Abstract
Il progresso tecnologico, associato a una mutata sensibilità sociale nei confronti degli eventi avversi, ha determinato un cambiamento nella risposta della società – e con essa dell’ordinamento giuridico – al verificarsi delle calamità naturali. Se, ancora in un passato non troppo remoto, tali fenomeni venivano considerati delle ineluttabili fatalità, oggi queste vengono frequentemente ricondotte (anche) alla condotta di taluno. Ecco, quindi, che qualora il verificarsi di una calamità naturale abbia leso o posto in pericolo la vita o l’incolumità, pubblica o privata, possono porsi profili di responsabilità penale in capo al soggetto che era tenuto a gestire tale fonte di rischio. Il contributo si propone di individuare i possibili “gestori del rischio”, nonché di evidenziare le problematiche giuridiche che la prassi ha fatto emergere in questa innovativa materia.
Il ricorso al diritto penale con riferimento alle conseguenze provocate dalle calamità naturali rappresenta un fenomeno alquanto recente all’interno del nostro sistema giuridico. Ancora fino al termine degli anni novanta del secolo scorso, il verificarsi di una calamità naturale che causasse danni a persone o cose veniva abitualmente attribuita al volere del fato, anziché alla responsabilità di taluno (Dovere, S., Protezione civile, sanità ed aviazione civile: il rischio penale tra presente e futuro, in Riv. it. med. leg., 2017, I, 89; Gargani, A., Profili di responsabilità penale degli operatori della protezione civile: la problematica delimitazione delle posizioni di garanzia, in Gestri, M., a cura di, Disastri, protezione civile e diritto. Nuove prospettive nell’Unione Europea e in ambito penale, Milano, 2016, 207 ss. Più in generale, v. Douglas, M., Rischio e colpa (1992), trad. it. Bologna, 1996, 22 ss.; Luhmann, N., Sociologia del rischio (1991), trad. it. Milano, 1996, 4). D’altra parte, lo stesso legislatore, almeno fino all’introduzione della l. 24.2.1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), aveva inteso le calamità naturali quali una sorta di fenomeno ineluttabile, da affrontarsi esclusivamente a evento avvenuto, approntando a tal fine un sistema che potesse organizzare e gestire efficacemente i soccorsi (per una ricostruzione della disciplina vigente all’epoca, v. Gandini, F.-Montagni, A., La protezione civile, profili costituzionali e amministrativi, riflessi penali, Milano, 2007, 31 ss.).
A fronte di un contesto simile, rappresentava un logico corollario il fatto che la gestione di questo tipo di eventi fosse sostanzialmente un territorio franco dal diritto penale.
L’impostazione è iniziata a mutare con l’approvazione della l. n. 225/1992, la quale ha disciplinato il moderno sistema di protezione civile (v. infra, § 3.1), cui è stato attribuito anche il fondamentale compito di prevedere e prevenire il verificarsi di possibili fenomeni calamitosi. Complice il progresso tecnologico, era divenuto possibile – seppur con gli inevitabili limiti connessi al livello delle conoscenze scientifiche disponibili – un approccio nuovo ai disastri naturali, non più meramente incentrato sul soccorso, bensì di stampo preventivo e volto alla messa in sicurezza della popolazione prima del verificarsi dei fenomeni.
Al contempo, a partire dalla seconda metà del secolo scorso si è assistito a un sensibile mutamento della risposta sociale ai rischi. La tendenza a ricondurre gli eventi avversi al fato è divenuta sempre più rara, così come l’accettazione delle conseguenze pregiudizievoli da questi provocate. Si è così radicato un diverso paradigma, improntato alla pretesa di sempre maggiori livelli di sicurezza da parte degli organi e delle istituzioni pubbliche, correlato a una diffusa resistenza psicologica all’accettazione del caso fortuito, tale per cui ogni sventura sarebbe oggi da ricondurre alla responsabilità di qualcuno (Beck, U., La società del rischio (1986), trad. it. Roma, 2000, 98; Douglas, M., Rischio e colpa, cit., 33; Piergallini, C., Il paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza al tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1702).
Ove poi si tenga presente come, nel nostro ordinamento, sia ancora fortissima la tendenza ad affrontare ogni fenomeno tramite lo strumento penale (Stella, F., Giustizia e modernità, III ed., Milano, 2003, spec. 96 ss. Più di recente, con accenti analoghi, Romano, M., Ripensare il diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, I, 9), possono darsi per assodate – almeno nelle linee essenziali – le tendenze che hanno portato all’origine del diritto penale delle calamità naturali.
Le calamità naturali, per il loro carattere intrinsecamente distruttivo, sono solitamente suscettibili di provocare conseguenze lesive particolarmente severe e che possono ledere o porre in pericolo beni quali la vita, la pubblica o privata incolumità, l’ambiente e la proprietà. Si tratta di una serie di beni di importanza fondamentale e, come tali, dotati di rango costituzionale. Per tale ragione, il legislatore ha approntato una tutela particolarmente ampia, tanto da far ricorso allo schema dei reati causali puri. Ciò significa, in estrema sintesi, che qualsiasi offesa a tali beni, indipendentemente da come venga posta in essere (e quindi tanto in forma commissiva, quanto omissiva), è suscettibile di integrare la fattispecie illecita.
Nella prassi, le ipotesi che si sono riscontrate più di frequente attengono proprio al mancato impedimento colposo dell’evento, mentre costituisce un avvenimento alquanto inusuale la realizzazione dell’illecito in forma commissiva (per una peculiare situazione di tal genere si v. infra, § 4.2). Da ciò consegue come, nella maggioranza dei casi, gli illeciti in parola saranno inquadrabili all’interno della categoria dei reati omissivi impropri. Rivestirà importanza fondamentale, nell’individuazione dei soggetti responsabili, la corretta ricostruzione delle posizioni di garanzia, ossia dei soggetti investiti dell’obbligo di impedimento (art. 40, co. 2, c.p.) delle conseguenze lesive connesse al verificarsi della calamità naturale (v. infra, § 3).
Per quanto concerne le fattispecie delittuose più frequentemente ricorrenti in questo ambito, vengono in rilievo, in primo luogo, varie ipotesi di disastro, quali l’art. 423 c.p. (incendio), l’art. 423 bis c.p. (incendio boschivo), l’art. 426 c.p. (inondazione, frana o valanga), l’art. 434 c.p. (crollo di costruzioni o altri disastri dolosi), abitualmente nelle loro varianti colpose, disciplinate dagli artt. 449 c.p. (delitti colposi di danno) e 450 c.p. (delitti colposi di pericolo). A queste forme di illecito, afferenti alla pubblica incolumità, vanno poi aggiunte quelle relative alla tutela di singoli individui, ossia l’art. 589 c.p. (omicidio colposo) e l’art. 590 c.p. (lesioni personali colpose).
L’attuale assetto di tutela conosce diverse categorie di soggetti gravati del compito di impedire il verificarsi delle calamità naturali o, più spesso, che le conseguenze di queste offendano determinati beni giuridici.
Un ruolo primario, nello svolgimento di tali attività, è senza dubbio svolto dal Servizio nazionale della protezione civile, al quale il legislatore ha espressamente attribuito il compito di «tutelare la vita, l’integrità fisica, i beni, gli insediamenti, gli animali e l’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo» (art. 1, d. lgs. 2.1.2018, n. 1) (la complessa e frammentaria normativa di protezione civile è stata recentemente recepita e riorganizzata dal d.lgs. n. 1/2018 recante il Codice della protezione civile. Per un inquadramento complessivo delle criticità preesistenti e delle ragioni della riforma v. AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. La responsabilità del Sistema e dei diversi attori nelle prospettive di riforma legislativa, Pisa, 2016).
Ai fini di un miglior raggiungimento di tali obiettivi, il Servizio è improntato ai principi di «sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza» (art. 3, d.lgs. n. 1/2018) e vede coinvolti una pletora di soggetti diversi, fra cui in primis, lo Stato, le Regioni e gli enti locali (ma non solo, cfr. in proposito gli artt. 4 e 13, d.lgs. n. 1/2018 per l’elencazione delle Componenti e delle Strutture operative del Servizio nazionale della protezione civile), cui sono attribuiti compiti che consistono nella previsione e prevenzione dei rischi, nonché nella gestione e superamento delle emergenze (art. 2, d.lgs. n. 1/2018). In estrema sintesi, com’è stato efficacemente affermato, tale Sistema costituisce quindi una «organizzazione policentrica a carattere diffuso» (C. cost., 30.10.2003, n. 327), che spazia dalla scala locale, ove il Sindaco è individuato quale autorità locale di protezione civile, a quella nazionale, ove al Presidente del Consiglio dei Ministri è attribuito il ruolo di autorità nazionale di protezione civile (cfr. art. 3, co. 1, lett. a, b e c d.lgs. n. 1/2018).
Nonostante l’opera di riorganizzazione normativa recentemente attuata dal legislatore, la corretta individuazione dei soggetti gravati da una posizione di garanzia all’interno del Sistema di protezione civile continua a costituire un problema di non poco momento. Difatti, alle normali difficoltà connesse al frequente accoglimento di criteri che danno rilievo – in misura più o meno marcata – a elementi di stampo sostanzialistico/funzionale nell’individuazione del garante (sul tema, per tutti, Grasso, G., Il reato omissivo improprio, Milano, 1983, 221 ss. Criticamente, sul punto, v. Marinucci, G.-Dolcini, E., Manuale di Diritto Penale, VII ed., Milano, 2018, 255 ss.), si aggiungono ulteriori criticità proprie del settore in esame. Ciò avviene sia per quanto attiene alle attività di previsione e prevenzione – ove le maggiori complessità attengono essenzialmente alla corretta ed esaustiva ricostruzione normativa e regolamentare, a livello statale e regionale, della materia – sia e soprattutto per quanto concerne la gestione dell’evento.
L’art. 7, d.lgs. n. 1/2018 distingue gli eventi in tre tipologie, a seconda che possano essere affrontati da singoli enti o amministrazioni operanti in via ordinaria (cd. tipo a, per cui è competente il sindaco), da più enti o amministrazioni che agiscano in via coordinata e facendo ricorso a mezzi e poteri straordinari (cd. tipo b, per cui è competente il prefetto) o, infine, eventi che abbiano rilievo nazionale e che richiedano l’impiego di risorse e poteri straordinari (cd. tipo c, gestiti direttamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, attraverso il Dipartimento della protezione civile). Tuttavia, com’è stato osservato, il corretto inquadramento dell’emergenza in una delle tre tipologie è frequentemente possibile solo ex post, sicché tale incertezza si riverbera inevitabilmente anche sulla corretta individuazione del soggetto tenuto alla gestione dell’evento (per tutti, Canzio, G., Intervento al convegno “La Protezione civile nella società del rischio. Procedure, garanzie, responsabilità”, Pisa, 2014, 17; Giunta, F., Intervento al convegno “La Protezione civile nella società del rischio. Chi valuta, chi decide, chi giudica”, Pisa, 2013, 107; Pisa, I., Protezione civile e responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, I, 235).
Com’è facilmente intuibile, il problema si è posto con una certa frequenza per quanto attiene al riparto di competenze fra Sindaco e Prefetto poiché, soprattutto con riferimento alle calamità di tipo idro-meteorologico, costituisce un’evoluzione naturale del fenomeno il suo progressivo aggravamento, così che quella che, in prima istanza, poteva sembrare una situazione gestibile a livello comunale, richiede successivamente di essere affrontata in modo più complesso e strutturato, facendo ricorso alle risorse affidate alla gestione prefettizia. Ecco, quindi, che proprio con riferimento ai fenomeni predetti si è posto il tema di individuare se, e in virtù di quali presupposti, la posizione di garanzia del Sindaco possa venire meno allorquando la portata dell’evento calamitoso sia tale da richiedere l’intervento del Prefetto. La questione, già affrontata una prima volta dalla Corte di cassazione nella pronuncia relativa all’alluvione in Piemonte del 1994 (Cass. pen., 13.9.2001, n. 33577) è stata successivamente approfondita dalla Suprema Corte nella decisione relativa al disastro di Sarno (su cui v. anche infra, § 4.1). In tale occasione, i giudici di legittimità hanno, infatti, affermato che «fino a che il prefetto non abbia assunto, anche di fatto, la direzione delle operazioni, il sindaco, nell’ambito del territorio comunale, mantiene tutti i poteri e gli obblighi derivanti dalla qualità di autorità locale di protezione civile. Non è certo sufficiente, per liberare il sindaco dei suoi obblighi, che il prefetto sia in possesso di tutte le informazioni ‘necessarie e sufficienti per far scattare tutti i predetti meccanismi di prevenzione’ [...] se, di fatto, questi meccanismi non siano ‘scattati’» (Cass. pen., 3.5.2010, n. 16761).
Comprensibilmente preoccupata di evitare il verificarsi di pericolosi vuoti di tutela, la Corte – attraverso una lettura sistematica della complessa normativa di riferimento – ha così ritenuto come la posizione di garanzia del Sindaco non venga meno in virtù del mero aggravamento dell’evento o del semplice assolvimento degli oneri informativi verso l’autorità sovraordinata. Al contrario, solo quando il Prefetto abbia concretamente assunto la gestione dell’emergenza questi diviene il principale attore sulla scena, mentre i compiti del Sindaco mutano, senza tuttavia cessare, dovendo questi continuare a prestare il proprio contributo al fine di tutelare la popolazione lui affidata (v. anche Gargani, A., Profili di responsabilità penale degli operatori della protezione civile, cit., 233 ss.).
Al di fuori delle varie e complesse articolazioni che, globalmente considerate, vengono a comporre il Servizio nazionale della protezione civile, non vi sono altri soggetti cui siano normativamente attribuiti degli obblighi impeditivi espressamente correlati al verificarsi di calamità naturali. Ciò non toglie, tuttavia, come sussistano diverse figure di garanti, investiti di posizioni di protezione particolarmente estese, che debbano tenere conto di una pluralità di diversi fattori di rischio, fra cui possono senza alcun dubbio essere inclusi anche i fenomeni naturali avversi.
All’interno della categoria in parola, l’ipotesi più rilevante attiene all’ambito della sicurezza sui luoghi di lavoro disciplinata dal d.lgs. 9.4.2008, n. 81 (Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro). Al datore di lavoro, infatti, è espressamente attribuita la «valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza» (art. 15, co. 1, lett. a, d.lgs. n. 81/2008), fra cui sono ricompresi anche quelli relativi ai «fattori dell’ambiente» (art. 15, co. 1, lett. b, d.lgs. n. 81/2008). Ciò significa che il titolare del rapporto lavorativo è tenuto a prevenire anche i rischi all’incolumità dei propri dipendenti correlati al verificarsi di calamità naturali. Realisticamente, tale obbligo potrà essere adempiuto facendo in modo che i luoghi di lavoro siano sicuri, ossia che non siano allocati in aree esposte a rilevanti rischi di tipo idrogeologico, oppure che gli edifici – qualora insistano su zone soggette a terremoti – siano stati costruiti con i dovuti criteri antisismici (Grotto, M., Obbligo di adeguamento antisismico e responsabilità penale del datore di lavoro, in Cass. pen., 2017, IV, 1720 ss. Più in generale, sul tema, Tiraboschi, M., Prevenzione e gestione dei disastri naturali (e ambientali): sistemi di welfare, tutele del lavoro, relazioni industriali, in Dir. rel. ind., 2014, III, 588 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. pen., 9.11.2017, n. 51285).
La medesima disciplina si applica poi al settore della pubblica istruzione, ove il dirigente scolastico è gravato degli stessi obblighi del datore di lavoro (art. 2, d.lgs. n. 81/2008). In questo caso, tuttavia, non disponendo del potere di spesa necessario per garantire la messa in sicurezza degli edifici, al dirigente è richiesto di attivarsi con le competenti amministrazioni affinché siano queste a porre in essere i dovuti interventi di adeguamento (art. 18, co. 3, d.lgs. n. 81/2008). In via residuale, qualora ciò non fosse possibile e vi dovesse essere un concreto pericolo per l’incolumità delle persone frequentanti i plessi scolastici, il garante sarà tenuto a disporre l’interruzione delle attività fino a che la situazione di pericolo non venga superata (Cass. pen., 21.1.2016, n. 2536).
Al di fuori dei settori citati, la situazione diviene più frammentaria e di difficile ricostruzione, poiché possono darsi diverse situazioni in cui – in modo più o meno contingente – un soggetto è tenuto a prevenire le possibili conseguenze pregiudizievoli provocate dalle calamità naturali.
Limitandosi ad alcuni esempi tratti dalla giurisprudenza più recente, al capo del Genio civile di una città siciliana è stato contestato il reato di omicidio colposo plurimo per non aver impedito il transito veicolare nell’alveo di alcuni torrenti abitualmente in secca e utilizzati da diversi automobilisti come sede stradale alternativa. La situazione si protraeva fino a quando un temporale si abbatteva sulla città e le acque meteoriche, confluite nella loro sede naturale, davano luogo a un’onda di piena che travolgeva diverse automobili, provocando la morte di quattro persone. In ordine a tali fatti, l’imputato è stato ritenuto titolare di una posizione di garanzia, tale per cui egli avrebbe dovuto attivarsi per disporre la chiusura degli accessi stradali al torrente e la messa in sicurezza dello stesso. Considerata, poi, la non eccezionalità del fenomeno meteorico verificatosi, e quindi la prevedibilità dell’evento finale, lo stesso è stato ritenuto responsabile del reato ascrittogli (Cass. pen., 8.5.2012, n. 17069).
Un’altra vicenda, che ha visto coinvolti una pluralità di soggetti, pubblici e privati, è poi quella relativa all’alluvione che ha colpito la zona di Sestri Ponente (Genova) il 4 ottobre 2010. Nel caso di specie venivano tratti a giudizio, con l’accusa di inondazione colposa, diversi funzionari provinciali e comunali addetti al governo del territorio e alla gestione delle opere idrauliche, nonché alcuni responsabili di imprese insistenti sui corsi d’acqua poi esondati. Ai primi veniva contestato di non aver assicurato la manutenzione e pulizia dei rii, nonché di non aver imposto la messa in regola di talune irregolarità idrauliche di diverse imprese i cui scarichi confluivano nei rii interessati dall’evento, mentre ai privati veniva contestato di non aver posto in essere queste ultime condotte che, ove realizzate, avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. Il Tribunale, pur condividendo la sussistenza di una posizione di garanzia in capo agli imputati, in virtù del particolare rapporto intercorrente con la fonte di pericolo (rinvenuta ora nella posizione pubblicistica, ora in diverse norme del codice civile, per i privati), li ha tuttavia assolti in ragione della ritenuta eccezionalità dell’evento (Trib. Genova, 12.4.2017, inedita. V. anche Pisa, I., Protezione civile e responsabilità penale, cit., 256 ss.).
Per quanto l’instaurazione di procedimenti penali aventi a oggetto la gestione delle calamità naturali sia un fenomeno alquanto recente (v. supra, § 1), la casistica è già piuttosto nutrita, arrivando ad annoverare diverse decine di procedimenti pendenti, la maggior parte dei quali inerenti a fenomeni di tipo idro-meteorologico (Altamura, M., Intervento al convegno “La Protezione civile nella società del rischio. La responsabilità penale nell’ambito delle attività di protezione civile”, Pisa, 2017, 37 ss.).
È proprio con riferimento a uno di essi che è stata pronunciata una delle sentenze dotate di maggior rilievo nel settore in esame. Si allude alla decisione della Corte di cassazione (Cass. n. 16761/2010, su cui v. anche supra, § 3.1) relativa al disastro che colpì Sarno il 5 maggio 1998, quando, in seguito a delle abbondanti precipitazioni, una serie di colate rapide di fango investivano violentemente diversi edifici, provocandone il crollo e la morte di 137 persone.
A seguito di tali fatti, al Sindaco – in qualità di autorità comunale di protezione civile – è stato contestato il reato di omicidio colposo plurimo per aver posto in essere una scorretta gestione dell’evento. In estrema sintesi, gli è stato rimproverato di non aver tempestivamente informato ed evacuato la popolazione esposta al rischio delle frane, nonché di aver fornito al Prefetto e alla Regione delle informazioni indebitamente rassicuranti, cosi impedendo l’attivazione di tali autorità e il corretto svolgimento delle operazioni di soccorso.
Entrambi i giudizi di merito si sono conclusi con l’assoluzione dell’imputato, sul rilievo che il fenomeno verificatosi fosse imprevedibile. Mai prima di allora, infatti, si erano osservate delle colate così repentine e devastanti, tanto che nemmeno a livello scientifico un evento simile era ancora del tutto conosciuto.
Questa impostazione è stata però sconfessata dalla Cassazione, la quale ha stabilito che «il giudizio di prevedibilità non va infatti compiuto con riferimento a quanto è avvenuto in passato ma a quanto può avvenire in futuro nel senso che involge un giudizio di rappresentabilità di possibili, ulteriori e più gravi eventi dannosi». E ancora «il giudizio di prevedibilità andava compiuto tenendo certamente conto dell’esperienza del passato ma senza ignorare l’esistenza di una possibilità di evoluzione del fenomeno e ipotizzando quindi la più distruttiva ipotesi che potesse verificarsi o che il fenomeno disastroso poteva comportare». Diversi Autori hanno tuttavia osservato come, nell’affermare tali principi e imponendo pertanto all’agente di prefigurarsi sempre la peggiore delle conseguenze possibili, la Corte abbia sostanzialmente travalicato i confini della colpa, a favore di un approccio apertamente ispirato al principio di precauzione e, come tale, scarsamente ossequioso dei principi fondamentali in materia penale (per tutti Castronuovo, D., Principio di precauzione e beni legati alla sicurezza, in www.penalecontemporaneo.it; Piergallini, C., Colpa (diritto penale), in Enc. dir., Annali, X, Milano, 2017, 253).
A differenza degli eventi di tipo idro-meteorologico che, alla luce delle tecnologie oggi disponibili, sono frequentemente prevedibili con un discreto margine di affidabilità, i terremoti possono essere affrontati unicamente tramite opere di prevenzione strutturale, basate sulla classificazione sismica del territorio e sull’utilizzo di tecniche antisismiche nella costruzione degli edifici. Per tale ragione – oltre che ovviamente per la maggiore rarità di tali accadimenti – la casistica giudiziale è molto più scarsa e sovente attiene alle modalità realizzative di edifici collassati a causa delle scosse, come nel caso del crollo della scuola di San Giuliano di Puglia (Cass. pen., 1.7.2010, n. 24732) o di diverse abitazioni durante il terremoto dell’Aquila del 2009 (Cass. pen., 8.7.2016, n. 28571; Cass. pen., 13.2.2017, 6604). Seguendo una prospettiva analoga, altre pronunce hanno invece riguardato il tema della mancata chiusura di edifici a rischio in occasione di fenomeni sismici, come per il Convitto dell’Aquila, anch’esso distrutto dall’evento del 2009 (Cass. n. 2536/2016, v. supra, § 3.2) o per il crollo di un capannone durante lo sciame sismico verificatosi in Emilia nel 2012 (Cass. n. 51285/2017).
A fronte di una casistica siffatta, costituisce invece un’ipotesi del tutto peculiare il procedimento relativo alla cd. vicenda “Grandi rischi”, relativa alla gestione del terremoto del 2009.
In estrema sintesi, a sette imputati – l’allora vice capo dipartimento della p.c., nonché sei esperti di rischio sismico, alcuni dei quali facenti parte della Commissione Grandi Rischi – è stato contestato il reato di omicidio colposo plurimo per aver indebitamente rassicurato la popolazione aquilana, in questo modo inducendo una parte di essa a dismettere i consueti comportamenti di risposta al sisma – consistenti nell’uscire di casa in occasione degli eventi – e facendo così in modo che questi soggetti, nonostante alcune scosse “premonitrici”, rimanessero all’interno delle proprie abitazioni, ove decedevano al verificarsi del forte terremoto del 6 aprile 2009.
Giova subito precisare come, all’esito del giudizio d’appello, appurato come l’unico soggetto ad aver veicolato informazioni rassicuranti fosse stato il vice capo dipartimento, i sei esperti siano stati assolti, stante l’assenza di una specifica posizione di garanzia (App. L’Aquila, 6.2.2015, in www.penalecontemporaneo.it. Per una compiuta disamina delle sentenze di merito, v. Amato, A.-Cerase, A.-Galadini, F., a cura di, Terremoti, comunicazione, diritto, Milano, 2015).
La condanna dell’alto funzionario è stata invece confermata anche da parte della Cassazione (Cass. pen., 24.3.2016, n. 12478), sulla base tuttavia di alcuni principi che hanno formato oggetto di aspre critiche.
In particolare, il primo profilo controverso attiene alla sussistenza di un nesso causale fra la condotta comunicativa dell’imputato e la scelta delle vittime di rimanere in casa. Trattandosi di un’ipotesi di causalità psichica, si è dubitato dell’esistenza di conoscenze scientifiche tali da ritenere provato, oltre ogni ragionevole dubbio, il nesso causale in parola (e, d’altra parte, tale influsso psichico è stato sostanzialmente escluso dalla Corte nella vicenda del Convitto, Cass. n. 2536/2016) (ampiamente sul tema, Valbonesi, C., Terremoti colposi e terremoto della colpa. Riflessioni a margine della sentenza “Grandi Rischi”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 1498 ss. Volendo anche Amato, D., Comunicazione del rischio e responsabilità penale. Riflessioni a margine della sentenza della Cassazione sul caso “Grandi Rischi”, in Criminalia 2016, 109 ss.). La seconda questione attiene invece alla colpa e, più precisamente, alle statuizioni che hanno sancito la prevedibilità dell’evento (declinato in tre sotto-eventi: la vulnerabilità degli edifici, la permanenza in casa delle vittime e il verificarsi di una scossa di terremoto). Tuttavia, essendo notoriamente impossibile determinare ex ante il momento di verificazione di un sisma e soprattutto, per quanto qui interessa, la sua magnitudo, le affermazioni della Cassazione sul punto si sono dovute incentrare, pur con alcune cautele, sulla mera possibilità di accadimento di tale fenomeno. Inoltre si è stabilito come fra le conoscenze da utilizzarsi al fine dell’effettuazione del predetto giudizio prognostico vi siano non solo quelle di tipo scientifico, ma anche quelle di mera consistenza empirica.
A fronte di tali affermazioni, diversi commentatori hanno rilevato come i criteri adottati dalla Corte – anche in questo caso – paiano permeati di istanze chiaramente precauzionistiche e che, come tali, mal si concilino con la vigente disciplina degli illeciti colposi (per tutti, Piergallini, C., Colpa (diritto penale), cit., 253; Notaro, D., Colpa informativa e cautela autoprotettive: quale reazione penale alle inefficienze organizzative?, in Criminalia 2016, 145 ss.).
Per quanto il diritto penale delle calamità naturali costituisca un ambito di studio piuttosto recente, esso presenta caratteristiche e criticità comuni ad altri settori analoghi – si pensi al rischio sanitario e aviatorio – da tempo conosciute da parte della dottrina e giurisprudenza (ampiamente, Dovere S., Protezione civile, sanità ed aviazione civile: il rischio penale tra presente e futuro, cit., 81 ss.).
Le ipotesi di responsabilità più frequenti derivano infatti dal mancato impedimento colposo di un evento pregiudizievole. Ciò impone all’interprete – e in particolare al giudice – di individuare i soggetti investiti di una posizione di garanzia e di valutare la sussistenza della colpa.
Proprio qui, come osservato (v., supra, § 3 e 4), si annidano le maggiori insidie: con riferimento alla prima questione, il ricorso a criteri sostanzialistici, combinato a una disciplina della materia del tutto peculiare, non consente di predeterminare adeguatamente i soggetti gravati da obblighi di garanzia e la loro latitudine; per quanto attiene alla seconda, si osserva invece il diffondersi, anche in questo ambito, di istanze ipercautelative e di stampo precauzionistico. In entrambi i casi, le soluzioni accolte dalla giurisprudenza non sembrano adeguatamente osservanti dei principi di tipicità e colpevolezza (Giunta, F., Intervento al convegno “La Protezione civile nella società del rischio. Chi valuta, chi decide, chi giudica”, cit., 107). In definitiva, se, in considerazione della rilevanza dei beni in gioco, il ricorso allo strumento penale appare, almeno nei casi più gravi, inevitabile, resta cionondimeno auspicabile una maggiore attenzione al rispetto dei principi costituzionali vigenti in materia.
Fonti normative
Artt. 40, 42, 43, 423, 423 bis, 426, 434, 449, 450, 589, 590 c.p.; d.lgs. 2.1.2018, n. 1.
Bibliografia essenziale
AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. Chi valuta, chi decide, chi giudica, Pisa, 2013; AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. Procedure, garanzie, responsabilità, Pisa, 2014; AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. La responsabilità del Sistema e dei diversi attori nelle prospettive di riforma legislativa, Pisa, 2016; AA.VV., La Protezione civile nella società del rischio. La responsabilità penale nell’ambito delle attività di protezione civile, Pisa, 2017; Amato, D., Attività di protezione civile e responsabilità penale: criticità attuali e prospettive di riforma, in Criminalia 2015, 2016, 391 ss.; Dovere, S., Protezione civile, sanità ed aviazione civile: il rischio penale tra presente e futuro, in Riv. it. med. leg., 2017, I, 81 ss.; Gandini, F.-Montagni, A., La protezione civile, profili costituzionali e amministrativi, riflessi penali, Milano, 2007; Gestri, M., a cura di, Disastri, protezione civile e diritto. Nuove prospettive nell’Unione Europea e in ambito penale, Milano, 2016; Grotto, M., Obbligo di adeguamento antisismico e responsabilità penale del datore di lavoro, in Cass. pen., 2017, IV, 1718 ss.; Pisa, I., Protezione civile e responsabilità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, I, 223 ss.