessato possono quindi appropriarsene e trattarli per talune finalità. Vi sono infine, nel cerchio più interno, i cosiddetti dati sensibili, attinenti alla salute, alla vita sessuale, alle opinioni politiche o filosofiche, alle appartenenze etniche o religiose, rispetto ai quali il vincolo di titolarità è più rigido e l’appropriazione è consentita solo dopo un espresso consenso scritto.
La vicenda dei dati personali letta nella chiave della ‘società dell’informazione’ serve a evidenziare come vi siano aree – non a caso definite di riservatezza – impermeabili al processo di trasparenza e circolazione, attribuendo ai titolari il diritto di controllare i dati e di impedirne l’apprensione da parte di terzi.
Un’ulteriore tappa nel processo di giuridificazione dell’informazione è rappresentata dalla tutela legale delle cosiddette banche dati. Queste ultime, ormai, sono la forma usuale, digitale, con la quale una serie di informazioni di qualsivoglia genere viene raccolta e resa disponibile, da un catalogo a un elenco, da una antologia a un compendio di testi, da una classificazione a una enciclopedia. La realizzazione di questa banca di dati comporta almeno un dispendio di tempo (si pensi a quanto si impiega per trasferire un elenco di numeri telefonici da una agenda cartacea a una informatica) e spesso di denaro. Il creatore della banca dati viene tutelato, nell’Unione Europea, da forme di estrazione sleale, cioè dall’attività di colui il quale, per realizzare una banca dati analoga, si appropri con la facilità di un click di una parte significativa del lavoro già fatto dal primo.
Si è partiti in questo saggio dall’evidenziare le problematiche giuridiche della società dell’informazione. È bene precisare come questa espressione venga spesso sostituita, soprattutto nella letteratura economica e sociologica, da quella di società della conoscenza. Per illustrarne il senso in maniera molto semplificata possiamo dire che l’informazione è un elemento statico (la temperatura, un indirizzo, una quotazione, il prezzo) facilmente esprimibile con un termine informatico, avvicinabile a milioni di altri termini e trasmissibile sulle reti di telecomunicazioni.
La conoscenza costituisce invece un processo sociale e dinamico. Per creare conoscenza sono necessarie informazioni; ma queste da sole non bastano. Si intuisce facilmente che la conoscenza è il frutto di processi di apprendimento e di trasmissione di ciò che si è appreso. Più è sviluppato questo processo e più rapidamente esso si realizza, più rapidamente si può trarre vantaggio dalla conoscenza. Come nel caso dell’informazione, anche la conoscenza esiste da millenni e su di essa si basa lo sviluppo dell’umanità. Se ora essa è così importante è perché se ne coglie appieno il ruolo, la si formalizza, la si valorizza. In termini banali si pensi quanto vale un apprendista e quanto vale un operaio specializzato; quale valore ha un laureato in medicina e quale un medico con alle spalle anni di esperienza; quanto costa un corso di formazione o di riqualificazione.
La conoscenza si interseca con le riflessioni svolte a proposito della giuridificazione dell’informazione sotto due profili: a) ci si sforza di proteggerla con istituti giuridici appropriativi come il brevetto di procedimento o il know-how che attribuiscono al titolare un vantaggio, quantomeno nei confronti dei propri concorrenti. È intuibile come ciò risulti effimero sia per la facilità con la quale circolano le conoscenze, spesso in forme tacite, sia perché, per fortuna, vi sono molti modi attraverso i quali è possibile conseguire un risultato analogo, e dunque l’esclusiva solo in parte è in grado di dispiegare i suoi effetti; b) in taluni casi la conoscenza può essere formalizzata in un modo tale da consentire il funzionamento autonomo di macchine. È il fenomeno della cosiddetta intelligenza artificiale che, espressa in termini fumettistici dal robot, ha in realtà a che vedere con attività svolte da apparecchi sulla base di elementi esterni variabili che riempiono un quadro di conoscenze consolidate (per es., un sistema di irrigazione automatico che opera sulla base dei dati sull’umidità del terreno, la temperatura esterna, la stagione ecc.). In questi casi il modello appropriativo è quello del software, al quale è associata una banca di dati dalla quale sono estratte tutte le informazioni rilevanti.
Peraltro il tema della conoscenza – come già si è visto con riguardo alla libertà dell’informazione – pone la questione del potenziale conflitto fra interessi individuali all’appropriazione e politiche pubbliche volte alla massima diffusione. Molto banalmente le politiche scolastiche e universitarie di un Paese – per la cui attuazione è necessario un imponente complesso organizzativo e normativo – attiene ai livelli di conoscenza di base che uno Stato vuole siano patrimonio di tutti i suoi cittadini o di un numero considerevole di essi.
La dimensione della proprietà dell’informazione e della conoscenza, anche se ancora poco appagante per chi vada alla ricerca di un sistema, serve a mettere in luce l’importanza dei profili economici e del valore che vi si attribuisce. Una visione dell’informazione solo dal punto di vista della libertà trascura di considerare che essa è un’entità che si produce, si vende, si acquista. E salvo immaginare che tale attività debba essere riservata allo Stato, se non vi sono incentivi (sotto forma di regole proprietarie) è difficile che la domanda di informazione, nelle sue molteplici estrinsecazioni, possa essere soddisfatta.
Responsabilità
Nelle società evolute, a libertà e proprietà si associa responsabilità. Basti pensare che nel diritto romano – ma anche prima – l’essere proprietario di un bene che arreca danno ad altri (tipicamente un animale) comporta sanzioni di vario genere.
Da questo punto di vista il principio di responsabilità costituisce un essenziale elemento di bilanciamento che limita la portata espansiva delle situazioni giuridiche e le porta a un reciproco contemperamento.
Dunque il principio di responsabilità, oltre a rispondere a tensioni morali radicate nella cultura occidentale svolge un importante ruolo di regolazione sociale applicabile in tutti gli ambiti. Felicemente sintetizzato nell’espressione latina neminem laedere, esso si presta a essere adattato alle circostanze e ai momenti storici, nonché ai valori che in una certa epoca si ritengono prevalenti (per es., oggi, a differenza di secoli fa, la persona è posta ben al di sopra della proprietà).
Dunque anche con riguardo all’informazione – sia che la si intenda come libertà o come proprietà – si pongono questioni di responsabilità, e cioè quali sono i limiti al suo esercizio, quali cautele occorre adottare onde non arrecare danno ad altri.
L’aspetto più tradizionale è quello della responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa.
La forma più antica è quella del reato di diffamazione (esistente già secoli prima che si affermasse la stampa e l’arte tipografica), posto a tutela della reputazione individuale contro le lesioni che derivano dalla diffusione di notizie false e offensive. Si tratta all’evidenza di norme – che trovano un pendant nel diritto civile – volte a proteggere l’onorabilità individuale ma che nel contempo determinano un controllo diffuso sull’utilizzo dei mezzi. E in certi momenti storici anche a comprimere la libertà d’informare.
In una prospettiva più ampia la responsabilità per la lesione della reputazione interessa perché in tutti gli ordinamenti essa contiene le regole di comportamento professionale applicate alla categoria dei giornalisti e agli editori.
Sviluppando quest’ultima osservazione si deve sottolineare come, già a partire dalla fine dell’Ottocento, lo strumento della responsabilità civile (fonte di obbligazione a risarcire il danno) è utilizzato, in tutto il mondo occidentale, per tutelare i singoli dalle aggressioni dei mezzi di comunicazione di massa.
Man mano che si sono sviluppati nuovi mezzi, come il cinema, la radio, la televisione, e questi hanno messo a repentaglio la persona diffondendo elementi informativi (le vicende, l’immagine, gli scritti), la creazione di situazioni giuridiche protettive (la riservatezza, l’identità personale, i dati personali) è passata attraverso l’utilizzo del generale principio di responsabilità. Il risultato, visto da lontano e tramite l’esperienza storica, è che la concreta estensione delle libertà di informazione dipende da una costante opera di bilanciamento con altri diritti e libertà. È intuibile che, a seconda delle epoche storiche, taluni valori vengano ritenuti più o meno importanti, spostando il punto di equilibrio in un direzione piuttosto che in un’altra.
La dimensione della responsabilità richiama alla mente, in primo luogo, la responsabilità individuale, un aspetto di particolare importanza alla luce dell’attuale connotazione fortemente personale dell’uso delle nuove tecnologie informative. Ciò non deve però far dimenticare che le regole della responsabilità civile sono, nelle società moderne, rivolte in primo luogo alle imprese. Crescendo il peso dell’attività informativa è ovvio che aumenti nel contempo la rilevanza della regolazione che la circonda. Né più né meno di quanto l’aumento della circolazione e dei vari mezzi di trasporto dia luogo a un maggior numero di sinistri e dunque all’importanza della responsabilità civile.
Tradizionalmente si considera il profilo della responsabilità nell’attività informativa con riguardo a lesioni alla personalità altrui (reputazione, riservatezza, immagine, identità ecc.). Ora che il bene informazione è diventato fra i più importanti nelle società e nelle economie contemporanee, il quadro cambia. Non si tratta più di conflitti fra individui lesi e mezzi di comunicazione di massa offensivi, mediati dalle regole della responsabilità civile, bensì assai più semplicemente di azioni promosse da soggetti i quali si ritengono lesi – in generale nel patrimonio, ma talvolta anche nella salute – da dati informativi errati. Emerge in tal modo un tema centrale, quello della correttezza dell’informazione e del modo in cui si possa assicurarla, sanzionando le violazioni.
La problematica è particolarmente sentita nei mercati finanziari, dove un dato errato è suscettibile di alterare i valori dei beni (azioni, obbligazioni, derivati ecc.) che vi si vendono o comprano. Di qui deriva una complessa disciplina civile, amministrativa e penale che riguarda la formazione dei bilanci, i prospetti informativi, le informazioni alle autorità di vigilanza, il divieto di abusare di informazioni privilegiate. L’imponente mole normativa fa comprendere quale importanza le autorità pubbliche attribuiscono alla corretta formazione dei processi decisionali nei mercati.
A un livello più basso – ma che tocca da vicino la vita di ciascuno – il problema della correttezza dell’informazione e della conseguente responsabilità sorge nella vita quotidiana in relazione a certificazioni, istruzioni, indicazioni, sulla base delle quali il singolo compie scelte importanti e dalle quali deriva un danno (si pensi a titolo esemplificativo all’errata attestazione sulla destinazione urbanistica di un terreno; a un errore nella posologia di un farmaco; a un orario ferroviario o aereo stampato male).
In questi casi si nota che gran parte degli orientamenti sono ancora restii ad accertare la responsabilità. L’argomento sostanziale è che, in genere, non è dato sapere come il soggetto avrebbe agito qualora non avesse ricevuto l’informazione errata (o avesse ricevuto quella corretta), a cui si aggiunge il fatto che di solito l’informazione errata si mescola a una serie di altri fattori imponderabili sicché è difficile valutarne l’effettiva incidenza nella scelta dannosa. Lo strumento tecnico attraverso il quale il più delle volte si negano responsabilità e risarcimento è quello, assai sfuggente, del nesso causale.
In ogni caso la prospettiva in cui ci si muove è completamente diversa. In sostanza l’informazione è considerata un bene di consumo, i suoi utilizzatori come dei consumatori, ai quali dovrebbero essere assicurate le stesse garanzie fissate dalla legge per prodotti materiali.
Non a caso il tema dell’informazione del consumatore è fra quelli di maggior rilievo, portando talvolta a un profluvio di indicazioni la cui comprensione ed efficacia è incerta.
La responsabilità del produttore di informazione emerge con chiarezza quando queste ultime sono incorporate in quelle entità che si sono viste contenerle per definizione: programmi per elaboratore, sistemi esperti, banche di dati. In questi casi l’errore di un solo dato informativo si traduce ipso facto in difetto del prodotto impedendone il corretto funzionamento.
Peraltro il tema del danno da informazione offre al giurista due prospettive: a) quella della responsabilità contrattuale perché l’informazione o il prodotto che la incorpora sono stati forniti sulla base di un contratto di fornitura o di vendita; b) quella della responsabilità extracontrattuale quando il soggetto leso sia un terzo, oppure quando sia difficile individuare nella correttezza dell’informazione l’oggetto della prestazione pattuita.
La differenza fra le due prospettive sta essenzialmente nell’onere della prova che in caso di inadempimento contrattuale viene addossato al debitore.
La problematica consumeristica costituisce il punto terminale di una parabola che era partita dal basilare diritto di informare e di accedere alle informazioni. Lì l’esigenza primaria è quella di assicurare la piena partecipazione del soggetto alla vita della comunità. L’aspetto politico – sia nei rapporti fra il cittadino e la polis, sia nelle scelte che quest’ultima fa nei confronti del primo – è assolutamente prevalente.
Nelle democrazie avanzate, tuttavia, all’uomo politico si associa l’homo oeconomicus: alle libertà politiche si associano quelle economiche e queste ultime si articolano tanto sotto il profilo attivo (libertà di impresa) quanto sotto quello passivo (tutela del consumatore, soggetto chiave nelle economie moderne).
La dimensione giuridica dell’informazione mostra così le sue varie, e interconnesse, facce. Il tumultuoso sviluppo del suo rilievo evidenzia per un verso l’arretratezza intellettuale di alcuni approcci unidirezionali (tipicamente: la libertà dei media contro il resto della società), per altro verso l’indispensabile cautela nel proporre come acquisiti risultati che sono invece inevitabilmente provvisori.
Per descrivere che cosa sia il diritto dell’informazione tra un paio di decenni occorrerà guardare a quanto sarà mutata la realtà e come le regole debbano adeguarvisi.
Bibliografia
Per una comprensione del ruolo dell’informazione digitalizzata nelle società contemporanee secondo la prospettiva che si è cercato di rappresentare in questo saggio, il testo essenziale di riferimento è l’antesignano volume:
I. de Sola Pool, Tecnologie di libertà. Informazione e democrazia nell’era elettronica, Torino 1995.
Per una visione non settoriale del fenomeno dei media – largamente travisato dai giuristi – si consiglia:
D. McQuail, Mass communication theory, London 1983 (trad. it. Sociologia dei media, Bologna 20014).
Per una solida impostazione tradizionale degli aspetti giuridici della libertà di informazione:
A. Pace, M. Manetti, Rapporti civili: art. 21. La libertà di manifestazione del proprio pensiero, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna 2006.
Per un’esposizione ampliata delle dissonanti letture offerte in questa voce:
V. Zeno-Zencovich, La libertà d’espressione. Media, mercato, potere nella società dell’informazione, Bologna 2004.
Per una versione aggiornata transnazionale con un’ampia bibliografia su tutti i temi qui trattati:
V. Zeno-Zencovich, Freedom of expression. A critical and comparative analysis, Abingdon 2008.
Per il rapporto fra libertà di informazione e Carta europea dei diritti umani:
H. Fenwick, G. Phillipson, Media freedom under the Human rights act, Oxford 2006.
Sulla trasformazione dell’informazione in bene oggetto di sfruttamento economico si rinvia ai numerosi saggi contenuti nel volume:
The commodification of information, ed. N. Elkin-Koren, N.W. Netanel, L’Aja 2002.
Per un quadro europeo della responsabilità civile dei mezzi di comunicazione di massa:
The protection of personality rights against invasions by mass media, ed. H. Koziol, A. Warzilek, Wien-New York 2005.