Abstract
L’Unione europea incide in profondità sulla conformazione dei sistemi penali nazionali, definendo oggetti e tecniche di tutela in un numero crescente di settori e imponendo vincoli sanzionatori progressivamente più stringenti. In una prospettiva diretta a valorizzare il ruolo dei principî liberal-garantisti nella costruzione di un sistema equilibrato di tutela dei beni giuridici e di salvaguardia delle garanzie fondamentali, la voce mira ad offrire un quadro attuale del cd. diritto penale europeo, articolandone la ricostruzione intorno a tre assi principali: il riconoscimento crescente e irrinunciabile di un sistema di diritti fondamentali che imbrigli la politica criminale dell’Unione; il profilarsi di competenze penali dell’Unione europea via via più articolate, comprensive per taluni anche di una competenza cd. diretta o quasi diretta; l’attuazione del diritto europeo nel sistema penale italiano e gli strumenti legislativi e giurisprudenziali atti a garantire il processo di adeguamento di quest’ultimo.
Da oltre vent’anni, e sicuramente a partire dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, è venuta a configurarsi, con sempre maggiore nettezza, una “politica criminale europea”, che – per quanto non assimilabile tout court alla omologa dimensione statuale – ha modellato in profondità i sistemi penali degli Stati membri (v. Delmas-Marty, M., Quelle politique pénale pour l’Europe?, Paris, 1993; Grasso, G., L’incidenza del diritto comunitario sulla politica criminale degli Stati membri: nascita di una “politica criminale europea”?, in Indice pen., 1993, p. 65 ss.; Canestrari, S.-Foffani, L., a cura di, Il diritto penale nella prospettiva europea. Quali politiche criminali per quale Europa?, Milano, 2005, spec. 165 ss.). Il diritto comunitario prima, quello dell’Unione poi, hanno operato tanto nel senso di imporre la disapplicazione di norme penali con essi contrastanti, quanto nel senso di esigere l’estensione delle fattispecie incriminatrici interne o l’introduzione di nuovi reati (per un quadro d’insieme cfr. Manacorda, S., Le droit pénal et l’Union européenne: esquisse d’un système, in Rev. Sc. Crim. Et Droit pén comp, 2000, 95 ss.; Sotis, C., Diritto comunitario e giudice penale, in Corr. mer., 2008, suppl. al n. 8). In quest’ultima direzione l’Unione europea si è mossa verso una sempre più incisiva selezione dei beni giuridici meritevoli di protezione penale e delle relative tecniche di tutela, anche se l’attuazione delle concrete scelte legislative è stata comunque riservata agli Stati membri, perlomeno fino alle recenti aperture della Corte di giustizia.
Per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, avvenuta il 1° dicembre 2009, con il superamento della struttura a pilastri (cfr. Bernardi, A., Il ruolo del terzo pilastro Ue nella europeizzazione del diritto penale: un sintetico bilancio alla vigilia della riforma dei trattati, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2007, 1157 ss.), la cooperazione giudiziaria in materia penale è oramai sottoposta a meccanismi, principî e regole comunitarie, acquisendo ulteriore capacità di orientamento delle scelte normative interne (v. infra, § 6). Sono venute così a configurarsi nuove competenze penali del legislatore europeo, dal cui esercizio possono derivare obblighi di tutela in capo agli Stati membri in ambiti di materia sempre più estesi e, secondo taluni, poteri di incriminazione diretta dell’Unione (v. infra, § 3).
Esigenze di civiltà giuridica impongono che il dispiegarsi di scelte politiche così impegnative sia assoggettato ad una perenne verifica critica circa il rispetto dei principî penalistici, dovendosi escludere che il processo di integrazione possa risolversi in un arretramento dei presidî garantistici di tradizione secolare (Moccia, S., Ambito e prospettive di uno spazio giuridico-penale europeo, Napoli, 2004; Manacorda, S., Le droit pénal sous Lisbonne: vers un meilleur équilibre entre liberté, securité et justice?, in Rev. Sc. Crim. et Droit pén. com., 2010, 927 ss.; Manacorda, S., Le programme pour une politique pénale de l’Union européenne entre mythe et réalité, Rev. Sc. Crim. et Droit pén. com., 2011, 900 ss.). Tale esigenza è oggi particolarmente pressante, tenuto conto del fatto che nel passato il rispetto delle garanzie individuali in sede europea è risultato largamente insoddisfacente (Satzger, H., Le carenze della politica criminale europea, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2010, 1278 ss.; Manacorda, S., Reconnaissance mutuelle et droits fondamentaux dans l’Espace de liberté, de sécurité et de justice de l’Union européenne: un développement inégal, in Rev. Sc. Crim. et Droit pén. com., 2006, 889 ss.). Su tale fronte, una nuova topografia delle garanzie penalistiche, tracciata dal recente Trattato di Lisbona, e più ampiamente il sistema articolato di checks and balances che la crescente integrazione interordinamentale impone, sono auspicabilmente destinati ad orientare le scelte penali future del legislatore europeo (v. infra, §§ 2 ss.), secondo linee di tendenza già evidenziate in ambito scientifico (Satzger, H., Prospettive di un diritto penale europeo basato su una politica criminale europea, in Crit. dir., 2012, 173 ss.).
Se l’esistenza di una politica criminale europea non può essere seriamente revocata in dubbio, persiste invece una certa difformità di vedute in ordine all’esistenza di un vero e proprio “diritto penale europeo” e, ancor di più, di un “sistema penale europeo”, anche in ragione del mutevole contenuto che tali espressioni possono assumere. La prima formula, ritenuta fondatamente inaccettabile per lungo tempo (Cfr. Sgubbi, F., Diritto penale comunitario, in Dig. pen., IV, Torino, 2002, 98 ss.), è da taluni considerata oramai appropriata, anche se non priva di ambiguità (Bernardi, A., I tre volti del diritto penale comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 1999, 2, 333 ss.).
Sovrapponendosi parzialmente alla precedente, anche la più ampia espressione di “sistema penale europeo”, da taluni esclusa per l’assenza di norme penali adottate dall’Unione europea e munite di una immediata incidenza nei sistemi penali nazionali o atte a costituire un sistema autosufficiente (Grasso, G., La «competenza penale» dell’Unione europea nel quadro del Trattato di Lisbona, in Grasso, G.-Picotti, L.-Sicurella, R., a cura di, L’evoluzione del diritto penale nei settori di interesse europeo alla luce del Trattato di Lisbona, Milano, 2011, 683 ss.), è stata ritenuta ammissibile da quanti, già anteriormente al trattato di Lisbona, hanno preso le mosse da una più ampia ricostruzione del concetto (Sotis, C., Il diritto senza Codice. Uno studio sul sistema penale europeo vigente, Milano, 2007).
Nel prevedere la creazione di uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, nel cui ambito si colloca specificamente la Cooperazione giudiziaria in materia penale, l’art. 67, par. 1, TFUE sancisce che esso si sviluppi “nel rispetto dei diritti fondamentali”, il che equivale a porre limiti alle scelte politico-criminali dell’UE, vincoli per il legislatore interno in attuazione di tali scelte e parametri per il giudice comunitario e nazionale nell’attività di interpretazione ed applicazione delle norme. In termini più ampi, il ruolo dei diritti fondamentali nell’Unione europea è consacrato dall’art. 6 TUE, che nei suoi tre distinti paragrafi sancisce la vigenza della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (CDFUE), programma l’adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ed individua, quali principî generali del diritto dell’Unione, i diritti fondamentali garantiti da tale ultima Convenzione e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri. Sottese a tali previsioni si individuano tre distinte logiche, tra loro complementari, di valorizzazione dei diritti fondamentali, secondo prospettive rispettivamente definibili come autonomista, adesiva e coordinata (Manacorda, S., Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e CEDU: una nuova topografia delle garanzie penalistiche in Europa?, in Bertolino, M.-Eusebi, L.-Forti, G., a cura di, Studi in onore di Mario Romano, vol. IV, Napoli, 2011, 2373 ss.), che nel concreto possono dar vita a complesse dinamiche normative (Manes, V., Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali, Roma, 2012).
La prima strada, intrapresa dall’Unione solo in tempi recenti, si è tradotta nell’adozione da parte dell’Unione di una propria Carta dei diritti ‒ proclamata la prima volta il 7.12.2000 a Nizza e la seconda, in una versione adattata, il 12.12.2007 – dotata del medesimo rango dei Trattati (art. 6, par. 1, TUE). Essa riconosce un catalogo minimo di garanzie penali e processuali, a cui devono aggiungersi altri diritti e libertà fondamentali suscettibili di orientare ulteriormente l’adozione e applicazione di norme penali, tutti presidî destinati ad operare, per effetto dell’art. 51, par. 1, CDFUE, «esclusivamente in attuazione del diritto dell’Unione» (sul punto cfr. Palazzo, F., Charte européenne des droits fondamentaux et droit pénal, in Rev. Sc. Crim. et Droit pèn. comp., 2008, 1 ss.). Tale formula è stata oggetto di una interpretazione estensiva ad opera della Corte di Giustizia (C. giust., 26.02.2013, C-617/10, Åklagaren c. Hans Åkerberg Fransson sulla quale v. Manacorda, S., Dalle Carte dei diritti a un diritto penale “à la carte”?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2013, 242 ss.), la quale ne ha segnato al contempo la prevalenza rispetto alle Costituzioni nazionali (C. giust., 26.02.2013, C-399/11, Melloni c. Ministerio Fiscal), dando luogo ad un nuovo rapporto dialettico tra la Corte di Giustizia e le corti costituzionali nazionali, sulla scia della nota Lissabon-Urteil del Tribunale costituzionale tedesco del 30.6.2009 (tra tutti, Böse, M., La sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Trattato di Lisbona e il suo significato per la europeizzazione del diritto penale, in Criminalia, 2009, 267 ss.).
Gli altri due indirizzi accolti dall’Unione in relazione ai diritti fondamentali sono espressi – da un canto – negli artt. 6, par. 3, TUE e 52, par. 3, CDFUE, che istituiscono un raccordo tra le garanzie contenute nel diritto dell’Unione e quelle già previste dalla CEDU e dagli Stati membri, e – d’altro canto – nell’art. 6, par. 2, TUE, che, compiendo un ulteriore passo, programma l’adesione dell’Unione alla CEDU.
L’art. 6, par. 3, TUE dispone che i diritti fondamentali, garantiti dalla CEDU e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, «fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (C. giust., 3.5.2007, C-303/05, Advocaten voor de Wereld VZW c. Leden van de Ministerraad, § 45). Su un primo versante, l’art. 6, par. 3, TUE opera dunque un rinvio alla CEDU, in linea con un’evoluzione giurisprudenziale risalente. Su un secondo versante, il coordinamento avviene mediante il riconoscimento, quali principi generali dell’Unione, dei diritti fondamentali risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, secondo una linea giurisprudenziale che si dipana dalla metà degli anni settanta. Così, la giurisprudenza comunitaria ha riconosciuto il rango di principio generale di diritto europeo alla retroattività delle norme penali più favorevoli, mutuandola dalle tradizioni costituzionali comuni (C. giust., 3.5.2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi).
L’entrata in vigore della Carta, e dunque il perseguimento della strada detta autonomista, non incide su tale consolidato assetto di equilibri. Da un canto, essa dispone un’equiparazione contenutistica, riconoscendo che per i diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti da quest’ultima (art. 52, par. 3, CDFUE). D’altro canto, la Carta si premura di istituire, all’art. 53, una “clausola di non regressione”: se ne desume che il diritto dell’Unione può concedere una protezione più estesa, ma non inferiore, rispetto a quella della CEDU.
Quanto alla strada dell’adesione dell’Unione europea alla CEDU, programmata dall’art. 6, par. 2, TUE, essa è attualmente in fase di avanzata negoziazione. Nelle more, la Corte di giustizia ha escluso la “comunitarizzazione formale” della CEDU, che avrebbe come effetto di rendere la stessa direttamente applicabile dinanzi al giudice interno (C. giust., 26.2.2013, Åklagaren, § 44). Rimane però valida l’ipotesi di una “comunitarizzazione sostanziale” dei diritti della CEDU corrispondenti a quelli della Carta, limitatamente alle materie attuative del diritto dell’Unione, per effetto del già menzionato art. 52, par. 3, CDFUE (Manacorda, S., Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e CEDU, cit., 2373 ss.).
Nel capo VI della Carta, dedicato alla Giustizia, sono riconosciuti i principî cardine del diritto e della procedura penale (rispettivamente art. 49 e artt. 47, 48 e 50).
L’art. 49 CDFUE sancisce i “principî della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene”. Nel par. 1 trovano espressa consacrazione la riserva di diritto interno e internazionale, il principio di irretroattività e quello di retroattività in bonam partem (cfr. Scoletta, M., La legalità penale nel sistema europeo dei diritti fondamentali, in Paliero, C.E.-Viganò, F., a cura di, Europa e diritto penale, Milano, 2013, 195 ss.). Tali corollari della legalità sono stati già consacrati antecedentemente dalla Corte di giustizia: in particolare, il principio di legalità e l’irretroattività delle norme penali sono stati riconosciuti come principi generali di diritto comunitario ex art. 7 CEDU (tra tutte, C. giust., 10.7.1984, C-63/83, Regina c. Kent Kirk), mentre, come già indicato, la retroattività della norme penali più favorevoli è stata desunta dalle tradizioni costituzionali comuni (C. giust., 3.5.2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi). In diritto interno ne deriva pertanto un quadro complesso, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, in ordine alle eventuali deroghe alla retroattività della lex mitior e al mutamento giurisprudenziale in malam partem (Valentini, V., Diritto penale intertemporale. Logiche continentali ed ermeneutica europea, Milano, 2012; Gambardella, M., Lex mitior e giustizia penale, Torino, 2013). L’art. 49, par. 2, prevede che i suddetti principî non ostano «al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principî generali riconosciuti da tutte le nazioni».
Il par. 3 del medesimo art. 49 sancisce il principio di proporzionalità tra reati e pene, così venendo a innovare sostanzialmente al quadro giuridico preesistente con una norma dal contenuto fortemente garantistico (cfr. Sotis, C., I principi di necessità e proporzionalità della pena nel diritto dell’Unione europea dopo Lisbona, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2012, 111 ss.; Maugeri, A.M., Il principio di proporzione nelle scelte punitive del legislatore europeo: l’alternativa delle sanzioni amministrative comunitarie, in Grasso, G.-Picotti, L.-Sicurella, R., a cura di, op. cit., Milano, 2011, 67 ss.).
Più incerto è lo statuto comunitario del principio di colpevolezza (Pulitanò, D., Personalità della responsabilità: problemi e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, 1231 ss.), in mancanza di un referente espresso nella Carta e stante la difficoltà di qualificarlo come principio di diritto comune alle tradizioni costituzionali di tutti gli Stati membri (Sicurella, R., Nulla pœna sine culpa: un véritable principe commun européen?, in Rev. Sc. Crim. et Droit pèn. comp., 2002, 15 ss.). Ci si chiede oggi se il principio in questione possa trovare riconoscimento mediato nella presunzione di innocenza di cui all’art. 48, par. 1, CDFUE («ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata»), questione, tuttavia, che pone difficoltà per effetto della interpretazione offerta della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla scorta dell’art. 6 CEDU, volta a negare tale lettura (C. eur. dir. uomo, 30.8.2011, G. c. Regno Unito; v. C. cost. 24.7.2007, n. 322). Secondo una diversa prospettiva, il principio di colpevolezza, nella sua dimensione di proiezione soggettiva della legalità, potrebbe invece desumersi dall’art. 49, par. 1, CDFUE letto alla luce dell’art. 7 CEDU (C. eur. dir. uomo, 21.1.2009, Sud Fondi c. Italia, § 116).
Quanto al principio di offensività, oggetto di un’elaborazione soprattutto nazionale e dunque non ancora percepito nella sua dimensione europea o sovranazionale, esso manca ugualmente di un referente normativo espresso nella Carta. Deve però sottolinearsi l’attuale contributo dell’Unione alla concretizzazione di tale principio attraverso «l’onere di motivazione su proporzione e sussidiarietà» che le leggi penali di matrice europea devono rispettare (Cfr. Donini, M., Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, in www.penalecontemporaneo.it, 20.9.2013, spec. 39 ss.).
Nel capo della Carta dedicato alla Giustizia sono riconosciute altresì le principali garanzie processuali, tra cui il diritto ad un ricorso effettivo (art. 47, par. 1), già qualificato dalla Corte di giustizia come principio generale e destinato a vincolare anche gli Stati membri in attuazione del diritto dell’Unione, il diritto ad un giudice imparziale (art. 47, par. 2), e – come si è detto – la presunzione di innocenza e i diritti alla difesa (art. 48). I diritti ivi sanciti, sulla base delle Spiegazioni di corredo alla Carta, sono rispettivamente equivalenti ai par. 1 e parr. 2 e 3 dell’art. 6 CEDU, con ricadute rilevanti sullo strumento processuale del mandato di arresto europeo (da ultimo C. giust., 29.1.2013, C-396/11, Radu; C. giust., 26.2.2013, Melloni, su cui Manacorda, S., Le défis d’un droit pénal de l’Union à l’heure de la Charte et du Parquet européen, in Rev. Sc. Crim. et Droit pén. com., 2013).
In termini maggiormente innovativi opera invece il principio del ne bis in idem processuale in materia penale (art. 50 CDFUE), rilevante sia sul versante interno, unitamente all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU (C. giust., 26.2.2013, Åklagaren), sia sul versante transnazionale, ove già operano gli artt. 54 ss. CAAS (da ultimo C. giust., 22.12.2008, C-491/07, Turanský).
Le competenze concorrenti dell’Unione, anche in ambito penalistico, in base all’art. 69 TFUE, devono essere esercitate conformemente ai principî di sussidiarietà (art. 5, par. 3, TUE) e proporzionalità (art. 5, par. 4, TUE), così come ulteriormente articolati nell’ambito del relativo Protocollo. La sussidiarietà assume particolare valore nel combinarsi con il principio di ultima ratio del diritto penale (Donini, M., Sussidiarietà penale e sussidiarietà comunitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 141 ss.) e si ricollega strettamente al principio di legalità (Bernardi, A., I principi di sussidiarietà e di legalità nel diritto penale europeo, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, 16 ss.) e a quello di necessità della pena. Quest’ultimo, postulato del principio di proporzionalità materiale, assume particolare valore per l’esercizio della competenza penale cd. accessoria: ex art. 83, par. 2, TFUE, difatti, l’adozione di norme di armonizzazione penale in campi già oggetto di riavvicinamento, esige in termini rafforzati la “indispensabilità” dell’intervento per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione (v. infra, § 3.2).
Ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE, l’Unione ha una competenza concorrente con quella degli Stati membri nell’ambito dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ivi il Trattato disciplina, da un lato, le competenze dell’Unione in ordine al riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie processuali e all’adozione di talune norme minime processuali (art. 82 TFUE) e, dall’altro lato, le competenze dell’Unione in ambito sostanzial-penalistico, che si traducono nella previsione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in specifici ambiti di tutela (art. 83 TFUE). La tematica del mutuo riconoscimento, apparentemente estranea alle questioni sostanziali, finisce tuttavia per esercitare un effetto di trascinamento sulle stesse, richiedendo un certo grado di compatibilità delle fattispecie per potersi efficacemente dispiegare (Giudicelli-Delage, G.-Manacorda, S., a cura di, L’intégration pénale indirecte. Interactions entre droit pénal et coopération judiciaire au sein de l’Union européenne, Paris, 2005).
L’art. 83 TFUE introduce una competenza penale ‘indiretta’ dell’Unione, nel senso che le direttive penali – conformemente alla loro natura di atti vincolanti solo nell’obiettivo – creano obblighi di adeguamento in capo agli Stati membri, cui compete la scelta dei mezzi più adeguati di attuazione, ma non istituiscono ex se fattispecie penali direttamente applicabili.
In primis, tale competenza si traduce, ex art. 83, par. 1, nell’adizione ad opera dell’Unione di «norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale» (cd. “competenza penale indiretta autonoma”, su cui v. Sotis, C., Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, in Cass. pen., 2010, 326 ss.; Picotti, L., Limiti garantistici delle incriminazioni penali e nuove competenze europee alla luce del Trattato di Lisbona, in Grasso, G.-Picotti, L.-Sicurella, R., a cura di, op. cit., 207 ss.; Sicurella, R., Lo spazio penale europeo dopo Lisbona: le nuove competenze dell’Unione europea alla prova dei principi fondamentali dello Stato di diritto, in Parisi, N.-Petralia, V., a cura di, L’Unione europea dopo il Trattato di Lisbona, Torino, 2012, 87 ss.). Con la nuova previsione, «la competenza al ravvicinamento delle legislazioni penali nazionali viene affiancata e non più subordinata alle esigenze di cooperazione» (Sotis, C., Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 334), acquisendo così maggiore autonomia dalla componente processualistica. Tuttavia, la previsione di «norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni», dando luogo alla predisposizione degli elementi essenziali dei reati e delle relative sanzioni, deve conformarsi ai principî, tra cui su tutti la sussidiarietà. Tale competenza può esplicarsi unicamente negli ambiti individuati dal Trattato (terrorismo, tratta degli esseri umani e sfruttamento sessuale delle donne e dei minori, traffico illecito di stupefacenti, traffico illecito di armi, riciclaggio di denaro, corruzione, contraffazione di mezzi di pagamento, criminalità informatica e criminalità organizzata), i quali possono essere estesi da una deliberazione unanime del Consiglio europeo, previa approvazione del Parlamento europeo. La formula «sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale» fa comunque sorgere alcuni dubbi esegetici: per taluni, essa sembra presupporre una reazione di tipo penale già a livello nazionale; per altri, essa è priva di reali effetti definitori, riferendosi ad una dimensione empirica suscettibile di manifestarsi per qualunque tipo di illecito.
Non vi è spazio, nel Trattato, per la previsione ‒ mediante direttiva ‒ di norme di parte generale ad opera del diritto dell’Unione, questione che invece ci si è correttamente posta in ambito dottrinale (Paliero, C.E., La fabbrica del Golem. Progettualità e metodologia per la «parte generale» di un codice penale dell’Unione europea, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 466 ss.; Viganò, F., Verso una “Parte generale europea”?, in Grasso, G.-Illuminati, G.-Sicurella, R.-Allegrezza, S., a cura di, Le sfide dell’attuazione di una Procura europea: definizione di regole comuni e loro impatto sugli ordinamenti interni, Milano, 2014, 123 ss.).
Il par. 2, nel disciplinare la cd. “competenza penale indiretta accessoria” (Bernardi, A., La competenza penale accessoria dell’Unione europea: problemi e prospettive, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., 2012, 21 ss.), prevede che «allorché il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si rivela indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni nel settore in questione possono essere stabilite tramite direttive». Tale norma presenta maggiori profili di complessità, posto che le competenze non sono individuate per specifici settori ma devono essere esercitate in quegli ambiti già oggetto di misure di armonizzazione, condizione questa che non appare adempiere adeguatamente ad una funzione delimitativa dell’intervento penale ad opera dell’Unione. Sul punto assume rilievo il requisito della “indispensabilità”: quest’ultimo, subordinando il giudizio di necessità dell’intervento penale alla «attuazione efficace di una politica dell’Unione», variamente interpretabile (Sotis, C., Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 334-336), apre per taluni la strada a «possibili attitudini estensive a discapito della sussidiarietà ed extrema ratio dell’intervento penale» (Bernardi, A., La competenza penale accessoria, cit., 21 ss.).
Infine, il par. 3 dell’art. 83 TFUE prevede la possibilità dello Stato membro di opporsi all’adozione di una direttiva allorquando essa possa incidere «su aspetti fondamentali del suo ordinamento giuridico», così determinando la sospensione della procedura o la possibilità di instaurare una cooperazione rafforzata tra almeno nove Stati. Tale norma – che ha un suo omologo nell’art. 82, par. 3, TFUE – racchiude in sé sia un “freno d’emergenza”, sia una ‘clausola di accelerazione’, pensate entrambe per facilitare la costruzione europea nel settore della cooperazione in materia penale a fronte di possibili resistenze nazionali.
Elemento di novità contenuto nell’art. 83 TFUE è rappresentato dal potere dell’Unione europea di introdurre, mediante direttive, norme minime relative alla definizione delle sanzioni, oltre che dei reati, nell’esercizio tanto della competenza penale indiretta autonoma (par. 1) quanto di quella accessoria (par. 2), dando così luogo alla «nascita di veri precetti penali – cioè costruiti ab origine per essere muniti di sanzione criminale, e dunque strutturalmente presidiati da garanzie costruttive proprie di un modello d’illecito penale» (Donini, M., Il principio di offensività. Dalla penalistica italiana ai programmi europei, cit., 41). Superati i limiti frapposti dalla Corte di giustizia all’esercizio di una competenza penale della Comunità europea diretta a determinare “il tipo e il livello delle sanzioni penali” (C. giust., 23.10.2007, C-440/05, Commissione c. Consiglio, al di fuori dello specifico settore dell’ambiente; C. giust, 13.9.2005, C-176/03, Commissione c. Consiglio), si intravedono oggi nuove prospettive di sviluppo dell’armonizzazione sanzionatoria in materia penale (Bernardi, A., L’armonizzazione delle sanzioni in Europa: linee ricostruttive, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 76 ss.). Il passaggio dall’armonizzazione dei precetti all’armonizzazione delle sanzioni è considerato oramai ineludibile soprattutto in materia economica e finanziaria, ambito nel quale si è venuto a creare un “singolare paradosso”, ovvero, da un lato, l’unificazione dei mercati finanziari, la centralizzazione europea dell’attività di vigilanza e l’armonizzazione dei precetti contro gli abusi di mercato e, dall’altro lato, l’ampia divaricazione tra le risposte sanzionatorie (Foffani, L., Verso un’armonizzazione europea del diritto penale dell’economia: la genesi di nuovi beni giuridici economici di rango comunitario, il ravvicinamento dei precetti e delle sanzioni, in Grasso, G.-Picotti, L.-Sicurella, R., a cura di, op. cit., 583 ss.). Sul punto sorgono tuttavia perplessità evidenziate da quanti costatano che, nel «silenzio dei Trattati e delle stesse Carte dei diritti europee circa la funzione della pena, viene a mancare un referente teleologico vincolante, fondamentale per la costruzione dell’intero sistema degli interventi penali europei» (Moccia, S., Funzione della pena ed implicazioni sistematiche: tra fonti europee e costituzione italiana, in Dir. pen. e processo., 2012, 921 ss.).
Norme (minime) relative alla definizione delle sanzioni sono contenute nelle prime direttive adottate ai sensi degli artt. 83 e 325 TFUE (a tal ultimo riguardo v. infra, § 3.4) e nella Proposta di direttiva del Parlamento e del Consiglio sulla protezione mediante il diritto penale dell’euro e di altre monete contro la falsificazione.
L’art. 86 TFUE accoglie una delle più significative proposte già formulate dalla dottrina (Delmas-Marty, M.-Vervaele, J.A.E., a cura di, The implementation of the Corpus Juris in the Member States, vol. I-IV, Antwerpen, 2000), ovvero l’istituzione del Pubblico Ministero europeo deputato alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione, tematica che rappresenta più di ogni altra il campo di sperimentazione dell’integrazione penale europea anche per effetto dell’art. 325 TFUE (Grasso, G.-Illuminati, G.-Sicurella, R.-Allegrezza, S., a cura di, op. loc. ultt. citt.). La Proposta di regolamento del Consiglio del luglio 2013 (COM/2013/0534 final) mira a dare attuazione a tale prospettiva, prevedendo l’istituzione della Procura europea, e ciò nonostante le rilevanti obiezioni sollevate da taluni Stati membri circa il mancato rispetto del principio di sussidiarietà comunitaria e l’insufficienza del controllo giudiziario sull’operato del nuovo organo di indagine (Manacorda, S., Le défis d’un droit pénal de l’Union, cit., 2013).
Ci si chiede, in dottrina se l’art. 86 TFUE possa legittimare l’Unione, limitatamente allo specifico ambito di materia, ad introdurre regolamenti europei che, oltre ad istituire una Procura europea, contengano norme penali o fattispecie incriminatrici, con o senza l’indicazione del tipo e l’entità delle sanzioni (Sicurella, R., Il diritto penale applicabile dalla Procura europea: diritto penale sovrannazionale o diritto nazionale ‘armonizzato’? Le questioni in gioco, in www.penalecontemporaneo.it, 17.12.2013, 28 ss.). Allo stato le fattispecie penali sono oggetto soltanto di progetti di riavvicinamento e non di unificazione (cfr. la Proposta di Direttiva del Parlamento e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, COM/2012/0363 final - 2012/0193 COD). Laddove trovasse riconoscimento l’ipotesi del regolamento, si aprirebbe la strada ad una competenza legislativa “diretta” (Picotti, L., Le basi giuridiche per l’introduzione di norme penali comuni relative ai reati oggetto della competenza della procura europea, in www.penalecontemporaneo.it, 13.11.2013) o “quasi diretta”, fondata sull’art. 86 par. 2 e 4 (Sotis, C., Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 332 ss.). Tale lettura, da cui deriverebbe una normativa unitaria in materia penale, è particolarmente problematica sotto il profilo della legalità, spingendo i più a preferire, anche in tale settore, una competenza penale indiretta da esercitarsi ex art. 325 TFUE, svincolata tuttavia dai limiti stabiliti nell’art. 83 TFUE. La Proposta di regolamento per l’istituzione della Procura europea, già menzionata, sembra propendere per tale ultima soluzione, laddove precisa che per «reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione», per cui è competente l’istituendo pubblico ministero (art. 12), si intendono «i reati previsti dalla direttiva 2013/xx/UE [in corso di adozione], quale attuata dalla legislazione nazionale» (art. 2).
L’esercizio di una competenza penale diretta o quasi diretta ad opera dell’Unione entra in tensione diretta con il principio della riserva di legge, specie rispetto a quegli ordinamenti che ne consacrano il riconoscimento a livello costituzionale. Tuttavia, anche la competenza penale indiretta pone difficoltà di non poco momento sul piano della legalità: richiedendo la trasposizione delle direttive mediante legge interna, essa è formalmente conforme al principio di legalità statale, ma lascia sussistere perplessità in ordine al rispetto della dimensione sostanziale del principio, svilita dall’obbligo di incriminazione di fonte europea che priva di fatto il legislatore statuale di autonomia nelle scelte politico-criminali, ostacolando anche la depenalizzazione di eventuali illeciti introdotti in attuazione del diritto europeo (Cfr. Sotis, C., Il trattato di Lisbona e le competenze penali dell’Unione europea, cit., 337-339).
Quanto alle obiezioni mosse al deficit democratico delle istituzioni europee (Fiandaca, G., Quale diritto penale per l’Europa?, in Trujillo, I.-Viola, F., a cura di, Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, 2007, 143 ss.) nell’elaborazione della legislazione europea con effetti indiretti sui sistemi penali interni (Cupelli, C., Il Parlamento europeo e i limiti di una codecisione in materia penale. Tra modelli di democrazia e crisi della riserva di legge, in Criminalia, 2012, 535 ss.), secondo taluni, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, esse non possono considerarsi più così stringenti. Il Parlamento europeo e il Consiglio adottano direttive penali secondo la procedura legislativa ordinaria (artt. 294 e 83 TFUE), nella quale è stato rafforzato il ruolo dei parlamenti nazionali nella fase ascendente ed è stato riequilibrato l’intervento del Consiglio europeo e del Parlamento europeo nella fase centralizzata (Grandi, C., Riserva di legge e legalità penale europea, Milano, 2010, 177 ss.). Profili di maggiore complessità emergono tuttavia nell’esercizio delle competenze penali indirette accessorie: l’Unione potrebbe difatti introdurre, mediante procedure legislative speciali in cui il ruolo del Parlamento europeo è limitato alla consultazione o all’approvazione, «misure di armonizzazione extrapenale capaci di giustificare direttive penali di armonizzazione accessoria», senza il rispetto della co-decisione (Bernardi, A., La competenza penale accessoria, cit., 58-60).
Le direttive europee penali o le eventuali norme penali contenute in direttive europee extrapenali, per produrre i loro effetti nei confronti degli individui, devono essere trasposte dal legislatore nazionale nel sistema penale interno. In sede di adeguamento normativo il legislatore, una volta valutati eventuali profili di tensione tra diritto dell’Unione in corso di recepimento e norme costituzionali, ha il compito di definire in dettaglio le norme penali, comprensive di precetti e sanzioni. Nel nostro ordinamento si è fatto ampio ricorso allo strumento della delega legislativa (cd. legge di delegazione europea: cfr. da ultimo la L. 6.8.2013, n. 96) anche per il recepimento dei contenuti delle direttive in materia penale.
Ai sensi e agli effetti dell’art. 32, co. 9, lett. d), l. 24.12.2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa e delle politiche dell'Unione europea), «al di fuori dei casi previsti dalle norme penali vigenti, ove necessario per assicurare l’osservanza delle disposizioni contenute nei decreti legislativi, sono previste sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti stessi. Le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente, dell’ammenda fino a 150.000 euro e dell’arresto fino a tre anni, sono previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi costituzionalmente protetti. (…)».
Il ricorso così ampio alla delega solleva rilevanti problematiche in ordine alla tenuta della legalità (Cupelli C., La legalità delegata. Crisi e attualità della riserva di legge nel diritto penale, Napoli, 2012, 283 ss.). Criticità ulteriori potrebbero emergere laddove dovesse concretizzarsi l’eventuale esercizio di una competenza penale “diretta” o “quasi diretta” dell’Unione nell’ambito della protezione degli interessi finanziari dell’Unione: in tal caso sorgerebbe una tensione irrimediabile tra l’uso del regolamento europeo in materia penale e la garanzia statuale della riserva di legge.
Nel caso di una trasposizione inadeguata, tardiva o lacunosa, il giudice nazionale dispone di un ampio ventaglio di strumenti per garantire la piena attuazione del diritto dell’Unione in diritto interno e per risolvere gli eventuali profili di antinomia tra i due livelli normativi, dando attuazione al primato del diritto eurounitario nel rispetto dei cd. controlimiti.
L’interpretazione adeguatrice della norma penale al diritto dell’Unione è stata affermata dalla Corte di Giustizia in ambito processual-penalistico (C. giust., 16.06.2005, C-105/03, Pupino; sul tema, Sgubbi, F.-Manes, V., a cura di, L'interpretazione conforme al diritto comunitario in materia penale, Bologna, 2007). Essa tuttavia incontra limiti in campo sostanzial-penalistico, ove sono in particolare vietate ricadute in malam partem sul singolo (Cass. pen., S.U., 25.6.2009, n. 38691, con note di Manes, V., Nessuna interpretazione conforme al diritto comunitario con effetti in malam partem, in Cass. pen. 2010, 101 ss.). Tali vincoli «descrivono anche i limiti del potere di disapplicazione in materia penale, e, simmetricamente, il ‘normale’ margine di intervento della Corte costituzionale» (Manes, V., Metodo e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Arch. pen., 2012, 1, 1 ss.).
Laddove l’antinomia non sia risolvibile sul piano interpretativo, il giudice dovrà infatti far luogo alla disapplicazione della norma statale. A questa non potranno mai conseguire effetti pregiudizievoli per il reo: la Corte di giustizia ha escluso che la direttiva non trasposta nei termini «possa determinare o aggravare la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni» (già sul punto, C. giust., 11.6.1987, C-14/86, Pretore di Salò; C. giust., 26.9.1996, C-168/95, Arcaro).
Viceversa la norma dell’Unione dotata di effetti diretti potrà produrre effetti cd. verticali, facendo sorgere diritti in capo agli individui ed obblighi correlativi in capo agli Stati, con contestuale disapplicazione della fattispecie penale interna con essa contrastante (di recente, in tema di scommesse sportive, C. giust., 6.3.2007, C-338/04 e C-360/04, Placanica; C. giust., 16.2.2012, C-72/10 e C-77/10, Costa e Cifone; nel campo dell’immigrazione, C. giust., 28.4.2011, C-61/11, Hassen El Dridi).
Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia affinché si pronunci sulla interpretazione del diritto dell’Unione è strumento consueto per la chiarificazione del rapporto tra norma penale e norma europea ed è sovente utilizzato prima di far luogo alla disapplicazione. L’attivazione di tale procedura spetta al giudice nazionale: in base all’art. 267 TFUE questi dispone della facoltà o, se di ultima istanza, è astretto all’obbligo di rivolgere alla Corte di giustizia un quesito circa l’interpretazione o la validità di norme penali dell’Unione, ivi compresi i principî penali sanciti nella Carta. Di recente, rinvii pregiudiziali in materia penale sono stati operati dai giudici costituzionali di diversi Stati membri in tema di mandato d’arresto europeo (Conseil constitutionnel francese, 4.4.2013, 2013-314 P QPC, M. Jérémy F. e Tribunal Constitucional spagnolo, 9.6.2011, Melloni c. Ministerio Fiscal).
Sul versante della eventuale illegittimità costituzionale, la Consulta, riducendo le “zone franche”, ha ritenuto di potersi pronunciare sulla questione sollevata dal giudice penale ai sensi degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost. e relativa al contrasto tra la norma eurounitaria sprovvista di effetto diretto e la norma penale interna attuativa della stessa. Osta tuttavia alla pronuncia costituzionale la possibilità di ricorrere, da parte del giudice del rinvio alla interpretazione adeguatrice in presenza di un «chiaro significato» della norma eurounitaria (C. Cost., 28.1.2010, n. 28, con nota di Maugeri, A.M., La dichiarazione di incostituzionalità di una norma per la violazione di obblighi comunitari ex art. 11 e 117 Cost.: si aprono nuove prospettive?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 1134 ss.).
Artt. 6 TUE; 67-76, 82-86, 191, 325, TFUE; 2-11, 47-54 CDFUE.
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