Diritto e magia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il diritto delle origini, e dunque anche il più antico diritto greco e romano, è caratterizzato da una forte commistione con pratiche e concezioni magiche: ritualità e gestualità di tipo magico vengono infatti sovente impiegate per realizzare vincoli di natura giuridica. Ma, accanto alla magia che il diritto recepisce e utilizza, vi è anche una magia negativa praticata per scopi nocivi e antisociali che, pertanto, viene duramente perseguita e repressa.
Nella moderna tradizione occidentale il diritto è considerato una scienza, che, in quanto tale, è esclusivamente e squisitamente laica; ma, come è ovvio, non è sempre così e non sempre è stato così. Non vi sono dubbi, infatti, che il diritto delle origini si caratterizzi per la sua forte commistione con pratiche e concezioni di tipo magico; esse, profondamente radicate in ogni popolazione di interesse etnografico, sono del resto da considerare alla base non soltanto del diritto, ma anche della religione e delle tecniche scientifiche.
Scrive Louis Gernet nel suo celebre volume Antropologia della Grecia antica che, prima della nascita del diritto e dello stato, la magia rappresenta una delle principali forze capaci di regolare le relazioni interpersonali. Partendo dall’assunto che presso tutti i popoli antichi è diffusa la convinzione che oggetti, parole, gesti, numeri o colori determinati possiedano il potere magico di produrre effetti specifici, egli mostra la strettissima relazione di continuità che in molti casi è dato rinvenire tra questa fede negli effetti magici di alcuni comportamenti (o di alcune parole) e la successiva pratica giuridica. A dimostrazione di ciò, Gernet osserva che nella Grecia più antica una chiara efficacia magica è ricondotta a determinate formule, le arai ("imprecazioni"), che sopravvivono a lungo nel diritto di diverse città, ove vengono impiegate come sanzioni nelle leggi o nei trattati internazionali.
Che anche il diritto romano delle origini presenti evidenti legami con la magia è stato asserito da molti antropologi, sociologi e storici del diritto – si pensi per esempio ad Axel Hägerström e a Paul Huvelin –: il formalismo esasperato, tipico del diritto romano più antico, prevede che gli effetti desiderati si ottengano del tutto indipendentemente dalla volontà di chi tiene il comportamento prescritto; pertanto, è giusto ritenere che la gestualità formale prevista per taluni atti, come pure la pronuncia di determinate parole, agisca magicamente, in modo tale da vincolare giuridicamente le persone coinvolte.
Molte disposizioni a carattere magico sono presenti nelle XII Tavole – le più antiche leggi scritte di Roma, risalenti al 451/450 a.C. –; esse, per esempio, autorizzano l’impiego della obvagulatio, canto magico che deve servire a costringere un individuo a prestare la sua testimonianza in un processo. Ancora, uno degli istituti più antichi del diritto romano è la manumissio vindicta, rituale formale mediante il quale si manomette – ossia si rende libero e cittadino romano – uno schiavo; elemento fondamentale del rito è la bacchetta – la vindicta, appunto – dalla quale lo schiavo viene toccato, e che funziona da vera e propria bacchetta magica: questa, unitamente alla pronuncia di una formula, ha il potere di cambiare immediatamente la condizione giuridica dello schiavo, che è da essa trasformato in un uomo libero.
La magia positiva è utilizzata per fini socialmente utili; non sempre, tuttavia, il rapporto tra magia e diritto è di continuità. La magia, infatti, può essere praticata anche per scopi nocivi, antisociali e, in questo caso, essa va perseguita e repressa. Nelle XII Tavole sono presenti alcune disposizioni che puniscono con grande severità – probabilmente sempre con la morte – alcuni comportamenti magici illeciti. La tradizione ci ha conservato due frammenti nei quali è stabilito il divieto di praticare magia ai danni delle messi: in particolare, essi parlano di incantesimi volti a distruggere il raccolto e a trascinare nel proprio fondo le messi altrui.
Nel ricordare una di queste disposizioni, Plinio il Vecchio racconta la vicenda occorsa a Furio Cresimo, il quale, poiché dal suo piccolo campo ricavava molti più frutti di quanti non ne raccogliessero i vicini in terreni ben più estesi, venne da questi ultimi citato in giudizio proprio con l’accusa di attirare magicamente nella sua proprietà le messi dei fondi limitrofi. Furio Cresimo venne assolto, perché riuscì a dimostrare l’infondatezza delle accuse portando in giudizio i suoi schiavi e i suoi buoi ben pasciuti, i suoi attrezzi da lavoro lucidi e curati; ma l’assoluzione di Furio non sminuisce affatto il valore dell’aneddoto, che dimostra anzi l’assoluta fede dei Romani nell’efficacia e nelle possibili potenzialità negative di tali incantesimi.
Le XII Tavole non puniscono solo gli autori di incantamenti contro il raccolto; esse prevedono la morte anche per chi abbia gettato il malocchio su una persona; nello specifico, per colui che sia stato giudicato colpevole di malum carmen incantare e di praticare una occentatio. Sono state riportate le parole latine che definiscono i reati per il fatto che sul loro contenuto sussistono forti incertezze: in effetti, alcuni autori di età classica tra i primi – Cicerone per esempio – dubitano della possibilità che le espressioni individuino illeciti di tipo magico e ritengono piuttosto che l’aggettivo malum, "malvagio", che definisce il carmen, sia da intendere nel senso di famosum, "diffamatorio", e che parimenti la occentatio sia un canto finalizzato a procurare disonore o infamia a terzi; le XII Tavole, dunque, avrebbero previsto la pena capitale non già per chi praticava magia a danni di un individuo, ma piuttosto per chi, con un carme, una poesia o un libello, ledeva l’onore altrui.
È indubbio che, con il passare del tempo, quando non pare più giustificata la necessità di reprimere reati di carattere magico, le citate disposizioni delle XII Tavole vengono interpretate in chiave diffamatoria; questo non significa, tuttavia, che quello diffamatorio sia il loro significato originario, anche perché nel diritto romano la diffamazione inizia a essere considerata reato in un periodo di gran lunga successivo a quello che stiamo qui esaminando, e comunque non viene punita – come si prevede invece nella circostanza in questione – con la morte. Le parole incantare malum carmen, dunque, non possono che riferirsi all’incantamento (incantare) nocivo (malum) pronunciato contro un individuo, volto a danneggiare non l’onore, bensì la persona fisica di colui contro il quale era rivolto. Quanto all’occentatio, sempre di un incantesimo malvagio deve trattarsi, ma è verosimile che esso sia diretto non contro la persona, bensì contro il domicilio altrui: infatti il verbo occentare ricorre nella letteratura latina soltanto in alcune commedie di Plauto, a indicare la serenata che l’innamorato respinto fa davanti alla porta dell’amata. Indubbiamente, il termine occentare in Plauto non designa alcuna pratica magica: nondimeno, la testimonianza plautina può indurci a ritenere che in origine la occentatio venga usata come carme magico praticato davanti a una porta e capace di aprire la porta stessa, e dunque di violare il domicilio altrui. La morte, pertanto, è una pena assolutamente compatibile con un reato di tale gravità.