Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le guerre di religione in Francia e la lunga guerra d’indipendenza delle province olandesi contro la Spagna pongono alla cultura politica europea laceranti questioni che hanno al centro il comportamento e le prerogative del sovrano di fronte alle diverse confessioni religiose dei sudditi: deve egli accettarle o prefiggersi lo scopo di imporre, anche con la forza, una sola confessione? Possono i cattolici accettare un sovrano protestante? Viceversa devono i protestanti accettare un re cattolico? A loro volta, i sudditi come devono comportarsi se il re calpesta il loro credo religioso, s’impadronisce dei loro beni o minaccia le loro vite?
Oltre ai conflitti politici e religiosi, anche le pratiche politiche assolutistiche del pieno Seicento costituiscono il catalizzatore di importanti riflessioni critiche che, lungi dall’essere confinate alla sfera intellettuale, sono strettamente connesse al contesto europeo dell’epoca.
Re o tiranno? Il regicidio
In Francia ben due sovrani, Enrico III di Valois ed Enrico IV di Borbone sono assassinati da fanatici cattolici. Ciò è reso possibile dalla contrapposizione totale fra cattolici e protestanti che, in qualche modo, annulla l’aura sacrale che i monarchi hanno sempre cercato di costruire e mantenere intorno alla loro persona. Non più rappresentante di Dio in terra, un sovrano giudicato nemico della vera fede si configura come un pericolo per la comunità dei sudditi. Pertanto, a determinate condizioni, la resistenza al suo potere, fino al passo estremo del regicidio, può essere considerata e giustificata un’azione di legittima difesa. Queste posizioni, peraltro assai variegate, sono state definite dalla storiografia “monarcomache”.
In realtà tali teorie “monarcomache” rappresentano il recupero della teoria politica classica sulla tirannia. Secondo l’aristotelismo politico, infatti, la monarchia tende per sua natura a degenerare in tirannide, che è un diverso ordinamento politico. Nel clima di contrapposizione assoluta – reso possibile dal richiamo di ciascuno dei fronti contrapposti alla “vera fede” – le tesi della liceità dell’opposizione al potere costituito trova terreno fertile: la resistenza armata è ammessa, nel caso almeno in cui il governo del monarca, esemplificato da Cesare, si trasformi in potere tirannico, quale quello dell’imperatore Nerone. Queste idee sono elaborate in primo luogo dagli ugonotti francesi negli anni successivi al massacro della notte di San Bartolomeo (1576). In particolare ha enorme diffusione un testo apparso anonimo nel 1576 e di controversa attribuzione: le Vindiciae contra tyrannos . Secondo questo e altri analoghi scritti, l’obbedienza al sovrano è condizionata al mantenimento della condotta ritenuta propria della regalità: i principali attributi del sovrano sono la grazia, che egli deve concedere con prodigalità ai sudditi, e la giustizia, strumento atto a mantenere l’equilibrio e la pace all’interno della società. Quando però un re vessa i suoi sudditi e sostiene una parte di essi contro l’altra, fomentando odi e divisioni, egli non è più monarca, ma diviene tiranno, al quale non è più dovuta obbedienza. Per giunta tale diritto di resistenza è alimentato dal problema religioso: il tiranno si qualifica come tale se è nemico della “vera fede”.
Il campo cattolico
Queste idee sono elaborate sia dai calvinisti sia dai cattolici. Infatti all’interno del mondo cattolico – malgrado la sua apparente compattezza – emergono posizioni polemiche nei confronti del potere regio sia per motivi politici sia per motivi religiosi ed ecclesiologici. Fra queste spicca quella del gesuita castigliano Juan de Mariana, autore del famoso De rege et regis institutione (1599), secondo cui il sovrano è obbligato a rispettare le leggi fondamentali del suo regno e della religione. Qualora egli non ottemperi a tale dovere, i sudditi possono legittimamente ribellarsi alla sua autorità e finanche ucciderlo se egli si trasforma in tiranno. Il volume di Mariana viene peraltro duramente criticato dal generale della Compagnia di Gesù, Claudio Acquaviva (1543-1615), e, dopo l’assassinio di Enrico IV, è dato alle fiamme per decreto del Parlamento di Parigi (1610) con l’accusa di essere un’opera sovversiva. Problemi ancor più seri sono causati a Mariana dalla pubblicazione del libro De monetae mutatione (1609), in cui accusa Filippo III di Spagna di impoverire il popolo attraverso la svalutazione della moneta. Non solo il volume viene messo all’indice dall’Inquisizione spagnola, ma lo stesso gesuita è relegato in un convento e processato.
Ugualmente significativa, ma assai meno radicale è la presa di posizione del teologo gesuita Roberto Bellarmino, cardinale dal 1599. Egli infatti, con i suoi volumi Tractatus de potestate Summi Pontifici (1610) e De officio principis cristiani (1619), distingue la potestà assoluta del papa nelle materie spirituali – quale vicario di Cristo in terra - dalla sua potestas indirecta, ossia mediata dall’autorità dello Stato, nelle questioni temporali. Dal momento che la potestas ecclesiastica, che appartiene al pontefice, sebbene indiretta, non può essere in alcun modo scalzata dalla potestas temporalis dei sovrani, Bellarmino afferma che l’autorità del sovrano non è superiore a quella del pontefice. In questo modo la Chiesa viene a costituire un potere del tutto autonomo da presunto potere assoluto dei re.
Giacomo I
Solo Dio è al di sopra del Re
Discorso sul dovere di obbedienza dei sudditi al re
I sudditi devono obbedire agli ordini del re in ogni caso, tranne quando ciò implichi un’offesa diretta a Dio (trattandosi di ordini impartiti da un ministro divino) riconoscendo in lui un giudice nominato da Dio, con la facoltà di giudicarli e soggetto soltanto al giudizio di Dio, al quale, e solo al quale, deve rendere conto del suo operato (...) e devono pregarlo come un protettore, perché sia conservato se è buono, perché si ravveda se è malvagio, seguendo e obbedendo i suoi legittimi comandi, fuggendo la sua collera, se illegittima, senza opporre resistenza, ma piangendo e invocando Dio.
in Storia del mondo moderno, Cambridge University Press, vol. IV: “La decadenza della Spagna e la guerra dei Trent’anni”, a cura di J.P. Cooper, Milano, Garzanti, 1971
Althusius e le origini del contrattualismo
Più che una teoria politica dell’antiassolutismo, nel Seicento emerge una serie di autori che, da prospettive diverse, avanzano critiche e propongono modelli più o meno alternativi alla difficile realtà di un’epoca di guerre, rivoluzioni e irrigidimenti confessionali. In questo senso molti di essi guardano come modello di equilibrio e tolleranza all’esperienza della Repubblica delle Province Unite, creata negli anni Ottanta del Cinquecento dalle province (a maggioranza calviniste) ribelli alla corona spagnola. Nel 1603 il giurista tedesco calvinista Johannes Althusius pubblica il volume Politica methodice digesta , nel quale afferma che la sovranità appartiene al popolo che la delega, sulla base di un contratto politico, al sovrano e ai ministri. Qualora costoro violino il patto fondativo, il popolo ha pieno diritto di revocarli. Althusius è anche teorico del contrattualismo, che pone all’origine di ogni istituzione umana un contratto inteso come associazione volontaria fra soggetti aventi pari diritti. In particolare lo Stato è per il giurista tedesco l’esito di una catena di associazioni private e basate sul consenso che decidono liberamente di darsi precisi vincoli.
Il ruolo legittimatore del passato
Assai importante in questa prospettiva è il ricorso alla tradizionale lettura del passato non solo in chiave di legittimazione del potere sovrano, ma anche quale fondamento dei diritti dei ceti e dei corpi rappresentativi (Stati generali in Francia, Cortes in Castiglia e Aragona, Parlamento in Inghilterra ecc.). Negli aspri conflitti generati nel corso del Seicento dalle pratiche di governo straordinario e di guerra, gli oppositori elaborano l’idea che il potere medievale dei sovrani fosse stato elettivo e comunque limitato, non essendo costoro che meri primi inter pares e soprattutto in vario modo tenuti a rispettare leggi di natura o umane assai più antiche delle dinastie regali stesse.
Queste prese di posizione hanno un legame diretto con il contesto politico di quel periodo. Nella Francia di Luigi XIII, ad esempio, gli avversari della politica del cardinale di Richelieu accusano il ministro di usurpare il potere del re per favorire se stesso e i suoi uomini. Sono in primo luogo Gastone d’Orléans (1608-1660), fratello del re, e i principi di sangue, quali i membri della casa di Condé, a finanziare la redazione e la divulgazione di scritti propagandistici che protestano contro il potere regio, divenuto tirannico, e rivendicano, nel nome di antiche forme di diritto consuetudinario, il ruolo politico delle grandi famiglie nobiliari nella gestione del regno.
In Inghilterra un ruolo significativo spetta a sir Edward Coke, un alto giudice, che, durante il regno di Giacomo I Stuart, entra in conflitto con il cancelliere regio circa la prevalenza della giurisdizione regia sulla legge consuetudinaria (common law). Coke infatti sostiene che quest’ultima rappresenti l’unica reale tutela per i sudditi di fronte allo strapotere dei ministri della corona. Egli, non a caso, è un fautore dell’ habeas corpus, vale a dire della facoltà dei tribunali inglesi di disporre che ogni persona incarcerata dalle autorità sia condotta a esporre le sue ragioni di fronte ai giudici.
Religione e ideologia democratica durante la rivoluzione inglese
Il lungo conflitto fra corona e Parlamento inglese che sfocia nella guerra civile (1642-1649) rappresenta un periodo di assai intensa elaborazione di ideologie antiassolutistiche che assumono coloriture fortemente democratiche e radicali. Negli anni del conflitto, tra i soldati, tra gli artigiani, all’interno delle chiese si discute liberamente della forma del governo politico, della natura dei rapporti tra Chiesa e Stato, delle radici e dell’autorità del re e del Parlamento.
La questione religiosa è senza dubbio la prima all’ordine del giorno. Vi sono tre principali posizioni: quella di coloro che propongono una purificazione della Chiesa anglicana dai residui liturgici cattolici e intendono mantenere le gerarchie ecclesiastiche; quella dei calvinisti fautori del modello presbiteriano scozzese; e infine quella “congregazionalista” che sostiene la necessità di lasciare piena libertà alle assemblee (le congregazioni) dei fedeli.
Vi sono poi tutti coloro che non si sentono rappresentati dalla Chiesa anglicana e che rivendicano completa libertà di culto, i gruppi non conformisti che non intendono essere assimilati con la forza e che si proclamano autonomi dalla Chiesa ufficiale. Durante la guerra civile queste diversità di posizioni aumentano e si moltiplicano, grazie alla sostanziale libertà di parola e di culto, i gruppi e le sette, come i quaccheri o i battisti, che proclamano la necessità di un nuovo battesimo e la nullità degli atti della Chiesa anglicana. Vi sono poi i ranters, caratterizzati da atteggiamenti eccentrici e dissacratori, e i seekers, propugnatori di una ricerca individuale e critica della verità.
Dalla religione alla politica
È un universo complesso di idee anticonformiste che mettono “il mondo alla rovescia”, secondo l’espressione dello studioso inglese Christopher Hill. Di fronte alla vera e propria esplosione di scritti propagandistici di questi movimenti, il dibattito si sposta dal terreno dell’organizzazione della Chiesa a quello della tolleranza religiosa e della libertà personale. Ad esempio Roger Williams contesta il concetto stesso di Chiesa di Stato e il poeta John Milton lancia nel suo scritto l’ Aeropagitica un vero e proprio appello per la libertà di parola e di stampa.
Ben presto le richieste di libertà filtrano all’ambito politico. Sorgono gruppi radicali che propugnano non solo un’ampia tolleranza religiosa, ma anche l’elezione di un nuovo Parlamento a suffragio universale maschile e la proclamazione, sulla scorta dell’esempio olandese, della repubblica. Il più importante di essi è quello dei levellers (livellatori), guidato da John Lilburne e da altri. Il movimento dei livellatori assume posizioni sempre più apertamente democratiche e radicali, propugnando l’abolizione della monarchia nel nome della sovranità popolare e l’adozione di riforme economico-sociali. Ciò li mette in rotta di collisione con il Parlamento che essi accusano di involuzione autoritaria.
Le idee democratiche hanno grande diffusione all’interno dell’esercito. A Putney, nell’ottobre-novembre 1647, si tengono i famosi dibattiti in occasione dell’assemblea in cui i soldati e gli ufficiali che hanno sconfitto il re discutono della situazione politica. I capi dell’esercito Oliver Cromwell e soprattutto suo genero Henry Ireton – fautori del mantenimento della monarchia e di un accesso alla sfera politica limitata dal censo – devono far ricorso a tutto il loro ascendente e prestigio personale per frenare le spinte democratiche che si manifestano. In tale occasione infatti più d’un intervento rivendica la pari dignità di tutti i volontari che hanno combattuto contro il re e il fatto che tutti i cittadini maschi maggiorenni hanno, per diritto di natura, uguali diritti politici e quindi possono eleggere i propri rappresentanti; che la sovranità risiede nel popolo e la sua cessione deve essere temporanea e controllata; che il potere del sovrano vada limitato. Queste idee confluiscono in un documento di vasta risonanza che invoca un accordo tra l’esercito e il popolo per l’affermazione della sovranità popolare esercitata tramite i rappresentanti eletti nella Camera dei Comuni: l’ Agreement of the people (Patto del popolo).
Il giusnaturalismo
Un altro elemento essenziale della riflessione seicentesca contro le pratiche del potere assolutistico viene dalla corrente di pensiero del giusnaturalismo. Il suo principale esponente è l’olandese Ugo Grozio che postula l’esistenza di un diritto naturale, inteso come insieme di norme universali che derivano dalla natura umana e che, essendo fondate sulla ragione, sono di per sé valide. Tale diritto risale a epoche in cui non esistevano né la società né lo Stato ed è ritenuto la base sia dei diritti individuali (vita, libertà, proprietà) sia dei doveri (il rispetto degli altri e dei patti stipulati). Di conseguenza la nascita delle società deriva da un patto originario con cui il popolo trasferisce la sovranità al re, mantenendo comunque il diritto di ribellarsi di fronte alla tirannide.
La seconda metà del Seicento
Elementi essenziali per comprendere le riflessioni contrarie all’assolutismo del secondo Seicento sono la tradizione classica e la lettura del passato medievale in chiave antitirannica e contrattualistica. Nella Francia di Luigi XIV il dissenso nei confronti dell’azione assolutistica assume connotati diversi. Dopo la revoca dell’editto di Nantes e l’espulsione degli ugonotti dalla Francia (1685), si ha una ripresa da parte protestante di posizioni “monarcomache”. Più sfumata è poi la posizione dei giansenisti: perseguitati dal sovrano che si presente come unico arbitro delle dispute in materia teologica all’interno della Chiesa gallicana, essi si mostrano formalmente ossequiosi della sua autorità, ma producono una notevole quantità di libelli critici verso le posizioni assolutistiche in campo religioso.
Vi è infine la trattatistica dove si esprime l’opposizione aristocratica al sovrano nel nome delle antiche e tradizionali libertà. Si tratta, beninteso, di un’opposizione culturale e non più politica. Della pratica assolutistica essa mette in discussione i modi arbitrari, non il fondamento. Personaggi come Jean de La Bruyère o François de Salignac de la Mothe-Fénelon denunciano la miseria delle classi popolari ma si limitano a evocare una società arcaica e rurale fondata sulle virtù degli antichi. In particolare Fénelon nello scritto destinato al Delfino di Francia di cui era precettore (Examen de conscience sur les devoirs de la royauté, 1697) sostiene che il sovrano deve sempre avere il Vangelo quale propria regola di vita e che non deve mai anteporre la propria gloria personale al diritto e alla giustizia. Soprattutto egli si deve guardare da malvagi e opportunisti che abusano della sua autorità (allusione trasparente ai favoriti e ai ministri corrotti). Uno scritto satirico di Fénelon di poco successivo, le Aventures de Télémaque (1699), costa però al dotto prelato la caduta in disgrazia e il bando dalla corte francese.