Abstract
La normativa giuridica internazionale che regola la condotta dei conflitti armati (ius in bello) viene presentata nei suoi rapporti di coesistenza e complementarità con il diritto internazionale dei diritti umani attraverso l’esposizione dei principi generali comuni ai due sistemi e di quelli specifici del diritto internazionale umanitario. Vengono quindi affrontati gli aspetti salienti della codificazione dell’Aja (1907, 1954), di Ginevra (1949, 1977) sulla condotta delle ostilità e la protezione delle vittime nei conflitti armati internazionali e non internazionali; l’oggetto delle convenzioni recanti limitazioni o proibizioni di specifiche armi; le garanzie di attuazione del sistema.
Il Diritto internazionale umanitario (DIU) comprende le norme sulla condotta delle ostilità nei conflitti armati e sulla protezione delle vittime della guerra (ius in bello). Queste si sono inizialmente sviluppate attraverso la consuetudine, quindi sono state oggetto di convenzioni di codificazione e di sviluppo progressivo (c.d. “diritto dell’Aia”: Convenzione dell’Aja del 18.10.1907 e Regolamento allegato; Convenzione dell’Aja del 14.5.1954, con relativo Regolamento di esecuzione; c.d. “diritto di Ginevra”: Convenzioni di Ginevra del 12.8.1949 e Protocolli aggiuntivi dell’8.6.1977) nonché di numerosi trattati contenenti divieti o limitazioni dell’uso di determinati tipi di armi (Convenzione sulle armi classiche del 10.10.1980 e relativi protocolli; Convenzione sulle armi chimiche dell’11.1.1993; Convenzione sulle mine antipersona del 18.9.1997; Convenzione sulle munizioni a grappolo del 30.5.2008). Importanti fonti di cognizione del DIU sono rappresentate dai manuali militari degli stati, alcuni dei quali hanno storicamente contribuito allo sviluppo della disciplina internazionale (Codice Lieber del 24.4.1863).
Il DIU coesiste con il diritto internazionale dei diritti umani (DIDU). Secondo la concezione espressa dalla Corte Internazionale di Giustizia, la protezione dei diritti umani non cessa in caso di conflitto armato, salvo l’operare, per alcuni di essi, delle clausole di deroga contenute nei pertinenti trattati (art. 15 CEDU, art. 4 ICCPR, art. 27 IACHR). Pertanto in alcune situazioni rimane applicabile in toto il DIDU, in altre solo il DIU quale lex specialis, in altre ancora trovano applicazione complementare entrambi i sistemi (parere consultivo sulla legittimità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari, 8.7.1996, p. 240, par. 25; parere consultivo sulle conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, 9.7.2004, p. 178, par. 106). La prassi mostra come gli stati siano soliti invocare le clausole di deroga in caso di emergenze o conflitti armati interni, ma non ritengano necessario notificarle quando sono coinvolti in conflitti armati internazionali (C. eur. dir. uomo, 12.12.2001, Banković e al. c. Belgio e altri sedici stati, p. 17, par. 62).
Nel diritto internazionale contemporaneo si assiste alla progressiva espansione del campo di applicazione materiale del DIU, che in origine era rivolto ai conflitti armati internazionali, mentre oggi trova crescente applicazione nei conflitti interni (v. Conflitti armati) e vincola anche le parti non statali, ma senza che ciò comporti riconoscimento di belligeranza o altrimenti influisca sullo status delle parti in conflitto (art. 3 comune Conv. Ginevra 1949, ultimo capoverso). Il DIU si applica altresì alle Forze delle Nazioni Unite quando esse si trovino impegnate attivamente come combattenti in azioni coercitive o in operazioni di mantenimento della pace quando l’uso della forza è consentito per legittima difesa (Bollettino del Segretario generale delle Nazioni Unite del 12.8.1999 recante Direttive per l’osservanza del diritto internazionale umanitario da parte delle Forze delle Nazioni Unite).
La coesistenza e la complementarità del DIU e del DIDU si fondano su principi comuni volti a tutelare la persona umana, i quali trovano espressione in norme che si sono affermate come generali e inderogabili in entrambi i sistemi (Orakhelashvili, A., The Interaction between Human Rights and Humanitarian Law: Fragmentation, Conflict, Parallelism, or Convergence? in Eur. Journ. Int. Law, 2008, 162-168). Ogni individuo ha diritto al rispetto della propria identità personale, integrità fisica e mentale, alla salute e al godimento dei propri beni. Nessuno deve essere discriminato per ragioni attinenti alla razza, al sesso, alla religione, o per altri motivi contrari al diritto internazionale. Ogni stato deve fornire a chiunque sia sottoposto alla sua giurisdizione le garanzie giudiziarie fondamentali. Tali principi si traducono in norme cogenti quali il divieto della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, delle pene collettive, nonché in numerose altre disposizioni codificate nei trattati universali e regionali sui diritti umani nonché nelle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 (trattati che hanno conseguito una partecipazione universale, le cui norme hanno altresì acquisito efficacia di diritto internazionale consuetudinario) e nei due Protocolli aggiuntivi del 1977 (i quali, sebbene ratificati dalla grande maggioranza degli Stati, corrispondono solo in parte al diritto consuetudinario). A mero titolo di esempio, il principio di non discriminazione è espresso degli articoli 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16.12.1966 e del Protocollo II dell’8.6.1977, nonché dagli articoli 12 delle prime due Conv. di Ginevra del 1949, dall’art. 16 della III Conv., dall’art. 13 della IV Conv. e dall’art. 75, co.1, del Protocollo I dell’8.6.1977. Il divieto della tortura è posto dall’art. 7 del Patto del 1966, dall’art. 4, co. 2, del Prot II del 1977, dagli articoli 12 delle prime due Conv. del 1949, dall’art. 17 della III Conv., dall’art. 32 della IV Conv. e dall’ art. 75, co. 2, del Prot. I del 1977.
In base al principio della sovrana eguaglianza fra gli Stati, il DIU è applicabile su un piano di completa parità fra i belligeranti nei conflitti armati internazionali, indipendentemente dal giudizio sulla liceità del ricorso alla forza armata (ius ad bellum). Tale principio, di pacifica natura consuetudinaria, è oggi espresso dalle Conv. di Ginevra del 1949 e dal Prot. I del 1977, le cui Parti contraenti si impegnano a rispettare e a far rispettare detti trattati “in tutte le circostanze” (art. 1 comune Conv. di Ginevra 1949, art. 1, co. 1, Prot. I 1977). Con tale espressione si vuole indicare l’inderogabilità delle norme umanitarie, che sono sottratte all’operare del principio di reciprocità e non devono essere in alcun caso disapplicate o sospese. Ancora più esplicito il preambolo del Prot. I del 1977, che nel suo ultimo paragrafo riafferma come le disposizioni delle Convenzioni e del Protocollo debbano essere applicate «a tutte le persone protette da detti strumenti, senza alcuna distinzione sfavorevole fondata sulla natura o l’origine del conflitto armato, o sulle cause invocate dalle Parti in conflitto, o ad esse attribuite.» La portata universale delle Convenzioni di Ginevra, nonché la loro riconosciuta corrispondenza al diritto internazionale consuetudinario confermano che l’uguaglianza dei belligeranti costituisce un principio fondamentale posto a base della condotta degli Stati coinvolti nei conflitti armati internazionali, indipendentemente dalla liceità del ricorso alla forza militare da parte di essi (Meron, T., Human Rights and Humanitarian Norms as Customary Law, Oxford, 1989, 41-62).
È più difficile configurare il principio di uguaglianza dei belligeranti nel contesto di un conflitto armato non internazionale, dove per definizione non vi è, né può esservi, uguaglianza fra le parti. Coloro che impiegano la forza contro un governo costituito, infatti, non possono essere posti sullo stesso piano dell’autorità contro la quale combattono e che ha il pieno diritto di reprimere la ribellione. Tale diritto cede solo di fronte all’esercizio dell’autodeterminazione, della lotta contro la dominazione coloniale e l’occupazione straniera (Prot. I 1977, art. 1, co. 4); ma i conflitti che traggono origine da tali istanze sono ormai sottoposti alla disciplina dei conflitti armati internazionali (v. Conflitti armati). Comunque, l’art. 3 comune alle Conv. di Ginevra del 1949 non distingue fra le forze dell’autorità costituita e quelle dei ribelli, imponendo a entrambe l’osservanza degli obblighi da essa previsti (v. supra sez. 1).
La disciplina della condotta delle ostilità (combat law) nasce e si sviluppa attraverso la consuetudine e la codificazione del diritto dei conflitti armati internazionali. Essa si fonda su alcuni principi generali che sono alla base delle norme positive vigenti, oggi codificate dal Prot. I del 1977 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali e in parte riprese dal Prot. II del 1977 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali.
In ogni conflitto armato, la necessità militare costituisce la misura dell’esercizio della forza da parte dei belligeranti. Sotto questo profilo essa esplica un effetto di contenimento della violenza militare che può essere legittimamente esercitata e viene ad essere complementata dal principio di umanità (Green, L.C., The Contemporary Law of Armed Conflict, 3rd ed., Manchester, 2008, 151). Il diritto dei belligeranti di scegliere metodi e mezzi di guerra per nuocere all’avversario non è illimitato (art. 35, co. 1, Prot. I 1977); di conseguenza, è vietato causare sofferenze non necessarie (maux superflus/superfluous injury or unnecessary suffering) ai combattenti (art. 35, co. 2, Prot. I 1977); è inoltre vietato l’impiego di mezzi o metodi di guerra concepiti con lo scopo di provocare (o dai quali ci si può attendere che provochino) danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale (art. 35, co. 3, Prot. I 1977).
Altre norme ispirate dalla necessità militare nel suo aspetto proibitivo sono i divieti di perfidia (art. 37, co. 1, Prot. I 1977) e di condurre le ostilità senza quartiere (art. 40, Prot. I, 1977; art. 4, co.1, Prot. II 1977); la salvaguardia delle persone fuori combattimento (art. 41, co. 1, Prot. I 1977); la definizione di obiettivo militare in termini di vantaggio militare e di effettivo contributo fornito all’azione militare (art. 35, co. 2; art. 52, co. 2, Prot. I 1977).
Per converso, la necessità militare opera quale motivo di autorizzazione della violazione di determinati obblighi imposti dal DIU, ma, in tal caso, solo se e in quanto espressamente prevista dalle norme che li contemplano (Dinstein, Y., The Conduct of Hostilities under the Law of International Armed Conflict, 2nd ed., Cambridge, 2010, 6-8). Questo secondo aspetto emerge con evidenza in relazione al trattamento dovuto ai beni: nel “diritto dell’Aja” è infatti chiaramente prevista la possibilità di derogare al divieto di distruzione della proprietà nemica, quando ciò sia “imperativamente” imposto dalle necessità della guerra (Reg. Aia 1907, art. 23, lett. g). Numerose deroghe sono consentite a titolo di necessità militare “imperativa” anche dalle Conv. del 1949 e dal Prot. I del 1977. Negli ultimi decenni, tuttavia, lo sviluppo del DIU ha progressivamente valorizzato l’aspetto proibitivo della necessità militare, rispetto alla sua funzione di deroga agli obblighi dei belligeranti.
Nella condotta delle ostilità l’obbligo fondamentale delle parti di un conflitto armato è dirigere gli attacchi soltanto contro i combattenti e gli obiettivi militari, distinguendo da questi la popolazione, le persone e i beni civili che non devono essere oggetto di attacchi (Prot. I 1977, art. 48; Prot. II 1977, art. 13). Da tale obbligo generale discendono gli specifici divieti degli attacchi indiscriminati e delle rappresaglie contro le persone, i beni civili e le località non difese (Prot. I 1977, artt. 51, co. 4, 6, 52, co. 1, e 59, co. 1); il divieto di saccheggio (Regol. Aia 14.10.1907, art. 28 e Prot. II 1977, art. 4, co. 2, lett. g); il divieto di diffondere il terrore tra la popolazione civile (Prot. I 1977, artt. 51, co. 2 e Prot. II 1977, art. 13, co. 2); il divieto di far soffrire la fame alle persone civili distruggendo beni indispensabili alla sua sopravvivenza (Prot. I 1977, art. 54 e Prot. II 1977, art. 14); il divieto di attaccare dighe o centrali nucleari per la produzione di energia elettrica, la cui distruzione può causare gravi perdite alla popolazione civile (Prot. I 1977, art. 56 e Prot. II 1977, art. 15).
Le disposizioni summenzionate trovano applicazione anche alle operazioni marittime o aeree dirette contro obiettivi terrestri o che possano colpire su terra la popolazione civile, le persone civili e i beni di carattere civile (Prot. I 1977, art. 49, co. 3; Ronzitti, N., Diritto internazionale dei conflitti armati, 4a ed., Torino, 2011, 265, 286).
Fra i beni protetti si distinguono i beni culturali, oggetto di una disciplina sviluppatasi a partire dalla stipulazione della Conv. dell’Aja del 14.5.1954 e Reg. allegato. Tale normativa, che trova applicazione nei conflitti armati internazionali, si fonda sul rispetto dei beni culturali (Conv. 1954, art. 4) attraverso l’apposizione di un segno distintivo (Conv. 1954, artt. 16-17) e l’iscrizione dei beni posti sotto protezione speciale in un apposito registro internazionale tenuto a cura dell’UNESCO (Conv. 1954, art. 8, art. 12 Regt. 1954). Il Protocollo II del 26.3.1999 estende l’applicazione della Conv. ai conflitti interni (Prot. 1999, art. 22) istituendo altresì un ulteriore sistema di protezione rafforzata per i beni che costituiscono un patrimonio culturale della massima importanza per l’umanità e sono protetti da adeguate misure normative e amministrative nazionali (Prot. 1999, artt. 10-14).
Il principio che vieta l’impiego di mezzi di guerra indiscriminati o che arrechino sofferenze superflue ai combattenti si è tradotto in una serie di norme pattizie che hanno posto limiti o divieti all’uso e talora alla stessa produzione e al possesso di talune armi. Antesignano di tali sviluppi è il protocollo di Ginevra del 17.6.1925 sul divieto dell’impiego in guerra di gas asfissianti, tossici e di mezzi batteriologici. Tale divieto, che ha acquisito natura di diritto consuetudinario, vale oggi anche nei conflitti interni. Apposite convenzioni di disarmo hanno quindi vietato agli Stati parti lo sviluppo, la produzione, il possesso e il trasferimento delle armi biologiche imponendone altresì la distruzione (Conv. di Londra, Mosca e Washington del 10.4.1972) e delle armi chimiche (Conv. di Parigi del 10.1.1993). La Conv. di Ginevra del 10.10.1980 sulle armi classiche è invece un accordo quadro di DIU, integrato da una serie di Protocolli che vietano o pongono restrizioni all’uso di talune armi che possono causare effetti traumatici eccessivi o colpire in modo indiscriminato combattenti e civili, quali schegge non localizzabili, mine, trappole e dispositivi analoghi, armi incendiarie e armi laser accecanti. Più di recente, due Conv. che combinano la disciplina di DIU con gli obblighi di disarmo hanno vietato agli Stati parti sia l’impiego in qualsiasi circostanza, sia lo sviluppo, la produzione, il possesso e il trasferimento delle mine antipersona (Conv. di Ottawa del 18.9.1997) e delle munizioni a grappolo (Conv. di Dublino del 30.5.2008). Si tratta tuttavia di convenzioni che, sebbene abbiano conseguito ampia partecipazione, non hanno però raggiunto l’universalità.
Un discorso a parte meritano le armi nucleari. La Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto che l’uso delle armi nucleari, a causa delle loro caratteristiche peculiari, è poco conciliabile con i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario. Tuttavia, essa ha ritenuto di non disporre di elementi sufficienti per poter concludere con certezza che l’impiego delle armi nucleari sarebbe necessariamente contrario ai principi e alle regole applicabili nei conflitti armati in ogni circostanza. Secondo la Corte, data l’ampia portata delle regole del DIU che disciplinano l’impiego dei mezzi e metodi di combattimento, nonché la necessità di valutarne l’applicabilità in ogni singola circostanza, la determinazione della liceità o meno dell’uso delle armi nucleari può essere effettuata solo in relazione a ciascun eventuale caso specifico (parere consultivo sulla legittimità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari, 8.7.1996, p. 262-263, par. 95).
Le norme sulla protezione delle vittime dei conflitti armati costituiscono il cuore del DIU, sin dalla prima Convenzione di Ginevra del 22.8.1864 sul miglioramento delle condizioni dei feriti negli eserciti in campagna. Il principio generale che le ispira impone, in ogni circostanza, un trattamento umano delle persone che subiscono le conseguenze delle ostilità, alleviandone e, ove possibile, prevenendone le sofferenze senza alcuna discriminazione di carattere sfavorevole.
Il rispetto e la protezione dei feriti, malati e naufraghi nei conflitti armati internazionali e interni impone di ricercarli e raccoglierli per prestare loro soccorso e garantire le cure mediche richieste dalle loro condizioni (Conv. I 1949, artt. 12, 15; Conv. II 1949, artt. 12, 18; Prot. II 1977, artt. 7-8). Sono vietati nei loro confronti esperimenti biologici o scientifici e qualsiasi trattamento non motivato da ragioni mediche. Le relative disposizioni conferiscono ai singoli diritti soggettivi irrinunciabili (Conv. I e II 1949, art. 7).
La protezione dei feriti, malati e naufraghi si riverbera sui soggetti incaricati della loro assistenza, ovvero il personale sanitario, medico e infermieristico, e sulla tutela degli edifici, dei trasporti e del materiale sanitario. Questi devono essere rispettati nello svolgimento delle loro funzioni e non devono essere oggetto di attacchi né di rappresaglie (Conv. I 1949, artt. 19-36; Conv. II 1949, artt. 22-39; Prot. II 1977, artt. 9-11).
Alla condizione e al trattamento dei prigionieri di guerra (PG) è dedicata l’intera Convenzione III di Ginevra del 1949. Si tratta di un settore del DIU che non trova applicazione nei conflitti interni, nei quali non vige la regola della parità dei belligeranti che caratterizza invece i conflitti armati internazionali (Prot. I 1977, preambolo ult. par.; supra 3.1).
Lo status di PG dipende dalla qualifica di legittimo combattente, i cui requisiti sono stati dapprima stabiliti dal Reg. dell’Aja del 1907 (art. 1), quindi dalla Conv. III del 1949 (art. 4), infine dal Prot. I del 1977 (art. 44, co. 3) ampliandone progressivamente la nozione sino ad includervi i combattenti delle guerre di liberazione nazionale. Il principio generale su cui sono fondati la condizione e il trattamento dei PG stabilisce che essi non sono in potere degli individui o delle unità che li hanno catturati, bensì dello Stato cattore (Potenza detentrice) che ne ha la piena responsabilità (Conv. III 1949, art. 12). In caso di dubbio, la qualifica di legittimi combattenti deve essere determinata da un’istanza giudiziaria competente (Conv. III 1949, art. 5). Non hanno diritto allo status di PG le spie e i mercenari (Prot. I 1977, artt. 46, 47).
Nel corso della prigionia il trattamento dei PG è dettato dal principio di umanità, che si esprime in norme fondamentali in parte analoghe a quelle sui feriti, malati e naufraghi (divieto di esperimenti biologici o scientifici, di trattamenti non motivati da ragioni mediche, irrinunciabilità dei diritti: artt. 7, 13 Conv. III 1949). Nel corso della prigionia essi hanno diritto all’assistenza e alle relazioni con l’esterno; potranno essere impiegati come lavoratori, purché non per lavori malsani, pericolosi o umilianti (artt. 21-77, Conv. III 1949). In quanto soggetti alla legislazione della Potenza detentrice, i reati commessi dai PG saranno di norma giudicati dai suoi tribunali militari, con le necessarie garanzie processuali (artt. 82-108, Conv. III 1949).
I PG gravemente feriti o malati dovranno essere rimpatriati nel loro paese nel corso delle ostilità, in base alla valutazione di commissioni sanitarie miste designate dai belligeranti (artt. 109-117, Conv. III 1949). Tutti gli altri dovranno essere rimpatriati immediatamente dopo la fine delle ostilità attive (artt. 118-119, Conv. III 1949). Questa disposizione ha sollevato difficoltà di applicazione nella prassi, e attualmente è interpretata nel senso di non rimpatriare un PG contro la sua volontà (Shields Delessert, C., Release and repatriation of prisoners of war at the end of active hostilities, Genève, 1977, 199-209).
Al principio di umanità si ricollegano anche le norme sulla protezione dei civili contenute nella Conv. IV del 1949 e nei due Prot. del 1977, che si applicano sia alle popolazioni delle parti in conflitto, sia ai rifugiati e agli apolidi che si trovano sul loro territorio e comprendono le garanzie fondamentali di tutela della vita, della dignità e del benessere fisico e psichico delle persone, incluse le garanzie giudiziarie (Prot. I 1997, art. 75; Prot. II 1977, artt. 4, 6). Nei conflitti armati internazionali i belligeranti hanno il diritto di internare i cittadini nemici; le condizioni dell’internamento sono regolate da dettagliate disposizioni modellate su quelle che regolano il trattamento dei prigionieri di guerra (Conv. IV 1949, artt. 79-141). Misure particolari sono previste a vantaggio delle categorie più vulnerabili (bambini, persone anziane, donne: Conv. IV 1949, art. 14; Prot. I 1977, artt. 76-78). Le parti in conflitto sono tenute ad adottare tutte le misure praticamente possibili affinché i bambini al di sotto del 15 anni non partecipino direttamente alle ostilità (Prot. I 1977, art. 77, co. 2; Prot. II 1977, art. 4, co. 3, lett. c). Il limite è innalzato a 18 anni dal Protocollo facoltativo alla Convenzione relativa ai diritti del fanciullo concernente il coinvolgimento dei fanciulli nei conflitti armati (art. 1).
Particolare importanza rivestono le disposizioni convenzionali sulle azioni di soccorso a favore della popolazione civile in carenza di risorse essenziali. Le parti in conflitto si impegnano a non considerare come ingerenza nel conflitto armato o come atti ostili le offerte di soccorso di carattere umanitario e ad autorizzare e facilitare il passaggio degli aiuti umanitari, che dovranno essere distribuiti senza distinzioni sfavorevoli ma dando priorità alle persone più vulnerabili (Conv. IV 1949, artt. 108-111; Prot. I 1977, artt. 70-71; Prot. II 1977, art. 18).
Una speciale disciplina è riservata all’occupazione bellica nei conflitti armati internazionali. L’istituto, già regolato dal Reg. dell’Aia del 1907, è stato considerevolmente sviluppato dalla Conv. IV del 1949 e dal Prot. I del 1977.
Il principio fondamentale della codificazione dell’Aia prevede il mantenimento, per quanto possibile, delle istituzioni e delle leggi dello Stato occupato nel territorio posto sotto il controllo del belligerante avversario, il quale ha il diritto di esercitarvi l’autorità e di appropriarsi dei beni pubblici, ma non di confiscare la proprietà privata (Reg. Aia 1906, artt. 42-56). La prassi recente è però orientata nel senso di ammettere la trasformazione dell’ordinamento dello stato occupato al fine di consentire l’esercizio dei diritti democratici da parte dei cittadini sottoposti a un regime autoritario (Annoni, A., L’occupazione "ostile" nel diritto internazionale contemporaneo, Torino, 2012, 279-286).
La normativa di Ginevra pone piuttosto l’accento sul trattamento della popolazione nel territorio occupato. Sono così vietati i trasferimenti forzati e le deportazioni, in massa o individuali, di persone protette fuori dal territorio occupato, ma anche il trasferimento o la deportazione di parte della popolazione civile dello Stato occupante nel territorio occupato (Conv. IV 1949, art. 49); la Potenza occupante è tenuta a facilitare le azioni di soccorso (Conv. IV 1949, artt. 59-62; Prot. I 1977, art. 69), a salvaguardare gli organismi di protezione civile (Prot. I 1977, art. 63), a rispettare le garanzie giudiziarie nei processi penali (Conv. IV 1949, artt. 65-77).
Le Conv. e il Prot. I di Ginevra affidano la funzione di garanzia dell’applicazione del DIU (rectius, delle norme convenzionali) nei conflitti armati internazionali al tradizionale sistema delle Potenze protettrici, che nel diritto consuetudinario ha come scopo la tutela degli interessi dei belligeranti in tempo di guerra. Il sistema trova applicazione anche relativamente alla protezione dei beni culturali. La Potenza protettrice è un paese neutrale designato all’inizio del conflitto da parte di ciascun belligerante e accettato in tale funzione da parte del belligerante avversario. Secondo le Conv. del 1949 ad esse spetta il controllo sull’applicazione della normativa umanitaria, da esercitare attraverso delegati che devono ottenere il gradimento del belligerante presso il quale svolgeranno i loro compiti (Conv. I, II e III 1949, art. 8; Conv. IV, art. 9). Le parti in conflitto si impegnano a rispettare e a favorire l’esercizio delle prerogative dei delegati delle Potenze protettrici, che comportano l’accesso di questi ai prigionieri di guerra, agli internati civili, all’inoltro dei soccorsi umanitari. Nonostante la designazione delle Potenze protettrici sia oggetto di un preciso obbligo ai sensi del Prot. I 1977 (art. 5), la sua attivazione formale presenta difficoltà ed è rara nella prassi. Si è imposto pertanto il sistema alternativo che prevede l’azione del Comitato internazionale della Croce Rossa (infra 7.2).
Del tutto inutilizzato è poi il meccanismo della Commissione internazionale di accertamento dei fatti predisposto dall’art. 90 del pro. I 1977. Tale organo è composto da quindici membri individuali e può esercitare poteri d’inchiesta e di conciliazione nei confronti degli Stati che ne accettino la competenza. Nonostante sia regolarmente formata e più di 70 Stati ne abbiano riconosciuto la competenza, la Commissione non è mai stata richiesta di intervenire in un conflitto occorso dopo la sua costituzione.
In assenza di una Potenza protettrice il suo compito può essere svolto, in qualità di sostituto, da qualsiasi ente umanitario imparziale, come il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR), che fornisca le necessarie garanzie di efficacia (Conv. I, II e III 1949 art. 10, Conv. IV art. 11). Di fatto il CICR, che è altresì indicato dall’art. 3 comune alle Conv. del 1949, svolge normalmente i compiti umanitari sia nei conflitti armati internazionali, sia nei conflitti armati non internazionali. Si tratta di un’associazione non governativa di diritto svizzero che opera in collegamento con le Società nazionali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa presenti negli Stati parti delle Conv. del 1949. Il CICR stipula con gli Stati accordi di sede, designa i propri delegati e secondo l’opinione corrente gode di soggettività internazionale funzionale (Sanna, S., La testimonianza dei delegati del Comitato internazionale della Croce Rossa davanti ai Tribunali penali internazionali, in Riv. dir. int., 2001, 393-419).
La protezione del personale del CICR e delle società nazionali è assicurata dall’emblema (Croce Rossa, Mezzaluna Rossa o Cristallo Rosso) che contraddistingue altresì le formazioni, gli stabilimenti, gli aeromobili sanitari e le navi ospedale. Ogni attacco nei loro confronti è vietato e l’abuso di essi costituisce perfidia.
Poiché le violazioni del DIU sono commesse in prevalenza (anche se non esclusivamente) da organi statali, esse sono imputabili sia allo Stato, sia agli autori individuali. Sotto il primo profilo la Conv. dell’Aja del 18.10.1907 (art. 3), le Conv. di Ginevra (Conv. I, art. 51; Conv. II, art. 52; Conv. III, art. 131; Conv. 4, art 148) e il Prot. I 1977 (art. 91) stabiliscono la responsabilità internazionale degli Stati per tutti gli atti commessi da persone appartenenti alle forze armate. Da tale attribuzione, tuttavia, non deriva un obbligo di riparazione, bensì l’eventuale corresponsione di un’indennità. Nella prassi, i danni di guerra sono stati generalmente regolati in base all’esito del conflitto anziché alle violazioni compiute dall’uno o dall’altro belligerante. Solo di recente si sono verificati casi in cui uno Stato ha dovuto risarcire i danni per le violazioni del DIU compiute dalle sue forze armate nel corso del conflitto (Commissione delle Nazioni Unite per le Compensazioni, istituita nel 1991 dal Consiglio di sicurezza per il risarcimento dei danni derivanti dall’invasione e occupazione del Kuwait da parte dell’Iraq; Commissione dei reclami Eritrea-Etiopia, istituita in base ad accordo arbitrale nel 2000 per decidere sul risarcimento dei danni derivanti dalle violazioni del DIU nel corso della guerra fra Eritrea e Etiopia del 1998-2000).
La qualità di organi statali non esime i membri delle forze armate che abbiano compiuto violazioni del DIU dal rispondere personalmente, davanti ai tribunali del proprio paese o a quelli dello Stato che li abbia in suo potere. La normativa di Ginevra ha inteso rafforzare e estendere il campo di applicazione di questo principio, stabilendo l’obbligo di tutti gli Stati parti di ricercare, perseguire o estradare le persone accusate di avere commesso, o dato ordine di commettere le violazioni denominate “infrazioni gravi”, che sono nominativamente elencate dalle Conv. e dal Prot. I 1977 (Conv. I, artt. 49-50; Conv. II, art. 50-51; Conv. III, artt. 129-130; Conv. IV, artt. 146-147; Prot. I 1977, art. 85, co. 1-2) secondo il criterio della giurisdizione penale universale. La prassi statale è peraltro scarsa e ciò spiega la costituzione di tribunali penali internazionali per la repressione delle violazioni compiute nei conflitti armati più recenti, internazionali e interni (v. Tribunali penali internazionali).
Convenzione (IV) relativa alle leggi e agli usi della guerra terrestre e Regolamento allegato (L’Aja, 18.10.1907)
Convenzione (I) per il miglioramento della condizione dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; Convenzione (II) per il miglioramento della condizione dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate sul mare; Convenzione (III) relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; Convenzione (IV) relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra (Ginevra, 12.8.1949)
Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, Regolamento di esecuzione e Protocollo (I) relativo alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (L’Aja, 14.5.1954); Protocollo (II) relativo alla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato (L’Aja, 26.3.1999)
Protocollo (I) sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, aggiuntivo alle Convenzioni del 12.8.1949 (Ginevra, 8.6.1977)
Protocollo (II) sulla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, aggiuntivo alle Convenzioni del 12.8.1949 (Ginevra, 8.6.1977)
Protocollo (III) sull’adozione di un emblema distintivo addizionale, aggiuntivo alle Convenzioni del 12.8.1949 (Ginevra, 8.12.2005)
Protocollo facoltativo alla Convenzione relativa ai diritti del fanciullo concernente il coinvolgimento dei fanciulli nei conflitti armati (New York, 25.5.2000)
Protocollo relativo al divieto d’impiego in guerra di gas asfissianti, tossici o similari e di mezzi batteriologici (Ginevra, 17.6.1925)
Convenzione sul divieto dello sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche (biologiche) o a base di tossine e sulla loro distruzione (Londra, Mosca e Washington, 10.4.1972)
Convenzione sul divieto o la limitazione dell’impiego di talune armi classiche che possono essere ritenute capaci di causare effetti traumatici eccessivi o di colpire in modo indiscriminato, Protocollo (I) relativo alle schegge non localizzabili, Protocollo (II) sul divieto o la limitazione dell’impiego di mine, trappole e altri dispositivi; Protocollo (III) sul divieto o la limitazione dell’uso di armi incendiarie (Ginevra, 10.10.1980); Protocollo (IV) relativo alle armi laser accecanti (Ginevra, 13.10.1995); Protocollo (II) sul divieto o la limitazione dell’impiego di mine, trappole ed altri dispositivi (come modificato il 3.5.1996); Emendamento all’articolo 1 (21.12.2001)
Convenzione sul divieto di sviluppo, produzione, stoccaggio e impiego di armi chimiche e sulla loro distruzione (Parigi, 13.1.1993)
Convenzione sul divieto d’impiego, stoccaggio, produzione e trasferimento di mine antipersona e sulla loro distruzione (Oslo, 18.9.1997)
Convenzione sulle munizioni a grappolo (Dublino, 30.5.2008)
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