Abstract
Viene esaminato l’istituto giuridico del diritto di resistenza in una prospettiva costituzionalistica che tenga conto anche della più generale riflessione giusfilosofica sull’argomento. In particolare, viene affrontato il problema della pensabilità giuridica di un diritto che, per sua natura, risulta fortemente legato alla concretezza dei rivolgimenti storici e che, assai spesso, è stato assimilato alla disobbedienza civile.
Una specifica attenzione, inoltre, viene dedicata all’analisi del dibattito in sede di Assemblea costituente sulla necessità di introdurre, nell’ordinamento costituzionale italiano, il diritto di resistenza in caso di abuso di potere da parte delle istituzioni repubblicane. In particolare, l’autore si sofferma sulle ragioni giuridiche che hanno indotto i costituenti ad escludere un riconoscimento formale al diritto in questione all’interno del testo costituzionale vigente, dando altresì atto dei successivi tentativi della dottrina giuridica di desumere comunque il diritto di resistenza dagli artt. 1 e 3, co. 2, Cost.
Un lavoro scientifico che si interroghi sul significato del diritto di resistenza negli ordinamenti costituzionali contemporanei – e in particolar modo in quello italiano – non può prescindere da una ricostruzione più generale di questo particolarissimo istituto, da sempre postosi al crocevia della riflessione giuridica, filosofica e politologica, una riflessione questa che, inevitabilmente, assai spesso tende a prescindere dall’esegesi di specifiche disposizioni normative (cfr. Buratti, A., voce Resistenza (diritto di), in Cassese, S., a cura di, Dizionario di Diritto pubblico, V, Milano, 2006, 5081-5082). Anche in questa sede, ad avviso di chi scrive, non si può fare a meno di porsi in una prospettiva di studio generale, che tenda cioè ad inglobare l’analisi del mero dato positivo in una prospettiva teorica più ampia, in un’ottica che dia conto anche dei percorsi filosofici che, quanto meno a partire dalla modernità, hanno investigato l’effettiva portata del diritto di resistenza e, più in generale, delle diverse modalità e tipologie di opposizione al potere costituito.
In questo senso, un interessante punto di partenza può essere l’opera di Immanuel Kant, La metafisica dei costumi, nella parte in cui il filosofo tedesco approfondisce gli effetti giuridici derivanti dalla natura della società civile nello Stato liberale. Per Kant, «L’origine del potere supremo è per il popolo, che sta sotto di esso, imperscrutabile dal punto di vista pratico, cioè il suddito non deve sofisticare attivamente intorno a quest’origine, come se si trattasse di un diritto dubbio rispetto all’ubbidienza che a esso si deve» (Kant, I., La metafisica dei costumi, Bari-Roma, 1973, 148).
La questione del diritto di resistenza, così come viene posta in questo passaggio dell’opera kantiana, suscita non poche perplessità: a ben vedere, infatti, la resistenza dei singoli al potere costituito non sembra minimamente porsi come un diritto, essa assume semmai l’aspetto del sofisma privo di senso, ma la cui sola pensabilità da parte dei cittadini tende, di per sé, a mettere in crisi la stabilità e la sicurezza dello Stato (cfr. Kant, I., La metafisica, cit., 149). Siamo di fronte – e non è certo questo l’unico passaggio della riflessione giusfilosofica kantiana in cui si riscontra una simile operazione teoretica – ad una trasposizione pedissequa di un dovere assoluto ed astratto, desumibile dalla ragion pratica («si deve ubbidire al potere legislativo attualmente esistente, qualunque possa esserne l’origine»), dal piano etico a quello politico. Il risultato di questa impropria trasposizione è quello di fondare la costituzione della società civile su di un presupposto logico, occultandone così l’intrinseca natura storica (ontologicamente storica, verrebbe da dire, se una simile locuzione non apparisse, di per sé, un ossimoro).
Resistere al potere sovrano ‒ è questo l’esito a cui giunge la riflessione kantiana – vuol dire allora porsi contro la legge e, quindi, intraprendere un’opera di distruzione dell’ordinamento giuridico, oltre che della società civile e dello Stato: «Affinché il popolo fosse autorizzato alla resistenza dovrebbe infatti esistere una legge pubblica che la permettesse, vale a dire la legislazione sovrana dovrebbe contenere in se stessa una disposizione secondo la quale essa non sarebbe più sovrana e il popolo, come suddito, verrebbe dichiarato, in un solo e medesimo giudizio, sovrano di colui al quale è soggetto, il che è contraddittorio» (Kant, I., La metafisica, cit., 151).
Indubbiamente, si potrebbe eccepire che il testo kantiano risente, e non poco, del periodo storico in cui veniva scritto, del contesto culturale in cui è stato concepito, nonché di un certo timore reverenziale – un tratto questo forse caratteristico della personalità del filosofo – nei confronti dell’autorità politica. Tuttavia, è proprio con questo testo ‒ e con l’irrisolvibile aporia giuridica che esso rivela – che si è dovuta confrontare tutta la riflessione costituzionalistica e giusfilosofica della modernità che ha provato a riflettere e a sciogliere i nodi teorici che avvolgono il diritto di resistenza (così Scuccimarra, L., Obbedienza, resistenza, ribellione. Kant e il problema dell’obbligo politico, Roma, 1998, 219 ss.).
Insomma, quello kantiano è l’orizzonte della moderna (e forse nuova) idea di resistenza al potere costituito, idea in cui ancora oggi, seppur con taluni aggiustamenti teorici, siamo immersi: la libertà come autonomia del cittadino, come eguale partecipazione di tutti alla prassi dell’auto-legislazione (cfr. Habermas, J., Morale, Diritto, Politica, Torino, 2001, 83 ss.) e, quindi, come assorbimento del diritto oppositivo e antagonistico dei singoli al potere del monarca, all’interno dello stato di diritto liberale che si andava consolidando nel momento storico in cui Kant scriveva queste pagine.
In questo senso, la modernità giuridica ha avuto la forza di “indebolire” il secolare e “terribile” diritto di resistenza (per un inquadramento storico di questo istituto, si rinvia a Cassandro, G., voce Resistenza (diritto di), in Nss. D. I., XV, Torino, 1957, 590 ss.; Zancarini, J.C., a cura di, Le Droit de résistance XII-XX siècle, Paris, 1999, passim), da un lato, attraverso un processo di progressiva scientificizzazione (in senso positivista) della giurisprudenza, dall’altro, attraverso una dinamica di tecnicizzazione del diritto (così De Sanctis, F.M., voce Resistenza (diritto di), in Enc. dir., XXXIX, Milano, 1988, 995; ma si veda anche Giuliani, A., Ricerche in tema di esperienza giuridica, Milano, 1957, 8 ss.).
Del resto, nel momento in cui il diritto iniziava ad essere percepito come un ordinamento (rectius, sistema) normativo, volto ad assicurare il monopolio legale dell’uso della forza in capo allo Stato-persona – riducendo, tra l’altro, il problema della legittimità di questo uso, ad una mera questione di legalità – non sembra più esserci posto per il diritto di resistenza in quanto tale. Un simile diritto, infatti, si tramuta inevitabilmente – nella prospettiva giuspositivistica – nel divieto dell’uso illegale della forza da parte di singoli soggetti e/o di gruppi organizzati, in opposizione all’uso legittimo della stessa che, per l’appunto, può essere esercitato solo e soltanto dallo Stato (così De Sanctis, F.M., voce Resistenza, cit., 996).
Affrontare il tema della resistenza al potere costituito, anche nell’orizzonte giusfilosofico della modernità, significa andare al fondo del problema – senza provare ad occultarlo, come invece ha tentato di fare Kant –, dell’uso della forza all’interno dei sistemi costituzionali liberali, prima, e liberal-democratici, poi. In questa ottica, un contributo importante è stato certamente fornito da un altro filosofo tedesco la cui riflessione si inscrive a pieno titolo nella (tarda) modernità: Walter Benjamin.
Nel suo celebre frammento, intitolato «Per la critica della violenza» (cfr. Benjamin, W., Per la critica della violenza, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Milano, 1995, 5 ss.), Benjamin travolge l’impostazione kantiana della pensabilità del diritto di resistenza, facendo della violenza (e non della resistenza, quindi) il medium ontologico dei rapporti tra diritto e giustizia: i due estremi di questa dicotomia, che nella prospettiva teologico-politica del filosofo sembrano condannati a non coincidere mai, sono in realtà i poli di una continua rimodulazione dell’impiego della violenza come mezzo per il raggiungimento di determinati fini (giusti, se perseguiti dallo Stato, ingiusti, se perseguiti da parte dei singoli che si oppongono all’autorità costituita).
Per Benjamin, quindi, al contrario di Kant, il punto è quello di comprendere che la violenza non si dà come principio in sé, ma come criterio per i casi specifici della sua applicazione (così Benjamin, W., Per la critica della violenza, cit., 5). L’impostazione kantiana è qui completamente ribaltata: se ne «La metafisica dei costumi», il potenziale ricorso alla violenza veniva negato a priori, sulla base di un assunto intellettualistico elaborato in ambito etico, nel pensiero di Benjamin, invece, ogni modalità di esercizio del potere – sia esso costituito, sia esso antagonista al potere costituito –, è già sempre esercizio di una violenza che comunque deve ancora trovare la propria giustificazione giuridica, in ragione del fine che tende a perseguire. Non è un caso, infatti, se nel testo tedesco del frammento benjaminiano, il termine «Gewalt» venga utilizzato indistintamente (in maniera volutamente ambigua) allo stesso tempo sia per indicare il potere costituito che esercita la legittima violenza legale, sia la violenza tout court esercitata da soggettività antagoniste ad un determinato potere costituito.
Tuttavia, ad avviso di Benjamin, se analizzata in una prospettiva storico-giuridica, la critica della violenza deve giungere ad esiti ancora più radicali: alla tesi giusnaturalistica della violenza come dato naturale, infatti, si contrappone diametralmente quella del positivismo giuridico che presuppone sempre il potere costituito come un dato storicamente contingente. Senza dubbio, giusnaturalismo e positivismo giuridico condividono lo stesso dogma fondamentale che vuole che fini giusti possano essere raggiunti con mezzi legittimi e che mezzi legittimi possano essere impiegati per perseguire fini giusti. Tuttavia, la frattura tra queste due modalità di pensiero del diritto consiste nel fatto che «… come il diritto naturale può giudicare ogni diritto esistente solo nella critica dei suoi fini, così il diritto positivo può giudicare ogni diritto diveniente solo nella critica dei suoi mezzi» (Benjamin, W., Per la critica della violenza, cit., 6).
Benjamin colpisce così al cuore il tentativo kantiano di occultamento del diritto dei singoli ad opporsi al potere costituito, poiché l’interesse del diritto come (ordine giuridico e) potere costituito a monopolizzare l’uso della violenza rispetto al diritto del singolo di opporvisi, non è spiegabile con l’intenzione di salvaguardare i fini giuridici perseguiti dall’ordinamento, «… ma piuttosto con quella di salvaguardare il diritto stesso… la violenza, quando non è in possesso del diritto di volta in volta esistente, rappresent[a] per esso una minaccia, non a causa dei fini che essa persegue, ma della sua semplice esistenza al di fuori del diritto» (Benjamin, W., Per la critica della violenza, cit., 9, corsivo nostro).
È dunque con questo scarto, con questa idea – impensabile per il diritto – che possa esistere una modalità di esercizio della violenza di cui il diritto stesso (inteso come dato normativo e positivo) non sia capace di appropriarsi, che il costituzionalismo contemporaneo deve confrontarsi. E questo perché ogni forma di violenza, in quanto mezzo, può contemporaneamente porre nuovo diritto, mai riconducibile a quello estrinsecatosi nel precedente ordinamento giuridico – che tende, anzi, ad abbattere e superare –, ovvero può conservare il diritto esistente, quello cioè incarnato dal sistema vigente in un determinato momento storico: per Benjamin, insomma, ogni critica della violenza deve sempre incominciare dalla critica di quella violenza originaria e legale che è il diritto positivo (così, seppur criticamente rispetto alla posizione del filosofo tedesco, Cotta, S., Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, L’Aquila, 1978, 107 ss.).
Da ciò si comprende, inoltre, non soltanto il motivo dell’ambiguo uso giuridico del termine «Gewalt» da parte di Benjamin, ma anche per quale motivo non possa interessare al filosofo – e con lui al giurista – il fenomeno dell’impiego della violenza in quanto fine in sé, cioè in quanto mero atto di forza che non ha altro obiettivo se non quello di compiersi. A questo fenomeno, infatti, non sembra potersi conferire un particolare significato giuridico (se non in termini di mera repressione penale del fatto commesso, da parte dell’ordinamento vigente), semmai un connotato politico nichilistico ovvero puramente estetico, quali possono essere – rispettivamente – un attentato terroristico kamikaze o un film di Quentin Tarantino.
A conclusione, quindi, di questo nostro ragionamento sulle orme filosofiche di Benjamin, possiamo affermare che ogni impiego della violenza come mezzo partecipa di per sé alla problematicità del diritto in generale, alla pensabilità dei propri effetti in termini giuridici e, contemporaneamente, alla sua impossibilità ad essere ricondotto nell’alveo del sistema normativo vigente, se prima quest’ultimo non abbia già provato ad aprirsi – e a rendere compatibili con esso – determinate modalità oppositive nei confronti del potere costituito. Ad avviso di chi scrive, infatti, sembra essere questa la corretta chiave di lettura per inquadrare oggi il problema del riconoscimento e – se logicamente possibile – della positivizzazione del diritto di resistenza negli ordinamenti costituzionali liberal-democratici.
In questa ottica, la fenomenologia degli atti di resistenza nei confronti del potere costituito, così come sistematizzati in un celebre studio da Alessandro Passerin d’Entrèves (cfr. Passerin d’Entrèves, A., Legittimità e resistenza, in Studi sassaresi, III, Milano, 1973, 33 ss.), certamente non sono tutti riconducibili al diritto di resistenza in quanto tale e, nella nostra prospettiva di analisi, sembrano perdere tutta la loro efficacia dogmatica.
L’autorevole giurista, infatti, distingueva tra almeno otto casi tipizzabili di resistenza al potere, ossia: 1) l’obbedienza consenziente alle leggi; 2) l’obbedienza formale come adempimento estrinseco della legge; 3) la “evasione occulta” quale affievolimento dell’obbligo che motiva l’obbedienza, soltanto per paura della sanzione normativa; 4) l’obbedienza passiva, intesa come rifiuto di obbedire ad un precetto di legge, accettandone comunque la sanzione comminata; 5) l’obiezione di coscienza come rifiuto della legge e come testimonianza individuale di obbedienza ad un dovere morale superiore ad essa; 6) la disobbedienza civile come rifiuto di obbedire ad una legge, ponendo in essere un’azione pubblica non violenta; 7) la resistenza passiva non violenta; 8) la resistenza attiva violenta che mira alla sovversione e all’abbattimento di un ordinamento giuridico e di un regime politico.
Di queste otto tipologie di resistenza, come risulta chiaro, soltanto l’ultima rientrerebbe nell’impiego oppositivo della violenza, mentre gli altri sette tipi si manifesterebbero come atti di resistenza al potere costituito che, tuttavia, la storia dei movimenti sociali e politici del XX secolo, in qualche modo, ha reso accettabili e compatibili con i sistemi costituzionali liberal-democratici (sul rapporto tra differenti forme di dissenso e istituzioni liberal-democratiche, si rinvia a Cosi, G., Saggio sulla disobbedienza civile. Storia e critica del dissenso in democrazia, Milano, 1984, 244 ss.). Del resto, lo stesso Passerin d’Entrèves non ha mai smesso, nelle sue opere, di metterci in guardia dal fatto che il corretto uso di parole come “potere”, “autorità” e “violenza” non è soltanto un problema di logica giuridica o di grammatica, ma una questione di prospettiva storica (così Passerin d’Entrèves, A., La dottrina dello Stato. Elementi di analisi e di interpretazione, Torino, 1967, 7).
Come è stato messo in evidenza da un’autorevole dottrina (Cerri, A., voce Resistenza (diritto di), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 1), non è facile definire un approccio strettamente giuridico-positivo al diritto di resistenza, proprio perché non è facile definire in termini dogmatici «… un diritto che contrappone al positivo comando dei governanti un valore più radicale e vincolante, la cui “positività”, tuttavia, nell’atto in cui è negata dalla legge scritta e dagli organi dello Stato, diviene problematica» Se le Costituzioni liberali, nate dall’eversione dei regimi monarchici assoluti, hanno positivizzato il diritto di resistenza, codificando i diritti naturali dell’uomo in dichiarazioni scritte, tali Costituzioni (così come, del resto, quelle liberal-democratiche) hanno talvolta previsto un simile diritto, come un ulteriore strumento nelle mani dei governati, nell’ipotesi limite in cui gli strumenti di difesa “legali” non fossero risultati più concretamente attivabili.
Il limite di questa volontà di concettualizzare la resistenza al potere costituito viene riscontrato da questa stessa dottrina che, nel distinguere tra ipotesi “codificate” e non “codificate” di resistenza, evidenzia come i confini della legalità vengano continuamente messi in discussione dalle situazioni di fatto e dagli eventi storici (Cerri, A., voce Resistenza, cit., 3-4). Ogni positivizzazione del diritto di resistenza, insomma, risulta sempre un esercizio teorico fine a sé stesso, realizzabile semmai ex post facto, uno sforzo questo simile a quello della nottola di Minerva di hegeliana memoria, metafora del pensiero filosofico che è in grado di afferrare il reale soltanto al calare della notte, quando cioè determinate dinamiche sociali si sono già consolidate nel presente e sono ormai a disposizione dello studioso, così da poter essere trasformate in concetti.
Fuor di metafora, si consideri l’istituto giuridico dello sciopero, oggi pacificamente riconosciuto come diritto soggettivo perfetto ad esercizio collettivo dalla stessa dottrina costituzionalistica, in ragione del suo riconoscimento formale all’art. 40 Cost., ma che per oltre un secolo è stato concepito come estremo mezzo di difesa di un determinato gruppo sociale (tradizionalmente il movimento operaio e socialista) di fronte ad eventuali “colpi di coda” reazionari, da parte della classe dirigente liberale, quanto meno in Europa (cfr. Cole, G.D.H., Storia del pensiero socialista, V, Bari, 1972, 186 ss.; nel dibattito giuridico, per tutti, si rinvia a Giugni, G., Diritto sindacale, 2010, Bari, 233 ss.).
Lo sciopero, in particolar modo quello generale a fini meramente politici, nelle sue prime manifestazioni storiche era pacificamente riconosciuto come fatto illecito e violento (si veda, sul punto, Sorel, G.E., Riflessioni sulla violenza, in Vivarelli, R., a cura di, Scritti politici di Georges Sorel, Torino, 1963, 71 ss.): esso esprimeva una forma di resistenza nata al di fuori della legge ma che, con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, è divenuto un diritto soggettivo dei singoli cittadini a tutti gli effetti, bilanciabile a sua volta con altri diritti soggettivi costituzionalmente riconosciuti.
Questo esempio dimostra, ad avviso di chi scrive, due cose: da un lato, come sia assolutamente inutile provare a formulare una tassonomia, in astratto, delle modalità con cui si estrinseca il diritto di resistenza, in ragione della mobilità storica dei confini dogmatici in questo ambito; dall’altro, come una ricostruzione in termini di mero diritto positivo di questo istituto vada a scontrarsi proprio con quello scarto tra norma positiva e violenza che, come evidenziava Benjamin (cfr. supra, §. 2), risulta essere l’elemento costitutivo del diritto. Hannah Arendt, nel suo celebre saggio «Sulla violenza» (Milano, 1996, 47 ss.), riporta un aneddoto che rafforza ulteriormente questo particolare punto di vista: la notte del 14 luglio 1789, il duca de La Rochefoucauld-Liancurt riferì a Luigi XVI dei disordini che si erano verificati quello stesso giorno a Parigi. Il monarca, udito il resoconto del duca, pare che avesse esclamato: «C’est une rivolte !», ma La Rochefoucauld-Liancurt lo corresse immediatamente, affermando: «Non sire, c’est une révolution».
Le ideologie, insomma, come pure ci ricorda l’autorevole dottrina con cui ci si sta confrontando (Cerri, A., voce Resistenza, cit., 2), non si possono tagliare con il coltello ed è significativo come all’interno di una medesima weltanschauung (quella cioè dell’ancien régime, incarnata, nell’esempio citato dalla Arendt, da Luigi XVI e dal duca de La Rochefoucauld-Liancurt), lo stesso evento venga inquadrato giuridicamente in due categorie diametralmente opposte tra loro: da un lato, un semplice tumulto finalizzato ad ottenere una rivendicazione di breve respiro, dall’altro, l’insorgere di un gruppo sociale che – parafrasando l’abate Sieyès – incominciava a pretendere di essere tutto, non essendo stato ancora nulla, per lo meno sino a quel momento.
Come si vede, le modalità concrete dell’esercizio della violenza possono essere ricondotte, nel momento stesso in cui esse vengono esercitate, contemporaneamente sia dentro, sia fuori un ordinamento giuridico storicamente determinato (sia esso quello dell’ancien régime, sia esso quello attualmente vigente in Italia o in Francia, ciò poco rileva ai fini del nostro ragionamento). Infatti, saranno sempre e soltanto gli esiti ultimi di specifici percorsi del conflitto sociale, posti in essere da determinati soggetti storici, ad indicare allo studioso come interpretare un certo evento, se cioè come una rivolta violenta, suscettibile di repressione penale da parte dell’ordinamento giuridico vigente, ovvero come un evento rivoluzionario che pone le basi per l’instaurazione di un nuovo regime politico, oppure come una forma di contrapposizione al potere costituito che determinerà il riconoscimento, da parte di quello stesso ordinamento giuridico, di nuove forme di protesta compatibili con lo stato di diritto.
In questa ottica, quindi, positivizzare il diritto di resistenza risulta non essere di alcuna utilità giuridica, perché la sua efficacia in termini di ricostruzione del presente non si pone. Il diritto di resistenza, infatti, per usare una metafora, può essere inteso come una sorta di specchio attraverso il cui prisma il giurista può essere messo nelle condizioni di comprendere domani, ciò che si è verificato oggi. Ma le categorie dogmatiche con cui il giurista comprenderà, in futuro, gli avvenimenti del presente, non è detto che coincidano con quelle del presente stesso: cioè a dire che anche se un ordinamento costituzionale volesse positivizzare il diritto di resistenza, nel momento in cui determinati atti violenti di rivolta si verificassero, essi non potrebbero mai essere valutati come resistenza al potere costituito, ma sempre come atti illegali, proprio perché il potere costituito non può riconoscere alcun tipo di resistenza all’esercizio del potere medesimo che, per definizione, in uno Stato costituzionale, viene sempre esercitato legittimamente e democraticamente.
Alla luce delle riflessioni svolte sino a questo punto, si deve accogliere con favore il fatto che nel dibattito in Assemblea costituente non si sia giunti a positivizzare, in una specifica disposizione costituzionale, il diritto di resistenza. Come è noto, in realtà durante i lavori della prima sottocommissione, in particolare nel corso della seduta del 3 dicembre 1946, venne posto in discussione l’art. 3 del progetto di Costituzione, presentato dall’On. Dossetti, che così recitava: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino» (per un approfondimento del dibattito in Assemblea costituente sul diritto di resistenza, si rinvia a Ventura, L., Le sanzioni costituzionali, Milano, 1981, 185 ss.).
Dall’esame dei lavori della prima sottocommissione risulta come il diritto di resistenza volesse essere introdotto in Costituzione, da un lato, con un aggancio sistematico al principio di sovranità, dall’altro, con la consapevolezza che un simile diritto necessitava comunque di una legittimazione storica, da parte dei soggetti che lo avrebbero poi concretamente esercitato (così Ventura, L., Le sanzioni, cit., 188).
Successivamente, tuttavia, quando il progetto di Costituzione – dopo essere stato approvato dalla Commissione dei settantacinque – venne presentato in assemblea, l’articolo in questione risultò inserito nel titolo IV del testo provvisorio (quello riguardante i rapporti politici), al secondo comma dell’art. 50, in una formulazione assai distante da quella proposta da Dossetti alla prima sottocommissione e cioè: «Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino».
Come è noto, alla seduta del 5 dicembre 1946, con l’esiziale intervento dell’On. Mortati, si votò – per volere soprattutto del gruppo della Democrazia cristiana – la soppressione del secondo comma dell’art. 50. Il ragionamento svolto in quella sede dall’autorevole costituzionalista fu abbastanza netto: poiché era stato elaborato, all’interno del testo costituzionale, un sistema di garanzie volto a tutelare i diritti dei cittadini, anche di fronte agli abusi dei supremi organi della Repubblica, sarebbe stato il ricorso a questo sistema di garanzie positivo – e non certo l’esercizio del diritto di resistenza – a tutelare i cittadini dagli abusi del potere costituito. Fermo restando il riconoscimento, in via di principio, del diritto di resistenza – che pure ricordava Mortati, traeva origine dalla millenaria tradizione giuridica cattolica –, tuttavia, tale diritto «… riveste carattere metagiuridico, e mancano, nel congegno costituzionale, i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima» (Atti dell’Assemblea Costituente, Discussioni sul progetto, X, Roma, 1946, 2854 ss.; per approfondimenti sul punto, si rinvia a Cervati, A.A., Le garanzie costituzionali nel pensiero di Costantino Mortati, in Galizia, M.-Grossi, P., a cura di, Il pensiero giuridico di Costantino Mortati, Milano, 1990, 417 ss.).
Ad avviso di Mortati, quindi, una situazione di resistenza avverso gli abusi del potere costituito si pone inevitabilmente sul piano del mero fatto e, quindi, su di un piano in qualche modo estraneo alla regolamentazione giuridica o comunque assai difficile da sussumere logicamente in una disposizione costituzionale che pure riconosce la possibilità, da parte dei cittadini, di esercitare un simile diritto-dovere. Del resto, quand’anche si fosse voluto riconoscere un carattere “pedagogico” alla suddetta disposizione costituzionale, essa andava comunque ad inserirsi in un testo di legge positiva che avrebbe dovuto assumere, per lo meno nell’intenzione dei Padri costituenti, un’immediata efficacia precettiva, nel momento in cui sarebbe entrata in vigore la Costituzione repubblicana.
In conclusione, quindi, si deve rilevare come il diritto di resistenza non sia stato costituzionalizzato nel nostro ordinamento positivo, proprio perché i costituenti ne hanno apprezzato il carattere propriamente meta-giuridico, non suscettibile di essere cristallizzato in modalità che, inevitabilmente, non avrebbero potuto trovare un riscontro concreto nella dialettica democratica, anche in ragione della variegata fenomenologia di eventi storici in cui il suo esercizio, da parte dei cittadini, si sarebbe potuto concretizzare (contra in dottrina, Cassano, R., Diritto di resistenza e sistema costituzionale italiano. Linee di ricerca tra attualità e prassi, in www.forumcostituzionale.it , 29.7.2009, 20).
Non sfugge, tuttavia, il fatto che proprio quell’autorevole dottrina che in Assemblea costituente si era battuta per escludere la positivizzazione del diritto di resistenza, a decenni di distanza sia tornata nuovamente sulla questione, affermando che si sarebbe comunque potuto desumere il diritto di resistenza da una lettura in combinato disposto degli artt. 1 e 3, co. 2, Cost. (così Mortati, C., Commento all’art. 1, in Comm. Cost. Branca, I, Bologna, 1975, 32, nota 1). Ad avviso di questa dottrina, infatti, non si può negare l’esistenza nel nostro ordinamento costituzionale del diritto di resistenza, invocando la decisione dell’Assemblea costituente di respingere il secondo comma dell’art. 50 del progetto di Costituzione, non solo perché i motivi di questa esclusione non erano emersi chiaramente nel dibattito in Assemblea, ma anche perché la suddetta disposizione non disciplinava i modi di esercizio del diritto di resistenza, semmai si era limitata soltanto a riconoscerne l’esistenza, in via di principio (così Mortati, C., Commento all’art. 1, cit., 120, nota 12).
In questa nuova prospettiva, frutto di un importante ripensamento teorico, il diritto di resistenza si declinerebbe, in realtà, in un dovere di osservare la Costituzione, sia in capo ai governati, sia – a maggior ragione – in capo ai governanti, quando questo dovere appaia necessario al fine di realizzare la solidarietà democratica, dovere che non può essere in alcun modo confuso con la rivoluzione, dovendo esso venire considerato, in termini giuridici, come «… applicazione dell’esigenza della preminenza del fine sui mezzi, quando questi si rivelino inidonei» (così Mortati, C., Commento all’art. 1, cit. 32-33, nota 1), poiché proprio su tale esigenza «… si fonda lo stato di necessità, che giustifica la sospensione dell’azione legale, e la cui insostituibile funzione ha avuto pratico riconoscimento anche in assenza di una previsione costituzionale».
In questo passaggio, sembra – ad avviso di chi scrive – come ancora una volta si concretizzi l’aporia della pensabilità del diritto di resistenza all’interno dei sistemi costituzionali liberal-democratici. Un’aporia questa incapace di rendere conto della pensabilità dell’esercizio di una violenza capace di fondare nuovo diritto e che, allo stesso tempo, non sia riconducibile nell’alveo del diritto positivo vigente. A questa aporia, dunque, già investigata in sede teorica generale, se ne deve aggiungere ora un’altra, che si sviluppa tutta all’interno dell’alveo del diritto positivo: se, infatti, come rileva il Mortati, il diritto di resistenza ha una connotazione meta-giuridica che non consente di positivizzarne il contenuto – perché il dato normativo non potrebbe mai stabilire le corrette modalità di esercizio di un simile diritto (né evidentemente le circostanze storiche in cui esso potrebbe essere esercitato legalmente e legittimamente) –, allora esso deve essere assunto come dovere e, quindi, non più in termini oppositivi, ma come mezzo per difendere l’ordinamento democratico dagli abusi di potere dei governanti.
Lo slittamento della questione, dal piano dei diritti a quello dei doveri, ad avviso di chi scrive, dimostra ancora una volta quanto sia sfuggente il problema della pensabilità della resistenza come diritto per il giurista positivo, anche (o forse soprattutto) all’interno di un ordinamento costituzionale liberal-democratico. Un simile problema, lungi dall’essere risolvibile in questa sede, ci dimostra, invece, come i valori che sono sottesi al diritto positivo non possano affatto esaurirsi in esso, ma che, in qualche modo, sono sempre portatori di una “eccedenza assiologica” che tende ad andare oltre il diritto vigente e che, in ultima analisi, dimostrano di essere il vero catalizzatore di nuovi accadimenti storici e di nuove idealità politiche e sociali.
Nessuna.
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