Diritto regionale
Premessa
Il diritto regionale non è una disciplina scientifica a sé stante, ma una parte del diritto pubblico, e si è sviluppato in Italia a partire dagli anni Settanta, quando, con un quarto di secolo di ritardo sulle previsioni costituzionali, furono istituite le 15 regioni a statuto ordinario, che si aggiunsero alle 5 regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Sardegna). Il diritto regionale non ha, quindi, istituti e nozioni proprie, distinte da quelle generali del diritto pubblico, ma si caratterizza, invece, come quella parte dell’ordinamento che contiene, insieme, la disciplina sulle e delle regioni e la riflessione giuridica su di essa. Il diritto regionale è composto, di conseguenza, di regole e principi a valenza generale – per es., la disciplina costituzionale che si applica per tutte le regioni – e di regole e precetti dotati di efficacia spaziale limitata ai confini territoriali di ciascuna specifica regione.
Non è possibile, naturalmente, esaminare in dettaglio il diritto regionale sotto questo secondo profilo, sia per le dimensioni del fenomeno (costituito da migliaia di leggi regionali, nelle diverse materie di competenza), sia perché si renderebbe così solo una fotografia dell’esercizio della potestà legislativa da parte delle regioni, obsoleta nel momento stesso in cui viene scattata. E del resto anche trattazioni che dispongono di spazi ben maggiori di quelli qui disponibili (quali sono per es., i manuali di diritto regionale) esaminano la materia guardando agli assetti istituzionali e alle competenze e non certo al contenuto delle norme e alle discipline che ciascuna regione ha ritenuto di dare ai settori attribuiti alla sua potestà legislativa.
L’analisi si concentrerà, allora, sulla collocazione del diritto regionale all’interno del nostro ordinamento e, soprattutto, sulle tendenze, sugli sviluppi e sulle criticità emersi in questi primi anni del 21° secolo.
La collocazione del diritto regionale all’interno del nostro ordinamento pone due questioni di fondo. La prima questione da esaminare è relativa alla posizione riservata alle regioni come soggetti di diritto e alle caratteristiche – in termini di ampiezza, estensione, profondità, esclusività – che essa presenta. Le scelte dell’ordinamento in ordine a questi elementi sono sempre scelte di ordine costituzionale e contribuiscono a disegnare, oltre al ruolo delle regioni, anche il tipo di Stato – accentrato, regionale, federale, confederale – pur nella consapevolezza, che conviene subito anticipare, della impossibilità di distinguere nettamente i diversi modelli.
In Italia come in altri Paesi, infatti, elementi di diversi modelli convivono, di modo che risulta difficile leggere e ordinare la realtà attraverso la lente eccessivamente semplificante della distinzione fra modelli accentrati (il cui prototipo, cioè lo Stato francese, conosce ormai significativi fenomeni di decentramento) e modelli decentrati (nei quali spesso si intrecciano elementi tipici sia dei sistemi federali, sia dei sistemi accentrati).
La posizione riservata alle regioni nell’ordinamento presenta, inoltre, caratteri omogenei per tutte le regioni (con la parziale differenza delle 5 regioni a statuto speciale, che è andata però attenuandosi dopo la riforma costituzionale del 2001), ma produce risultati differenti a seconda di come ciascuna singola regione utilizza i poteri a essa riservati. Emerge qui la seconda questione: la duplice dimensione del diritto regionale, che è costituito da regole comuni a tutte le regioni, ma, che, allo stesso tempo, si configura strumento di autonomia e di differenziazione delle regioni (rispetto allo Stato) e fra le regioni.
Le due questioni sono risalenti e connaturate a qualsiasi sistema istituzionale ad assetto regionale o federale. Esse verranno esaminate, di seguito, nella specifica configurazione che hanno assunto nell’ordinamento italiano negli ultimi anni. Si tratta, peraltro, di un periodo particolarmente interessante in quanto esso ha coinciso con il difficile tentativo di attuazione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione italiana (dedicato, nella versione vigente, a «Le Regioni, le Provincie, i Comuni») approvata nel 2001, con la quale si è modificata significativamente la disciplina costituzionale delle regioni.
Il nuovo Titolo V della Costituzione: regionalismo o federalismo?
La riforma del Titolo V della Costituzione è stata approvata alla fine della XIII legislatura e ha completato un processo di cambiamento avviato dapprima con legge ordinaria all’inizio della stessa legislatura. Su questo avvio vale la pena soffermarsi brevemente, perché in esso prendono forma elementi caratteristici della riforma che assumerà, poi, carattere costituzionale.
L’avvio del processo di riforma alla finedegli anni Novanta
Il punto di partenza del processo di cambiamento può trovarsi, in primo luogo, nella insoddisfazione, largamente diffusa, per l’esperienza delle regioni italiane nel loro primo quarto di secolo. Il regionalismo italiano appariva asfittico e burocratico, più centrato sull’esercizio di microfunzioni che non sulla rappresentanza delle comunità regionali, sempre alla ricerca di un proprio ruolo fra la tradizione secolare dei comuni italiani (specie delle grandi città) e l’invadenza di uno Stato centrale ancora dotato di ampi poteri legislativi e di estesi apparati periferici. A questa insoddisfazione si aggiungeva la convinzione di una parte almeno della classe politica che la riforma dello Stato dovesse passare necessariamente per un rafforzamento del grado di decentramento. Questa convinzione trovava poi nuova forza nell’emergere, per la prima volta in Italia, di un partito regionale – la Lega Nord – che esplicitamente rivendicava un’identità territorialmente limitata e caratterizzata.
L’esigenza di una riforma del sistema regionale trova così un primo punto di approdo in una legge di delega (l. 59, 15 marzo 1997), con la quale si prevedeva congiuntamente la riforma degli apparati centrali e la riforma del sistema regionale e si sottolineava espressamente il collegamento fra le due operazioni: non si può avere uno Stato più efficiente senza un miglior sistema regionale, non si può avere una buona riforma del sistema regionale senza modificare in profondità anche gli apparati centrali.
Per quanto qui interessa, basterà ricordare che il legislatore delegato ha provveduto sia alla riforma dei ministeri (d. legisl. 300, 30 luglio 1999), sia alla riforma del sistema regionale (d. legisl. 112, 31 marzo 1998), anche se le vicende successive hanno visto una divaricazione fra i due piani: la riforma regionale è approdata a una revisione costituzionale, mentre l’attuazione della riforma del governo è stata più volte rinviata e ha ricevuto parziale applicazione solo all’inizio della XVI legislatura, con la formazione del governo nel maggio 2008.
Conviene ricapitolare brevemente, invece, i contenuti della riforma per quanto riguarda il sistema regionale, perché si tratta di regole e principi poi in larga misura trasposti nella riforma costituzionale del 2001. L’intervento normativo tende, innanzitutto, a ridefinire le tre dimensioni del fenomeno regionale: le regioni come comunità, le regioni come livelli di governo, le regioni come sistemi politici o parti del sistema politico.
Si introducono, così, nell’ordinamento alcune clausole generali, in base alle quali non si procede più a un ritaglio di porzioni di funzioni statali per attribuirle alle regioni, ma si assume direttamente la comunità regionale e la sua dimensione come criterio di attribuzione. Si stabilisce, di conseguenza, che siano attribuiti alle regioni (e agli enti locali) tutte le funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi localizzabili nei rispettivi territori.
È stato dunque reinterpretato il criterio della dimensione dell’interesse, sul quale si era molto dibattuto negli anni Settanta, dando spazio, da una parte, alla comunità come criterio di rappresentatività e, dall’altra, alla localizzazione del destinatario dei servizi e delle prestazioni: i servizi sono localizzabili perché devono essere offerti ai residenti in un certo territorio o a una ben individuata comunità. Risulta evidente, in tal modo, la differenza fra il criterio tradizionalmente sotteso alla costruzione di una sfera di competenze disegnate, invece, sul soggetto titolare (sull’amministrazione o sull’ente), e il nuovo criterio, che pone al centro del processo di individuazione delle funzioni e della sfera di attribuzione la comunità da rappresentare e da servire.
La regione si caratterizza sempre più, quindi, come una comunità di individui e di enti, agisce in riferimento alla comunità nel suo complesso e ha obblighi nei confronti degli uni e degli altri.
Emerge qui il secondo aspetto sopra indicato, relativo alla costruzione della regione come livello di governo. Si affermano contestualmente, infatti, con la nuova normativa, il principio di sussidiarietà verticale e il principio di sussidiarietà orizzontale.
La sussidiarietà verticale da una parte – abitualmente definita affermando che la funzione e il compito debbono essere esercitati il più possibile vicino al destinatario – e la sussidiarietà orizzontale dall’altra – cioè il principio per cui il potere pubblico non deve fare ciò che può utilmente essere fatto da individui, associazioni, imprese o altri soggetti privati – si sono incrociate nella riforma e il primo effetto di questo incrocio è stata la radicale riduzione di due elementi caratteristici del sistema amministrativo precedente: il parallelismo tra la funzione legislativa e amministrativa e il sistema binario tra Stato ed enti locali, rispetto al quale la regione rimaneva un po’ defilata, a latere, in quanto ente nuovo ed estraneo alla più risalente tradizione amministrativa dei rapporti fra Stato e comuni.
Si è cercato così di avviare una doppia correzione. Per un verso, si è tentato di correggere il centralismo debole tipico del sistema italiano, caratterizzato da un centro che fa un po’ di tutto e di tutto un po’, ma che, nel suo essere frammentato e diffuso, non assume mai un concreto ed effettivo ruolo centrale e autorevole. D’altra parte, si voleva sviluppare il ruolo delle regioni e degli enti locali in quanto parti di un sistema politico nazionale sottoposto a progressive e significative modificazioni.
Un primo punto di arrivo di questo processo è rappresentato dall’elezione diretta del presidente della Regione, disciplinata con la l. cost. 1 del 22 nov. 1999. È da sottolineare, tuttavia, che quest’aspetto, più che un fattore della costruzione della regione come un sistema politico autonomo o dell’accentuazione dei suoi caratteri di sistema politico autonomo, rappresenta, in realtà, l’effetto di un processo di trasformazione più ampio, che coinvolge l’autonomia politica delle regioni. La legge costituzionale ha ridefinito, inoltre, lo statuto regionale, qualificandolo integralmente come fonte regionale (mentre in precedenza esso doveva assumere la forma di una legge dello Stato) e ampliandone il contenuto alla organizzazione interna, alla disciplina degli istituti di partecipazione (referendum e iniziativa popolare) e alla forma di governo.
Sul punto si dovrà tornare nel prosieguo, quando si esaminerà l’assetto istituzionale delle regioni. Per ora si può concludere questa breve ricapitolazione degli sviluppi del diritto regionale alla fine del secolo scorso rilevando come già alla fine degli anni Novanta sia stato abbandonato il principio del riparto di competenze, cioè il principio per cui nello stesso settore e nella stessa materia ciascun livello di governo – statale, regionale, provinciale, comunale – ha una parte di competenza, ma nessuno è padrone del settore stesso, e ci si incammina verso il riparto di attribuzioni, dal momento che, oltre alle specifiche attribuzioni conferite alle regioni e agli enti locali, le clausole generali di attribuzione possono essere usate per costruire la regione come un ente politico di carattere generale che ha, in certa misura, anche funzioni libere, non enumerate, considerato che la clausola residuale opera, pur con i limiti che si vedranno nel prosieguo, in suo favore e non in favore dello Stato.
L’approdo costituzionale della riforma regionale
La riforma costituzionale del 2001 è stata, quindi, preceduta da significativi cambiamenti sia in relazione agli assetti istituzionali, sia per quanto riguarda i criteri di riparto delle funzioni fra Stato e regioni.
La revisione del Titolo V della Costituzione è andata però oltre questi due aspetti, intervenendo anche sui profili – difficilmente attingibili dalla legge ordinaria – della finanza, dei controlli e dei poteri sostitutivi. Il quadro d’insieme presenta ancora forti criticità, soprattutto sul piano dell’attuazione, anche per la cattiva fattura e incerta formulazione di molte disposizioni, che non a caso hanno dato luogo a un imponente contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale. Si cercherà, di seguito, di evidenziare gli elementi più significativi della riforma costituzionale insieme agli sviluppi successivi, dovendosi però tenere conto del fatto che, dati il breve lasso di tempo intercorso dall’approvazione della revisione del Titolo V e le tante incertezze applicative, si potranno indicare problemi aperti e linee di tendenza, ma non giungere a un bilancio consolidato.
Occorre ricordare, peraltro, per completezza di cronaca, il tentativo di ‘riforma della riforma’ contenuto nella successiva ulteriore revisione del Titolo V, approvata a maggioranza dal Parlamento alla fine della XIV legislatura e bocciata dal referendum del giugno 2006. Si trattava di un progetto che, al di là della enfatizzazione dell’aggettivo «federale» (veniva così definita la Repubblica), presentava forti contraddizioni, poiché accanto a una nuova definizione delle materie di competenza regionale esclusiva reintroduceva la categoria dell’interesse nazionale, mentre per altro verso conteneva una riforma del Senato – composto da senatori eletti a suffragio universale su base regionale – che avrebbe reso ancora più complesso il procedimento legislativo nazionale, senza correggere gli evidenti difetti del bicameralismo perfetto italiano.
La regione come ente politico: la forma di governo
La forma di governo regionale è stata profondamente ridefinita fra la fine del secolo scorso e l’inizio del 21°. Il modello originario, definito nella stagione statutaria dei primi anni Settanta, poteva essere qualificato come un modello parlamentare a tendenza assembleare, caratterizzato dalla concentrazione dei poteri di decisione e indirizzo nel Consiglio – ivi compresa la nomina del presidente e della giunta regionali – e da un sistema elettorale proporzionale.
Il modello attualmente vigente può essere, invece, qualificato come un sistema tendenzialmente presidenziale, basato sull’elezione diretta del presidente della regione, che designa anche i membri della giunta. Il passaggio da un modello all’altro è stato previsto direttamente dalla citata l. cost. 1/1999. Per assicurare, insieme, l’efficacia del cambiamento e il rispetto dell’autonomia regionale, la legge costituzionale ha introdotto una forma di governo cosiddetta transitoria, imposta alle regioni sino all’adozione dei nuovi statuti e una forma di governo a regime, da determinarsi con i nuovi statuti nel rispetto di una serie di vincoli posti con i nuovi artt. 121, 122 e 126 della Costituzione.
La forma di governo ‘transitoria’, che prevede l’elezione diretta a suffragio universale contestualmente del presidente della giunta regionale e del consiglio regionale e il potere di nomina e di revoca dei componenti della giunta da parte dello stesso presidente, è ancora vigente nelle cinque regioni (Lombardia, Veneto, Campania, Basilicata, Molise) che non hanno approvato un nuovo statuto. Le altre regioni, invece, hanno adottato un nuovo statuto nel rispetto dei limiti posti dalle previsioni costituzionali, secondo le quali il presidente della giunta è eletto a suffragio universale e diretto salvo che lo statuto disponga diversamente. L’elezione diretta è, quindi, la scelta indicata dall’ordinamento, ma può essere derogata dalla singola regione con scelta statutaria.
Lo statuto deve inoltre prevedere sia il potere di nomina e di revoca dei componenti della giunta regionale in capo al presidente, sia l’attribuzione al consiglio regionale della possibilità di presentare una mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta. La mozione deve essere motivata, sottoscritta da almeno un quinto dei componenti e approvata per appello nominale a maggioranza assoluta dei componenti. L’approvazione della mozione di sfiducia determina le dimissioni del presidente e lo scioglimento del consiglio, secondo il principio simul stabunt simul cadent, al fine di impedire che il consiglio possa sostituire al presidente direttamente eletto un altro presidente, privo della legittimazione data dal suffragio elettorale.
Il nuovo statuto deve essere approvato a maggioranza assoluta in duplice votazione due volte, a distanza di due mesi e può essere sottoposto a referendum confermativo entro tre mesi, su richiesta di un cinquantesimo del corpo elettorale o di un quinto del consiglio. Lo statuto, non essendo più, come in precedenza, una legge statale, può essere impugnato dal governo dinanzi alla Corte costituzionale per la sola violazione dei limiti formali.
Il nuovo modello è stato poi esteso, con la l. cost. 2 del 31 genn. 2001, alle regioni a statuto speciale, la cui specialità aveva finito, come già in passato, per fungere da ostacolo all’innovazione, in ragione delle particolari e più gravose procedure previste per le modifiche.
Gli statuti regionali adottati a seguito della riforma costituzionale hanno tutti confermato la scelta dell’elezione diretta del presidente della giunta e del principio simul stabunt simul cadent, scegliendo così di non usufruire della possibile deroga consentita. Gli statuti hanno frequentemente introdotto, però, alcuni temperamenti all’equilibrio dei rapporti tra presidente e consiglio, come l’attribuzione di maggiori competenze al consiglio, l’approvazione da parte del consiglio di un programma di governo presentato dal presidente all’inizio della legislatura, la possibilità per il consiglio di esprimere censure nei confronti di singoli componenti della giunta (la Corte costituzionale ha escluso la possibilità di mozioni di sfiducia individuali) e l’apposizione di limiti alla possibilità per il presidente di porre la questione di fiducia (dato che l’eventuale sfiducia comporterebbe la decadenza del consiglio che la esprime).
Il diritto regionale conferma, sotto questo profilo, la sua appartenenza al diritto pubblico generale, che ha visto, fra la fine del secolo scorso e l’inizio del nuovo, una tendenza diffusa al rafforzamento del potere esecutivo (o governativo, se si preferisce) nei confronti del potere legislativo. Si tratta di una tendenza che affonda le proprie radici in esigenze di maggiore efficienza, ma anche di maggiore responsabilità e accountability e che, proprio per questo, ha portato con sé modifiche ai sistemi elettorali di tutti i livelli di governo territoriale. A questa tendenza non ha corrisposto, però, almeno sinora, una contestuale capacità di ridefinire il ruolo delle assemblee legislative, che avrebbero dovuto sviluppare e rafforzare i propri poteri di indirizzo e controllo sull’attività dell’esecutivo. Gli strumenti di indirizzo e di controllo sono dunque rimasti a uno stadio embrionale e rudimentale e rimane, perciò, anche la permanente tentazione delle assemblee di riappropriarsi di poteri di gestione e di microdecisione.
Per quanto riguarda specificamente l’assetto regionale, va detto che le nuove regole presentano, in termini generali, uno svantaggio e un vantaggio. Lo svantaggio sta nella rigidità del sistema, in quanto qualsiasi ragione di crisi del presidente (ivi comprese quelle relative a vicende personali, come malattia o decesso) portano alla decadenza degli organi e alla necessità di nuove elezioni. Il vantaggio sta nella correzione apportata al sistema precedente, che aveva visto crisi politiche di durata illimitata e, contestualmente, governi regionali di brevissima durata, con effetti nocivi per la funzionalità e la stessa capacità rappresentativa dell’ente regione.
La regione come livello di governo: il riparto delle funzioni
La riforma del Titolo V della Costituzione ha profondamente innovato il riparto della potestà legislativa e delle funzioni amministrative fra Stato, regioni e autonomie locali, rafforzando significativamente il ruolo delle regioni come livello di governo, specie per quanto riguarda l’estensione della potestà legislativa.
Prima ancora di esaminare le dimensioni e gli sviluppi di questo processo di trasformazione, occorre però ricordare che si tratta comunque di un processo che non modifica la natura profonda del sistema istituzionale. Il sistema rimane, infatti, una variante dello Stato unitario, in quanto, mentre il potere legislativo e il potere esecutivo risultano divisi fra i diversi livelli di governo, il potere giudiziario resta intestato esclusivamente allo Stato centrale.
Il nuovo riparto di funzioni, specie per quel che riguarda la potestà legislativa, si allontana decisamente, però, dall’assetto precedente, nel quale era chiarissima la natura dello Stato quale ente a competenza generale e la natura della regione quale ente a competenze enumerate. Pur senza giungere a un rovesciamento dei ruoli – soprattutto, come si vedrà, in ragione delle cosiddette clausole generali di competenza statale, come la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative a diritti da garantire su tutto il territorio nazionale, l’ordinamento civile – può dirsi che il ruolo della regione come livello di governo risulta fortemente potenziato.
La riforma costituzionale ha compiuto, infatti, una duplice operazione di equiparazione di elementi che prima erano disposti su piani diversi. La prima operazione di equiparazione riguarda la definizione degli stessi elementi costitutivi della Repubblica, che vengono identificati all’art. 114, con una elencazione ascendente, nei Comuni, nelle Province, nelle Città metropolitane, nelle Regioni e nello Stato. Lo Stato non coincide, quindi, con la Repubblica, ma ne fa parte, insieme agli altri livelli di governo.
La riforma costituzionale pone sullo stesso piano, in secondo luogo, la potestà legislativa statale e la potestà legislativa regionale, ambedue tenute al rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Si può osservare, per inciso, come il rispetto di vincoli sovranazionali, quali il diritto comunitario e il diritto internazionale, si imponga come condizione di legittimità per l’esercizio della potestà legislativa, da chiunque esercitata nell’ordinamento italiano. Viene espressamente riconosciuto e ampliato, di converso, il ‘potere estero’ delle regioni, poiché viene previsto, all’art. 117, 5° co., che le regioni possano operare anche al di fuori del territorio nazionale, partecipando, per le materie di loro competenza, all’attuazione e alla esecuzione di accordi internazionali e di atti comunitari (sia pure nel rispetto delle procedure stabilite con legge statale).
Il nuovo Titolo V prevede, infine, all’art. 116, 3° co., che possano darsi ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia regionale per alcune materie, introducendo così, per la prima volta, la possibilità di un regionalismo asimmetrico o a geometria variabile. Le singole regioni possono scegliere se avvalersi di questa facoltà, di modo che le differenze fra regione e regione non sono più rimesse (soltanto) alle tradizionali ragioni storiche della specialità (l’esistenza di regioni di frontiera o di isole, la presenza di minoranze linguistiche), ma possono essere frutto di scelte consapevoli in ragione di vocazioni e di priorità che ciascuna regione può decidere di porre al centro della propria azione (si pensi, per fare solo un esempio, alla materia dei beni culturali per la Toscana).
Per meglio comprendere la portata del cambiamento conviene esaminare più da vicino il nuovo sistema di riparto della potestà legislativa.
Il riparto della potestà legislativa: materie esclusive, materie concorrenti, materie residuali
L’art. 117 della Costituzione disciplina il riparto della potestà legislativa mediante due elenchi e alcune clausole generali.
Il primo elenco contiene l’indicazione delle materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato: materie, dunque, relativamente alle quali le regioni non dispongono di alcun potere legislativo. Nell’elenco rientrano, fra l’altro, l’ordinamento civile, la giustizia, la difesa, la moneta, l’immigrazione, la tutela della concorrenza, la tutela dell’ambiente e i livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti sull’intero territorio nazionale.
Il secondo elenco contiene, invece, le materie per le quali le regioni sono titolari di potestà legislativa concorrente. La legislazione regionale concorre a definire la disciplina di queste materie, nel rispetto dei principi fondamentali definiti con legge statale. In questo elenco rientrano materie già attribuite precedentemente alla potestà legislativa regionale concorrente (come la sanità) e materie in precedenza riservate alla potestà legislativa statale, come, per fare solo qualche esempio, la ricerca scientifica, il governo del territorio, l’ordinamento della comunicazione, le grandi reti di trasporto e di navigazione.
Le regioni dispongono anche della potestà legislativa in «[...] ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato» (art. 117, 4° co.). La riforma costituzionale ha introdotto, così, una clausola di competenza residuale a favore delle regioni: tutte le materie non comprese nei due elenchi prima esaminati dovrebbero spettare alla competenza regionale. Il condizionale è però d’obbligo, sia perché si tratta di materie innominate, che quindi devono essere identificate volta per volta, sia perché la competenza residuale regionale incontra importanti limiti, che la Corte costituzionale ha progressivamente identificato e qualificato.
Sotto il profilo della identificazione, basti rilevare come fra le materie di competenza residuale regionale dovrebbero rientrare materie di sicura dimensione nazionale o addirittura sovranazionale, come, per es., l’industria, i lavori pubblici e gli appalti, i trasporti e la viabilità.
Sotto il secondo profilo, un primo sicuro limite alla competenza residuale regionale si trova nelle clausole generali di attribuzione di potestà legislativa esclusiva allo Stato, quali, per fare solo qualche esempio, la tutela della concorrenza o i livelli essenziali delle prestazioni o, ancora, l’ordinamento civile, che esclude dalla competenza regionale i rapporti di diritto privato, anche quando rientrino in una materia di competenza regionale.
Valgono, naturalmente, per la potestà legislativa residuale i limiti generali espressamente posti dalla stessa Costituzione alla potestà legislativa: i limiti derivanti dalla prima parte della Costituzione e i limiti indicati all’art. 117, 1° comma. Vale, altrettanto sicuramente, anche il limite territoriale, mentre non rileva più, invece, il limite dei principi fondamentali, che lo Stato può porre soltanto nelle materie di legislazione concorrente.
Il nuovo riparto della potestà legislativa definito con la riforma del Titolo V ha prodotto un notevole contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale, anche in ragione della formulazione poco chiara degli elenchi e della problematicità di alcune scelte, dettate forse più dall’esigenza contingente di far apparire più esteso l’ambito attribuito alle regioni e, contestualmente, più ridotto il ruolo dello Stato, che non da un’attenta ricognizione e distinzione degli ambiti materiali (e degli interessi) a dimensione regionale e degli ambiti materiali (e degli interessi) a dimensione nazionale.
La Corte costituzionale si è trovata quindi a dover intervenire frequentemente non tanto e soltanto a risolvere, per così dire, questioni di confine, ma a fornire, piuttosto, criteri generali d’interpretazione e ricostruzione di un sistema malamente configurato nelle nuove disposizioni costituzionali.
La giurisprudenza costituzionale ha fornito, così, una interpretazione lata delle materie riservate alla potestà esclusiva statale, individuando materie trasversali (come, per es., la tutela dell’ambiente, la tutela della concorrenza, l’ordine pubblico e la sicurezza, l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali), che investono una pluralità di competenze e si atteggiano come valori costituzionalmente protetti. Tali materie, per un verso, richiedono una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, ma, per l’altro, non escludono a priori l’intervento del legislatore regionale entro spazi circoscritti.
La separazione fra potestà legislativa statale esclusiva, potestà concorrente e potestà residuale non è, dunque, né netta, né definita una volta per sempre, ma soggetta a interpretazione, evoluzione e sviluppi. Il nuovo quadro costituzionale, pur differenziandosi dall’assetto precedente, non presenta, quindi, quanto al riparto della potestà legislativa, tratti così radicali da consentire di affermare che sia stato invertito il criterio di enumerazione: lo Stato continua a operare come un ente a competenza generale, mentre la potestà legislativa regionale, pur risultando significativamente ampliata, resta sottoposta a limiti pregnanti.
Un cambiamento radicale può essere segnalato, invece, per quanto riguarda il controllo statale sulle leggi regionali. Nel sistema precedente si trattava di un controllo preventivo, mentre la riforma costituzionale prevede solo un controllo successivo, da esercitarsi tramite impugnazione in via diretta alla Corte costituzionale della legge regionale che «ecceda la competenza della Regione» (art. 127, 1° co.) entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge. È stata altresì soppressa la figura del Commissario del governo, prevista dal precedente testo costituzionale come un organo governativo presente in ciascuna regione e dotato di funzioni di controllo sulle leggi e sugli atti regionali.
Ugualmente innovativa è l’attribuzione alle regioni della potestà regolamentare per tutte le materie non attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, con il rinvio allo statuto per l’identificazione dell’organo regionale titolare della potestà (art. 117, 6° co.). I nuovi statuti regionali, adottati dopo la riforma, disegnano in genere procedure articolate, che vedono ora la prevalenza del consiglio, ora la prevalenza della giunta, con le eccezioni opposte dello statuto abruzzese, che riserva la potestà regolamentare al consiglio, e dello statuto pugliese, che la attribuisce esclusivamente alla giunta.
Il riparto della potestà amministrativa: i principi generali
La riforma costituzionale ha previsto, accanto a un nuovo riparto della potestà legislativa, anche un nuovo riparto della potestà amministrativa, che si caratterizza soprattutto per il superamento del principio, precedentemente vigente, del parallelismo fra potestà legislativa regionale e funzioni amministrative. Il superamento del parallelismo fra legge e amministrazione è importante non soltanto perché fa posto a un nuovo criterio di riparto delle funzioni amministrative, ma anche perché segnala l’abbandono del tradizionale assetto ricostruttivo, secondo il quale l’amministrazione costituisce attuazione o esecuzione del comando legislativo e quindi il soggetto titolare della competenza legislativa in una data materia ha – deve avere – la titolarità della potestà amministrativa nella stessa materia e può determinarne le modalità di esercizio (ivi compresa la possibilità di attribuzione o delega ad altro soggetto).
Il principio del parallelismo ha sempre avuto, in realtà, applicazione limitata, perché anche nell’ordinamento precedente alla riforma molte funzioni amministrative in materie di competenza legislativa regionale sono a lungo rimaste in capo all’amministrazione statale: non a caso, anche dopo la prima e la seconda regionalizzazione (rispettivamente, 1972 e 1978), gli apparati ministeriali non solo non si sono ridotti, ma hanno visto aumentare il numero degli uffici e soprattutto delle direzioni generali, pur a fronte di compiti (teoricamente) ridotti. Con la terza regionalizzazione (1998) si sono poste le basi formali per il superamento del principio del parallelismo. Il legislatore ordinario ha affermato, infatti, il principio per cui le funzioni amministrative spettavano alle regioni e agli enti locali anche nelle materie di competenza legislativa statale, salvi espressi e circostanziati casi di deroga, e ha disegnato un apposito procedimento di trasferimento di risorse umane, organizzative e finanziarie (peraltro realizzato solo in parte minima).
Con la riforma costituzionale del 2001 il parallelismo è stato definitivamente abbandonato, a favore di una distinzione fra criteri di ripartizione della potestà legislativa e criteri di ripartizione delle funzioni amministrative. La competenza legislativa viene infatti attribuita, come si è visto in precedenza, mediante gli elenchi dell’art. 117, 2°, 3°, 4° co., mentre le funzioni amministrative sono ripartite dall’art. 118, 1° co. mediante una clausola generale («Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni»), corretta e resa flessibile dall’individuazione delle condizioni di deroga («salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza»). Il comune viene, quindi, designato come il livello ordinario di amministrazione, anche se le regole di esercizio delle funzioni amministrative possono venire, a seconda della materia, dalla legge statale o dalla legge regionale. Il legislatore statale o regionale può, poi, scegliere un diverso ente come titolare delle funzioni amministrative, in attuazione dei principi di sussidiarietà, di differenziazione e di adeguatezza. Non è detto, dunque, che tutti i comuni abbiano le stesse funzioni e neanche che le stesse classi (secondo le dimensioni o la natura dei territori) di comuni abbiano le stesse funzioni, perché una regione potrebbe ritenere preferibile attribuire determinate funzioni alle province o a unioni di comuni.
Il sistema così disegnato ha presto mostrato alcuni profili problematici. L’applicazione piana delle norme costituzionali appena richiamate è sicuramente possibile, infatti, nelle materie di competenza legislativa esclusiva statale, ma presenta profili critici e richiede un più articolato meccanismo di messa in opera per le materie di competenza legislativa concorrente e, ancor più, per le materie di competenza legislativa residuale delle regioni.
Nel primo caso, occorre chiarire se la ripartizione delle funzioni amministrative rientri nei principi della materia e spetti quindi allo Stato o se non attinga al rango di principio fondamentale e spetti quindi a ciascuna regione. Nel secondo caso, è evidente la possibilità che emergano, in una materia attribuita alla potestà legislativa residuale regionale, funzioni che richiedano l’esercizio unitario a dimensione nazionale, da attribuire, quindi, all’amministrazione statale, creandosi così un’asimmetria fra lo strumento di attribuzione – la legge regionale – e il destinatario dell’attribuzione – lo Stato – caratterizzato da dimensione per definizione più ampia.
Il problema è stato almeno parzialmente risolto dalla Corte costituzionale, che ha interpretato il principio di sussidiarietà come uno strumento che può operare in duplice direzione, sia dall’alto verso il basso (con effetto, quindi, di decentramento), sia dal basso verso l’alto (con effetto, quindi, di accentramento). La Corte ha ritenuto, infatti, che l’art. 118, 1° co. « si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per queste un meccanismo dinamico che finisce col rendere meno rigida [...] la stessa distribuzione delle competenze legislative» (sentenza n. 303/2003, poi confermata da successive pronunce).
Il principio del parallelismo risulta, così, non solo superato, ma addirittura invertito, in quanto non è dalla titolarità della potestà legislativa che discende la titolarità della potestà amministrativa o, in alternativa, il potere di distribuire le funzioni amministrative. Al contrario: occorre guardare alle funzioni amministrative e alla loro collocazione costituzionalmente regolata per sapere quale soggetto sarà titolare della potestà legislativa.
Si tratta di un orientamento che merita particolare attenzione, perché con esso è la tradizionale ricostruzione del rapporto legge-amministrazione a venire in discussione. Non è più, infatti, la potestà amministrativa a essere finalizzata all’esecuzione del comando legislativo, ma è, invece, la potestà legislativa a essere finalizzata alla disciplina delle funzioni amministrative. Il motto napoleonico «l’intendenza seguirà», che tante volte è stato utilizzato nella nostra letteratura per descrivere il rapporto tra amministrazione/intendenza e legge/esercito, andrebbe allora d’ora in poi applicato alla legge che, come dice la Corte costituzionale, deve assicurare che l’esercizio delle funzioni amministrative sia «permanentemente raffrontabile a un parametro legale» (sentenza n. 303/2003).
Funzione amministrativa e principio di legalità sono, dunque, inscindibili e ciascuna funzione amministrativa non può che essere disciplinata da una fonte legislativa. Se, quindi, la funzione amministrativa è ‘attratta’, in virtù del principio di sussidiarietà, in capo allo Stato, sarà la legge statale a dettare la disciplina, perché l’esercizio della potestà legislativa regionale porterebbe in questo caso a un risultato illogico, come la coesistenza di discipline (regionali) differenziate incidenti sulla stessa funzione, esercitata a livello nazionale dall’amministrazione statale.
Il rapporto fra legge, regolamento e amministrazione nel nuovo sistema
Si è visto sinora come la riforma costituzionale configuri in modo fortemente innovativo il rapporto tra legge, regolamento e amministrazione. Secondo la tradizione, questi tre elementi sono in genere configurati come elementi posti su un continuum: il titolare della potestà legislativa è il titolare anche della potestà regolamentare ed è di norma il titolare anche della potestà amministrativa, cioè dispone di tutte e tre.
La nuova Costituzione, invece, disallinea fortemente il rapporto fra legge, regolamento e amministrazione e provoca, così facendo, un’ulteriore esigenza di coordinamento. Il disallineamento deriva dal fatto che alla ripartizione di potestà legislativa non corrisponde una simmetrica ripartizione di potestà regolamentare o di potestà amministrativa. Lo Stato è titolare della potestà legislativa esclusiva in un elenco tassativo di materie (art. 117, 2° co.) e per queste materie dispone della potestà regolamentare che può comunque delegare alle regioni, mentre per tutte le altre materie, cioè per quelle di legislazione concorrente (art. 117, 3° co.) e per quelle di potestà legislativa regionale residuale (art. 117, 4° co.), la potestà regolamentare appartiene alle regioni (art. 117, 6° co.). Il quadro è completato, poi, dall’attribuzione a comuni e province della potestà regolamentare per quanto riguarda la propria organizzazione e la disciplina del funzionamento dello svolgimento delle proprie funzioni.
Il disallineamento è completo, altresì, rispetto al rapporto con le funzioni amministrative. Ferma restando la preferenza costituzionale per l’attribuzione delle funzioni amministrative ai comuni, la decisione sull’allocazione delle funzioni è rimessa al soggetto titolare della potestà legislativa e quindi nelle materie di potestà legislativa statale (art. 117, 2° co.) sarà lo Stato a decidere quando ci sono esigenze unitarie e nelle materie di potestà legislativa regionale (art. 117, 4° co.) sarà la regione a scegliere.
Il soggetto titolare della potestà legislativa non è, quindi, necessariamente titolare della potestà amministrativa, ma dispone del potere di allocazione delle funzioni amministrative, dovendo rispettare i criteri dettati dall’art. 118 della Costituzione: le funzioni devono essere attribuite ai comuni, a meno che non ricorrano le condizioni che la norma costituzionale indica come abilitative per una diversa allocazione. Potestà legislativa e potestà amministrativa sono ovviamente sempre legate, ma il collegamento non si trova più necessariamente, e anzi nella maggior parte dei casi non si troverà più, nell’identità soggettiva del titolare di ambedue.
L’attuazione della riforma costituzionale è ancora troppo incompleta per poter dire se questo nuovo sistema sarà migliore del precedente. In ogni caso esso richiede un forte grado di cooperazione fra i diversi soggetti titolari della potestà legislativa, della potestà regolamentare e delle funzioni amministrative e un sistema chiaro di allocazione e ripartizione delle risorse finanziarie, che costituiscono condizione prima di effettività dell’autonomia e del buon funzionamento di qualsiasi sistema. È a questi elementi che si deve quindi volgere l’attenzione.
Le ‘cerniere del sistema’: strumenti di cooperazione e poteri sostitutivi
Un sistema decentrato, quale che sia il grado di articolazione e di autonomia che lo contraddistingue, necessita di strumenti che assicurino il coordinamento fra le diverse parti che lo compongono, consentano di risolvere i conflitti e, in casi estremi, assicurino la possibilità di porre rimedio a inadempimenti e violazioni che potrebbero mettere a rischio l’unità dell’ordinamento o la tutela dei diritti.
L’insieme di questi strumenti opera, metaforicamente, da ‘cerniera’ fra i diversi livelli di governo, per l’esercizio delle diverse funzioni. Lo strumento più diffuso relativamente alla funzione legislativa è la previsione di un ramo del Parlamento rappresentativo delle unità substatali: così, per es., per citare i due modelli principali, in Germania con il Bundesrat, composto da rappresentanti degli esecutivi dei Länder, o negli Stati Uniti con il Senato, composto da 2 senatori per ciascuno Stato (indipendentemente dalle dimensioni del singolo Stato, come è noto assai variabili). Gli strumenti più diffusi relativamente alla funzione esecutiva o amministrativa sono in genere configurati, invece, come moduli cooperativi di natura procedimentale o organizzativa, accompagnati dalla previsione di poteri sostitutivi.
Il sistema italiano non è riuscito a superare il bicameralismo perfetto e lo stesso dibattito intorno ai progetti di una Camera delle regioni (o più genericamente delle autonomie) ha mostrato, fra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec., quanto siano distanti le opzioni e le preferenze politiche sul tema. Nessuno fra i modelli sperimentati in altri Paesi è riuscito a raggiungere un’adesione condivisa, tanto che sono state escogitate infinite proposte di compromesso, giunte sino a ipotizzare l’istituzione di una terza Camera (che avrebbe ulteriormente aggravato il già inefficiente processo legislativo e decisionale).
Non v’è da stupirsi, quindi, se anche la riforma costituzionale del 2001 non ha inciso sull’assetto del Parlamento, limitando a prevedere un’integrazione, da effettuarsi mediante i regolamenti parlamentari, della commissione bicamerale per le questioni regionali. La commissione, integrata da rappresentanti delle regioni e degli enti locali, dovrebbe esprimersi nelle materie di potestà legislativa concorrente e in materia di finanza. In esito a un parere contrario oppure a un parere condizionato all’introduzione di modifiche, si richiederebbe l’approvazione, da parte della Camera, a maggioranza assoluta. Il condizionale è, però, d’obbligo, perché la previsione costituzionale è rimasta completamente inattuata, in ragione dell’insuperabile disaccordo sulla distribuzione dei rappresentanti fra regioni ed enti locali, sugli organi deputati a eleggere o designare i rappresentanti, sulle modalità di espressione dei pareri.
Non ha trovato posto nella riforma costituzionale neanche un riconoscimento espresso del sistema di raccordi procedimentali e organizzativi fra Stato e regioni sviluppatosi via via, prima per settori e poi con organi collegiali a competenza generale come la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza unificata, nell’ultimo ventennio del secolo scorso; così come manca un riferimento generale al principio di leale collaborazione, elaborato e articolato dalla giurisprudenza costituzionale con orientamento ormai consolidato.
Gli strumenti di cooperazione ad hoc
La disciplina costituzionale contiene, però, alcune previsioni in materia di cooperazione fra livelli di governo relative a specifiche fattispecie.
Viene in rilievo, innanzitutto, il caso della partecipazione delle regioni alla formazione e alla esecuzione degli atti comunitari. L’art. 117, 5° co., stabilisce che le regioni nelle materie di loro competenza partecipano alle decisioni dirette alla formazione e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli atti comunitari, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da una legge dello Stato, con la quale saranno disciplinate anche le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza (anche perché, come è noto, nell’ordinamento comunitario come in quello internazionale resta sempre ferma la responsabilità dello Stato in caso di inadempienza di qualsiasi soggetto appartenente all’ordinamento nazionale).
Rileva, in secondo luogo, la previsione dell’art. 117, 8° co. della Costituzione, relativa ai rapporti fra regioni e alle intese fra le regioni, secondo la quale la legge regionale ratifica le intese della regione con altre regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni – non è del tutto chiaro a chi si riferisca l’aggettivo «proprie», ma probabilmente alla prima regione – anche con individuazione di organi comuni. Si tratta di una norma che potrebbe assumere grande importanza al fine di disciplinare e curare interessi sovraregionali che non si identificano con interessi statali o nazionali.
Passando dall’art. 117 all’art. 118, è da segnalare la disposizione del 3° co. – di nuovo specifica e non generale – per la quale la legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e regioni in alcune materie attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e disciplina, inoltre, forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali.
Ancora, all’art. 119 della Costituzione si trova un riferimento ai principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, che dovrebbero essere fissati con una legge statale. La questione è particolarmente rilevante, perché connessa al cosiddetto federalismo fiscale, in relazione al quale, però, sinora l’abbondanza di ipotesi è inversamente proporzionale alla scarsità delle realizzazioni, pur trattandosi di un elemento cruciale del nuovo sistema, dato il peso sempre più rilevante delle competenze attribuite alle regioni (e alle autonomie locali).
Per quanto riguarda specificamente la relazione tra le regioni e gli enti locali si prevede, infine, che gli statuti regionali debbano disciplinare un Consiglio delle autonomie locali; tale organismo potrà anche avere competenze e ruolo diversi da regione a regione, ma la sua presenza rimane comunque un elemento necessario dell’ordinamento di ciascuna regione.
Il potere sostitutivo e il suo fondamento costituzionale
La riforma ha dato, infine, un fondamento costituzionale al potere sostitutivo dello Stato nei confronti delle regioni, in precedenza previsto da leggi ordinarie, ma sempre sospetto di incostituzionalità e circondato, a opera della giurisprudenza costituzionale, da precise condizioni di esercizio.
Ora il potere sostitutivo statale trova il proprio fondamento costituzionale – oltre che nel citato art. 117, 5° co., in riferimento alla specifica fattispecie – nell’art. 120, 2° co., per tutti i casi di inadempienza nell’esecuzione di accordi internazionali e di atti dell’Unione Europea, di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, per l’unità giuridica o l’unità economica e per la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. L’esercizio del potere sostitutivo – nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale cooperazione – prevede che sia assegnato al soggetto inerte o inadempiente un termine. Ove il termine decorra inutilmente, il Consiglio dei ministri, sentito l’organo interessato, adotta i provvedimenti necessari o nomina un commissario, in una riunione alla quale partecipa il presidente della regione inerte o inadempiente.
Si realizza così la fattispecie tipica dell’intervento sostitutivo, quale intervento per definizione ex post non ex ante, da attivare quando si verifica una condizione di rottura dell’ordinamento. Per rimediare a tale rottura, che è circostanza straordinaria, si prevede un intervento straordinario extra ordinem, che produce la sostituzione del soggetto ordinariamente titolare dell’intervento o del potere di decisione.
Il diritto regionale come diritto interstiziale
Il diritto regionale si presenta oggi, allo stesso tempo, come un diritto in espansione, ma relativamente a uno spazio sempre più limitato. L’apparente contraddizione è dovuta alla crescente – e inevitabile – integrazione dell’ordinamento italiano in ordinamenti sovranazionali o transnazionali. L’ordinamento interno è, quindi, permanentemente aperto all’influenza di regole, decisioni, principi, prassi, che provengono, per così dire, dall’esterno, ma non sono più estranei, perché i confini e le frontiere degli ordinamenti nazionali sono ormai ‘porosi’.
Il ruolo e lo spazio del diritto regionale non possono essere più definiti, allora, come si tendeva ancora a fare nella seconda metà del secolo scorso, in termini di porzione o quote dell’ordinamento nazionale da riservare a soggetti subnazionali, perché non essendo l’ordinamento nazionale conchiuso, esso non può essere facilmente frazionato. Anche la ricorrente tentazione di enfatizzare il ruolo delle ‘piccole patrie’ a fronte dei processi di globalizzazione mostra tutti i suoi limiti, data l’impossibilità di determinare con certezza la dimensione regionale degli interessi e delle comunità, specie con riferimento a regioni che, come quelle italiane, non traggono la propria identità dalla storia, ma derivano i propri confini dai distretti amministrativi disegnati in epoca precostituzionale.
Il diritto regionale si presenta, all’inizio del 21° sec., soprattutto come diritto interstiziale. Negli interstizi che il diritto nazionale e il diritto sovranazionale non riempiono, può inserirsi la scelta autonoma e differenziata della regione, di volta in volta riferita a interessi territorialmente caratterizzati o a tradizioni – sociali, produttive, culturali – locali. Resta da vedere se questa vocazione interstiziale possa dare luogo a innovazioni e sperimentazioni – come almeno in parte è stato per il regionalismo italiano negli anni Settanta dello scorso secolo – o se invece corra il rischio di divenire strumento di difesa e conservazione.
Bibliografia
Fra le trattazioni di carattere generale:
S. Mangiameli, Regione, in Dizionario di diritto pubblico, 5° vol., Milano 2006, ad vocem.
P. Caretti, G. Tarli Barbieri, Diritto regionale, Torino 2007.
J. Luther, Costituzionalismo e regionalismo europeo, «Le regioni», 2007, 6, pp. 933-58.
Sull’attuazione della riforma disciplinata con legge ordinaria, prima della riforma costituzionale:
G. Sciullo, Federalismo amministrativo, in Digesto delle discipline pubblicistiche. Aggiornamento A-Z, Torino 2005, pp. 326-35.
Sul progetto di riforma costituzionale approvato nel 2004 e bocciato dal referendum:
Costituzione, una riforma sbagliata, a cura di F. Bassanini, Bagno a Ripoli 2004.
Sui nuovi statuti regionali:
I nuovi Statuti delle Regioni ad autonomia ordinaria, a cura di A. D’Atena, Milano 2008.
I principi negli Statuti regionali, a cura di E. Catelani, E. Cheli, Bologna 2008.
Sulla cooperazione fra livelli di governo:
R. Bin, La prassi della cooperazione nel sistema italiano di multilevel government, «Le istituzioni del federalismo», 2007, 6, pp. 689-706.
G. Carpani, La Conferenza Stato-regioni, Bologna 2007.
Per un quadro aggiornato degli sviluppi:
ISSiRFA-CNR, Quarto rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia, Milano 2007.