Diritto mercantile
Mondi globali tracciano l’orizzonte del nostro tempo storico. Con la nostalgia di un centro perduto per sempre, la condizione postmoderna si consuma tra il surreale e il banale. La corsa verso il 'futuro del post' ha un che di paradossale, evoca una sorta di rovesciamento della linea temporale. Processi di crescente astrazione della 'forma merce' coinvolgono non solo le transazioni di beni, servizi e capitali, ma nel fantasmatico cyberspazio della comunicazione istantanea fanno circolare nuove parole (e nuovi valori) che si alimentano performativamente, occultando il corporeo sotto una nuda e muta superficie. Scienza, tecnica, cultura, welfare, lavoro e commercio esigono uno spazio semantico globale.
Le barriere geografiche si frantumano, si tessono nuove reti e connessioni. Cresce a dismisura il potere internazionale delle law-firms, che concorrono a elaborare regole pattizie e soluzioni arbitrali più convenienti per gli operatori del mercato globale: un fenomeno complesso e contraddittorio. Nel campo dei codici etici, degli standard ambientali e dei diritti umani ci sono profili positivi. Ma taluni esiti della globalizzazione giuridica appaiono inquietanti, quando l’autoregolazione anima e orienta sistemi complessi, che si aggrovigliano nel labirinto di molteplici conflitti di interesse. Con discrezione si espandono 'regimi privati' o comunque extrastatuali, che prospettano un 'diritto senza lo Stato'. Si disegnano nuovi scenari per l’odierna scienza del diritto commerciale. La teoria tradizionale delle fonti rischia di essere messa seriamente in discussione.
Un’espressione antica – lex mercatoria – si congeda dalla sua storia e, nelle mani dei suoi più ispirati profeti, reclama un nuovo presente. Non ha di mira l’erudizione e i distinguo degli storici, preferisce i vocabolari più creativi degli scienziati sociali. All’orizzonte, il flebile chiarore di un legal dream, un fantasma benevolo che, tra mito e realtà, s’aggira per il mondo senza lasciare intravedere i suoi reali contenuti e la sua effettiva portata (Fortunati 2005). Sembra quasi che la fattualità del diritto (non il diritto di John Austin o di Hans Kelsen!) si stia affrancando dallo scorbutico e pretenzioso Leviatano. La natura delle cose e il diritto vivente si presentano finalmente senza i fastidi della mera forma del Codice e degli apices iuris del Corpus. Si potrebbe presagire una rivincita del naturalismo protomedievale sulla forza invasiva dell’assolutismo giuridico.
Stiamo forse entrando in un nuovo (politically correct) Medioevo, come nella stagione eroica delle fiere francesi e delle piazze genovesi? Rispetto all’odierna lex mercatoria, la reductio ad hominem della ragione borghese sembra naufragare in una nuova, sconfinata radura di fatti. Ritorna l’antico dilemma: come e a quali condizioni il fatto diviene realmente diritto? Come si fa a distinguere la consuetudine commerciale dalle tecniche e dagli usi di cui si serve il mercato per funzionare? Vedremo che in tutto ciò la storia non è poi così innocente.
Agli inizi dell’11° sec., il badile e la roncola dei dissodatori avevano da tempo mutato il paesaggio agrario di vaste zone d’Europa. Un marcato dinamismo del mondo rurale e signorile contribuiva al risveglio del mercato. La città medievale si avviava a disegnare nuovi quadri ambientali. La divisione sociale del lavoro accendeva una vivace dialettica tra ceti di origine comitale e nuovi soggetti sociali, in un contesto animato dall’incremento delle manifatture e degli scambi. Mercanti e artigiani erano i protagonisti di un ciclo espansivo che durerà fino alla metà del Trecento.
Nell’immaginario sociale il mercante 'dai piedi polverosi' resta un personaggio ambivalente, a metà tra lo sradicato senza terra e l’avventuroso, geniale costruttore di una civiltà nuova. Vive ai margini della società feudale, condivide con viandanti e pellegrini i rischi di un viaggio pericoloso, porta le sue merci nelle piazze e nelle fiere, subisce le angherie dei signori e incorre nelle censure degli ecclesiastici. Ma molte testimonianze lo raffigurano come un uomo vincente, dotato di consistenti mezzi finanziari che reinveste in imprese sempre più vantaggiose.
Tra realtà e mito, la figura del mercante ha acceso un vasto dibattito storiografico. Basta pensare alla seducente ipotesi di Henri Pirenne, che ai nuovi ricchi venuti da lontano assegna un ruolo propulsivo nello sviluppo economico globale, e a chi, nel processo di accumulazione del capitale commerciale, insiste invece sul dinamismo dell’economia rurale. La questione è rilevante, se solo si pensa al rapporto tra risparmio, creazione di credito e profitto o all’influenza che l’innovazione tecnica – la lettera di cambio, il sistema di clearing delle fiere, le assicurazioni e i vari tipi di partecipazione al capitale d’impresa – ha esercitato proprio sulla quota di risparmio.
Nel processo d’integrazione sociale dei mercatores, gli ambienti ecclesiastici svolgono un ruolo decisivo. Il commercio itinerante suscita nella Chiesa giudizi contraddittori, evocando anche lo spettro della devianza, che accompagna ogni forma di vagabondaggio. La condanna (o almeno la diffidenza) si alterna alla commiserazione per tutti i soggetti deboli e bisognosi di protezione. Con pari ambiguità, presto il concetto di mercatura s’incrocia con quello di paupertas. Come i viandanti e i pellegrini, i mercanti possono fare ormai affidamento sulle franchigie e sui privilegi della giurisdizione ecclesiastica.
Lo sviluppo degli affari richiede relazioni di fiducia e suscita i bisogni del credito. Con l’espansione degli scambi cresce l’esigenza di una maggiore sicurezza e di forme processuali rapide ed efficaci. Mercanti e notari sono al lavoro con la loro inventiva, mentre le associazioni corporative e le fiere diventano aree giuridiche protette, in cui far valere soluzioni innovative e coerenti. Le compagnie italiane operano ormai su un’area di piazze lontane, senza muoversi dalla propria città.
In questo quadro, la giustizia mercantile consolida nel tempo il suo specialismo, senza però spingersi al punto da escludere che un corporato possa essere citato davanti ai magistrati ordinari. Ma proprio la concorrenza dei giudici cittadini fa sì che lo ius mercatorum si affermi anche al di là del suo ambito particolare, avviando quel lungo processo storico «che trasformerà il diritto dei commercianti nel diritto degli atti di commercio» (Padoa Schioppa 1984, rist. 1992, p. 37).
Nelle fasi di maggiore influenza, i mercanti riescono a ottenere l’inclusione dei loro statuti tra quelli ufficiali del Comune, parificando così il livello delle due classi di norme. Nel corso del 14° sec. ha tuttavia inizio un lento declino del ruolo politico e costituzionale delle Arti, che difendono come possono la loro autonomia giurisdizionale di fronte all’incalzante espansione delle signorie cittadine e dei primi Stati principeschi. In diverse città si fa acuto il conflitto tra il tribunale della Mercanzia e i giudici togati.
Non sorprende, allora, l’uso ideologico che si fa negli ambienti corporativi della 'diversità' processuale. Nel dibattito politico-istituzionale, sommarietà e brevità del giudizio sono evocate come un argine alle ricorrenti intrusioni delle istituzioni sovra-ordinate. Nel 1433, a Siena la Mercanzia protestava contro una riforma giudiziaria che sottoponeva tutte le cause al superiore controllo dei giudici comunali, lamentando che i «mercatanti e buttigari» erano finiti fra le grinfie di avvocati e procuratori (Ascheri 1989, 19952). Da parte dei giuristi, si rimproverava talvolta ai mercanti l’uso spicciativo della nozione di equità. Tre secoli dopo, Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi riconoscerà volentieri la «lodevolissima equità de’ mercadanti» (Migliorino 1999, p. 119). Approfondendo i profili giuridici della commenda, egli lamenta però che i pratici sono «de solo uso» contenti e incapaci di inquadrare i negozi mercantili negli stampi del diritto (Padoa Schioppa, in From 'lex mercatoria' to commercial law, 2005, p. 185).
È indubbio comunque che il diritto dei mercanti trovò la sua ragion d’essere in un sistema di deroghe che imponeva un confronto problematico con l’impianto del processo romano-canonico e con gli istituti del diritto privato comune. Eppure, la tradizione processuale dello ius commune aveva in sé gli elementi necessari per elaborare tali specialità e disegnare un modello processuale agile e breve, non incompatibile con gli assunti della mercatura (Petit 1990).
Il confronto con lo ius commune non deve far pensare tanto a una qualche forma di incorporazione/obliterazione del diritto dei mercanti, quanto a una dialettica che nel tempo ha arricchito l’insieme dell’esperienza giuridica europea. L’impegno profuso dai giuristi a leggere la realtà mercantile con gli strumenti concettuali del diritto comune non ebbe come esito l’arretramento dei principi di autonomia e specialità della giustizia mercantile. Al contrario li dotò di un più saldo fondamento teorico, con un lavorio sistematico che risale alle antiche dispute scolastiche e ai responsi dei giuristi dottori. È il caso del contributo che Baldo degli Ubaldi dedicò al contratto di cambio Comm. Cod. 4.18 pr. de constituta pecunia, 1586, f. 33 ra-34 ra, con una lucidità d’impianto che dà la misura dell’interesse dei civilisti per il magmatico mondo dei fatti sociali. Basandosi sulla «generale consuetudine dei mercanti», l’argomentazione di Baldo mette a frutto le rigorose architetture del sistema per meglio comprendere la realtà del suo tempo. Un complicato congegno dei mercati finanziari si era infine trasformato in diritto, senza il suggello di un potere o la decisione di una corte (Piergiovanni 1991, pp. 238 e segg. per la tradizione testuale dell'opera).
Il tratto tipico delle pratiche mercantili, infatti, è la persistente vicinanza con la cultura del diritto. I profili «delle compagnie, delle colleganze, delle lettere di cambio, della disciplina dei libri di commercio» (Padoa Schioppa 2009, p. 21) si erano definiti giuridicamente per l’impegno comune dei commercianti e degli uomini di legge. Non a caso lo ius mercatorum ha più volte incrociato la vicenda storica del diritto del mare, un complesso di usi risalente così indietro nel tempo da far valere la sua capacità di resistenza anche nei confronti dei codificatori ottocenteschi (Ferrante, in From 'lex mercatoria' to commercial law, 2005).
Per essere riconosciuta, la specialità richiede un suo vocabolario. Fu Bartolo da Sassoferrato a costruirlo, in un breve commento (Comm. Dig. 17, 1, 29, 4, 1585, f. 104 ra-b) a un testo (nientemeno!) del giureconsulto Domizio Ulpiano. La fattispecie riguardava l’ipotesi del fideiussore che, convenuto in giudizio, aveva omesso di usare una valida eccezione. Bartolo, con le stesse parole del diritto romano, assicurava che un giudizio di buona fede non ha nulla a che vedere con le sottigliezze del diritto, non deve decidere quale sia l’azione più appropriata da esperire, né se ci sia stata o meno la litis contestatio. La buona fede si contrapponeva alle sottigliezze del diritto stretto (apices iuris).
Le tracce del passato rispondono solo a chi pone le domande giuste. A interrogare il diritto antico era stato qui un giurista radicato nella realtà del suo tempo, il quale lucidamente affermava: «in curia mercatorum debet iudicari de bono et aequo, omissis iuris solemnitatibus» (Comm. Dig. 17, 1, 29, 4, cit., f. 104 ra). Il bonum, associato da Aulo Cornelio Celso all’aequum, dai tempi della Glossa era stato equiparato anche all’utile, sicché nel ragionamento di Bartolo la locuzione «ex bono et aequo» era usata in funzione del concetto di utilità sociale, che i mercanti esaltavano per legittimare i loro traffici. Per questa via, l’equità mercantile tendeva a conferire uno speciale rilievo alla libera manifestazione dei contraenti anche nei 'patti nudi'.
Il repertorio terminologico delle fonti giuridiche medievali per designare il patrimonio di strumenti contrattuali e di riti processuali, di consuetudini e di statuti mercantili è molto ricco ma non nomina mai lo ius mercatorum. Si parla di consuetudo, di curia o di stylus mercatorum. Ci si sofferma soprattutto su formidabili collanti quali buona fede, equità, sicurezza e rapidità delle procedure. La svolta è in pieno Seicento, quando sul concetto di ius singulare mercatorum un giurista dell’usus modernus come Johann Marquard (De iure mercatorum et commerciorum singulari libri IV, 1662) costruisce un sistema che incardina la specialità degli usi e della giustizia mercantile nella sfera tutta giuridica dei privilegi legali.
Marquard stesso lamentava che la dottrina si era interessata delle più svariate forme di iura singularia, ma mai dei privilegi dei mercanti. Le biblioteche straripavano di trattati sullo stato giuridico di nobili, chierici, professori, scolari, contadini, militari, vedove, pupilli. Conoscitore profondo delle consuetudini della sua Lubecca, egli constatava la grande influenza che il mondo degli affari esercitava sulla vita economica e sociale. Occorreva una nuova sistemazione delle materie commerciali incardinata proprio sulla condizione giuridica del mercante, o – meglio ancora – di quel determinato ceto che, nella pratica degli affari, si avvaleva del medesimo regime di deroghe al diritto comune. Si rendeva così più nitida la rappresentazione della società cetuale d’antico regime, con i suoi contenuti istituzionali e giuridici, con quel patrimonio di esperienza che tanta parte ha avuto nella storia sociale e giuridica d’Europa.
Si capisce allora perché i più svariati argomenti – contratti, società, monopoli, empori – rinviavano di continuo all’impianto del trattato, che si proponeva di mettere in sistema i diritti speciali elargiti dal legislatore nella forma del privilegio. Il 'bene pubblico' era la ratio che consigliava di tenere gli affari mercantili in spazi giuridici al riparo dai sottili impacci del diritto comune. Con il tempo, s’erano aggiunti nuovi privilegi riguardanti il diritto di scalo, la monetazione e il dazio, il monopolio, le fiere e i mercati, i salvacondotti, le dilazioni e le remissioni del debito.
Fino alla rivoluzione borghese la forma giuridica del privilegio – fonte del diritto praeter vel contra ius commune – domina la scena europea. Non a torto Ulrich Stutz ha sostenuto che il diritto dell’eccezione invadeva a tal punto il diritto della regola, da impigliare l’intero universo giuridico in una fitta rete di privilegi legali. Tali deroghe al diritto comune potevano essere concesse solo attraverso una legge e ciò complicava ancor più la situazione. A differenza della dispensatio, infatti, il privilegio valeva per un numero indefinito di casi e per ciò stesso risultava duraturo nel tempo (Mohnhaupt 1987).
L’espressione ius mercatorum ha avuto ben altra fortuna dell’autore che l’ha coniata. Nei discorsi dei giuristi e degli storici dell’Europa continentale, essa richiama ancora oggi la stagione eroica di un diritto dei mercanti, che ha saputo governare le logiche di un’impetuosa rivoluzione commerciale. Ma, quarant’anni prima di Marquard, è un’altra espressione – lex mercatoria – a rivendicare legittimazione politica in Inghilterra. Londra 1622: va alle stampe Consuetudo, vel, lex mercatoria or The ancient law-merchant, un’opera di Gerard Malynes che fa ancora oggi discutere sulle origini medievali e sui reali contenuti della law merchant. Esperto di teoria monetaria, durante i regni di Elisabetta I e Giacomo I l’autore ha più volte ricoperto l’incarico di commissioner of trade. L’opera sostiene con forza le antichissime origini della lex mercatoria e la dimensione sovranazionale della cultura mercantile. All’inizio Malynes spiega la differenza fra lex mercatoria e ius mercatorum: lex evoca un patrimonio consuetudinario che nel tempo ha ricevuto il suggello dello Stato; ius rappresenta invece un diritto che ha la sua esclusiva fonte di produzione nella volontà del sovrano.
L’enfasi con cui l’autore evocava un primigenio stato di natura per spiegare le origini del commercio non era così innocente. Le radici naturali della law merchant avevano poco a che fare con i traffici degli antichi, servivano piuttosto a fronteggiare la progressiva perdita d’influenza dell’Ammiragliato nelle cause mercantili. Ciò spiega una strategia retorica volta a persuadere i giudici di common law a tener conto di usi e consuetudini che affondavano le loro radici in un’età mitica, precedente la nascita delle leggi del regno e del diritto romano (Cordes, in From 'lex mercatoria' to commercial law, 2005). C’è tuttavia del vero nell’esordio di Malynes. L’espressione lex mercatoria, infatti, estranea per tutto l’antico regime al vocabolario giuridico dell’Europa continentale, in un diverso contesto linguistico (e culturale) evoca più il lento e continuo sedimentarsi di pratiche consuetudinarie che un atto d’imperio.
L’espressione risale in realtà agli anni intorno al 1280, e compare come titolo di un piccolo trattato accolto nella silloge The little red book pubblicata a Bristol, uno dei porti più trafficati per l’esportazione delle materie prime. È sorprendente scoprire che anche qui è l’area del privilegio a fondare le regole processuali delle curie mercantili. L’ignoto autore constata che tra common law e lex mercatoria c’è lo stesso indissolubile rapporto che porta una madre amorevole – la lex communis – a dotare la propria figlia «ex certis privilegiis et in certis locis». Come nel continente, i privilegi consistevano in rapidità delle cause, prove razionali e forme di esecuzione incisive ed efficaci. Non è un fenomeno isolato: nel 1303 il re Edoardo I accorda ai mercanti stranieri diversi benefici, tra cui quello di dirimere le controversie – nelle fiere, nelle città e nei porti – «secundum legem mercatoriam» (Cordes, in From 'lex mercatoria', 2005).
Comune ai mercanti di tutta Europa era, se non un diritto uniforme e sovranazionale, sicuramente una diffusa richiesta di protezione: una sorta di habitus mercatorum universale e senza frontiere. Nell’affrontare le corti di giustizia, commercianti e banchieri scontavano le condizioni di svantaggio di chi – straniero in terra aliena – s’era lasciato alle spalle tutto, anche il proprio giudice naturale. Si pensi ai mercanti cristiani che chiedevano al re dei Franchi Ludovico I il Pio di godere degli stessi vantaggi dei trafficanti ebrei o, qualche tempo dopo, alle suppliche degli operatori di fiera, per agire con rigore e in via sommaria contro i beni e la persona del debitore insolvente.
Il privilegio è una delle tante chiavi di lettura per ripercorrere la secolare vicenda del diritto commerciale, nel corso della quale, tra urgenze dell’economia e logiche del diritto, la cultura italiana ha dato un contributo assai rilevante.
È il caso di Benvenuto Stracca, attento interprete di un più consapevole interesse per la materia, al confine fra l’esperienza giuridica medievale e un nuovo ciclo storico. Il suo trattato De mercatura seu mercatore (1553) riorganizza (con qualche incoerenza) una tradizione che, da Baldo a Giasone del Maino, da Angelo degli Ubaldi a Matteo d’Afflitto, si era già misurata con le inedite forme negoziali dei mercatores senza agganciarsi alle tradizionali sedi del diritto civile. Stracca delinea anche una sbrigativa storia della mercatura, mettendo insieme filosofi greci e re barbari, commercianti abituali e occasionali. Campeggia una citazione dal Decreto di Graziano, un frammento delle Etimologie di Isidoro di Siviglia, in cui si dice che Rodi ha dato il suo nome alle leggi del commercio marittimo perché qui un tempo erano in uso delle consuetudini mercantili. Nelle mani del giurista l’avverbio antiquitus, usato da Isidoro, si prestava a evocare la solida teoria non solo della prescrizione ma anche della consuetudine.
Il ricorso al criterio del tempo, tipico della forma mentis del giurista, definisce i contenuti sociogiuridici di un ceto, più che dare un solido fondamento all’ufficio della mercatura. Per sostenere che «antiquitus mercatorum usus fuit», era bene poter invocare il Decretum Gratiani, straordinario vademecum del diritto antico della Chiesa che i legisti faticavano ad accogliere nell’architettura dello ius commune, anche se il diritto ancora una volta pagava il suo debito culturale verso la religione. Rimane però l’aporia che accompagna l’immagine ambivalente della mercatura. Da una parte, infatti, Stracca ricorda l’antica diffidenza per i mercanti stranieri, che approfittavano dei traffici per carpire segreti militari e passarli al nemico; spiega storicamente l’uso di confinare la mercatura ai margini delle città; evoca i disordini derivanti dalla pratica di prestare denaro a usura; ribadisce l’incompatibilità tra la condizione di uomo nobile e l’esercizio del commercio. D’altra parte riconosce con Baldo che mercanti e banchieri sono «sommo bene e quinto elemento»: è necessario infatti che ogni città al mondo sia rifornita dei beni alimentari, sicché la diversa distribuzione di materie prime e manufatti richiede lo scambio di beni da un luogo all’altro.
Il giurista anconetano mette a nudo il nervo sensibile della questione: il guadagno è l’orizzonte mentale che spinge gli uomini d’affari a sfidare insidie del mare, attacchi di pirati, ostilità dei poteri, capriccioso andamento dei cambi, diffidenza di amici e concorrenti. I rischi connessi con la pratica del commercio portano al concetto essenziale di remuneratio, secondo cui il pericolo va appunto remunerato, esentandolo da rappresaglie e vessazioni. I privilegi sono il giusto compenso di fatiche e tribolazioni. In molte città italiane l’esperienza, la diligenza e la probità dei grandi mercanti erano perciò ripagate con dignità e onori (Migliorino 1999, pp. 43 e segg.).
I «casi della fortuna» sono così connessi con la mercatura che gli interpreti ne fecero lo strumento per fissare limiti e rilevare differenze. In ogni occasione si rammenta che i mercatores sono sempre sul punto di fallire e che gli imprevisti nel commercio hanno un ruolo molto più pesante che in ogni altra attività. L’attivazione del risparmio e la suddivisione dei rischi fra un numero maggiore di soggetti sono stati alla base dell’invenzione di nuovi istituti negoziali: il 'prestito marittimo', le varie forme di 'patto assicurativo' e soprattutto la commenda, che serviva «al finanziamento di un determinato affare o di una serie di affari, in cui un terzo – senza ingerirsi nell’amministrazione della mercatura – la finanziava partecipando al relativo rischio solo nei limiti del conferimento» (Santarelli 19983, p. 171). Anche il 'deposito irregolare' fu un capolavoro dei giuristi che, distinguendolo dal contratto di mutuo, lo legittimarono senza dovere aggirare i divieti di usura. Le Scritture erano rispettate ma era possibile finanziare gli investimenti del mercante, ricevendo a conclusione dell’affare la somma anticipata con aggiunta dell’interesse (pp. 171 e segg.).
Lungo la stessa linea, un cospicuo commentario ai capitoli del Regno di Sicilia, pubblicato da Mario Muta a Palermo nei primi decenni del Seicento (Capitulorum Regni Siciliae potentissimi regis Iacobi expositionum, 6 voll., 1605-1627), riusciva a conciliare privilegi mercantili e innovazione giuridica. Gli argomenti di Muta sono abituali nella tradizione dottrinaria e giurisprudenziale: i commercianti non possono essere espulsi, perché il mondo è la patria comune di tutti; essi sono utili alle città e necessari alla respublica; dalla loro attività deriva onore, ricchezza e solidità dei regni.
I privilegi funzionavano come indicatori semiotici, in particolare nel caso di due fattispecie tipiche: il caso del mercante che aveva investito più nella rendita immobiliare che nel commercio, e quello del mercante che, regolarmente iscritto nella matricola dell’Arte, decideva di ritirarsi dagli affari. I giuristi si chiedevano se questi soggetti continuassero a godere di una condizione di vantaggio. Vengono così individuati tre dispositivi, grazie ai quali l’area del privilegio si connette con l’immagine sociale della mercatura: assiduitas, nomen e fama. L’assiduità designa l’esercizio continuato di un’arte, con un’unica eccezione: che il singolo atto di commercio sia stato preceduto dall’immatricolazione nella corporazione. Il nomen è conseguenza dell’assiduitas e si acquisisce «a professione dicta profitendo»: significa a condizione che la cosa significata derivi dalla consuetudine, dalla generalità degli atti, dall’uso e dall’esercizio. La qualifica di mercante e l’esercizio della mercatura trovano quindi la loro più autentica dimensione sociale nella fama: era mercante solo «qui vulgi opinione pro mercatore habetur» (Migliorino 1999, pp. 62 e segg.). La società premoderna offriva alla (auto)visibilità le sue gerarchie e le sue differenze.
All’inizio del 16° sec. l’economia europea conosce una crescita demografica senza precedenti, l’aumento del consumo dei beni agricoli, l’incremento della rendita fondiaria, lo sviluppo dell’attività manifatturiera. Più economie s’incontrano e ridisegnano qualità e misura dei fattori della produzione e dello scambio, in una geografia che riguarda le Fiandre e l’Europa del Nord in generale, ma anche le coste mediterranee e l’Andalusia, tutta protesa verso l’America.
Il capitalismo commerciale non è un fenomeno lineare e uniforme. Passando per cerchi concentrici dagli ambiti locali e regionali al grande commercio internazionale, la quantità degli scambi risulta vistosamente decrescente. Il grande commercio influiva in misura limitata sulla produzione dei beni non agricoli e sulla domanda interna (De Simone 1985). Anche l’accumulazione s’indirizzava spesso verso l’investimento immobiliare. La società agraria esercitava ancora una forte attrazione verso ceti che due secoli prima ne avevano messo in discussione l’egemonia culturale e politica. Gli investimenti fondiari per tutto il 16° sec. si avvantaggiarono della crescente domanda di beni alimentari e del generale rialzo dei prezzi.
Il mondo della mercatura si diversifica sempre più, formando nuovi ruoli e nuove gerarchie sociali, con al vertice un gruppo di comando sovranazionale dalle spiccate propensioni finanziarie e speculative. Si conferma l’esclusione dei piccoli negozianti al minuto dalla sfera soggettiva dello ius mercatorum, si sperimentano nuove regole per il gioco cambiario, definito «mercato senza moneta», si pongono le premesse per la nascita delle future società di capitali. Il credito e l’attività bancaria ricevono uno straordinario impulso dal movimento dei metalli preziosi provenienti dal Nuovo Mondo. Spregiudicate manovre speculative influiscono artificiosamente su (come si diceva allora) strettezza o larghezza dei denari, al fine di lucrare sull’aumento dei tassi di interesse.
In un sistema monetario così instabile, il credito (nelle sue varie manifestazioni: lettere di cambio, certificati di deposito e titoli di stato) assolve anche alla fondamentale funzione regolatrice che è propria della moneta di banco. S’infittisce così la rete dei centri bancari (dominati ancora dalle compagnie italiane) per il mercato organizzato del credito a breve termine, basato sui cambi esteri. Le lettere di cambio diventano una normale fonte di finanziamento. Le vecchie fiere della Champagne erano tramontate da tempo, quando il campo della finanza è ormai tenuto dalle fiere genovesi di Besançon e Piacenza, dove non compare alcuna merce (Day 1983).
Tra 16° e 17° sec. si profilano vistosi fenomeni di modernizzazione nel sistema giudiziario e amministrativo. In questa cornice è stata giustamente sottolineata la portata degli interventi che, a partire già dalla seconda metà del Quattrocento, riguardano i settori del commercio internazionale e dell’attività cambiaria. Diverse legislazioni regie mirano ormai a regolare le istituzioni giuridiche dei mercanti, i negozi di cambio, le banche e i banchieri, la tenuta delle scritture contabili, le fiere e i mercati, le procedure esecutive e fallimentari. Non siamo però dinanzi a una politica economica, che intende orientare e guidare l’intermediazione tra produzione e consumo, tipica della forma-Stato borghese.
L’impulso allo sviluppo dell’attività creditizia dei grandi banchieri viene non già dalla forza dello Stato quanto dalla sua vistosa debolezza, in particolare, dall’inadeguatezza degli apparati finanziari di corte rispetto alle crescenti esigenze della spesa pubblica. Le fonti giuridiche rivelano che l’intervento regolatore dello Stato si inscrive nella funzione di disciplinamento che la monarchia assegnava alla trama corporativa della società d’antico regime. Grazia, beneficio, privilegio sono termini frequenti della autorappresentazione di un potere assoluto che si faceva garante della vigenza e dell’osservanza delle regole che costituivano il cemento culturale e giuridico del corpo sociale. Per questa via, norme regie e municipali integravano di volta in volta usi e consuetudini, senza che fosse per questo messo in discussione il principio del carattere singolare dello ius mercatorum.
La struttura cetuale ha avuto una funzione costituzionale. Prammatiche, ordinanze e leggi regie, poste sotto le consuete rubriche de bancheriis et mercatoribus sono segno di un’insistita, paterna preoccupazione per i casi sciagurati che rischiavano di compromettere l’equilibrio fra la mercatura e gli altri corpi sociali. Gli interventi su cambi, fideiussioni bancarie, scritture mercantili e (soprattutto) fallimento, più che a limitare gli ambiti operativi del diritto dei mercanti, tendono a scongiurare il pericolo di una rovina economica che avrebbe sconvolto la rassicurante quanto elaborata gerarchia di status e di ruoli.
In un tale contesto, risulta fuorviante definire il diritto commerciale d’antico regime come «un diritto pubblico per i mercanti sudditi dei monarchi assoluti» (Galgano 20105, pp. 77 e segg.) o, in una diversa prospettiva, enfatizzarne una sua, anche se formale, «statizzazione» (Hilaire 1986), si tratta invece di fenomeni che si muovono nella direzione opposta a forme di chiusura nazionale o statuale, sia in senso economico che giuridico.
Anche al suo apogeo, la ragione di Stato è chiamata a confrontarsi di continuo con un complesso di rationes dotate di altrettanta incisività ed effettività. Quando gli Stati «mirarono ad affermare nel modo più ferramente incastellato le loro distinte personalità» e sembrarono voler celebrare le esequie degli antichi particolarismi, si andò consolidando «una sorta di sovrastruttura inglobante», tenuta insieme dal mastice dell’interesse economico, che diede una veste nuova alla solidarietà senza confini che accomunava da due secoli gli operatori europei nei mercati internazionali e nelle fiere cambiarie (De Maddalena, in La repubblica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, 1986, pp. 7-16).
Nella sfera giuridica, il fenomeno più significativo non sono tanto gli interventi del potere pubblico, quanto la dialettica sempre più stringente tra il diritto mercantile e il diritto comune. Nei manuali di mercatura, destinati agli operatori internazionali, ricorrono riferimenti alle leggi di Giustiniano o alle dottrine dei giuristi in materia di contratti e di usura, mentre sono ignorati i diritti particolari e locali.
Una diffusa razionalizzazione delle tecniche commerciali s’incontra con i progetti di modernizzazione degli apparati giudiziari dello Stato. Nascono i grandi tribunali regionali, le rote e i senati, per superare la frammentazione delle giurisdizioni corporative: scelte impegnative di politica del diritto mirano a ridisegnare gli antichi spazi di autonomia della mercatura. In questo quadro le corti supreme degli Stati italiani diventano un laboratorio di esperienze che produce un grande investimento di sapere, sollecitando i giudici a confrontarsi quotidianamente con la consuetudine mercantile. Le raccolte di decisioni circolano per tutta Europa, diventano la parte più vitale della biblioteca del giurista (Piergiovanni, in From 'lex mercatoria' , 2005).
Da qui occorre partire per cogliere la pluralità di voci di una più consapevole scienza del diritto commerciale, che non rivendica mai uno statuto separato dal diritto comune né mostra noncuranza verso la teologia morale. Nell’antico regime la religione è stata sempre una 'variabile dipendente'. Valutare oggi le opere di quei giuristi alla luce di categorie come 'laicizzazione' o 'decanonizzazione' equivale a far parlare un sistema di pensiero del passato con concetti moderni, cioè fare cattiva semantica storica.
C’è una costante comune agli autori più importanti: l’intensa attività legale che essi svolsero come giudici, avvocati e consulenti, i cui risultati riversarono poi nelle loro opere. Così fu per Sigismondo Scaccia e Raffaele Della Torre (sul cambio), Giuseppe Lorenzo Maria Casaregi (sulla legislazione genovese, sui fallimenti cambiari e sul Consolato del Mare), Stefano Graziano, Mercuriale Merlini, Francesco Rocco (sulle procedure concorsuali).
Con l’età delle riforme si apre una stagione nuova. Gli Stati italiani incrinano i vecchi assetti corporativi e rivendicano, attraverso l’istituzione di magistrature pubbliche, il controllo amministrativo e fiscale sulle attività commerciali. Si aprono inedite opportunità per la libertà dei traffici e lo spirito d’impresa. Nel frattempo, l’antico ius mercatorum si congeda dalla cultura d’antico regime. Il suo innesto «speciale e codificato» nel sistema prodotto dalla rivoluzione borghese condanna all’irrilevanza giuridica una pluralità di pratiche discorsive che avevano guidato e orientato la vita quotidiana del mercante premoderno (Petit 1997).
Con la codificazione appare un nuovo tipo di giurista che di professione fa anche lo storico. Nei discorsi degli storici del diritto commerciale campeggiano due miracolose codewords: specialità e universalismo. Come dire: il diritto mercantile è cambiato nel tempo restando sempre uguale a se stesso. Del che è lecito dubitare, chiedendosi se dietro il 'velo' degli enunciati non siano occultati ancora una volta significati impliciti più profondi. In un tempo in cui era in discussione l’autonomia scientifica (accademica e professionale) del ceto dei giuscommercialisti, la lettura del passato non era innocente e neutrale. Lo mostra la metaforologia giuridica, per cui il diritto commerciale diviene ora «il vero bersagliere del diritto privato», ora il «diritto che viene su dalle cose», ora il «ghiacciaio» che nella parte sommersa trasmette il suo spirito riformatore al codice civile generale.
Esempio paradigmatico al riguardo è l'Universalgeschichte des Handelrechts (1891, come 1° vol. dell'Handbuch des Handelrechts) di Levin Goldschmidt. Il disegno di quest'opera s’inscrive nel quadro stratificato dello Historismus ottocentesco che, a differenza dell’idealismo, mirava a una piena intelligenza del particolare, tramite la quale costruire la logica della conoscenza dell’universale, in cui collocare ogni singolo particolare. In una stagione animata dai dibattiti sull’unificazione del diritto privato, niente più del diritto commerciale era vicino alla polarità universale/particolare. Il vademecum di Goldschmidt mirava più alla specialità del diritto commerciale del suo tempo che alle fondazioni del diritto mercantile storico. Immaginando «un diritto senza tempo né patria», egli proponeva una narrazione universale che doveva essere «nella sua sostanza, internazionalmente uniforme» (pp. 12-17).
Nel diritto inglese la «catena ininterrotta» raccontata dal giurista tedesco era resa con altre parole, ma mirava a risultati analoghi. La «lex sempiterna et immutabilis» di Cicerone compare tra le citazioni predilette dei common lawyers, maneggiata per affidare a un favoloso ius gentium gli usi del commercio internazionale. D’altronde, dai suoi stessi law reports della seconda metà del Settecento risulta evidente come William Murray, 1° conte di Mansfield, si sia avvalso di argomenti del genere per assimilare il «commercial law of England» alle «laws of Europe» (Baker 1979; Fortunati 2005).
Qui la storia si aggroviglia su se stessa, come quando Wyndham A. Bewes, un immaginifico barrister della Lincoln’s Inn, faceva precedere il suo The romance of law merchant (1923) da sorprendenti divagazioni. Dagli italiani agli arabi, dai romani ai greci, dai fenici fino ai patriarchi, la Law merchant ripiega sul suo cominciamento (Donahue Jr, in From 'lex mercatoria', 2005, pp. 69 e segg.), come nei mercanti-scrittori del Cinque e Seicento, che avevano dedicato memorabili pagine per descrivere l’origine naturale del commercio. Il Romance ha uno scopo: quanto più la storia raccontata risaliva indietro nel tempo, tanto più essa si travestiva di natura.
Anche l’odierna lex mercatoria reclama i suoi miti fondativi e sconta i paradossi che sono propri di ogni procedura di autoreferenza. La fondazione è destinata a restare un mito, salvo ammettere che ogni cominciamento può avere inizio solo «nel mezzo di una storia già iniziata» e che «le operazioni ricorsive non possono cominciare ex nihilo; possono soltanto riferirsi a qualcosa che esiste già». In modo fittizio, appunto: als ob, come se. Per questa via, la mancanza di un diritto non statuale «fa presupporre una perfezione originale» (Teubner 1998, trad. it. parz. 2005, p. 28).
La mitologia del Medioevo commerciale ha molto a che vedere con un inizio congetturale in cui storia e natura si scambiano continuamente di posto. Nel rapporto tra un’età così lontana e la globalizzazione, riesce sorprendente la distorsione della dimensione temporale. Nessun cenno alla classica visione borghese del tempo lineare e progressivo. Un tempo che per grandi balzi si muove addirittura all’indietro. Il meno complesso (precedente medievale) spiega e legittima il più complesso (il capitalismo globale). Una società arcaica diventa ricorsivamente un paradiso da riconquistare. Stracolmo di fatti e povero di diritto. Come diceva Wilhelm Dilthey, il presente precipita spesso e di buon grado nel passato per riempirsi di un nuovo tempo.
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