Abstract
Il diritto internazionale, cioè l’ordinamento della comunità internazionale, rivela le sue caratteristiche strutturali attraverso i principi relativi ai soggetti, alle fonti, ai modi di regolamento delle controversie, ai mezzi per assicurare l’osservanza delle norme.
È un dato dell’esperienza che esistono gli Stati sovrani, enti “supremi” (che non si considerano cioè sottoposti gerarchicamente ad altri enti) strutturati in apparati complessi di governo che ordinano e regolano la vita sociale di comunità individuali ponendo ed imponendo l’applicazione di corpi di regole giuridiche volte a tale scopo: gli ordinamenti interni. È ugualmente un dato dell’esperienza che, lungi dal vivere in isolamento, chiusi in se stessi, i vari Stati entrano in relazione tra loro in modo non sporadico ed accidentale, ma continuo anzi sistematico. Si può dunque dire che gli Stati formano una società che, come ogni società umana, necessita, postula e si dà regole volte a disciplinare i rapporti sociali, ad ordinare la coesistenza e la cooperazione tra i membri della società in questione. Una società dai caratteri singolari, cioè di “coordinazione” e non di “subordinazione”, dato che vi mancano strutture sovraordinate dotate di imperio nei confronti dei “soci” (i quali sono e restano Stati sovrani), salvo s’intende se questi decidono volontariamente (sovranamente) di istituirle e di sottoporvisi. Come si sa, il nome che si dà correntemente a tale società è “comunità (o società) internazionale”, e “diritto internazionale” quello riservato all’insieme delle regole volte ad ordinarne le relazioni.
Non si colgono gli elementi strutturali della società internazionale e del suo diritto se si trascurano le caratteristiche basilari degli enti che ne sono alla base, la compongono e la foggiano. Dire che si tratta della società degli Stati sovrani equivale a constatare che questa società si realizza ed articola in funzione degli Stati, cioè di entità che negherebbero la loro stessa essenza se si riconoscessero assoggettate ad un ente superiore, portatore di imperio nei loro confronti. Ed è ovvio che, mancando strutture sovraordinate rispetto agli Stati, tutte le funzioni essenziali dell’ordinamento in questione si incentrino sugli Stati stessi. Sono gli Stati, in effetti, che creano le norme internazionali in modi e attraverso processi diversi di cui si parlerà tra breve: in altre parole, si può dire che di tale diritto gli Stati sono al tempo stesso i legislatori ed i destinatari principali. Quanto poi agli altri destinatari delle regole internazionali diversi dagli Stati, sono gli Stati stessi che li identificano in una logica autoritativa, quando – come avviene per le organizzazioni internazionali – non li creano addirittura, come soggetti giuridici internazionali, ex nihilo. Insomma, se gli Stati non sono certo i soli soggetti del diritto internazionale destinatari delle sue norme, sicuramente ne sono quelli principali e fondamentali, dato che si collocano al sommo del sistema (o, se si preferisce, alla sua base), e che da loro dipendono ed a loro si riportano tutte le funzioni essenziali di questo.
L’assenza nella comunità internazionale di una organizzazione centralizzata del tipo di quella esistente negli ordinamenti statali non è dunque una deficienza o un difetto: è la conseguenza necessaria della sua composizione sociale. Insomma, il diritto internazionale svolge la funzione propria di qualunque diritto (quella di regolare la coesistenza e la cooperazione tra soggetti) mediante un insieme di processi – cioè mediante una “organizzazione” – diversi da quelli dei diritti statali: ma diversi proprio nella misura necessaria perché l’organizzazione degli ordinamenti statali e quella dell’ordinamento internazionale siano compatibili e possano coesistere.
Società di pari, società di coordinazione e non di subordinazione, la comunità internazionale non dispone dunque di alcuna autorità superiore agli Stati, dotata cioè del potere di costringere questi al rispetto delle regole che essi stessi si sono date. In assenza di autorità istituzionale (cioè di istituzionalizzazione) la comunità internazionale deve necessariamente confidare, in sostanza, da una parte nella osservanza spontanea delle regole da parte dei suoi membri e, dall’altra, nella reazione di chi è stato leso dal comportamento altrui, o ancora nella reazione collettiva di coloro che sono vincolati da legami di solidarietà con la vittima. È un eufemismo dire che i risultati spesso non sono eccellenti. Si sa bene peraltro che anche negli ordinamenti interni degli Stati, pur istituzionalizzati, dotati cioè di strutture organizzative portatrici di imperio nei confronti degli individui, non si può affatto dire che le regole siano sempre rispettate e le loro violazioni sempre sanzionate. Il fatto è che qualunque ordinamento giuridico necessita, per poter funzionare in modo soddisfacente, di essere sostenuto da un largo consenso sociale, in assenza del quale esso entra inevitabilmente in crisi. E questo è vero tanto per i diritti interni che per il diritto internazionale: la loro rispettiva organizzazione gioca in proposito un ruolo tutto sommato complementare e di sostegno.
Come avviene per gli altri ordinamenti, il diritto internazionale rivela le sue caratteristiche fondamentali attraverso i principi relativi ai soggetti, ai modi di creazione delle regole, ai mezzi di soluzione delle controversie, ai modi per assicurare l’osservanza delle norme. Tutti questi principi non possono ovviamente non essere in armonia col dato della non istituzionalizzazione.
Soggetti primari del diritto internazionale sono dunque gli Stati: le sue norme (che dagli Stati promanano) si rivolgono anzitutto ad essi stessi, stabilendo in capo a loro diritti, obblighi, poteri, facoltà, etc. La capacità di queste norme di indirizzarsi agli Stati non dipende da un potere superiore ad essi, il quale determini in una logica d’autorità chi ne sono i destinatari: potere che – come sappiamo – non esiste. A differenza dei diritti interni, nei quali il potere da cui promanano le norme giuridiche si esprime anche nel senso di imporre e garantire la soggettività giuridica agli enti cui si indirizza, in diritto internazionale l’assenza di un centro di potere superiore ai soggetti di base che sia dotato della capacità di imporre la soggettività impedisce di concepire che si possa produrre uno iato tra la realtà delle relazioni internazionali ed il diritto che le governa. È questo il c.d. “principio di effettività”, pietra angolare del sistema. Lo si può esprimere attraverso la constatazione che il diritto internazionale non crea i suoi soggetti di base, non ne determina la soggettività: esso non regola né impone i requisiti, le modalità o le procedure per acquisire la qualità di soggetti, ma si limita a – per così dire – inclinarsi davanti alla realtà, cioè a prendere atto dell’esistenza fattuale e storica di quegli attori delle relazioni internazionali che sono gli Stati. In altre parole, il processo di formazione (o di estinzione) degli Stati non è oggetto di una regolamentazione giuridica internazionale: lo Stato si forma, si trasforma o si estingue nella realtà sociale, e da quando e fin quando esiste effettivamente come Stato si trova ad essere titolare di diritti ed obblighi stabiliti da norme dell’ordinamento internazionale.
La presa d’atto dell’esistenza effettiva di uno Stato (e quindi della sua qualità di soggetto di diritto internazionale) è effettuata dagli altri Stati mediante il riconoscimento. Allorché un nuovo Stato si forma, esso si industria per ottenere il riconoscimento da parte degli Stati preesistenti, e questi ultimi si astengono di norma dall’avere con quello rapporti regolari fin quando non l’hanno riconosciuto. Si è tuttavia concordi oggi nel ritenere che la soggettività internazionale degli Stati non dipenda dal loro riconoscimento, ma che questo abbia valore dichiarativo ed essenzialmente politico: chi lo dà dichiara, da una parte, di riconoscere l’altro Stato come effettivamente esistente in qualità di Stato sovrano e, dall’altra, che intende mantenere con lui appropriate relazioni internazionali.
Dare per scontato che la comunità internazionale è costituita dagli Stati sovrani, i quali ne sono i principali soggetti, può sembrare a prima vista non solo approssimativo, ma addirittura totalmente inesatto. È evidente, in effetti, che la comunità internazionale appare oggi molto più complessa che in altre epoche, dal punto della sua composizione. Certo, gli Stati continuano ad occupare la posizione centrale, ma numerose sono le entità presenti ed agenti accanto ad essi nel medesimo ambiente sociale, nonchè gli esseri e le formazioni sociali che, per così dire, premono per penetrarvi se non l’hanno già fatto. Insomma la presenza e la proliferazione di attori internazionali ulteriori, rispetto agli Stati, si iscrive in una linea di tendenza innegabile, che contraddistingue la comunità internazionale di oggi.
Le organizzazioni internazionali anzitutto. In un mondo in cui appare impossibile risolvere i grandi problemi sociali a livello esclusivamente nazionale, nel quale l’interdipendenza è un fatto acquisito, gli Stati si trovano sempre più obbligati alla cooperazione internazionale per cercare di ottenere per tale via risultati non raggiungibili attraverso l’azione individuale di ognuno di essi. Le organizzazioni internazionali sono per l’appunto il più sofisticato degli strumenti di cooperazione internazionale che siano stati inventati: mediante accordi tra loro, due o più Stati creano strutture organiche apposite – cioè apparati istituzionali – cui affidano l’incarico di perseguire l’interesse comune mediante una azione unitaria in un settore dato, attribuendo ad ognuna di queste organizzazioni le competenze ed i mezzi giudicati necessari.
Ovviamente – è appena il caso di sottolinearlo – tutte le organizzazioni internazionali sono e restano “creature” degli Stati, cioè enti da essi voluti, edificati e disciplinati come strumenti di cooperazione tra di loro: l’atto istitutivo di ognuna di queste è sempre un accordo internazionale, frutto della volontà sovrana degli Stati che le danno vita dotandola di organi, determinandone funzioni, competenze e poteri. Se tra i poteri di cui tale o tal’altra organizzazione dispone c’è quello di emanare atti vincolanti per gli Stati (o anche per individui), dunque, è perché è nei limiti in cui i suoi creatori lo hanno stabilito e si sono impegnati in anticipo a rispettarli (o, se del caso, a consentirne l’efficacia nei confronti degli individui). Se questa o quella organizzazione è abilitata a concludere accordi con enti congeneri o con Stati, è perché il trattato istitutivo lo ha esplicitamente o implicitamente previsto. Insomma, se pure può essere riconosciuto che le organizzazioni sono da considerare soggetti di diritto internazionale, va anche sottolineato che esse non si collocano gerarchicamente al di sopra degli Stati, dato che sono appunto gli Stati che le hanno create e le sostengono come strumenti di cooperazione tra loro.
Le organizzazioni internazionali caratterizzano la società internazionale contemporanea: esse sono oggi di gran lunga più numerose degli Stati e le loro attività e competenze investono ormai la totalità degli ambiti coperti dalle relazioni internazionali. Si può dunque affermare che la comunità internazionale odierna è “organizzata”, ma ciò nel senso limitato che le organizzazioni costituiscono una presenza estremamente importante ed influente nello svolgersi delle relazioni internazionali: queste sarebbero ormai inconcepibili senza di loro. A livello “universale” l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), con il suo vasto apparato organico, e gli Istituti specializzati facenti parte della c.d. “famiglia delle Nazioni Unite” (come l’UNESCO, l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO), l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRD), e così via), ai quali va aggiunta l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), formano un quadro permanente di cooperazione planetaria. A livello regionale (o sub-regionale) gli Stati si raggruppano sempre di più in organizzazioni numerosissime, perseguenti interessi comuni di carattere più o meno specifico e dotate di poteri talvolta assai ampi e penetranti (come è il caso per l’Unione Europea, o UE). Ma va ribadito che la straordinaria proliferazione delle organizzazioni internazionali non ha modificato quanto all’essenza la comunità internazionale che, pur essendo divenuta enormemente più articolata di prima, resta una società non istituzionalizzata di cui gli Stati sovrani continuano ad essere i soggetti di base sui quali si incentrano le funzioni essenziali dell’ordinamento.
Può o no dirsi che, oltre agli Stati ed alle organizzazioni internazionali, anche gli individui debbano ricomprendersi tra i soggetti di diritto internazionale? È questo un quesito al quale si deve senza dubbio dare oggi una risposta positiva, e ciò malgrado resti innegabile che gli Stati sovrani sono, oltre che i legislatori del diritto internazionale, anche i suoi principali destinatari. In effetti, nulla vieta agli Stati stessi di porre norme che, in una logica autoritativa, facciano degli individui dei soggetti internazionali, per il fatto di imporre loro obblighi e di stabilire diritti in loro favore, nonché di approntare meccanismi internazionali aperti agli individui stessi mediante i quali può essere data attuazione ai diritti ed obblighi in questione. Occorrenze di questo genere si verificano sempre di più in vari settori, iscrivendosi in una linea di tendenza che caratterizza il diritto internazionale odierno. Cosi, ad esempio, in materia di diritti umani si sono venuti affermando strumenti internazionali che impongono agli Stati l’obbligo di rispettare e garantire diritti e libertà fondamentali di individui, conferendo peraltro agli stessi individui il diritto di azione dinanzi ad organi internazionali (in alcuni casi veri e propri giudici, come la Corte Europea dei diritti dell’uomo, creata con la Convenzione Europea del 1950) per reagire contro le violazioni subite ed ottenerne la sanzione. Riguardo al versante degli obblighi, vi sono ad esempio norme volte alla punizione di crimini di individui che configurano la responsabilità penale internazionale dei relativi autori e istituiscono apparati giudiziari di repressione operanti a livello internazionale (come la Corte Penale Internazionale, creata con lo Statuto di Roma del 1998, competente in materia di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità).
Non si deve tuttavia credere che qualsiasi norma internazionale volta a proteggere interessi individuali implichi che gli individui in questione vanno considerati soggetti di diritto internazionale: al contrario. In effetti la maggior parte delle numerosissime norme di tale tipo creano in realtà rapporti giuridici tra Stati soltanto: gli Stati, cioè, assumono l’obbligo internazionale di accordare (o imporre) in diritto interno agli individui a loro sottoposti il trattamento previsto, accettando che siano gli altri Stati vincolati da tali norme (e non gli individui interessati) a poter far valere sul piano internazionale il diritto di pretenderlo. Va anzi sottolineato che è proprio questo l’approccio non solo tradizionale, ma ancora di gran lunga prevalente: le ipotesi segnalate prima, in forza delle quali l’individuo va considerato titolare di diritti ed obblighi propriamente internazionali da far valere direttamente a livello internazionale, rappresentano tutt’ora eccezioni rispetto alla regola.
Si è già detto che gli Stati sono (oltre che i principali destinatari) i legislatori del diritto internazionale, che essi creano in modi e attraverso processi di produzione giuridica diversi i quali non prendono appoggio su alcun potere eteronomo rispetto agli Stati stessi. Fondamentalmente, le norme di diritto internazionale nascono da accordi e consuetudini.
L’accordo (o trattato, convenzione, patto, etc.) è un atto, frutto di un concorso di volontà, col quale due o più Stati si impegnano tra loro a fare o non fare qualcosa, ad agire o non agire in dati modi. Le clausole dell’accordo, cioè le sue disposizioni, generano dunque diritti ed obblighi concernenti le parti nei loro rapporti, e non producono effetti nei confronti degli Stati terzi. Gli accordi internazionali, anche a considerarli nel loro insieme, non forniscono certo regole atte a disciplinare la totalità delle relazioni internazionali. Del resto, l’accordo internazionale è lui stesso un atto di relazione internazionale che necessita di una regolamentazione giuridica atta a disciplinarne la formazione, gli effetti, la durata nel tempo, l’estinzione, e così via. Insomma, le relazioni internazionali richiedono e presuppongono la presenza di regole che leghino tutti gli Stati: le norme di diritto internazionale generale. A queste gli accordi (configurabili come diritto speciale) potranno se del caso apportare deroghe, ma beninteso esclusivamente nei rapporti tra gli Stati parti e facendo comunque salve quelle a carattere inderogabile (il c.d. jus cogens).
Ovviamente, il diritto internazionale generale (ivi comprese le sue norme cogenti) non può che promanare anch’esso dagli Stati, dato che non è configurabile nella società internazionale un potere legislativo cui gli Stati siano sottoposti. Si tratta in effetti di norme a carattere consuetudinario, che si formano cioè attraverso un processo di sedimentazione sociale: esse possono essere considerate esistenti quando i membri della società in questione nel loro insieme le riconoscono in vigore e conformano ad esse la loro azione. Classica è la concezione cosiddetta “binaria” della consuetudine internazionale, secondo cui essa andrebbe rilevata mediante la verifica della congiunta presenza di due elementi: la prassi costante degli Stati (repetitio facti, o diuturnitas) e l’opinio iuris ac necessitatis, cioè la loro convinzione di avere l’obbligo giuridico (o il diritto soggettivo) di agire in un dato modo. Va osservato peraltro che accertare la vigenza di una norma consuetudinaria non significa altro che provarne l’esistenza – come norma, appunto, che regola comportamenti ed attività dei soggetti – nella comunità che interessa, cioè verificarne l’effettiva presa sociale. Ora, un simile accertamento non può non farsi per via induttiva. Quando ci si riferisce alla opinio iuris e alla repetitio facti, in realtà, non si fa altro che spiegare a mezzo di formule sapienti – ma approssimative e puramente indicative – che cosa vuol dire « induzione » : si tratta della raccolta di prove idonee e sufficienti a dimostrare l’effettiva presa sociale della norma in questione.
Quanto appena rilevato è pertinente pure con riguardo alle norme imperative di diritto internazionale generale, dato che anch’esse hanno carattere consuetudinario. Il fatto che non possano essere derogate dai trattati non implica dunque in nessun modo che vadano concepite come imposte agli Stati da un potere ad essi superiore: come recita l’articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969, in effetti, i principi di jus cogens in tanto possono essere considerati sussistenti in quanto si rilevi che sono “accettati e riconosciuti” come tali dalla comunità internazionale degli Stati nel suo insieme. Il loro accertamento va dunque condotto per la via induttiva che è congrua con riguardo a tutte le norme di diritto internazionale generale, essendo inteso che in questo caso v’è da verificare (sempre induttivamente) che risultino accettate e riconosciute come norme “alle quali non è consentita alcuna deroga”.
Vi sono, oltre alle consuetudini ed ai trattati (tra Stati, tra organizzazioni internazionali, o ancora tra gli uni e le altre), modi ulteriori di produzione di norme internazionali? La risposta, indubbiamente positiva, va soprattutto cercata con riferimento all’enorme sviluppo delle organizzazioni internazionali, sofisticati strumenti di cooperazione tra Stati sempre più necessari ed utilizzati nell’epoca presente.
Debbono anzitutto essere segnalati in proposito quelli che possono denominarsi i “diritti interni delle organizzazioni internazionali”, configurabili come ordinamenti “derivati”, costituiti dalle disposizioni pertinenti dei vari trattati istitutivi nonché dalle regole e dalle prassi normative poste in essere (secondo quanto prevedono e/o consentono i trattati in questione) dagli organi delle stesse, il cui fine è di renderne possibile, soddisfacente e produttivo il funzionamento. Ma vanno soprattutto citati i casi, non frequentissimi peraltro, in cui organi di date organizzazioni internazionali sono abilitati ad emanare regole, o più in generale atti, che generano obblighi per gli Stati membri (e per altri soggetti, se del caso). È specialmente con riguardo a queste tipologie di situazioni che si parla da parte di taluno di “international legislation”. Tuttavia, se può essere comodo impiegare per breviloquio una simile terminologia, non si deve mancare di notare quanto essa sia approssimativa, anzi inesatta: se l’atto di cui si parla è fonte di norme vincolanti per gli Stati o per altri destinatari), ciò dipende interamente dalla circostanza che l’organo “legiferante” trae il potere di adottarlo dal trattato istitutivo dell’organizzazione, cioè da principi pattizi che gli Stati membri hanno sovranamente deciso di adottare impegnandosi a rispettarli. In tutte queste ipotesi si può senza dubbio constatare che, se l’accordo internazionale tra Stati non è la fonte diretta delle norme, ne è tuttavia la fonte indiretta, visto che il potere da cui promanano è stato istituito mediante l’accordo ed è da esso regolato.
La consuetudine prospera e svolge in modo soddisfacente il suo ruolo ordinamentale in ambienti sociali omogenei dal punto di vista dei valori, degli interessi, degli assetti economici e politici, etc. Se l’omogeneità si rompe, se gli interessi divergono in modo pronunciato, se i sistemi di valori si contrappongono, la consuetudine entra inevitabilmente in crisi. La storia del diritto mostra che, quando ciò si verifica, lo sbocco naturale della crisi è la “codificazione”: il diritto scritto imposto dall’autorità legislativa entra in gioco e la codificazione viene a rimpiazzare più o meno largamente il diritto “spontaneo” non scritto.
La comunità internazionale di oggi, si sa, non è più omogenea, diversamente da quanto avveniva in epoche ormai lontane. Ed il notissimo processo che ha progressivamente eroso tale omogeneità fino a farla sparire ha generato, tra l’altro, per l’appunto, la crisi della consuetudine internazionale: la divergenza pronunciatissima di interessi (si pensi, in particolare, al contrasto Nord-Sud) induce molti a contestare con forza ed a rigettare le vecchie norme, che sono invece sempre sostenute da altri. Di qui l’esplosione di un vero e proprio bisogno di codificazione e sviluppo progressivo del diritto internazionale (due concetti sostanzialmente inseparabili), che spinge alla ricerca di grandi compromessi sociali sfocianti nell’aggiornamento del sistema per svecchiarlo e svilupparlo secondo le nuove necessità, dandogli in più la forma scritta al fine di rispondere ad una esigenza di certezza che il diritto non scritto, in una società divenuta troppo eterogenea, non può più assicurare. Sennonché, la struttura stessa della comunità internazionale impedisce di concepire una codificazione che si imponga a tutti, cioè realizzata per mezzo di strumenti di autorità che, come sappiamo, non esistono: il solo strumento utilizzabile è l’accordo internazionale. E questo, se si arriva a metterlo a punto, piacerà magari agli uni, che lo ratificheranno, ma non ad altri, che preferiranno restarne fuori e lo considereranno res inter alios: di conseguenza, il sistema giuridico, invece che semplificato e razionalizzato, risulterà ancora più complicato e frammentato. A meno che non si riesca a perseguire l’impresa adottando metodi, procedure ed accorgimenti i quali consentano di pervenire all’elaborazione di testi che, pur se non legano tutti a titolo di trattati, siano visti il più largamente possibile come corrispondenti per contenuto al diritto internazionale generale vigente.
L’importanza assunta della codificazione spiega perché tanto impegno, tanti sforzi e tante risorse vi sono dedicati da svariate organizzazioni internazionali, tra cui primeggiano indubbiamente le Nazioni Unite. In quest’ultimo quadro, in particolare, va ricordato che l’Assemblea generale si è dotata di un organo sussidiario apposito, la Commissione del diritto internazionale, che è chiamata ad elaborare progetti articolati di codificazione su temi centrali; progetti i quali vengono orientati, esaminati e discussi passo passo in Assemblea, per poi fare oggetto, quando giudicati maturi, di grandi conferenze diplomatiche in cui si negozia adottando tecniche studiate per favorire l’adozione di documenti finali accettabili per il numero maggiore possibile di Stati. Ad esito delle conferenze verranno dunque definiti, se tutto va bene, testi di convenzioni di codificazione da sottoporre alla valutazione sovrana degli Stati, che entreranno poi in vigore una volta raggiunto il numero richiesto – solitamente elevato – di ratifiche ed adesioni da parte di questi. La messe di risultati positivi ottenuti in varie materie centrali per queste vie (od altre analoghe) si può considerare davvero notevole.
La convenzione di codificazione, però, malgrado l’intento perseguito, è formalmente un trattato come gli altri, inidoneo a produrre diritti ed obblighi per coloro che decidono di non parteciparvi. Per costoro, tanto nei rapporti inter se che in quelli con le parti della convenzione in questione, quest’ultima non è applicabile. Resterebbe invece applicabile il diritto consuetudinario vigente al di fuori della convenzione: proprio quel diritto che si era deciso di codificare ed aggiornare perché da molti ritenuto obsoleto, contestabile, inadeguato. Ma può per fortuna accadere che questo ambiguo dualismo di regimi giuridici, e la conseguente rinnovata incertezza, si risolvano; può accadere, cioè, che la convenzione di codificazione venga vista (ovvero finisca prima o poi per esser vista) dalla comunità internazionale come fedelmente corrispondente, per contenuti, al diritto internazionale generale. Si potrà dire allora che le sue disposizioni hanno finito per acquisire un doppio valore: quello di regole convenzionali e quello di “consuetudo scripta”. Si noti, peraltro, come possa accadere che anche i principi formulati nei testi elaborati dalla C.D.I. vengano percepiti come rappresentativi delle norme consuetudinarie, pur se non sono stati accolti ancora in convenzioni di codificazione.
Se è assodato che anche nella società internazionale la crisi della consuetudine induce ad imboccare la strada maestra della codificazione, è pure assodato che si potrà parlare qui di vero successo, solo quando questa strada avrà condotto, per finire, a ritrovare il punto di partenza: la consuetudine. Aggiornata, rivista, scritta se del caso, ma sempre consuetudine.
In assenza di apparati istituzionali gerarchicamente superiori agli Stati, in assenza di un potere giudiziario e di un potere esecutivo capaci di imporre ad essi la soluzione autoritativa delle loro controversie, è ovvio che il regolamento di queste non possa effettuarsi che in una logica congrua per un diritto di coordinazione, e non di subordinazione. Non è vero che – come si afferma correntemente – in diritto internazionale non ci sono né giudici né carabinieri: ci sono – per così dire – i giudici ed i carabinieri che gli Stati hanno convenuto di creare per via pattizia ed al cui giudizio od alla cui azione si sono accordati di sottoporsi.
L’art. 2 par. 3 della Carta ONU impegna gli Stati a risolvere pacificamente le loro controversie e l’art. 33 riconosce loro il diritto di scegliere liberamente il mezzo più appropriato a tal fine: la scelta può dunque cadere su mezzi a carattere politico-diplomatico che potranno sperabilmente favorire il raggiungimento di una soluzione concordata (negoziati, procedimenti consultivi, conciliazione, etc.) o su mezzi di cui è anticipato che sfoceranno in decisioni obbligatorie (l’arbitrato, o il regolamento giudiziario). È dunque per libera scelta condivisa tra gli Stati in controversia che la stessa si troverà sottoposta se del caso ad un arbitro creato dalle parti od a un giudice internazionale precostituito (ad esempio, la Corte internazionale di giustizia, prevista nella Carta ONU ed “offerta” alle scelte degli Stati), la cui decisione sarà vincolante per essi perché così convenuto in anticipo. Beninteso, l’impegno degli Stati a sottoporre le loro controversie ad un giudice internazionale può essere sottoscritto prima del loro effettivo insorgere, ad esempio mediante accordi con i quali si convenga tra le parti che eventuali futuri litigi tra loro di un certo tipo o relativi a certe materie potranno essere portati da ognuna di esse davanti a quel giudice.
Quanto rilevato fin qui riguarda – si noti – le controversie tra Stati, soggetti di base dell’ordinamento internazionale i cui rapporti sono regolati da norme poste in essere dagli Stati stessi in una logica di autonomia. Sappiamo peraltro che gli Stati possono, stavolta in una logica autoritativa (o di eteronomia), creare altri soggetti di diritto internazionale, come le organizzazioni internazionali, nonché attribuire agli individui la soggettività internazionale conferendo loro diritti ed obblighi nei confronti di altri soggetti. I rapporti che si sviluppano in questo contesto possono dar luogo a controversie per le quali vengono predisposti in vari casi appositi mezzi di soluzione (a volte veri e propri tribunali internazionali) accessibili agli individui. Qui, ovviamente, la situazione è diversa rispetto a quella delle controversie tra Stati: agli altri soggetti internazionali i mezzi di soluzione delle controversie da utilizzare sono imposti, e non affidati alla loro libera scelta.
I concetti di base in materia di “sanzioni”, relativi cioè ai mezzi e strumenti di reazione alle condotte illecite volti a costringere al rispetto degli obblighi internazionali, sono ben sintetizzati in una sentenza arbitrale (Affaire de l’Accord aérien Franco-américain (Rupture de charge), 9 décembre 1978, RSA, vol. XVIII): «Nello stato attuale del diritto internazionale generale, facendo astrazione da impegni specifici derivanti da trattati particolari, ed in particolare da meccanismi istituiti nel quadro di organizzazioni particolari, ogni Stato apprezza per se stesso la propria situazione giuridica riguardo agli altri Stati. In presenza di una situazione che comporta a suo avviso la violazione di un obbligo internazionale da parte di un altro Stato, ha il diritto, con riserva delle regole generali del diritto internazionale relative all’uso della forza armata, di far rispettare il proprio diritto mediante ‘contro-misure’».
In una società come è quella internazionale, caratterizzata dall’assenza di un apparato istituzionale dotato di poteri autoritativi rispetto ai suoi soggetti di base, è principio basilare che la risposta agli illeciti sia, non sia di tipo sociale, ma individuale, nella logica dell’autoprotezione: principalmente, allo Stato vittima di un illecito è riconosciuto il diritto di reagire mediante contro-misure, cioè condotte non rispettose dei suoi propri obblighi nei confronti dello Stato responsabile della violazione al fine appunto di indurlo a conformarsi alle regole. I modi di autoprotezione sono, beninteso, oggetto di una regolamentazione internazionale riguardante, anzitutto, il divieto dell’uso della forza armata (salvo in caso di legittima difesa contro l’aggressione), e l’obbligo di seguire certe procedure e rispettare date modalità.
Questo assetto generale del sistema riguardo ai modi per assicurare il rispetto del diritto non vieta ovviamente agli Stati di prevedere ed organizzare mediante accordi altri meccanismi più efficaci volti a quel fine, evitando in tal modo di affidare esclusivamente all’autoprotezione la garanzia dell’osservanza delle regole: meccanismi che saranno pertinenti, s’intende, esclusivamente nei rapporti tra le parti di ognuno di tali accordi. La panoplia di strumenti internazionali di questo tipo è in effetti ricca e variegata. Ma sono soprattutto le organizzazioni internazionali a dover essere tenute in conto a tal proposito, dato che molte di queste operano in materia con metodi e risultati spesso apprezzabili.
L’ONU merita una citazione speciale in questo contesto, anche in vista della circostanza che tutti gli Stati attualmente esistenti (o quasi) ne sono membri. Il sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta si incentra principalmente sul Consiglio di sicurezza, cui è affidato il compito di adottare misure anche obbligatorie (alla cui attuazione gli Stati membri debbono cooperare), e che possono comportare se del caso l’uso della forza, al fine di mantenere o ristabilire la pace minacciata o violata, nonché di reagire contro l’aggressione. A prescindere dalle critiche quanto al suo funzionamento molto insoddisfacente, va notato peraltro che lo scopo essenziale della sicurezza collettiva è il mantenimento ed il ristabilimento della pace, e non di assicurare l’osservanza del diritto internazionale in generale. Con riguardo a tutte le norme internazionali la cui trasgressione non rischia di tradursi in una minaccia o una violazione della pace od in una aggressione, la sicurezza collettiva non corregge dunque in alcun modo la logica dell’autoprotezione e non ridimensiona il ruolo delle contro-misure.
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