Abstract
Per cogliere la dimensione penale della famiglia non basta il titolo XI del codice penale del 1930, che disciplina appunto i delitti contro la famiglia. In esso non si esaurisce infatti la tutela penale dell’istituzione familiare, che, prima ancora che giuridica, è naturale, come lo stesso art. 29 Cost. riconosce. D’altra parte, fattori sociali, culturali, etici e giuridici hanno modificato l’idea tradizionale di famiglia come istituto pubblicistico-statuale, alla base del modello di tutela del titolo e di altre disposizioni del codice che si richiamano alla società familiare. Questa mutazione del concetto di famiglia, i cui confini si sono ampliati ma sono diventati, anche, poco definiti, ha reso inadeguata la disciplina del codice penale alle nuove, emergenti, esigenze di protezione delle realtà familiari, dettate dal modello individual-personalistico promosso dall’affermarsi della convivenza di fatto come paradigma alternativo, riconducibile all’art. 2 Cost. e dal riconoscimento delle unioni civili.
«La Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti», come emerge, in particolare, dalla disposizione dell’art. 2 della Costituzione, «conformemente a quello che è stato definito il principio personalistico che [l’art. 2 Cost.] proclama, risulta che il valore delle ‘formazioni sociali’, tra le quali eminentemente la famiglia, è nel fine a esse assegnato, di permettere e anzi promuovere lo svolgimento della personalità degli esseri umani» (C. cost., 28.11.2002, n. 494).
Se questa è la moderna concezione di famiglia secondo il parametro costituzionale, ad essa nemmeno il codice penale può derogare, nonostante la tutela penalistica dell’istituzione familiare nelle scelte originarie, quelle storiche cioè del codice Rocco del 1930, avesse come asse portante un’idea di famiglia affatto diversa. Per il legislatore del 1930, infatti, secondo l’ideologia autoritario-statualistica dell’epoca, anche la famiglia non poteva che rispecchiare tale ideologia. La prima conseguenza è che la famiglia assurge ad oggetto di protezione penale secondo una dimensione pubblicistica, cioè quale entità, quale bene giuridico autonomo ed indipendente dai soggetti che la compongono e la cui tutela è di per sé meritevole, quale cellula originaria, portante della società, e non in quanto strumentale alla tutela dei diritti di coloro che ne fanno parte. Tanto ciò è vero, che autorevole giurista dell’epoca affermava a proposito del matrimonio «che non è un istituto creato a beneficio dei coniugi, ma è un atto di dedizione e di sacrificio degli individui nell’interesse della società, di cui la famiglia è nucleo fondamentale» (A. Rocco, La legislazione, in Civiltà fascista, 1935, 312). Con la conseguenza che gli interessi dei singoli avrebbero dovuto essere sacrificati, quando fosse stato necessario per la salvaguardia degli interessi del nucleo familiare.
È in tali termini che quest’ultimo entra nell’orizzonte del codice penale, che appunto al bene categoriale della famiglia intitola il titolo XI del libro II, Delitti contro la famiglia, suddividendolo in quattro capi, rispettivamente dedicati ai delitti contro il matrimonio (capo I: artt. 556-565); ai delitti contro la morale familiare (capo II: artt. 564 e 565); ai delitti contro lo stato di famiglia (capo III: artt. 566-569) e infine ai delitti contro l’assistenza familiare (capo IV: artt. 570-574).
Da tale impianto, che è rimasto inalterato fino ai nostri giorni, si ricava un’idea di famiglia come «società coniugale e come società parentale» da proteggere contro condotte che tendono a disgregarla. Di conseguenza, come emblematicamente emerge dai lavori preparatori al codice penale del ‘30 a spiegazione della ratio di tutela della famiglia, lo «Stato deve rivolgere costantemente, e col massimo interesse, la sua attenzione all’istituto etico-giuridico della famiglia, che è il centro di irradiazione di ogni civile convivenza…». In tale prospettiva, in cui la famiglia riveste il ruolo di ente politico intermedio fra lo Stato e l’individuo, diventa compito del legislatore «cercare di rinsaldare, nella sua esistenza fisica e nella sua compagine morale, l’organismo famigliare; e a tale scopo serve anche la sanzione punitiva con la sua minaccia contro attentati all’istituto del matrimonio, che costituisce il fulcro di ogni ben costituita società, e contro l’organismo famigliare» (Lavori preparatori del Codice penale, Relazione sui libri II e III, Roma, 1929, § 610, 334).
È, questo, il modello cd. pubblicistico-istituzionale di famiglia (v. M. Bertolino, La famiglia, le famiglie: nuovi orizzonti della tutela penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 574 ss.; S. Riondato, Cornici di «famiglia» nel diritto penale italiano, Padova, 2014, passim, spec. 92 ss.; Id., Riforme giuspenalistiche in tema di rapporti familiari, in Diritto penale della famiglia e dei minori, a cura di E. Palermo Fabris-A. Presutti-S. Riondato, in Tratt dir. fam. Zatti, Milano, 2019, III, 3 ss.) che dal punto di vista formale appare ancora caratterizzare la nostra realtà codicistica, non essendo mutata la sistematizzazione interna del titolo XI nei quattro capi, né la loro intitolazione. Proprio dalle intitolazioni emerge l’idea della famiglia in funzione strumentale agli interessi statuali di formazione e di educazione degli individui all’autoritarismo e alla gerarchia, onde garantire stabilità e continuità sociale e politica. Così la famiglia come istituzione viene tutelata nel capo I contro le condotte, come quelle di bigamia (art. 556), di adulterio e di concubinato (artt. 559 e 560; entrambi gli articoli sono stati dichiarati illegittimi rispettivamente da C. cost., 19.12.1968, n. 126 e C. cost., 3.12.1969, n. 147), che fanno vacillare l’unità e la stabilità della famiglia come istituzione giuridica fondata sul matrimonio; nel capo II contro condotte, come quella di incesto (art. 564), che minano i fondamenti etici della istituzione matrimoniale; nel capo III contro condotte, come quelle di supposizione o soppressione di stato (art. 566), di alterazione di stato (art. 567) e di occultamento di stato (art. 568), la tenuta delle quali offende la compagine familiare garantita dalla affidabilità delle relazioni familiari costituitesi nel rispetto delle forme giuridiche; infine nel capo IV contro condotte che sono in violazione dei fondamentali obblighi di assistenza derivanti dal negozio matrimoniale, come quella di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570) o che rappresentano un eccesso nell’esercizio di obblighi di educazione e di premura affettiva e morale, come nel caso dell’abuso dei mezzi di correzione (art. 571) o che sono un’aperta violazione di tali obblighi, è il caso del reato di maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli (art. 572) ovvero che interferiscono con l’autorità del genitore sui figli, impedendogli l’esercizio del diritto di educazione e di controllo di essi: i reati di sottrazione di minore (artt. 573 e 574).
Ma l’idea di famiglia come istituzione pubblico-statuale si può cogliere anche da altre fattispecie, che il legislatore ha disperso in maniera disorganica in altri titoli della parte speciale del codice del ‘30 e dalle stesse norme definitorie di cui agli artt. 307 e 540 c.p. Quanto a queste ultime, è in particolare dall’art. 307, inserito nell’ambito dei delitti contro la personalità dello Stato e relativo al delitto di assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata, che si evince una nozione penalmente autonoma dei rapporti di natura familiare, la cui ampiezza è segnata dalla fonte da cui promana la sua veste giuridica e, cioè, il matrimonio. Il legislatore del 1930 agli effetti della legge penale definisce infatti al co. 4 di detto articolo «prossimi congiunti», accanto ai parenti (ascendenti, discendenti, fratelli, sorelle, zii e nipoti), gli affini nello stesso grado e il solo coniuge. Il fronte fattuale dei sentimenti, degli affetti delle convivenze, delle famiglie di fatto viene così emarginato, discriminato a favore di quello normativo rappresentato dalla istituzione matrimoniale, nella sua dimensione del potere, della soggezione, tanto da prevedere espressamente che fuoriescono dalla nozione di prossimo congiunto gli affini in caso di morte del coniuge. Lo stesso dicasi dell’art. 540, collocato all’interno del titolo dedicato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, che, sul fronte della famiglia parentale, a proposito della filiazione, dettava una disciplina che, fino alla riforma del d.lgs. 28.12.2013, n. 154, rispecchiava ancora la discriminazione fra figli legittimi e figli illegittimi, in quanto nati fuori dal matrimonio. Discriminazione che il codice civile nelle scelte storiche sanciva proprio in ragione della esclusività della famiglia matrimoniale, e che viene definitivamente superata solo con la l. 10.12.2012, n. 219, che abolisce la tradizionale distinzione e introduce lo stato unico di figlio (art. 315 c.c.; per una conferma dell’unicità dello status di figlio, v. anche C. cost., 14.12.2018, n. 236, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, co. 1, lett. a, del d.lgs. 28.8.2000, n. 274 e successive modificazioni, nella parte in cui per il delitto di lesioni volontarie, previsto dall’art. 582, co. 2, c.p. non prevede l’esclusione della competenza del giudice di pace anche per i fatti aggravati ai sensi dell’art. 577, co. 1, n. 1, commessi contro il discendente non adottivo, quale il figlio naturale, e non solo di quelli consumati dal genitore nei confronti del figlio adottivo).
Quanto alle altre disposizioni del codice penale, basti ricordare: l’art. 591, co. 4, che punisce più gravemente il fatto di abbandono di persone minori o incapaci se commesso, oltre che dal genitore, dal figlio, dal tutore, dall’adottante o dall’adottato, dal coniuge, che con l’abbandono viola i doveri morali ed economici derivanti dal matrimonio (per un isolato tentativo di estensione della disciplina aggravata anche al convivente, con il rischio peraltro di una fondata censura di applicazione analogica in malam partem, C. ass. Milano, 10.7.2007, in Foro amb., 2007, 3, 323); gli artt. 522 e 523 del titolo relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, abrogati con la riforma dei reati sessuali (l. 15.2.1996, n. 66), che incriminavano le condotte di ratto rispettivamente a fine di matrimonio di donna non coniugata, a fine di libidine di donna maggiore di età, in quanto condotte che violavano non tanto i diritti fondamentali di libertà della rapita, quanto piuttosto la potestà del capo famiglia. Proprio perché l’offesa ruotava intorno alla potestà violata, l’offesa a quella maritale era talmente grave da legittimare un’aggravante in caso di ratto a scopo di libidine di donna coniugata, mentre dalla condotta riparatoria di restituzione della rapita mettendola «a disposizione della famiglia stessa», senza aver commesso alcun atto di libidine in danno della stessa (art. 525), ben poteva derivare un’attenuazione della pena, essendo stato restituito al suo possessore quanto sottratto. Occorre infine ricordare anche l’art. 544 dello stesso titolo, abrogato nel 1981, che attribuiva al matrimonio cd. riparatore, cioè quello contratto dall’autore del reato con la vittima, la natura di causa estintiva del delitto di violenza carnale, assicurando così l’impunità e cancellando come un colpo di spugna l’offesa arrecata alla vittima del reato. Ma anche all’interno di fattispecie orientate alla tutela di beni personalissimi come la vita, il legislatore del ‘30 mostra una preferenza per la persona maritata, prevedendo all’art. 577, co. 2, una circostanza aggravante nel solo caso di omicidio volontario del coniuge e non anche in quello del convivente.
Ancor più significativi di una disciplina sperequata a favore dell’istituzione matrimoniale sono gli artt. 384 e 649 c.p., dove si prevede nell’ambito dei rapporti di coppia una causa di non punibilità a favore esclusivo però di coloro che sono legati da un rapporto di coniugio. Così l’art. 384, che, rinviando alla nozione di prossimo congiunto di cui all’art. 307, finisce con il riconoscere la non punibilità del solo coniuge e non anche del convivente per una serie di reati contro l’amministrazione della giustizia. Investita della questione di costituzionalità, la Consulta l’ha dichiarata infondata. Sulla base, in particolare, di una riconosciuta maggior stabilità che l’istituzione familiare sarebbe in grado di garantire alla convivenza, la Corte ha distinto la famiglia di fatto da quella coniugale per la quale «non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali», ma anche quella di tutela della istituzione familiare, alla realizzazione delle quali la causa di non punibilità dell’art. 384 sarebbe da considerare strumentale (C. cost., 11.3.2009, n. 140; C. cost., 11.1.1996, n. 8; in senso critico la dottrina, v., da ultimo, C. Bernasconi, La tutela penale delle relazioni familiari: brevi note tra passato e presente, in disCrimen, 11.6.2019, 13; A. Vallini, Il diritto penale alla prova di “vecchi” e “nuovi” paradigmi familiari, in Scritti in onore di Giovanni Furgiuele, a cura di G. Conte-S. Landini, Mantova, 2017, 299 ss.).
Stabilità e certezza sono dunque le esigenze soddisfatte dal matrimonio. Per il Giudice delle leggi, esse legittimano una tutela differenziata anche a proposito della non punibilità per alcuni reati contro il patrimonio se commessi a danno di congiunti conviventi, così come previsto dall’art. 649, co. 1, n. 1. Tale articolo, come è noto, riserva questo trattamento di favore al coniuge non legalmente separato e non anche al convivente more uxorio. Anche su questa disposizione la Consulta mantiene un atteggiamento di chiusura verso la famiglia di fatto, escludendo la possibilità di estendere la causa di non punibilità al convivente, poiché la convivenza more uxorio «manca dei caratteri di stabilità e di certezza propri del vincolo coniugale, essendo basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile». In particolare, per la Consulta l’art. 649 è applicabile al solo coniuge, dato che la ratio di tale disposizione sarebbe da rinvenire nella esigenza di proteggere l’istituzione familiare «ad eventuale discapito del singolo componente, il quale viene privato della tutela penale offerta dalle norme incriminatrici poste a presidio del patrimonio pure se abbia, nel caso concreto, un personale interesse alla punizione del colpevole» (C. cost., 12.7.2000, n. 352; C. cost., 20.12.1988, n. 1122; C. cost., 7.4.1988, n. 423 e, da ultimo, nella giurisprudenza di legittimità, v. Cass. pen., 8.7.2016, n. 28638; contra, isolatamente, Cass. pen., 21.5.2009, n. 32190). Criticamente osserva, tra l’altro, la dottrina che l’interesse a preservare l’istituto matrimoniale in realtà sarebbe venuto meno di fronte a fatti di reato che già sono una probabile testimonianza della mancanza di volontà dei coniugi di mantenere la stabilità familiare. In tale ottica, non solo non si giustificherebbe la disparità di trattamento tra coniugi e conviventi, ma lo stesso istituto della non punibilità (cfr. M. Riverditi, La doppia dimensione della famiglia (quella “legittima” e quella “di fatto”) nella prospettiva del diritto penale vigente. Riflessioni, in Studi in onore di Franco Coppi, I, Torino, 2011, 575 ss., per il quale tale decisione non sarebbe giustificabile, anzi, «appare, di per sé, irragionevole», in quanto individua «nell’esigenza di tutela del ‘valore aggiunto’ costituito dalla stabilità del rapporto di coniugio» il criterio discretivo fra famiglia matrimoniale e famiglia di fatto; contro l’estensione della causa al convivente, v. R. Bartoli, Unioni di fatto e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 1623). A favore dell’abrogazione tout court dell’istituto si è pronunciata anche la Consulta (v. C. cost., 5.11.2015, n. 223), che nel dichiarare l’inammissibilità della questione proposta, afferma: «Non stupisce, dunque, che una causa di non punibilità concepita in epoca segnata dal ruolo dominante del marito e del padre, già criticata in epoca risalente per la sua inopportunità (sebbene il Guardasigilli Rocco avesse stimato di conservarla per non allontanarsi «da una tradizione legislativa universalmente accolta»), sia posta oggi in discussione: la protezione assoluta stabilita intorno al nucleo familiare, a prezzo dell’impunità per fatti lesivi dell’altrui patrimonio, non è più rispondente all’esigenza di garantire i diritti individuali e gli stessi doveri di rispetto e solidarietà, che proprio all’interno della famiglia dovrebbero trovare il migliore compimento».
Diversamente stanno le cose dal punto di vista sostanziale, dal quale emerge come fattori sociali, etici, giuridici abbiano spinto verso una concezione familiare ormai rinnovata in senso personalistico, e che è stata in parte confermata anche da recenti riforme nel settore penale, che però non hanno coinvolto il titolo XI del codice penale, quanto piuttosto alcune disposizioni, e non solo definitorie, al di fuori di tale titolo, peraltro strumentali alla ricostruzione del concetto moderno di famiglia. Il riferimento è agli artt. 307, co. 4, 574 ter e 649 del codice penale.
Nonostante questi innovativi e ampliativi interventi riformatori, di cui a breve si dirà, occorre però rilevare che è la stessa Corte costituzionale a ricordare, nel raffronto fra famiglia di fatto e famiglia fondata sul matrimonio, che per «la famiglia legittima non esiste soltanto un’esigenza di tutela delle relazioni affettive individuali e dei rapporti di solidarietà personali. A questa esigenza può sommarsi quella di tutela della istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità, un bene che i coniugi ricercano attraverso il matrimonio, mentre i conviventi affidano al solo loro impegno bilaterale quotidiano. Posto che la posizione del convivente meriti riconoscimento, essa non necessariamente deve dunque coincidere con quella del coniuge dal punto di vista della protezione dei vincoli affettivi e solidaristici» (C. cost. n. 140/2009). Per la Consulta, pertanto, esiste ancora una differenza fra la famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 Cost. e la famiglia di fatto, riconducibile alle «formazioni sociali» di cui all’art. 2 Cost. (v. in particolare C. cost., 13.11.1986, n. 237), tale da legittimare in certi casi «soluzioni legislative differenziate» (C. cost., 18.1.1996, n. 8), come nel caso, già richiamato, della causa di non punibilità dell’art. 384 c.p. D’altra parte, con questa interpretazione il Giudice delle leggi conferma l’orientamento già in precedenza emerso in materia successoria, a proposito della quale aveva espresso il principio per cui «il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità … contrasterebbe con le ragioni del diritto successorio, il quale esige che le categorie dei successibili siano individuate in base a rapporti giuridici certi e incontestabili (quali i rapporti di coniugio, di parentela legittima, di adozione, di filiazione naturale riconosciuta o dichiarata)» (C. cost., 18.5.1989, n. 310).
Ma, se per un verso riconosce, nei limiti evidenziati, un maggior peso alla famiglia il cui fondamento sia nel matrimonio, per altro verso è la stessa Corte costituzionale a precisare che quella definita come società naturale fondata sul matrimonio di cui all’art. 29 Cost è comunque da intendersi come una famiglia che naturalisticamente è portatrice di «diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere» e, per altro verso ancora, che questo riconoscimento non contraddice l’affermazione che «i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere ‘cristallizzati’ con riferimento all’epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi» (C. cost., 14.4.2010, n. 138; sulla compatibilità del modello di famiglia delineato dall’art. 29 Cost. con quello liberal-personalistico ricavabile dall’art. 2 Cost., v., da ultimo, A. Vallini, Il diritto penale alla prova di ”vecchi” e “nuovi” paradigmi familiari, cit., 288 ss., il quale sottolinea che, se pur si aveva allora in mente ovviamente un modello culturale e antropologico in quel momento prevalente, «il concetto di matrimonio si apre virtualmente a nuove idee di matrimonio, ed è erroneo – come spesso si fa – interpretarlo alla luce della legislazione ordinaria, così invertendo i fattori»; v., anche, S. Riondato, Riforme giuspenalistiche, cit., 7, per l’assenza di una definizione “forte” ed esclusiva di famiglia, trattandosi di un istituto che è prima di tutto pre-giuridico, non solo nella legislazione civile, penale e amministrativa, ma pure nella Costituzione, dove, «stando alla lettera, parrebbe mancare una definizione forte», mentre quella di famiglia dell’art. 29 «finirebbe per dar luogo ad una norma in bianco»; in senso parzialmente diff., nella dottrina civilistica, v. M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2019, 1 ss. per il quale «la Carta costituzionale enuncia una vera e propria definizione della famiglia», ciò peraltro non significa, continua l’autore, che la Costituzione consideri la famiglia un’entità esistente in natura con caratteri immutabili; questa lettura, infatti, pur seguita in passato, non appare più aderente al significato attuale della norma). Si potrebbe allora concludere che «la Costituzione – piuttosto che adottare normativamente un modello rigido di famiglia – consenta di relazionarsi al concreto atteggiarsi dei rapporti familiari … salvo comunque il fatto che, a tutta prima, il Costituente sembra aver ricompreso nel suo ambito esclusivamente relazioni fondate sul matrimonio» (M. Sesta, Manuale di diritto di famiglia, cit., 2).
Se così stanno le cose, nessuna meraviglia dunque che sul versante penalistico non si riesca ad arrivare ad una piena assimilazione delle tutele fra famiglia di fatto e famiglia istituzionale, fondata sul matrimonio (in proposito, cfr. anche C. Cassani, Tutela penale della famiglia. Rapporti con il multiculturalismo, Roma, 2013, 1 ss.), pur aprendosi in certi casi anche il diritto penale, come si vedrà, a modelli familiari alternativi a quello matrimoniale, a dispetto della univoca definizione dettata dall’art. 29 Cost., sulla base di altri principi di valenza costituzionale, desumibili dagli artt. 2, 3 e 30 Cost. e grazie anche ad una normativa sovranazionale, come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali ratificata in Italia nel 1955. Queste fonti sovranazionali restituiscono un’idea di famiglia più che come oggetto di tutela come contesto aperto di relazioni familiari e di valorizzazione dei diritti individuali (sul concetto di famiglia come contesto, v. D. Pulitanò, Diritto penale, II, Torino, 2019, 5; v. anche M. Bertolino, Il minore vittima di reato, Torino, 2010, 25 ss. per un concetto di famiglia «come l’insieme dei singoli rapporti familiari», facenti capo ai diversi soggetti del nucleo familiare, onde valorizzare di quest’ultimo le componenti personologiche).
Dovrebbe invece sorprendere per la sua irragionevolezza l’atteggiamento di assoluta disattenzione nei confronti della convivenza di fatto che il legislatore penale post-moderno manifesta ancora in occasione dei recenti interventi di modifica degli articoli sopra richiamati: 307, 574 ter, 649 c.p. Se, come è noto, in questi articoli viene espressamente accolto il nuovo modello di coppia, quello omosessuale basato su un’unione civile, introdotto dal legislatore con la l. 20.5.2016, n. 76, Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e la disciplina delle convivenze, queste ultime non trovano una pari accoglienza nei termini di altra relazione di coppia accanto a quella del matrimonio, disciplinata nel libro primo del codice civile (artt. 79-230 bis) e a quella di nuovo conio dell’unione civile di cui agli artt. 1-34 della legge del 2016. E ciò, nonostante anche la stabile convivenza tra persone eterosessuali o dello stesso sesso rappresenti ormai un modello consolidato, in quanto anch’esso trova una regolamentazione nella l. n. 76/2016, all’art. 1, co. 36-65.
Ma così non è stato per il legislatore della riforma, che agli effetti penali con il d.lgs. 19.1.2017, n. 9 coordina solo le unioni civili omosessuali e lo fa in primo luogo estendendo la definizione di prossimi congiunti di cui al co. 4 dell’art. 307 c.p. alla «parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso». Il medesimo legislatore interviene anche sull’art. 649 c.p., equiparando, ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità, la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso al coniuge (co. 1, n. 1-bis). Ma intervento ancora più rilevante agli effetti penali è l’introduzione dell’art. 574 ter, della cui portata generale e di chiusura non si può dubitare, come si desume dal suo tenore letterale, nonostante tale articolo sia stato inserito nel titolo XI. Così recita la disposizione, rubricata Costituzione di un’unione civile agli effetti della legge penale: «Agli effetti della legge penale il temine matrimonio si intende riferito anche alla costituzione di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Quando la legge penale considera la qualità di coniuge come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un reato, essa si intende riferita anche alla parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso». L’effetto più immediato e appariscente della nuova norma è di rendere automaticamente applicabili alle unioni civili i delitti contro la famiglia del titolo XI (ma v., anche, artt. 577, co. 2; 585; 591, co. 4; 605, co 2; 602 ter, co. 6; 609 ter, n. 5-quater, 612 bis, co. 2).
Aperto rimane dunque il problema di quale tutela penale sia da riconoscere alla famiglia di fatto in assenza di un intervento ad hoc del legislatore, al quale, giustamente, nemmeno la Consulta ritiene di potersi sostituire (v., con particolare riferimento all’art. 649, C. cost. n. 223/2015). Nel variegato quadro della famiglia, quello della convivenza di fatto risulta essere ancora il più incerto e frammentario. A fronte infatti di puntuali ma sporadiche, modifiche legislative, come a proposito dell’art. 572, dell’art. 577, co. 1, n. 1, dell’art. 612 bis, co. 2, manca un disegno organico di tutela di questo modello di famiglia, disegno che solo un’assimilazione al modello fondato sul matrimonio, come avvenuto per le unioni civili, avrebbe potuto assicurare. Negli articoli appena richiamati infatti si prevede l’incriminazione rispettivamente per il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi (v. d.l. 14.8.2013, n. 93, conv. con l. 15.10.2013, n. 119); per quello di omicidio aggravato se commesso, non solo contro il coniuge o la parte di un’unione civile, ma anche contro la persona legata al colpevole da relazione affettiva e con esso stabilmente convivente (v. l. 11.1.2018, n. 4); per il delitto di atti persecutori aggravato se commesso oltre che dal coniuge, anche separato o divorziato, da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (v. d.l. 23.2.2009, n. 11, conv. con l. 23.4.2009 e successive modificazioni).
Quanto ai delitti contro la famiglia, incerte continuano a rimanere le linee di tutela della convivenza di fatto, per la definizione delle quali non si può che fare ancora affidamento sulla giurisprudenza, che, in particolare ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 572 anche nel caso della convivenza, già prima della riforma del 2013 aveva cercato di meglio definirne i contorni. A tal fine la Cassazione (v., fra le altre, Cass., 8.11.2005, n. 44262) ha ritenuto non necessario che la convivenza «abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in concreto l’esito di tale comune decisione». Ritornando sulla questione dopo l’ultima riforma, la Corte di legittimità ancora afferma: «Non è … sufficiente la protratta durata del rapporto, né la nascita di una figlia ad imprimere ad una relazione sentimentale fra soggetti non conviventi la connotazione di unione improntata alle caratteristiche proprie di un legame familiare che costituisce in ultima analisi il presupposto applicativo del reato di cui all’art. 572 c.p. in assenza di convivenza» (Cass., 27.11.2018, n. 345). La Corte infatti ritiene che il nucleo caratterizzante il rapporto familiare di fatto risieda «nella natura e nell’intensità del vincolo, che – secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità – ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca assistenza morale e materiale» (favorevole ad una generalizzata espansione di tutela alle coppie di fatto, in dottrina, da ultimo, S. Riondato, Riforme giuspenalistiche, cit., 19).
Ma a proposito di fattispecie come quella dell’art. 570, violazione degli obblighi di assistenza familiare, o di quella del nuovo art. 570 bis, violazione degli obblighi di assistenza familiare in caso di separazione o di scioglimento del matrimonio (d.lgs. 1.3.2018, n. 21), qualsiasi tentativo di estensione di esse alle convivenze, anche more uxorio, è destinato a fallire, scontrandosi con il principio di legalità e della riserva di legge che sancisce il divieto di analogia in malam partem. La violazione, infatti, può essere commessa solo dai soggetti su cui gravano obblighi di assistenza stabiliti dal codice civile o da altre fonti giuridiche relativi in particolare, ai nostri fini, alla qualità di coniuge. Fra queste fonti sembra dunque non potersi annoverare la l. n. 76/2016, art. 1, co. 36-65, che ha introdotto la nuova figura negoziale del contratto di convivenza, dal quale scaturiscono una serie di obblighi, l’inadempimento dei quali tuttavia non potrebbe comunque rilevare penalmente alla luce degli articoli sopra richiamati, pena, ancora una volta, la violazione del principio del divieto di analogia in malam partem.
Occorre infine prendere atto dell’affermarsi nel contesto sociale di una nuova tipologia di famiglia parentale, rappresentata dai cd. genitori sociali, dai genitori cioè che diventano tali in seguito a tecniche di procreazione assistita in particolare con utero in affitto. Proprio a proposito di quest’ultima tecnica, che come è noto è proibita in Italia (v. art. 12 l. 19.2.2004, n. 40), si è posto il problema della applicabilità dell’art. 567, co. 2, c.p., Alterazione di stato, ai genitori che, ai fini dell’iscrizione allo stato civile italiano del bambino avuto all’estero ricorrendo alla maternità surrogata, lo dichiarano come figlio proprio, nonostante l’assenza di un legame biologico e/o gestazionale con il neonato. Ebbene, la giurisprudenza ha ritenuto non configurabile il reato, quando l’atto di nascita, di cui si chiede la registrazione in Italia, risulti regolarmente formato secondo la legge dello Stato in cui il bambino è nato grazie alla surrogazione di maternità (cfr., fra le altre, Cass., 11.10.2016, n. 48696; Cass., 5.4.2016, n. 13525).
Il panorama familiare si presenta dunque, oggi, particolarmente variegato per i diversi modelli familiari ormai presenti nella realtà: dalla società matrimoniale a quella di fatto, dalla convivenza more uxorio alla comunanza di affetti, alla relazione affettiva, dalle unioni civili alla famiglia parental-sociale. Con riferimento a ciascuna di queste forme familiari si pongono questioni di tutela penale relative al se, come e quanto tutelare. A queste ultime è in primo luogo compito del legislatore dare una risposta, onde evitare che, per soddisfare istanze allargate di protezione familiare, in sede applicativa si finisca per un’equiparazione senza mediazione normativa tra la famiglia istituzional-matrimoniale e le altre forme di società familiare, con effetti, anche in malam partem, che comunque ignorano la dimensione volontaristica di non sottostare ai vincoli derivanti dal matrimonio alla base del rapporto di coppia di tipo fattuale. Ma non basta. Se la prospettiva di riforma è quella di valorizzare la dimensione personalistica della tutela penale, il nodo che il legislatore dovrà comunque preliminarmente sciogliere è se mantenere o meno il bene giuridico di categoria della famiglia.
Fonti normative
Artt. 2, 3, 29, 30 Cost.; artt. 307, 384, 556, 559, 560, 566, 567, 568, 570, 570 bis, 571, 572, 573, 574, 574 ter, 591, 649 c.p.; art. 315 c.c.; d.lgs. 19.1.2017, n. 9; l. 20.5.2016, n. 76; d.lgs. 28.12.2013, n. 154.
Bibliografia essenziale
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