diritto
Termine con cui si indica sia il d. in senso oggettivo, ossia il complesso di norme giuridiche che comandano o vietano determinati comportamenti ai soggetti che ne sono destinatari, sia il d. in senso soggettivo, cioè la facoltà o pretesa, tutelata dalla legge, di un determinato comportamento attivo od omissivo da parte di altri, sia la scienza che studia tali norme e facoltà, nel loro insieme e nei loro particolari raggruppamenti. Il fenomeno giuridico è presente in ogni stadio dell’umanità, assumendo forma e modi diversi secondo le differenti condizioni di tempo e luogo. Nelle comunità tradizionali più semplici la presenza di elementari regole giuridiche è individuabile nei tabù o in regole magico-religiose che disciplinano le azioni dei singoli e delle collettività con l’immanente minaccia di punizioni. Dai tabù si sviluppano, con l’affermarsi di comunità più complesse, articolate in gruppi familiari e gentilizi dotati di maggiore controllo sulle risorse e fondate sulla divisione del lavoro, le regole giuridiche vere e proprie, consistenti in imperativi più o meno precisi a garanzia di determinati beni materiali o morali e nella previsione di appropriate e proporzionate sanzioni. Presso popoli senza scritture, queste regole si trasmettono di generazione in generazione in forma di massime o proverbi. A questo d., talvolta definito popolare o vivente, mano a mano vengono ad aggiungersi regole dettate dai gruppi o dalle persone che esercitano di fatto, con il sopravvenire di nuove organizzazioni sociali, il potere. Da qui traggono origine gli attriti e i contrasti che operano spesso come forze di maturazione e di evoluzione degli ordinamenti originari. Spesso il complesso del d. popolare è racchiuso nelle consuetudini, nelle costumanze domestiche, religiose, agricole, economiche, nei giochi. Superata questa fase, inizia quella storica del d.: dallo stadio della norma tramandata oralmente (consuetudine: ius non scriptum) si passa a quello della norma scritta (legislazione), mentre dagli organi produttori di norme si specificano quelli che ne curano l’applicazione nei tribunali (giurisdizione), e si va profilando una coscienza riflessa dell’esperienza giuridica passata (giurisprudenza). Secondo alcuni studiosi, nell’antichità classica la realtà giuridica era intesa come un aspetto della realtà naturale. Ma già nel 5° sec. a.C. questa concezione entrò in crisi per il mutamento generale delle condizioni storiche. Un notevole apporto allo sviluppo del d. venne dalla Grecia antica, soprattutto a seguito del costituirsi della polis, con la distinzione, al suo interno, di tre «organi»: l’assemblea dei cittadini, il consiglio e i magistrati. Oltre alla comparsa dei d. politici legati alla cittadinanza, si affermò, soprattutto ad Atene, un d. costituito da leggi (nòmoi) votate dall’assemblea, anche se la consuetudine continuò a svolgere un ruolo significativo. Si assiste così alla nascita dell’idea elementare di legge. L’elaborazione sistematica del d. fu soprattutto un prodotto della cultura romana. E il d. formatosi a Roma, nel corso di sette-otto secoli, a partire dalla legge delle dodici tavole, fornì a lungo un modello ai d. europei ed extraeuropei fondato sull’esperienza pratica della sua necessità e utilità per la vita degli individui e della comunità. L’attività del pretore e di altri magistrati operanti nel campo della giustizia, i quali disponevano del potere di derogare più o meno ampiamente dal d. vigente, laddove esso appariva inadeguato alle nuove esigenze sociali, portò alla formazione di un d. parallelo (ius praetorium o ius honorarium) che si affiancò al ius civile, ossia a quello delle dodici tavole, arricchito e aggiornato dalla consuetudine, dai giuristi, dagli sporadici interventi legislativi. Un ponte tra il ius civile e il praetorianum fu il ius gentium, o d. comune, applicabile anche agli stranieri, e derivato in parte dagli usi internazionali e commerciali, in parte dai pretori, sempre con la guida dei giuristi. Alla concezione speculativa del d. s’interessò il pensiero medievale. Nella concezione medievale lo stesso d. soggettivo acquista un nuovo valore; l’uomo è soggetto di d. non in quanto è cittadino di uno Stato, ma in quanto è essere spirituale e morale, e i suoi diritti derivano non dallo Stato ma da Dio, e può quindi opporsi allo Stato che li violi. In Età moderna, e in partic. tra l’inizio del 17° e la fine del 18° sec., la riflessione filosofico-giuridica tornò a svilupparsi intorno alla nozione di d. naturale, che nel giusnaturalismo assume tuttavia un nuovo valore, in quanto non è più la via attraverso la quale le comunità umane possono partecipare all’ordine cosmico, ma una tecnica razionale della coesistenza. Successivamente, verso la seconda metà del 19° sec., in contrapposizione al giusnaturalismo cominciò a delinearsi una nuova concezione del d., il positivismo giuridico o giuspositivismo, che si basava sullo studio dei concetti giuridici fondamentali tratti dal d. positivo e presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico. Negli stessi anni, tuttavia, attraverso l’opera di H. Kelsen si delineò anche quella che può essere considerata come la più rigorosa teoria del giuspositivismo, il normativismo, avente a oggetto di indagine la norma, intesa non come imperativo di una volontà sovrana ma come struttura logica, giudizio ipotetico ostensibile in ogni aspetto dell’esperienza dei rapporti interindividuali.
Il d. canonico deve il suo nome ai canones, le norme positive che, assieme alla Sacra Scrittura e alle opere dei padri della Chiesa, formavano il d. della Chiesa cattolica. Tali norme potevano emanare dal papa e dai concili. Le fonti del d. canonico, secondo una partizione scolastica che la Chiesa accetta, si raggruppano in tre grandi periodi: il primo, dello ius antiquum, che abbraccia il diritto anteriore al decreto di Graziano (dalle origini alla metà circa del sec. 12°); il secondo, dello ius novum, che si estende dall’apparizione del decreto di Graziano (intorno al 1140) al Concilio di Trento (1545-63); il terzo, dello ius novissimum, dal Concilio di Trento ai giorni nostri. L’ampiezza del materiale legislativo raccolto suscitò, dopo l’apparizione dell’opera di Graziano, un imponente movimento di pensiero giuridico alimentato e stimolato, fra l’altro, dall’esempio parallelo della scienza civilistica. Solo nel 1917 la Chiesa romana si provvide di un codice di d. canonico dopo un difficile lavoro cui diede inizio Pio X e che Benedetto XV portò a termine. Nel 1983 Giovanni Paolo II promulgò un nuovo codice di d. canonico resosi necessario dopo il Concilio vaticano II.
In generale, si designa d. comune, con riferimento a un dato ordinamento giuridico, il complesso di quelle norme che, avendo valore generale, si contrappongono ad altre norme appartenenti allo stesso sistema ma limitate a un dato territorio (d. locale o particolare). In particolare, dicendo d. comune, per eccellenza, ci si riferisce al fatto storico per cui il d. romano giustinianeo, studiato nei suoi testi genuini e posto a fondamento della scienza giuridica per opera della scuola di Bologna a partire dai secc. 11°-12°, fu considerato come d. vigente e generale in Italia e in gran parte d’Europa, fino all’entrata in vigore delle codificazioni moderne. Nel corso del sec. 13° la scienza giuridica riconobbe che gli ordinamenti particolari viventi nell’orbita dell’impero, pur restandovi subordinati, potevano esercitare nella propria giurisdizione gli stessi poteri che l’imperatore esercitava su tutta la terra. Col sec. 18° la sistemazione razionalistica del d. postulata dalla scuola del d. naturale portò alla codificazione, che rese obsoleto il d. comune.
Inizialmente ispirato alla dottrina stoica del diritto naturale (il d. come espressione della ragione umana in armonia con la ragione universale), il d. romano ne avvertì in seguito i limiti, orientandosi verso uno sviluppo più legato all’esperienza pratica della sua necessità e utilità per la vita degli individui e della comunità (ius civile): i romani si elevarono quindi a una superiore intuizione del d., comprendente le posizioni e i bisogni dei singoli in quanto tali e non solo come cittadini (ius gentium); lo intesero, infine, come espressione della ragione umana in armonia con la ragione universale (ius naturale). La mobilità e l’evoluzione degli istituti giuridici e dei principi che li animano sono percepite nella concezione romana come connaturali alla funzione stessa: Giustiniano I, nel presentare la propria codificazione che innovava in profondità il sistema del d. romano, giustificò l’opera propria osservando che il d. degli uomini (humani iuris condicio) è in perenne movimento e che nulla può rimanere fermo per sempre (Const. Tanta, par. 18); e già un giurista classico, Sesto Pomponio, nel suo Enchiridion, aveva sentito la necessità di dimostrare l’origine e il processo formativo del d. e aveva fatto un sommario disegno della storia delle magistrature e della scienza del d., che Giustiniano riportò nel secondo titolo (De origine iuris) del primo libro del Digesto. La vicenda più che millenaria del d. romano è tradizionalmente suddivisa in quattro grandi fasi storiche (benché siano state proposte altre periodizzazioni, ritenute meglio confacenti alla comprensione dell’evoluzione del d.): il periodo arcaico, che va dall’età monarchica alla metà del 4° sec. (➔ Dodici tavole); il periodo preclassico o repubblicano, dalle leggi Licinie-Sestie al principato di Augusto (367-27 a.C.); il periodo classico, da Augusto a Diocleziano (che comprende anche l’opera dei grandi giurisprudenti del 2° sec. e dell’età severiana), e il periodo postclassico, da Diocleziano alle consolidazioni teodosiana e giustinianea.