Diritto
di Bruno Paradisi
Diritto
sommario: 1. Considerazioni preliminari. 2. Distinzione nella trattazione del diritto nel XX secolo. 3. Rapporto tra morale e diritto. 4. Il positivismo giuridico. 5. Hans Kelsen. Critica alla teoria di Ehrlich. 6. La ‛teoria pura del diritto'. 7. Importanza della Scuola storica per il positivismo giuridico moderno. 8. La dottrina giuridica francese nel Rinascimento. 9. Importanza della Seconda Scolastica. 10. Hobbes, Kant e Hegel. □ 11. Importanza del diritto romano. 12. La reazione al diritto comune. Leibniz. 13. La ‛giurisprudenza dei concetti'. 14. Il problema dell'interpretazione. 15. La Scuola esegetica. 16. Jhering e la ‛giurisprudenza degli interessi'. 17. Rapporto tra il diritto e la società. 18. Stato e società. 19. Il movimento del diritto libero. 20. La sociologia giuridica. 21. La dottrina di F. Gény. 22. La teoria dell'istituzione e il realismo giuridico. 23. Altre teorie. Stammler. 24. Marx e il diritto. 25. Gentile. 26. Il pensiero tedesco dopo la prima guerra mondiale. C. Schmitt. 27. Il pensiero americano. R. Pound. 28. Il ‛realismo scandinavo'. 29. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Considerazioni preliminari
Una trattazione che si proponga di esporre le linee essenziali del pensiero del sec. XX intorno al diritto esige qualche considerazione preliminare. Quel pensiero ha proseguito infatti nel tentativo millenario di cogliere l'essenza della giuridicità, aggredendo il problema da posizioni straordinariamente numerose e dandone perciò soluzioni profondamente diverse. Il pensiero del nostro secolo ha continuato nella tormentosa ricerca di una rappresentazione, qualificazione e definizione di ciò che chiamiamo diritto, obbedendo, non meno di quanto si è sempre fatto nel passato, a due distinte sollecitazioni. Da un lato esiste in ogni operazione del pensiero un aspetto che si collega e dipende dalla tradizione del pensiero anteriore, un'eredità della cultura da cui nessuno è in grado di prescindere. Anche nei tentativi di dare una risposta al quesito: ‟che cos'è il diritto", il pensiero moderno ha costruito servendosi di materiali già esistenti, sia che li abbia accolti integralmente, sia che li abbia modificati. Ma dall'altro lato ha obbedito alle condizioni storiche del nostro tempo, che non sono soltanto quelle rappresentate dallo stato della politica, dell'economia e degli ordinamenti giuridici, ma anche, come ogni espressione del pensiero, dal dramma che lo spirito dell'uomo vive vivendo la sua drammatica libertà. Una cosa può dirsi con certezza: il problema del diritto è onnipresente nella storia del pensiero, come affermazione o come negazione della sua validità, come certezza in qualche cosa di obiettivamente esistente o come un'apparenza che maschera realtà diverse; ed è quindi sempre una misura, una dimensione della vita intellettuale, che attraverso il diritto attribuisce alla vita individuale come a quella della società determinati valori, sia che alla norma giuridica associ la norma morale, sia che le separi l'una dall'altra, sia infine che annulli la prima in nome di diversi valori.
Ma se poi vogliamo sapere in che cosa consista quella misura, quella dimensione, allora ci troviamo di fronte a risposte diverse e spesso opposte. Il diritto è una creazione della mente umana o è invece l'ordine inerente alle cose e le cui origini e natura sfuggono all'uomo o vengono imputate a un principio superiore e imperscrutabile? Come creazione dell'intelletto e come ordine obiettivo esso può avere natura razionale; ma può anche essere frutto della volontà; può essere organizzazione prima che norma e norma prima che organizzazione; può essere comando o invece giudizio ipotetico; vivere soltanto nella storia o invece nella sola ragione; essere frutto di una logica matematica o soltanto di una logica probabile; essere pura forma o contenere sempre uno scopo; essere coazione o libertà; insieme di regole esistenti nella natura o nella mente dell'uomo, o norme derivanti dalla volontà dello Stato; identificarsi con la politica od opporsi a essa.
Noi qui ci proponiamo non di risolvere il problema filosofico di che cosa sia il diritto, ma di considerare in qual modo a quel problema sia stata data risposta nel nostro secolo; di comprendere cioè che cosa abbia rappresentato l'idea del diritto per il pensiero contemporaneo e nello stesso tempo quale sia l'importanza assunta dal diritto nella società del Novecento. Noi dobbiamo assumere quindi la posizione di chi voglia comprendere quanto è avvenuto e avviene nel pensiero contemporaneo circa il valore e la natura da attribuirsi al diritto, e non quella di chi voglia risolvere per proprio conto quel problema. Questo in altre parole significa che intendiamo qui assumere l'atteggiamento dello storico e non quello del filosofo.
Questa posizione storica non è però una posizione di agnosticismo. L'opzione che, scegliendola, si compie ha pure un significato, che è quello di riconoscere implicitamente il mutamento delle opinioni intorno al diritto e che invita a ricercare le ragioni di questo mutare del pensiero. Nella posizione di chi si proponga di esaminare storicamente e non di ridiscutere teoricamente le idee intorno alla natura del diritto c'è la persuasione che tra quelle idee e l'ambiente storico nel quale sono state espresse corra un nesso. Questo rapporto non consiste certo in una relazione di causa e di effetto tale che a una certa situazione concreta corrisponda una determinata espressione del pensiero. Tuttavia quel pensiero opera liberamente nell'ambito di una determinata realtà; e tra tale realtà e il pensiero corre un rapporto che è, appunto, un rapporto storico.
Se vogliamo dunque comprendere non soltanto quale sia il senso che di volta in volta la speculazione ha attribuito al diritto, ma vogliamo anche penetrarne le ragioni, dobbiamo non solo esaminare in che modo il ragionamento intorno al diritto si sia sviluppato, ma anche quali siano state le condizioni obiettive nelle quali tale svolgimento ha avuto luogo. Se l'idea che possediamo del diritto è, nonostante la trasmissione che la cultura ha operato dell'antico retaggio speculativo, diversa da quella che se ne ebbe nella Grecia antica, in Roma o nell'età medievale, ciò dipende dalle capacità creative dell'intelletto umano, ma anche dal fatto che tale intelletto ha operato sul fondamento di una diversa realtà ed esperienza. Il diritto è per noi distinto dalla morale; è un prodotto puramente umano e destinato agli uomini; il suo scopo è di regolare la vita associata; può essere considerato sotto l'aspetto subiettivo e obiettivo; e l'ideale che se ne abbia assume un significato soltanto se venga riferito a un determinato tempo e luogo. Ma il modo di pensare il diritto e di metterlo in relazione con la realtà, o con la sua rappresentazione, non è stato sempre questo. Possiamo anzi dire che esso è stato di volta in volta diverso a seconda delle caratteristiche assunte dalla civiltà, dalle condizioni materiali della vita non meno che dalle costruzioni dell'intelletto. Ciò nondimeno, nell'immensa varietà delle circostanze, è dato di notare una certa affinità nelle grandi risposte che l'uomo ha dato alla problematica che esse di volta in volta hanno proposto. Sono queste affinità che creano una specie di consonanza tra il presente e il passato e la possibilità stessa che l'uomo ha di collegarsi al passato e d'intenderlo. Cosicché nell'eterna creazione che lo spirito ha prodotto intorno al problema di che cosa sia il diritto e come esso possa assolvere al suo compito di regolare l'esistenza degli uomini, v'è pure qualcosa che lega tra loro l'una all'altra le soluzioni diverse, una parentela ideale tra i diversi modi d'intendere e di giudicare.
Tener presenti le teorie del passato per meglio comprendere quelle attuali sarà dunque una via che seguiremo costantemente, persuasi che l'intendimento delle seconde sia possibile soltanto con l'aiuto delle prime. Qui però dobbiamo aggiungere un altro avvertimento. Quando, a proposito del problema specifico del diritto, abbiamo avvertito delle affinità tra le costruzioni intellettuali e le situazioni storiche del passato, non abbiamo inteso comprendervi quelle che si attuarono nel secolo scorso. Tra il sec. XIX e il nostro, per quante differenze possano intercorrere, i legami sono così stretti che sarebbe impossibile parlare delle dottrine intorno al diritto espresse nell'epoca da noi vissuta senza fare continuo ricorso a quelle dell'età che ci ha immediatamente preceduto.
2. Distinzione nella trattazione del diritto nel XX secolo
Se dunque si getti uno sguardo sulla trattazione dei sommi problemi che intorno al diritto sono stati agitati nel Novecento si dovrà riconoscere una distinzione che ne divide il campo in due grandi settori, non meno di quanto era già avvenuto nel secolo scorso. Da un lato v'è una concezione del diritto come composto di norme e, per lo più, di norme consistenti in atti di volontà dello Stato; dall'altro si contrappone allo Stato la società e il diritto si concepisce come l'immediata proiezione del ‛fatto' sociale. La prima è un'idea ‛formale' del diritto, che si propone la sua essenza come il prodotto di un esercizio puramente razionale, indipendentemente dal rapporto tra il diritto e la realtà sottostante. La seconda, invece, concepisce il diritto come una idea ‛reale', nella quale la traduzione del fatto in espressione giuridica precede logicamente la norma.
La concezione ‛formale' del diritto è l'immediato prodotto dell'età liberale e dello stadio del diritto codificato. Ma ha una storia molto più lunga e le sue radici partono di lontano. Poiché senza scoprire quelle radici l'idea che ci si può fare di quel movimento di pensiero è solo parziale ed è destinata in sostanza a rimanere oscura, a esse si farà allusione; non senza però aggiungere che la distinzione che si è or ora ricordata ha anche un altro aspetto, che però non coincide perfettamente col primo e deve perciò essere rilevato separatamente. S'intende qui alludere all'idea che il diritto positivo abbia come suo costante modello un altro diritto, immutabile e sottratto all'arbitrio al quale invece quello sarebbe soggetto; contrapposta all'altra che vede nel diritto positivo l'unico diritto valido. Si deve anche avvertire che queste due distinzioni, che qui si adducono per chiarezza, costituiscono soltanto una schematizzazione che, se consente di raggruppare vari movimenti del pensiero giuridico sotto alcuni criteri fondamentali, è ben lungi dal contenerne la complessa varietà di cui il pensiero giuridico del sec. XX, e del XIX che gli è intimamente legato, si compone.
Quella concezione formale del diritto, che ha preso anche il nome di ‛positivismo giuridico', è a sua volta connessa con la formazione e la maturità dello Stato nazionale in Europa, e in particolare con la formazione e la maturità dello Stato nazionale tedesco nel corso del sec. XIX. Ma a sua volta è impossibile comprendere la portata di quel fatto storico e la sua importanza nei confronti del pensiero giuridico e delle costruzioni alle quali tale pensiero diede luogo, se non si consideri lo stretto legame, di accettazione e poi di negazione, che unì gli sviluppi della scienza giuridica e della filosofia tedesca all'illuminismo e alla Rivoluzione francese.
3. Rapporto tra morale e diritto
Il grande problema del rapporto tra la morale e il diritto, che aveva così a lungo affaticato le menti, fu genialmente formulato e risolto da Immanuel Kant nella Metafisica dei costumi, che è del 1797. La grande ventata rivoluzionaria, che aveva mutato il volto della Francia, andava concludendo il suo ciclo; e le sue ripercussioni si diffondevano per l'Europa suscitandovi, accanto a speranze e a fermenti politici, un nuovo modo d'intendere il diritto e l'eterna questione della libertà individuale e dell'autorità dello Stato. Questa questione doveva risolversi, prima ancora che nella determinazione dei limiti rispettivi tra lo Stato e l'individuo, in quella, di più profonda e vasta portata, dei rapporti tra norma etica e norma giuridica. Appunto il generale carattere normativo che le riuniva entrambe aveva lungamente esercitato il suo influsso, trascinando la morale sul terreno del diritto o pretendendo di cancellare ogni differenza tra loro confondendoli insieme. Il Kant pose a fondamento della legge morale il dovere per se stesso e a fondamento della legge giuridica un impulso diverso, cioè la semplice conformità alla norma. Inoltre il dovere morale è interno al soggetto, il dovere giuridico è esterno; e la volontà giuridica è eteronoma, mentre quella morale è autonoma. In un rapporto giuridico l'‛arbitrio' di un soggetto deve essere in relazione con quello di un altro soggetto, ma in ciò ha rilievo soltanto la ‛forma' e non il contenuto dell'arbitrio.
Che la natura del diritto sia stata definita dal Kant partendo dalla distinzione dalla morale e che la sua definizione (‟il diritto è l'insieme delle condizioni per le quali l'arbitrio di ognuno può accordarsi con l'arbitrio degli altri secondo una legge universale di libertà") abbia a fondamento una legge universale di libertà anziché prender le mosse dall'autorità dello Stato, è già un indizio eloquente che la sua concezione era ancora saldamente ancorata agli ideali del giusnaturalismo. La libertà era l'unico diritto innato; e lo Stato, sorgente, come per il Rousseau di cui certo il Kant senti l'influsso, da un contratto sociale, era non il padrone dispotico di cui l'assolutismo illuminato aveva disegnato l'immagine, ma invece il garante della libertà di ognuno e di tutti, modello dello ‛Stato di diritto' che costituirà il grande motivo della scienza tedesca del diritto pubblico e che troverà la sua espressione politica fin dal 1792 in una celebre operetta giovanile di Karl Wilhelm von Humboldt, scritta sotto l'influsso del Mirabeau: Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit eines Staates zu bestimmen.
Il diritto naturale, di cui il Kant confermava così la funzione essenziale e che egli chiamò ‟diritto privato", era costituito dai diritti soggettivi, a loro volta fondati sul principio, che costituisce un postulato, che gli oggetti esterni sono potenzialmente suscettibili di possesso da parte di un soggetto. Per questa via il Kant riaffermava la validità dei diritti soggettivi e la loro indipendenza dal ‛diritto pubblico', cioè, secondo la sua terminologia, dal diritto positivo promanante dallo Stato. Si ha quindi nella dottrina kantiana un'ulteriore determinazione del diritto naturale e del diritto positivo come corrispondenti rispettivamente alla ‛società naturale' e alla ‛società civile', che costituisce un altro passo verso quella futura distinzione tra la ‛società' e lo ‛Stato', corrispondente a un gruppo di dottrine che mirarono nel sec. XIX e nel XX a una limitazione del monopolio dello Stato nel campo del diritto (v. sotto). Ma preme qui rilevare come quel ‟diritto privato" kantiano fosse un diritto fondato esclusivamente sulla ragione. Principio, anche questo, che era il punto d'arrivo di una lunghissima storia e anche un aggancio per sviluppi ulteriori.
Che l'ordine dovesse coincidere con la ragione e che il diritto, in quanto ordine, non potesse non essere razionale, era pensiero antico. È mediante la ragione, esaltata dalla Scuola stoica e che Cicerone riecheggia, che l'idea del diritto fa il suo ingresso, anche nel mondo romano, in quella sfera spirituale che già Platone aveva annunciato e che sarà da allora tanto spesso unita al diritto. Nell'ordine delle cose l'uomo entrò come partecipe di una ragione universale e provvisto di un proprio diritto, che lo rendeva uguale a tutti i suoi simili. E poiché l'affermazione della natura dell'uomo, della uguaglianza di ciascun uomo con l'altro, aveva distrutto idealmente ogni frontiera politica, la legge naturale divenne il modello universale della legge positiva. Cominciò dunque da allora ad apparire e ad esercitare la sua funzione sul diritto positivo quell'eterno modello, cui si ispirarono non soltanto le ideologie e le filosofie, ma anche trassero argomento di conforto e forza le rivoluzioni, che affermavano a propria giustificazione un diritto non stabilito dagli uomini, ma da Dio o dalla ragione, espresso dall'ordine naturale delle cose. A quella stessa fonte si confortarono però anche i diritti consolidati e il legittimismo, che rovesciarono i termini nei quali si riconoscevano i movimenti sovvertitori e sostennero l'ideale della stabilità politica e del diritto delle classi dominanti appunto con le leggi della natura.
Cicerone fu, anche sotto questo riguardo, il grande intermediario del pensiero greco nel mondo romano e nel medievale. L'esigenza etica dominò in tal modo la sua concezione della legge che egli arrivò a concepirla come identica alla ragione; alla ragione insita nell'ordine naturale e presente appunto nell'uomo come parte di quell'ordine dell'universo: ‟lex est ratio summa, insita in natura, quae iubet ea quae facienda sunt, prohibetque contraria. Eadem ratio, cum est in hominis mente confirmata et perfecta, lex est" (De leg. I,6,18). Comando e proibizione si identificavano dunque in questa definizione con lo stesso modo di essere della natura; e la ragione soddisfaceva a un'esigenza etica e l'etica si poneva come un limite alla volontà dello Stato. Il diritto naturale, che ancora una volta scaturiva da questa dottrina ciceroniana, era il punto d'incontro tra la morale e il diritto; una morale, appunto, nella quale quella mente romanamente educata faceva larga parte all'aspetto giuridico, fino al punto da riconoscere quanto poi alcune dottrine moderne hanno sostenuto, l'esistenza di un diritto anche fuori dello Stato e perfino nelle società illecite. Ma lo Stato si innalzava al di sopra di ogni altra società per questo, che in esso si attuava il diritto; e Cicerone intende qui quel diritto conforme a giustizia, essendo appunto la giustizia il centro della sua dottrina intorno a ciò che è ius, attuazione dell'aequitas. Così l'idea della legge giusta e della legge ingiusta, del diritto e dell'arbitrio, che pure poteva assumere l'aspetto esteriore del diritto, si faceva strada. E da un lato si aprivano alla concezione del diritto amplissimi ed essenzialissimi campi per la vita dell'uomo; ma dall'altro, in un ambiente nel quale lo sforzo della giurisprudenza era stato diretto a distinguere il diritto in senso proprio e tecnico, cioè quanto si direbbe oggi diritto positivo, dalle norme della religione e della morale, si riconduceva questo diritto a una fondamentale esigenza etica. Bisognerà arrivare fino al Tomasio (1655-1728) e soprattutto, come s'è visto, a Kant, perché a una distinzione tra diritto e morale si tornasse, non sul fondamento dell'accettabilità della legge positiva come avente un valore autonomo al pari della politica (il che sarà poi in effetti affermato e diverrà uno dei cardini del pensiero giuridico moderno), ma su quello di una sottile distinzione dipendente dall'intendimento della norma da parte del soggetto.
Che il diritto si distinguesse dalla morale per la semplice conformità alla norma è, tra le proposizioni della filosofia kantiana, quella destinata a esercitare un influsso determinante nella dottrina giuridica del sec. XIX e del nostro. E ciò perché tale proposizione offriva un fondamento speculativo alla scienza del diritto che suol dirsi ‛positivismo giuridico', con un'espressione certamente del tutto inadeguata a indicare il complesso e proteiforme indirizzo del pensiero che corrispose alla costruzione dello Stato nazionale dell'Ottocento e alla polemica che la cultura di quel momento storico rivolse in vario modo al giusnaturalismo dei secoli precedenti.
Così la polemica del pensiero giuridico positivistico prese le mosse dalla distinzione tra diritto e morale, sul presupposto in sostanza non dimostrato che il diritto fosse soltanto il diritto promanante dallo Stato e relegando su tale fondamento il diritto naturale nella sfera dell'eticità. Questa posizione assunta dal positivismo giuridico non si fondava però su una dimostrazione filosofica, ma su una giustificazione politica e storica, che aveva le sue lontane premesse nell'Hobbes e nell'empirismo inglese, nel ‟verum ipsum factum" del Vico e nell'utilitarismo del Bentham, e, in ultima analisi, nel grande e vario movimento di pensiero che per secoli identificò il diritto con la norma e la norma con un atto di volontà.
In tal modo venivano definitivamente rovesciati i termini secondo i quali una lunga età della civiltà aveva prospettato la natura del diritto, la sua funzione e le sue fonti. Non più, come era già avvenuto nel Medioevo sotto l'influsso del pensiero cristiano, una visione dualistica del diritto, da un lato concepito come complesso di principi trascendenti, fossero essi consistenti nelle norme del ius divinum o del ius naturale, dall'altro di norme stabilite dalla volontà dei potenti, e in primo luogo del papa e dell'imperatore, il ius positivum, secondo un'espressione che il grande Abelardo (1079-1142) aveva assunto probabilmente dal commento di Calcidio al Timeo platonico. Non più dunque una gerarchia delle fonti del diritto, corrispondente alla concezione essenzialmente gerarchica che il Medioevo, ereditandola dall'età antica, aveva nutrito ed esteso dalla realtà politica a tutti i valori. E neppure più quella concezione ‛giuridica' di tutto quanto attenesse alla disciplina dell'uomo, la norma essendo il concetto determinante e la morale e il diritto potendo, sul comune fondamento normativo, scambiarsi i loro contenuti. Nel diritto cessò di esistere quella distinzione tra diritto eterno e immutabile e diritto temporale e mutevole che era stata formulata dal pensiero della Chiesa e che era divenuta uno dei cardini della dottrina canonistica. Il sistema dei poteri universali e della metafisica teologica cessò insieme di essere la guida delle azioni e del pensiero umani. Al loro posto si erano andati sostituendo a poco a poco altri valori. Il processo era cominciato per tempo, in quella meravigliosa età medievale la cui ricchezza non finisce mai di stupire l'osservatore moderno. E aveva preso le mosse appunto dalla considerazione del problema della norma. L'ordine naturale poteva essere considerato o l'espressione di una ragione universale o la proiezione della legge. Inoltre il problema della norma poteva essere prospettato o sotto il profilo generale di una volontà divina rivolta all'ordine del creato o sotto quello di una norma della condotta che non poteva non riferirsi che all'uomo. Così dalla generale concezione giuridica del mondo, che costituiva il fondamento della stessa teologia, si andò differenziando una concezione del diritto riferita esplicitamente al comportamento umano.
Questa riscoperta del valore umano del diritto, oggetto di una speculazione filosofica che lo distingueva dalla fede nella legge divina, fu provocata dai semi fecondissimi del pensiero aristotelico e formulata, nel quadro di una tripartizione del diritto naturale e in nome del libero arbitrio, da Alberto Magno (1193-1280). Ma questa umanità del diritto non poteva essere giustificata da Alberto che con la ragione umana, e non con una dimensione indipendente dell'attività politica, che fu una conquista del Rinascimento, e tanto meno con l'idea dell'utilità, che fu propria della prima età industriale. L'antico principio ‟princeps legibus solutus", che è costantemente presente nella storia dell'autocrazia, venne assunto ancora una volta come rappresentativo di una concezione politica della legge, che non conteneva più una ragione etica o metafisica e non doveva necessariamente corrispondere alla giustizia, ma all'utilità di cui solo giudice era il sovrano. Questo riconoscimento aperto della ragione meramente pratica del diritto segnò a partire dal Rinascimento gran parte del pensiero moderno e fu più volte teoricamente formulato, dalla giustificazione che ne diede Enea Silvio Piccolomini (il futuro Pio II; 1405-1464) alla scepsi del Machiavelli, per il quale il diritto era divenuto una mera parvenza di fronte all'autonomia dell'attività politica.
4. Il positivismo giuridico
Il positivismo giuridico fu l'erede di tutto questo travaglio storico, nel quale l'idea del diritto e la trasformazione delle istituzioni, le condizioni materiali dell'attività umana e le costruzioni della filosofia sono ugualmente comprese. Lo Stato dunque, lo Stato sovrano, particolare e, secondo la vocazione del sec. XIX, nazionale, dominò la scena. E il suo dominio nel campo del diritto avvenne secondo quanto era più intuibile e plausibile, vale a dire come fatto storico da ricondursi alla politica, anzi all'affermazione dell'attività politica come potenza. Il volto demoniaco del potere, secondo il titolo di un'opera di G. Ritter, si era svelato nel Machiavelli, ma si era rivestito di dignità nell'Ottocento, che sembrò averne accolto soltanto gli elementi positivi, consistenti nella scoperta di un'attività umana autonoma nei confronti di qualsiasi giudizio morale, ma che avrebbe pur dovuto trovare la sua misura nell'equilibrio del giudizio e nella moderazione dell'azione. Lo Stato era perciò divenuto la fonte del diritto; e gli stessi diritti subiettivi erano entrati a far parte integralmente del suo ordinamento positivo senza residui, trasformandosi così da diritti inalienabili e inviolabili in una concessione politica, che lo Stato avrebbe sempre potuto modificare.
Lo Stato era dunque, in quanto organismo politico, dotato di un potere non dipendente da alcun altro o, come anche si dice, ‛originario': e la sua sovranità fu intesa come l'espressione di questa sua assoluta indipendenza e autonomia, fino al punto da misconoscere qualsiasi norma che ne regolasse la convivenza con gli altri Stati. Non si parlò più, da parte della dottrina giuspubblicistica tedesca, i cui principali rappresentanti furono il Laband e il Jellinek, di diritto internazionale, una nozione questa troppo idealmente collegata con il diritto naturale, ma di ‛diritto pubblico esterno', cioè di una proiezione della sovranità dello Stato, che regolava la sua azione politica verso gli altri Stati in ossequio alle norme giuridiche che esso aveva stabilito a se stesso. Ma era fin troppo facile osservare che, se l'unico diritto era quello dello Stato e se, come è implicito in tale affermazione, il diritto statuale poteva perciò esser sempre modificato dalla stessa volontà che l'aveva sancito, il ‛diritto pubblico esterno' non avrebbe costituito limite alcuno all'arbitrio dello Stato in campo internazionale. La tragica dimostrazione di questa verità si ebbe nelle due guerre mondiali e nei numerosi altri conflitti che, se propriamente mondiali non furono per la partecipazione attiva di un gran numero di potenze, lo furono però per le loro conseguenze e che tutti insanguinarono il nostro mondo. Il positivismo giuridico fu coinvolto in questi eventi, che ne dimostrarono meglio di ogni teoria le debolezze e i limiti e che provocarono un parziale ritorno al diritto naturale un po' dappertutto ma, dopo il secondo conflitto mondiale, specialmente in Germania, dove fu invocato non soltanto nella dottrina ma nelle corti di giustizia. Lo stesso processo di Norimberga propose angosciosi interrogativi circa la validità dell'ordinamento statuale vigente e la possibilità di un ricorso a principi universali e trascendenti nel caso di crimini che offendessero l'umanità nei suoi valori essenziali.
Torniamo comunque alle origini del positivismo giuridico, considerato, pur nei suoi vari aspetti, come lo sforzo per negare al diritto naturale ogni validità sul piano giuridico e confinarlo nella sfera della moralità. Dei vari suoi aspetti e di come essi si vennero svolgendo dal secolo scorso al nostro in un complicato intrecciarsi di influssi e teorie parleremo di volta in volta, cercando di dipanare l'intrico per renderlo intelligibile. Ma intanto si dirà che, conformemente all'aspetto statuale che esso assunse e sul quale, come abbiamo visto, fondò la sua giustificazione, il positivismo giuridico concepì il diritto come munito di sanzione. La coercibilità era già stata indicata infatti dal Kant come un carattere inseparabile del diritto, perché soltanto così esso avrebbe potuto adempiere alla sua funzione di attuazione e di difesa della libertà posta come legge universale. L'altezza di una simile formulazione, che riconduceva in una sfera di eticità il diritto dopo averlo separato dalla norma morale, rimase in sostanza estranea alle dottrine del positivismo giuridico, che si proponevano soprattutto di definire i caratteri del diritto come scienza autonoma. Del resto, che la coazione fosse una componente essenziale del diritto fu sostenuto in un ambiente non influenzato dalla filosofia kantiana, come l'Inghilterra tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo. Così il Bentham e il Paley, e poi l'Austin, la massima figura di giurista inglese di quel periodo, per quanto egli ribattesse al Paley, con una certa incoerenza, che la forza determinante della sanzione non era proporzionale alla sua intensità.
5. Hans Kelsen. Critica alla teoria di Ehrlich
Di fronte a tali teorie formulate dalla ‛giurisprudenza analitica' si levò la voce di un giurista austriaco che è considerato l'iniziatore dell'indirizzo secondo il quale il diritto non è il prodotto dello Stato, ma della società, e sul quale dovremo ritornare. L'Ehrlich sostenne giustamente che la determinazione della condotta individuale non dipende normalmente dalla sanzione di cui la norma è munita, ma da altre motivazioni di diversa natura. I doveri del padre, del figlio, del marito, della moglie, del debitore e così via non vengono adempiuti per la coazione psicologica della sanzione, ma per considerazioni di carattere sociale, come la propria reputazione, o economiche, come la perdita della clientela, o familiari, che nulla hanno a che vedere con la coercizione.
Tuttavia anche questo ragionamento conteneva un errore che fu rilevato da quella che può essere considerata una delle maggiori figure della scienza giuridica del nostro secolo. Massima espressione della scuola neokantiana, Hans Kelsen notò a proposito della tesi dell'Ehrlich che è ben vero che gli individui soggetti all'ordinamento giuridico non si regolano in conformità con questo per evitare la sanzione, ma che tale osservazione riguarda appunto il comportamento dei soggetti e non gli elementi che servono a distinguere il diritto da ogni altro tipo di sanzione. Bisogna cioè distinguere tra i motivi effettivi del comportamento degli individui e il contenuto dell'ordinamento giuridico, cioè la sua tecnica particolare. ‟Ciò che distingue l'ordinamento giuridico da tutti gli altri ordinamenti sociali è il fatto che esso regola il comportamento umano per mezzo di una tecnica specifica. Se ignoriamo questo elemento specifico del diritto, - afferma il Kelsen - se non concepiamo il diritto come una specifica tecnica sociale, se definiamo il diritto semplicemente come ordinamento od organizzazione, e non come un ordinamento (o un'organizzazione) coercitivo, perdiamo allora la possibilità di differenziare il diritto dagli altri fenomeni sociali; identifichiamo allora il diritto con la società, e la sociologia del diritto con la sociologia generale" (v. Kelsen, 1945; tr. it., p. 26).
La critica coglie nel segno e investe la problematica di una parte molto importante del pensiero giuridico contemporaneo. Esamineremo in seguito questo aspetto. Ma fin d'ora possiamo dire che l'aver identificato la società, o l'organizzazione, col diritto, attribuendo a tale entità una natura giuridica prescindendo dall'aspetto normativo, costituisce il lato debole di una dottrina per tanti lati così significativa per la vita sociale dei nostri giorni. Tuttavia la stessa teoria del Kelsen non può essere accolta senza critica. Essa appartiene a quella parte del pensiero giuridico che, dal secolo scorso al nostro, si è sforzata di attribuire al diritto il carattere di scienza autonoma. Come tale, la teoria del Kelsen si riconnette alla costruzione operata nel secolo scorso dalla pandettistica tedesca e alla ‛giurisprudenza dei concetti' (Begriffsjurisprudenz), ed è l'ultimo prodotto di una pianta che ha le sue lontane radici nell'applicazione seicentesca e settecentesca della logica matematica al diritto, che ebbe il suo massimo rappresentante nel Leibniz. Queste origini sono indicate, in primo luogo, dalla concezione del diritto come ‛sistema' logico discendente dalla considerazione della norma, che è il fulcro del pensiero del Kelsen e che indica non già un'organizzazione puramente esteriore alla materia giuridica, o una sistemazione soltanto classificatoria, ma appunto un'organizzazione dei concetti rispondente alla logica formale di origine matematica. Il diritto, per essere scienza, deve essere logicamente autonomo; deve cioè trovare in se stesso, in quanto sistema normativo, i propri fondamenti. Questa è la ‛teoria pura del diritto', un prodotto del pensiero europeo continentale perché legato per più rispetti ai sistemi positivi codificati, ma che tuttavia mostra non poche affinità con la ‛giurisprudenza analitica' proposta in Inghilterra soprattutto dall'Austin.
6. La ‛teoria pura del diritto'
La ‛teoria pura del diritto' si poneva dunque al di fuori di ogni considerazione storica, fuori quindi di ogni prospettiva politica, economica ed etica. Che non si trattasse di un'espressione di pensiero isolata e indipendente dall'epoca nella quale fu formulata è dimostrato, tra l'altro, dall'opera di un altro neokantiano, R. Stammler, e soprattutto dal suo Lehrbuch der Rechtsphilosophie, che è del 1911, lo stesso anno degli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, l'opera fondamentale del Kelsen. Il pensiero dello Stammler, specialmente nell'altro suo scritto Wirtschaft und Recht nach der materialistischen Geschichtsauffassung (1896), conteneva una polemica con il materialismo dialettico di Marx e di Engels. Così la Reine Rechtslehre si proponeva, per opera dei suoi due maggiori rappresentanti, come dottrina di contemplazione apollinea del diritto, della sua essenza e della sua struttura, quale poteva essere consentita in un'epoca che, anteriore al primo grande conflitto mondiale, poteva anche sembrare alla classe dominante un'era di stabilità politica, sociale ed economica. Di ciò ha avuto coscienza lo stesso Kelsen, che nella prefazione all'edizione americana della sua General theory of law and State del 1945 scriveva che ‟una teoria pura del diritto può sembrare oggi intempestiva, mentre in grandi e importanti paesi, sotto il regime di una dittatura di un partito, alcuni fra i più eminenti rappresentanti della giurisprudenza non conoscono compito migliore che di servire, con la loro ‛scienza', il potere politico del momento. Se, ciò nonostante, l'autore si avventura a pubblicare questa teoria generale del diritto e dello Stato, è perché egli ritiene che nel mondo anglo-americano, dove la libertà della scienza è ancora rispettata e il potere politico è più stabile che altrove, le idee siano tenute in maggior conto del potere; e anche perché spera che pure nel continente europeo, dopo la sua liberazione dalla tirannide politica, la nuova generazione sarà convertita all'ideale di una scienza del diritto indipendente; poiché il frutto di una tale scienza non potrà mai andare perduto" (v. Kelsen, 1945; tr. it., pp. 12 ss.).
Amare e gravi parole, di fronte alle quali ci si deve però domandare se l'opzione verso la scienza pura del diritto corrisponda realmente alla vocazione e alle istanze di un'epoca che la seconda guerra mondiale non aveva chiuso ma reso anche più drammatica. Non v'è dubbio che l'intelletto può, anche di fronte al problema del diritto, proporsi la scelta tra un'analisi rigorosamente limitata alla determinazione della struttura logica del diritto positivo e una valutazione di questo stesso diritto positivo posto in relazione con la realtà totale nella quale esso è chiamato a esercitare la sua funzione. La ‛teoria pura del diritto' ha avuto il merito di dimostrare le incoerenze delle dottrine dominanti nella scienza giuridica, nelle quali al ragionamento giuridico si mescolano in modo vario motivi politici, psicologici, economici e che, nello stesso tempo, respingono l'unica misura con la quale tutto ciò può essere valutato in rapporto al diritto, e cioè la misura della storia. Ma è anche vero che una teoria che programmaticamente rifiuti oggi quel complesso di valutazioni per descrivere i lineamenti strutturali generali del diritto positivo è fuori delle preoccupazioni prevalenti del mondo attuale e perde quindi gran parte del suo interesse. Queste serene contemplazioni del diritto come logica pura appartengono ad altre temperie; come può dirsi per es. della speculazione del Leibniz, che scrisse in un'epoca e in un ambiente socialmente statici, fondati com'erano su una società signorile tradizionale e sulla mancanza di impulsi provenienti da una classe borghese. Paradossalmente, la teoria kelseniana contribuisce, nella sua esaltazione del diritto come scienza autonoma, a diminuire il suo valore di fronte ai nostri contemporanei, affiancandosi così alle altre espressioni del pensiero, il marxismo, l'idealismo italiano, l'esistenzialismo, che, ciascuna a suo modo, hanno contribuito a porre in rilievo la profonda crisi dei valori giuridici nella nostra epoca. E vien fatto di pensare se per caso quella ‛dottrina pura del diritto', che nelle intenzioni del Kelsen avrebbe dovuto esaltare la verità di fronte alle strumentalizzazioni che del diritto avevano fatto i giuristi delle dittature, non potrebbe invece servire a giustificare qualunque ordine giuridico, anche quello più pernicioso alla libertà dell'uomo.
Nella sua estrema difesa della validità del diritto, del suo significato in sé e per sé e della sua assoluta autosufficienza, il Kelsen ha separato il diritto dall'idea di giustizia, che egli ha definito un criterio politico, perché ‟la tendenza a identificare diritto e giustizia è la tendenza a giustificare un dato ordine sociale" e non è perciò suscettibile di determinazione scientifica. Ha rimproverato al principio giusnaturalistico del suum cuique tribuere di essere una formula vuota per non aver determinato che cosa sia il ‛suo' di ciascuno (ma non sarebbe stata questa una determinazione necessariamente ‛politica'?) e all'imperativo kantiano, che gli atti di un uomo debbano essere determinati soltanto dai principi che egli vuole siano vincolanti per tutti, di essere una tautologia. Ha affermato che la norma giuridica è un giudizio di ‛dover essere' fondato sul principio d'imputazione; che l'attribuzione di una conseguenza a una condizione è altra cosa e che tale conseguenza è la sanzione; e che il dover essere esprime soltanto il senso specifico nel quale il comportamento umano è determinato da una norma, che non può mai essere considerata un atto di volontà, secondo quanto invece è correntemente definita; infine, che l'illecito non è tale per sé, ma per la sanzione che esso comporta. L'ordinamento giuridico è un sistema di norme. Ma ciò che fa di quelle norme un sistema è che ciascuna di esse ha a proprio fondamento delle norme tacitamente presupposte perché considerate come pacifiche, in modo tale che il fondamento di una norma sia sempre un'altra norma e mai una realtà che faccia deviare il diritto da se medesimo, che trasformi un ‛dover essere' in un ‛essere'. È con questo procedimento graduale che il Kelsen perviene a ipotizzare l'esistenza di una ‟norma fondamentale" (Grundnorm) la cui validità non deriva da una norma superiore e che costituisce la chiave di volta dell'ordinamento.
Da questa gerarchia normativa deriva anche la conclusione che l'ordinamento interno ai singoli Stati e l'ordinamento internazionale formano un'unità, e si esprime la teoria ‛monistica' dell'ordinamento. Poiché il diritto non può derivare dal fatto sociale, lo Stato stesso non è altra cosa dal suo ordinamento giuridico; e questo modo d'intendere lo Stato ha, secondo il Kelsen, la priorità su ogni altra sua concezione, dato che la forza organizzata altro non è che il diritto.
Ma se il diritto equivale davvero alla forza organizzata, che è l'espediente mediante il quale il Kelsen cerca di ricondurre il fatto politico al diritto in esso risolvendolo, ciò vuoi dire che esso ha bisogno di un punto di riferimento estraneo a se stesso per essere definito. Il diritto non è cioè soltanto un giudizio logico che ha per oggetto se medesimo, ma un giudizio che abbisogna di un predicato che ne è al di fuori. Inoltre ci si deve domandare se la ‛norma fondamentale', che è al vertice della piramide normativa e che per il Kelsen si identifica col principio pacta sunt servanda, si mantenga davvero nei limiti che egli ha assegnato alla struttura del puro diritto, cioè alla sua ricostruzione essenzialmente logica. Vien fatto insomma di domandarsi se quella norma appartenga al diritto positivo, così come dovrebbe dedursi dal postulato kelseniano, o se invece non travalichi nella sfera della moralità, riaprendo così al diritto naturale le inespugnabili mura che il Kelsen voleva erigere contro di esso. E infatti una nuova apertura al giusnaturalismo si trova nella dottrina del suo allievo più illustre, l'internazionalista A. Verdross.
È per questo che l'insegnamento forse più proficuo che ci viene dalla dottrina del Kelsen è costituito dall'impossibilità di esaurire il problema della natura del diritto in termini puramente logici, com'era accaduto in ogni altro tentativo di trovare i primi principî della giuridicità. Così avviene con le teorie del diritto naturale, che sconfinano nella sfera etica; così col materialismo dialettico, che convertì il diritto in una sovrastruttura dell'economia; così con la filosofia del Croce e del Gentile, che risolsero l'uno il diritto nell'attività pratica e l'altro nel ‛già voluto' di fronte alla perenne attività dello spirito. La ragione per la quale anche la dottrina del Kelsen, nonostante l'ammirevole acume, non sfugge allo stesso destino è forse data dal fatto che il suo autore ha preteso di dedurre la struttura generale del diritto astraendola dai singoli diritti positivi. Questa dottrina generale, che si proclama giuridico-positiva, non può probabilmente essere condotta oltre il campo che del diritto positivo è proprio. Ma il diritto positivo ha un'autonomia limitata. Oltre questa cessa il territorio del diritto e comincia qualche altra cosa che diritto non è.
Di questa insufficienza della ‛teoria pura del diritto' sono una conferma certi atteggiamenti che compaiono in altri rappresentanti della scienza giuridica contemporanea. Per quanto appartenenti a indirizzi diversi tra loro, nessuno dei quali può essere considerato una continuazione della Reine Rechtslehre, il danese A. Ross e l'inglese H.L.A. Hart sono certo parzialmente dipendenti dalla teoria kelseniana, per quanto il primo faccia parte di un movimento di pensiero che va sotto il nome di ‛neopositivismo' o ‛realismo scandinavo', e il secondo possa considerarsi il più recente rappresentante della ‛giurisprudenza analitica'. Il loro kelsenismo si rivela nell'accettazione della distinzione tra regole giuridiche di condotta e regole giuridiche di competenza. Non si possono qui esaminare gli aspetti della dottrina dell'uno e dell'altro, né la validità di alcuni assunti, di cui, d'altronde, sarà fatto cenno in seguito. Ciò che si vuol qui porre in rilievo è il disagio che entrambi hanno avvertito di fronte alle conseguenze estreme del loro ‛positivismo', cioè dell'accettazione del diritto positivo indipendentemente dal suo contenuto, insomma della validità del diritto in quanto sistema normativo. Che questa accettazione non sia stata proposta per la prima volta dal Kelsen, ma sia già contenuta nel positivismo statualistico del secolo scorso e del nostro è, del resto, cosa troppo nota perché vi si debba insistere. Ciò che va qui osservato è invece come questa giustificazione del diritto in sé e per sé, che il Kelsen aveva reso indipendente da altre considerazioni e autonoma, ha sollevato a sua volta altre e opposte esigenze anche in coloro che ne condividevano le proposizioni teoriche. Il Ross, nella sua opera Directives and norms, comparsa nel 1968, ha ritenuto di dover osservare: ‟Quando posso classificare un ordine come ‛ordine giuridico' mi è possibile ritenere nello stesso tempo come il mio più sacro dovere di rovesciare quest'ordine" (v. Ross, 1968, p. 32). E nello stesso ordine di idee mostra di essere il Hart, quando, dopo aver affermato che il diritto è valido anche quando è contro la morale, osserva che può accadere che questo sia ‟bensì un diritto, ma troppo iniquo per essere applicato od obbedito".
In queste dottrine, e in genere in quelle del ‛positivismo giuridico', si riproduce, forse in misura più alta che in altre epoche, il contrasto drammatico tra due opposte esigenze. Da un lato la necessità di determinare che cos'è il diritto in quanto regola di condotta distinta dalla norma morale e dall'altro di stabilire, nella gerarchia delle norme, quale di esse, la morale o la giuridica, debba avere la preminenza. Su quest'ultimo punto gli atteggiamenti della dottrina giuridico-positiva non sono concordi. Mentre alcuni autori hanno relegato nel mondo della fantasia una normativa giuridica che non sia dipendente dalla volontà dello Stato e hanno così concentrato il loro interesse esclusivo sul diritto positivo, altri, pur dichiarandosi positivisti, hanno sentito il fascino del pensiero giusnaturalista come quello che aveva dato un contenuto etico alla norma giuridica. La rinuncia a quel compromesso tra morale e diritto, che appunto il giusnaturalismo aveva rappresentato, implicava un'opzione per una concezione assolutamente formale della norma e per una riduzione dei problemi giuridici a pura logica, che non tutti si sentivano di seguire. La difficoltà era tanto maggiore in coloro che si proponevano soprattutto di costruire l'edificio teorico del diritto di un popolo piuttosto che di fondare una teoria generale astraendo dai singoli sistemi positivi. Quest'ultima è la posizione più moderna del positivismo giuridico, rappresentata soprattutto dal Kelsen. Ma la prima è propria delle origini moderne del positivismo, allorché l'ispirazione fondamentale era fornita dallo Stato e dalla necessità di determinarne i lineamenti giuridici in armonia con l'atmosfera del periodo inquieto del Nachmärz, del marzo del 1848, quando a Francoforte fu riunita l'assemblea degli Stati tedeschi. Dalla quiete degli anni precedenti a quella data si passa a un periodo turbolento che si conchiude con l'avvento sulla scena politica della figura di Bismarck e con l'enunciazione di una politica di potenza che era la negazione degli ideali liberali di origine settecentesca. Per quanto le radici del futuro formalismo positivistico siano già visibili al tempo della Scuola storica e nelle opere del suo maggiore rappresentante, F. C. von Savigny, la sua definitiva affermazione appartiene al Nachmärz, al periodo cioè della politica di potenza e della costruzione dello Stato prussiano come espressione ditale politica. L'ideale che si poneva di fronte alla mente del giurista non era più quello di trovare una versione del razionalismo giuridico che potesse accordarsi con la storia, come era accaduto col Savigny, ma di prospettare una forma nella quale lo Stato potesse trovare la definizione della sua fisionomia e delle sue funzioni; una forma astratta, che non mostrasse alcun collegamento con l'attività politica, una scienza autonoma, insomma, pronta a servire qualsiasi contenuto. Questo atteggiamento del pensiero giuridico era in rapporto necessario col sistema del diritto codificato. La semplicità, la certezza, la chiarezza, gli ideali insomma che avevano da sempre accompagnato le codificazioni, mostrarono presto i propri limiti, dovuti all'immobilità di fronte alla realtà transeunte.
7. Importanza della Scuola storica per il positivismo giuridico moderno
Sorse così la ‛giurisprudenza concettuale', la cui complessità peraltro non può essere contenuta nella semplice definizione di una scienza giuridica che aveva per suo compito essenziale la costruzione di concetti giuridici, l'esistenza della quale si innalzava al di sopra dello stesso diritto positivo. Il concettualismo e il formalismo estremi non possono ridursi in linee semplici, solo che si consideri che quel movimento di pensiero espresse figure complesse quali quelle del Jhering e del Gerber, entrambe deviazione, prosecuzione e anche opposizione rispetto al pensiero della Scuola storica senza l'esistenza della quale essi stessi non sarebbero stati quelli che furono.
Che la Scuola storica, per un singolare paradosso, sia stata in gran parte la matrice della scienza giuridica che fondava sull'esigenza sistematica e sulla signoria della logica non soltanto la caratteristica essenziale della dottrina ma la stessa sostanza del diritto, non è lecito dubitare. Di fronte alle idee dell'illuminismo, che erano state la culla ideologica della Rivoluzione francese, di fronte all'affermarsi delle codificazioni, dapprima sospinte dalla necessità di chiarezza e di certezza del diritto promanante dalle monarchie, poi sempre più pervase dallo spirito riformatore che stava alle radici stesse dello Stato accentrato moderno, e finalmente di fronte alla codificazione napoleonica, nella quale trovarono il proprio coronamento tutte quelle spinte e quelle esigenze storiche, le condizioni della società tedesca sembrarono offrire validi motivi di opposizione. Al fondo di tali motivi ci fu certamente una reazione non sempre soltanto razionale, ma anche sentimentale ed emotiva, di fronte agli aspetti della Rivoluzione francese che dovettero apparire in Germania, non meno che in Inghilterra, come una dannosa eversione, un'esaltazione della violenza quale negazione del diritto e infine come l'origine della dittatura e delle sopraffazioni napoleoniche ai danni delle nazioni europee. Ciò che era cominciato con la libertà aveva finito per identificarsi con l'oppressione. Lo spirito romantico, che aveva i suoi fondamenti sentimentali nella coscienza popolare, si univa, nell'immagine che della realtà si faceva la classe dominante tedesca, con l'idillica condizione di vita che aveva ispirato i governi paternalistici dei singoli Stati tedeschi, l'esistenza tranquilla e sicura di cui il Goethe ci ha lasciato tante ammirevoli testimonianze e nella quale sembrava attuarsi insieme alla tranquillità una quasi perfetta giustizia. Se un'eccezione v'era in Germania, questa era rappresentata dalla Prussia di Federico il Grande, l'amico di Voltaire, il principe illuminista, che aveva esaltato nella comunità dei popoli germanici la politica di potenza e l'ostilità contro il Sacro Romano Impero. Non a caso, proprio nello Stato prussiano si erano condotti quei tentativi di una codificazione del diritto privato, il Project des Corporis Juris Fredericiani e quella riforma del diritto processuale che furono entrambi affidati a Samuele Cocceio a metà del sec. XVIII e che avrebbero dovuto ispirarsi, per criterio sovrano e non per convinzione scientifica di colui che doveva curarne l'esecuzione, a uno spirito nettamente ostile al diritto romano. Anche l'altro grande tentativo codificatorio appartenente alle terre germaniche, il Codex Theresianus, pressoché contemporaneo a quelli perseguiti in Prussia, per quanto più rispettoso del diritto romano era tuttavia condotto in nome di un'unificazione dei territori che, se era una conseguenza logica di una migliore organizzazione dello Stato monarchico, poteva anche essere considerata un elemento di profonda trasformazione di fronte alla tradizione dei Länder e quindi della tradizione sociale e popolare tedesca.
Tutti questi elementi agirono sugli iniziatori della Scuola storica, l'Hugo, che però alla tendenza storica unì l'esigenza sistematica già rappresentata dal Heise, F.C. von Savigny, e il suo allievo G.F. Puchta, che rappresentò il precoce passaggio dalla concezione storico-dogmatica dello svolgimento organico del diritto, quale fu esplicitamente espressa specialmente dal Savigny, a un altro modo di pensare il diritto che già preludeva al predominio in esso dell'aspetto puramente logico. In realtà bisogna riconoscere che la tradizione razionalistica era troppo radicata nel pensiero tedesco perché non dovesse esercitare un influsso determinante anche su una tendenza che, come quella rappresentata dalla Scuola storica, si proponeva di reagire in nome di uno specifico ‛spirito popolare' alle generalizzazioni e universalizzazioni del giusnaturalismo.
Fu così che, accanto alla considerazione per la storia, che fu però soprattutto storia e ricostruzione storica del diritto romano, cioè paradossalmente di un diritto non ispirato dal Volksgeist, si affermarono presso questi giuristi le costruzioni intellettuali del sistema giuridico. Gli stessi giureconsulti romani apparvero ai loro occhi come i grandi edificatori di concetti. E qui avvenne la divaricazione tra la Scuola storica di diritto romano e quella, sorta dalla stessa scaturigine ma assai più coerente con le premesse e assai più autenticamente pervasa di romanticismo, dei germanisti. Secondo il Puchta quei germanisti seguivano la tendenza connaturata ai diritti germanici di esprimere un diritto strettamente aderente alle condizioni sociali e incapace di sollevarsi nella sfera concettuale nella quale il mondo dell'esperienza veniva risolto in quello della logica. Il rimprovero può apparire eccessivo nei confronti degli sviluppi successivi della germanistica, che si propose l'imitazione della sistematica dei romanisti proprio per dare un volto al diritto germanico senza snaturarne le ispirazioni fondamentali. Ma la grande spinta verso l'erezione di un edificio giuridico nel quale l'organizzazione concettuale fosse l'essenza stessa del diritto, cominciò nella Scuola storica di tendenza romanistica. L'idea di una sistematica non soltanto complessiva, ma riferibile alle singole parti componenti il sistema, rappresentata dagli ‛istituti' dai quali le singole norme dipendono, è adombrata in Savigny ed esplicitamente formulata in Stahl. L'istituto era dunque un prius logico di fronte alle norme; ed è evidente che l'interpretazione giuridica doveva seguire questo itinerario, che era già quello della giurisprudenza concettuale.
Tutto ciò non era privo di aspetti paradossali nella dottrina del Savigny. La sua avversione alla codificazione, per la quale è rimasta celebre la polemica con il Thibaut, sensibile invece agli influssi provenienti d'oltre Reno, era motivata dal fatto che il diritto codificato è immobile di fronte alla continua evoluzione organica del diritto, che segue l'ispirazione dei tempi e delle condizioni reali della vita. Questa idea era parallela all'altra che opponeva il diritto codificato come diritto del potere sovrano al diritto generato dallo spirito popolare. Ma è evidente che qui il Savigny aveva del diritto romano ‛attuale', cioè di un diritto romano ormai da secoli adottato dai territori tedeschi, un'idea che lo poneva alla sommità dei diritti vigenti in Germania, in qualche modo conciliando così la propensione ideale alla rivalutazione dei diritti consuetudinari con quella per il diritto romano modificato attraverso il lungo corso dei secoli. Inoltre, altro era per lui questo diritto romano, sul quale era ben possibile, seguendo l'ispirazione che era già propria dei giureconsulti della Roma antica, costruire un sistema logico di concetti giuridici, e altro era aderire al movimento codificatorio che si era diffuso in Europa, per tanti rispetti rispondente a un movimento contrario al diritto romano in nome del diritto emanato dai principi, e per altri certamente rappresentativo di una tendenza a tutto unificare e uniformare nell'ordinamento giuridico dello Stato, violando così la struttura plurima della società tedesca tradizionale. Lo Stato accentrato, che trovava nella codificazione un aspetto a sé congeniale, non era soltanto un nuovo modo di concepire la struttura statuale, ma aveva immediati riflessi sulle condizioni degli individui e sui loro diritti subiettivi, non più legati agli infiniti strati sovrapposti di una società rimasta sostanzialmente feudale e alla suddivisione in Stände. Quella del Savigny era, insomma, un'estrema resistenza all'idea, fondamentale per il futuro positivismo giuridico, che il diritto è un prodotto dello Stato. Ma egli non si avvide che la ricerca del ‛sistema', anche se non concretato in una codificazione, era destinata a portare agli stessi risultati. Il sistema era una reazione agli sterminati commentari prodotti dalla ‛pandettistica esegetica' della seconda metà del sec. XVIII, che avevano analizzato il Digesto, secondo un metodo facilmente riconducibile a una lunga tradizione dottrinale legata al commento dei testi giustinianei, nel mentre l'esaltazione del Volksgeist era una reazione al giusnaturalismo. Ma la conciliazione tra questi due atteggiamenti critici era difficilmente sostenibile; e infatti, nel mentre il primo si andò sempre più affermando, il secondo era destinato a rimanere per lungo tempo silenzioso. Inoltre sfuggivano alcuni aspetti sottili del rapporto tra la giurisprudenza interpretativa, cioè tra la costruzione evolutiva che la ‛pandettistica esegetica' aveva perseguito e la stessa consuetudine. Perché appunto tanto l'una che l'altra erano un veicolo per la trasformazione del diritto che non poteva essere rifiutato da chi prendeva come oggetto della propria analisi il ‛diritto romano attuale' e lo considerava ormai un prodotto perfettamente aderente alle terre tedesche; e perché, a ben guardare, ‛diritto giurisprudenziale' e consuetudine presentavano delle analogie di fronte alla legge, la consuetudine essendo tanto spesso observantia, cioè non fonte autonoma ma derivato e rafforzamento della legge, e il ‛diritto giurisprudenziale' anch'esso essendo non creazione ex novo, ma adattamento progressivo del diritto alla realtà dei tempi.
Tuttavia occorre tenere ben presente che anche il pensiero del Savigny non si formò d'un colpo e che esso subì un'evoluzione nella quale finirono per convivere ispirazioni appartenenti a momenti diversi della sua formazione mentale. Se in lui rimase sempre un fondamento razionalistico che gli proveniva dalla speculazione anteriore, la considerazione del diritto consuetudinario deve essere posta nel momento intermedio della sua dottrina, corrispondente all'opera del 1814 intitolata Von Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft, nella quale le componenti romantiche appaiono con un'evidenza che non c'è nei suoi scritti anteriori. È infatti soltanto nella discussione che quel celebre libretto contiene che il diritto consuetudinario assurse a un'importanza primaria nella sua teoria, come quello che era l'immediata espressione dello spirito popolare. Non bisogna però trascurare il fatto che la perenne creazione giuridica che il Savigny suppone nella consuetudine, e che d'altronde è assai minore nella realtà storica di quanto egli non supponesse, era anche propria del sistema giuridico sotto la spinta del pensiero, e che un primo schema di questa concezione è già visibile nel corso di lezioni da lui tenute nel 1802. Nel corso erano presi in considerazione vari aspetti nei quali ai residui del pensiero settecentesco s'intrecciavano motivi nuovi. La funzione interpretativa della scienza giuridica vi veniva già presa in esame in relazione al sistema intrinseco al diritto e alla considerazione della storia intesa come storia del pensiero tecnico, sottoposto a un perenne svolgimento. Così l'elemento storico si combinava fin da quell'opera giovanile con quello sistematico, secondo uno schema che accompagnerà costantemente il suo pensiero. Ma non vi appariva ancora quella considerazione degli scopi delle norme che darà maggior corpo alla sua concezione dell'interpretazione e della sua funzione, e quindi conferirà anche all'idea di uno svolgimento storico del diritto come intrinseco alla sua comprensione una concretezza che prima non aveva avuto. Questo risultato apparirà evidente nel System des heutigen römischen Rechts, che è del 1840, dove si accompagna all'idea dell'‛istituto', cioè di quell'elemento o dato intuitivo e primario di cui il diritto stesso consta e dal quale soltanto derivano le norme singole. In quell'idea dell'‛istituto', che era un portato esso stesso della realtà nella quale la mente giuridica lo identificava, si univano la realtà sociale e la speculazione intellettuale. Era questo un pensiero che avrebbe potuto essere ben altrimenti fecondo se nel Savigny l'importanza della realtà sociale non fosse stata dominata dall'aspetto sistematico e razionale, tanto da suscitare le antipatie e le critiche di indirizzi diversi, cioè dello Hegel e di un critico dello Hegel, Karl Marx.
Sono evidenti, in questi lineamenti del pensiero del Savigny, anticipazioni della cosiddetta ‛giurisprudenza concettuale'. Ma tali anticipazioni venivano contrastate, nella costruzione del grande giurista tedesco, da altre ispirazioni, come il favore nei confronti della consuetudine, che fu invece avversata dai rappresentanti di quell'indirizzo positivista, corrispondente a un ben diverso momento della storia della Germania, come s'è già accennato. Il positivismo giuridico che si sviluppò nell'Ottocento e continuò nel Novecento, era tutto preso dall'idea della legislazione come prodotto dello Stato, e dallo Stato stesso come pilastro essenziale di ogni costruzione giuridica. Quanto vi era di romantico nella teoria del Savigny fu così eliminato e insieme a esso fu messa da parte l'ostilità verso la codificazione, salvo movimenti di pensiero che, come quello del ‛diritto libero' di cui parleremo in seguito, sembrano rievocare certi atteggiamenti del Savigny e confermarne la mai spenta validità.
Così il razionalismo settecentesco, nonostante gli attacchi dello spirito romantico, rimase ben saldo in quel permanere del razionalismo nella scienza giuridica che non fu contraddetto neppure dal Savigny. L'aspirazione al ‛sistema' come insieme di parti collegate in un tutto organico ed esprimibile secondo la logica, non fu mai negata, sebbene la logica usata per la sua edificazione potesse essere diversa e diversamente intesa. Anche l'ostilità verso la consuetudine, che ricomparve dopo la parentesi savigniana, era già stata propria dell'illuminismo francese, che aveva opposto a essa la legge come strumento di certezza e di progresso; un pensiero che corrispondeva, del resto, alla maggiore maturità dello Stato francese nei confronti di quelli tedeschi. Bisognerà attendere nel nostro secolo il realismo di alcuni giuristi francesi e soprattutto del Duguit per assistere a una riabilitazione della consuetudine come modo di constatare l'esistenza di una regola sociale in contrasto con la legge dello Stato.
Si deve aggiungere che l'apporto maggiore della Scuola storica e specialmente del Savigny, che avrebbe potuto consistere appunto nel rilievo dato alla storia come elemento intrinseco e costitutivo del diritto, come parte integrante della sua formazione e del suo intendimento, si perse nei limiti di una storia concepita come storia dogmatica, cioè come storia di dottrine più che come storia del rapporto tra le dottrine e le condizioni storiche reali nelle quali erano chiamate a vivere e dalle quali erano prodotte. Per una più essenziale e sostanziosa comprensione della storia ci si dovrà rivolgere invece alla dialettica hegeliana e, da un angolo visuale del tutto diverso ma da quella derivato e quindi con essa connesso, alla dialettica storica del marxismo.
Ma in tutte queste dottrine, e specialmente in quelle della Scuola storica da un lato, in quelle della ‛giurisprudenza dei concetti' dall'altro, tornano e ritornano con nuovi aspetti ma con la permanenza di alcuni motivi fondamentali, alcune esigenze che val qui la pena di accennare brevemente per un migliore intendimento delle origini stesse di alcuni lineamenti fondamentali del diritto contemporaneo. Per comprendere che cosa accadde nella scienza giuridica europea a cominciare col Rinascimento bisogna tener presente l'inclinazione sempre più forte verso un'introduzione della ragione nella materia giuridica; di una ragione che costituisse un modo di dominare questa materia dall'alto, e non più soltanto nei singoli particolari secondo quanto era stato fatto dai giuristi del Medioevo e si continuava a fare dai pratici, seguaci di quel mos italicus nel quale appunto si era espresso il metodo che aveva dominato la storia della scienza giuridica dal sec. XII al XV. In altri termini, si andò a un certo punto affermando il bisogno di ridurre il diritto in un sistema logico, dall'alto del quale potesse essere dominata l'immensa materia derivata dal diritto romano giustinianeo e dagli sterminati commenti che a esso erano stati apposti e che avevano portato con sé anche contributi diversi e in primo luogo quello, fondamentale, del diritto canonico.
8. La dottrina giuridica francese nel Rinascimento
Il fondamento primo di questa rivoluzione, che doveva avere conseguenze radicali nel mondo dei valori giuridici e nel loro rapporto con la realtà politica, si trova in Francia, per quanto i primi principi siano contenuti nel pensiero dell'umanesimo rinascimentale italiano. Che la Francia fosse il luogo nel quale i valori giuridici della tradizione medievale erano destinati a un mutamento è suggerito dal fatto che proprio in Francia e in quell'epoca lo Stato andava acquistando una fisionomia che precorre quella dello Stato dell'epoca nostra. Da un lato dunque il consolidarsi dello Stato e dall'altro l'esigenza di una sistemazione del diritto. Ma accanto a ciò un altro movimento si andò determinando, che sarà un fattore importante nel divenire di quest'ultimo: l'esaltazione dei diritti nazionali e l'ostilità verso il diritto romano per opera di una parte della dottrina.
Questa importanza del diritto nazionale, che in Francia si accompagnò all'ostilità verso il diritto romano, ebbe radici popolari e motivi ufficiali da parte della monarchia. Il popolo considerava il diritto giustinianeo come estraneo alle proprie tradizioni e ai propri inveterati costumi e la monarchia, da parte sua, vi vedeva un'espressione del potere imperiale e quindi un'insidia. Interprete di queste esigenze fu l'Hotman (1524-1590), la cui ostilità al diritto giustinianeo si fondava sulla critica sostanziale delle sue imperfezioni e sul rilievo che, comunque, esso era inadatto alla nazione francese. ‟Con uno spirito che nulla aveva a che vedere col romanticismo, il Cinquecento francese aveva dunque già affermato la necessità di una corrispondenza tra il popolo e il suo diritto, corjispondenza che era in definitiva il frutto di una riflessione storica e che fruttificherà in quel paese nel pensiero illuministico del sec. XVIII. Non tutti, certo, la pensavano in quel modo. Il grande Jean Bodin (1530-1596), che non fu soltanto uno scrittore politico, ma un giurista e l'enunciatore della moderna teoria della sovranità, aveva colto l'intima corrispondenza tra il diritto giustinianeo e la monarchia assoluta in nome di quella stessa volontà predominante del principe con la quale all'epoca di Enrico IV la corona francese pervenne appunto al consolidamento dello Stato monarchico. Che da lungo tempo, del resto, la costruzione dello Stato particolare avesse prodotto una reazione che tendeva a limitare l'enorme importanza assunta dal pensiero giuridico, interprete del diritto romano, e dall'esercizio della giurisdizione è attestato fin dal tempo di Marsilio da Padova, che nel Defensor pacis si appellava all'autorità di Aristotele per circoscrivere il potere dei giudici di fronte alla legge: ‟Hec propter consuluit Aristoteles, nulli iudici seu principanti concedere arbitrium iudicandi seu precipiendi de civilibus absque lege, in quibus lex determinare potuit". E nel Cinquecento l'Hospital (1507-1573) insegnava che la legge del principe assoluto doveva essere al di sopra dei giudici e non il contrario.
In sostanza, in Francia il pensiero giuridico che si era nutrito di cultura umanistica fu l'espressione del più ampio respiro del regno, proprio quando la vita dei principati italiani andava progressivamente declinando. Alla radice di questa nuova interpretazione del diritto stava dunque lo Stato. E in accordo con lo Stato monarchico stava anche l'importanza assunta dal razionalismo, che divenne una delle note caratteristiche del pensiero rinascimentale e della giurisprudenza culta. Le tendenze verso una rivalutazione del pensiero platonico, che si erano verificate in Italia, e quelle antintellettualistiche della Riforma protestante, finirono per cedere a quella spinta potente. Prima ancora che la filosofia sistematica di Pietro Ramo esercitasse il suo influsso sulla scienza giuridica e sul modo stesso di concepire il diritto, la reazione di Melantone all'irrazionalismo luterano e calvinista si riferiva al diritto naturale, che venne concepito come un sistema nel quale vi erano dei principî generali e un'articolazione di deduzioni secondo il modello matematico. Se si pensi che la costruzione di una ‛parte generale' nella quale si raccolgono le linee complessive e le strutture portanti del sistema giuridico fu uno dei prodotti più caratteristici della ‛giurisprudenza dei concetti', non si può fare a meno di ricollegare il pensiero di quest'ultima a quel travaglio rinascimentale, dove appunto per la prima volta certe esigenze di generalizzazione, di astrazione e di sistemazione rivelarono tutta la loro forza e la loro corrispondenza con la situazione politica che si era andata determinando agli inizi dell'età moderna.
La funzione sempre maggiore assegnata alla logica nella costruzione giuridica non si limitò peraltro al diritto naturale, che era sempre un modo di considerare il diritto strettamente connesso con la morale, ma si estese anche ai diritti positivi e al diritto romano, ora considerato come ratio scripta. Questo succedere alla logica analitica dei giuristi medievali, legata all'analisi delle singole proposizioni, di una logica che aspirava a una sistemazione generale della materia contenuta nelle leggi, e in primo luogo nelle leggi romane di Giustiniano, aveva un enorme significato. Un diritto sistematico era appunto un diritto il cui pernio stava nella legislazione e non nella giurisdizione, alla quale veniva perciò riconosciuta l'unica funzione di applicare la legge. Parallelamente anche la dottrina doveva limitarsi a interpretare il diritto dello Stato, cioè di un organismo vivo e legiferante, ben diverso dall'impero romano, ormai lontano nei secoli; nel mentre la sua costruzione razionale si esercitava specialmente sul diritto giustinianeo, con l'intento appunto di introdurvi quelle linee sistematiche che esso non aveva mai posseduto.
Tutto ciò si tradusse nelle grandi esposizioni sistematiche del Donello e del Duareno; e non è un caso se proprio il pensiero del Donello esercitò un influsso non indifferente su quello del Savigny. Sta di fatto che quel pensiero francese, e specialmente proprio quello del Donello, fece breccia in Germania, favorito in questa sua diffusione dai giuristi tedeschi che si erano recati in Francia a studiare. L'amore per il sistema assunse così nei paesi tedeschi delle forme esasperate, anche se spesso soltanto estrinseche, in ciò favorito dalla logica ramistica e dal pensiero protestante specialmente di Melantone, ispirato come s'è detto al modello della matematica.
In Germania non sussistevano però i motivi per i quali in Francia la speculazione giuridica si era accordata così profondamente con le esigenze dello Stato monarchico. È per questo che in Germania divennero predominanti le teorie giusnaturalistiche che si esercitarono a una sistematica nella quale la morale e il diritto si mescolarono intimamente nel grande quadro del diritto di natura. Il diritto naturale fu il campo d'elezione per l'applicazione della filosofia al diritto e ai suoi massimi problemi; ed è per questo che la Germania divenne la patria elettiva di una speculazione intorno al diritto e partorì i grandi nomi che fondarono la sistematica giuridica e che stanno alla base dei sistemi normativi del sec. XIX.
9. Importanza della Seconda Scolastica
Ma, se si voglia completare questo breve giro d'orizzonte prima di addentrarci ancora una volta nell'esame del pensiero giuridico del secolo scorso e del nostro, gioverà far qualche cenno anche al pensiero della Seconda Scolastica, che annoverò grandi nomi di giuristi-teologi e che ebbe per sede la Spagna, per quanto non fosse privo di rapporti col pensiero francese. L'importanza di questo movimento speculativo, che fu a lungo trascurato ma al quale la storiografia contemporanea attribuisce un notevole peso per gli sviluppi futuri della costruzione teorica intorno al diritto, sarebbe già posta sufficientemente in risalto solo che si accennasse all'influsso che dovette esercitare sulla filosofia kantiana. Che del gorgo turbinoso di idee contrastanti, anche se riconducibili ad alcuni motivi essenziali, che fu proprio dell'Europa tra il Cinquecento e il Seicento fosse teatro la Spagna non può meravigliare. In nessun altro paese europeo i contrasti tra la tradizione cattolica, rafforzata dal pericolo della Riforma protestante, e le nuove realtà sociali ed economiche che erano state determinate dalla scoperta del Nuovo Mondo e che del resto avevano in Europa anche ragioni diverse, furono così crudi e drammatici.
Ciò che ai nostri fini va specialmente rilevato nella Seconda Scolastica, i cui principali rappresentanti furono il Vitoria, il Suarez, il Soto e il Molina, è che la sintesi tra etica e diritto diede luogo piuttosto a un adattamento dell'etica ai modelli giuridici che non il contrario. Per questa ragione la teologia di quegli scrittori non è meno rilevante per le dottrine giuridiche di quanto non lo sia il suo contrario. L'interpretazione teologica degli istituti giuridici aveva per effetto di sollevare i concetti che avevano riferimento alla vita pratica a un livello speculativo che altrimenti non avrebbero avuto. E, qualunque giudizio possa darsi di questo metodo, che va comunque riferito alle condizioni storiche nelle quali fu applicato, non può negarsi che rese possibile l'apertura di vasti e nuovi orizzonti alla scienza giuridica, la quale, per quanto possa essere concepita come scienza tecnica, si rinnova soltanto con la filosofia. Anche nel caso della Seconda Scolastica, dunque, la novità venne dall'unione, e non di rado dalla confusione del non giuridico col giuridico. Lo sfondo fu ancora una volta il diritto naturale. Che il modo col quale il diritto naturale fu aggredito dagli autori della Seconda Scolastica si ispirasse al razionalismo di san Tommaso spiega come la loro dottrina abbia potuto costituire il punto di passaggio dal giusnaturalismo del Medioevo a quello moderno e protestante che ha il suo padre in Grozio. Giusnaturalismo, però, significò anche apertura a una nuova concezione del diritto delle genti, della quale il mondo del sec. XVI e poi del XVII doveva fare esperienza e che non era più quella del Medioevo. A un giusnaturalismo fondato sulla ragione faceva riscontro un diritto internazionale a sua volta fondato sul diritto di natura o, come per il Suarez, sulla volontà degli Stati nella forma della consuetudine.
In un quadro nel quale la legge era concepita come superiore al potere politico e come suo limite, e cioè in un quadro dominato dal razionalismo misto però di elementi volontaristici (la legge era un limite perché si fondava sulla volontà di Dio), la condotta morale era l'oggetto essenziale della norma. Questa proposizione, che si legge in Suarez e che costituisce una correzione della definizione della legge formulata da san Tommaso (la legge non è più semplicemente ‟regola e misura delle azioni", ma ‟regola e misura delle azioni morali"), trasferiva la legge su un piano più elevato e fondava un controllo sulla legittimità della norma, il cui contenuto non poteva essere soltanto considerato un comando dell'autorità politica, ma doveva essere conforme all'ordine morale.
In questa preminenza dell'etica sul diritto e in questa confluenza di entrambi nel diritto naturale si possono vedere sviluppi futuri del modo di concepire l'una e l'altro e la possibilità di un'autonomia dell'uomo nel suo giudizio di ciò che è bene e di ciò che è male. Ma l'originalità della Seconda Scolastica si rivelò piuttosto nella concezione della proprietà, del dominium, come espressione per eccellenza del diritto. Poiché il dominium, con un processo analogo a quello che s'è visto nei confronti della legge, è trasferito dal diritto positivo in una sfera trascendente, nella sfera dell'autonomia: dominio in primo luogo non delle cose, ma dei propri atti, non della propria volontà ma sulla propria volontà, e insomma libero arbitrio. Così il concetto del dominium va molto al di là di quanto potesse leggersi nei testi del diritto romano e anzi cambiava la sua natura, per quanto non volesse negarsi che esso fosse anche possibilità di dominare le cose e affermare la propria personalità attraverso la padronanza del mondo esterno, ‟perfectio animae et hominis dignitas", ‟potestas absoluta ordinata ad actus reales".
Proprio in relazione al concetto di dominium e come contributo della teologia alle costruzioni del diritto, va ricordata una delle conquiste fondamentali della civiltà moderna, cioè la configurazione del diritto soggettivo. Per quanto le fondamenta vadano ricercate nell'età feudale, una prima formulazione di quel diritto si annunciò già nella teologia del Gerson, vissuto tra il sec. XIV e il XV, ma trovò poi il suo sviluppo nei teologi e giuristi spagnoli del Cinquecento, che pensarono la facultas del dominus come una potestas che era una vera e propria sovranità del soggetto.
10. Hobbes, Kant e Hegel
L'importanza di questa dottrina è particolarmente rilevante per quanto concerne il diritto privato. In un certo senso può dirsi che l'importanza che il diritto soggettivo doveva assumere nella concezione del diritto a partire dal sec. XVII ha avuto in quella dottrina il suo inizio moderno; e anche la tendenza a contrapporre i diritti naturali soggettivi al diritto positivo e a sottolinearne la priorità e la superiorità vi trova una prima implicita enunciazione.
Ma nel Kant della Metafisica dei costumi l'idea del ‛possesso' ha una parte essenziale nella trattazione di quello che egli chiama ‛diritto privato', cioè l'insieme dei diritti soggettivi che spettano all'individuo in quanto tale, indipendentemente dalla società statuale. Anche per il Kant il ‛mio giuridico' ha un significato che trascende quello del possesso o della proprietà secondo le dottrine giuridiche tradizionali, perché esso si risolve in un diritto di libertà, la libertà di appropriazione nei confronti di qualsiasi oggetto esterno e, nello stesso tempo, in un limite imposto agli altri nei confronti di quanto, appunto, può essere oggetto di possesso da parte dell'individuo.
Lo stesso deve dirsi per la dottrina espressa da Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, il cui paragrafo 41 della parte prima comincia con l'affermazione: ‟La persona, per esser in quanto idea, deve darsi un'esterna sfera della propria libertà", e prosegue poi (È 44) con l'asserzione che ‟la persona ha per suo fine sostanziale il diritto di porre la sua volontà in ogni cosa, la quale, pertanto, è mia: non avendo in se stessa un tale fine, riceve a sua determinazione e anima la mia volontà; assoluto diritto di appropriazione dell'uomo su tutte le cose". Nei Lineamenti di un sistema del diritto pubblico tedesco, che è del 1865 e di uno dei maggiori rappresentanti della ‛giurisprudenza dei concetti', il già ricordato C.F. Gerber, questi pensieri della filosofia tedesca ricompaiono secondo l'impostazione che già ne aveva dato il Kant, con una concezione del diritto privato quale diritto proprio della società in primo luogo costituito dalla ‛libertà della proprietà', cioè da una sfera di interessi che è fuori del campo specifico riservato al potere dello Stato. D'altronde, la concezione che il Gerber esprime dello Stato risente della filosofia hegeliana e gli elementi di questa si sarebbero così mescolati con quelli della Scuola storica nella dottrina del formalismo giuridico. Lo Stato come ‟ordine razionale ed etico", lo Stato come ‟Stato di popolo", il ‟potere dello Stato" quale ‟volontà generale del popolo come un tutto etico teso al raggiungimento degli scopi dello Stato, con i mezzi e nelle forme stabilite dallo Stato" (v. Gerber, 1880; tr. it., p. 110), tutte queste proposizioni ricordano le proposizioni hegeliane intorno allo Stato come ‟la realtà della libertà concreta", intorno all'interesse generale come tale ed agli interessi particolari come fine dello Stato, intorno allo Stato ‟in quanto spirito d'un popolo", che è insieme la legge che penetra tutti i suoi rapporti, l'ethos e la coscienza dei suoi individui; infine intorno al popolo che, ‟in quanto Stato, è lo spirito nella sua razionalità sostanziale e nella sua immediata realtà e, quindi, è il potere assoluto sul territorio; conseguentemente, uno Stato è, di fronte agli altri, in indipendenza sovrana".
Del resto, hegeliana è la dottrina dell'äusseres Staatsrecht, del diritto pubblico esterno, che fu enunciata nella scienza giuridica dal Laband e dal Jellinek e divenne un credo del positivismo giuridico, agli antipodi con la dottrina kantiana, nella quale era contemplata una ‛società universale', come attuazione di un diritto universale, attraverso una confederazione universale degli Stati, una specie di attuazione positiva del diritto naturale.
È per queste vie che si arriva fino al ‛diritto puro' e alla sua estrema e più perfetta espressione per opera del Kelsen. Ma se è facile distinguere per sommi capi una tendenza esistente nella lunga storia della filosofia e della teoria intorno al diritto verso una piena indipendenza del diritto dalla morale, dalla tendenza che invece considerò questa unione come essenziale e vivificante; se, insomma, vi fu per tempo una tendenza positivistica contrapposta o mescolata con quella del diritto naturale, difficilissimo e spesso impossibile è determinare in quale proporzione l'una o l'altra abbiano influito sulla formazione del pensiero giuridico contemporaneo, sulle sue fondamentali esigenze e sul suo modo di essere. Ad esempio, la dottrina con la quale si enuncia il positivismo giuridico moderno, vale a dire la dottrina dell'Hobbes, per quanto possa essere lontana dalle dottrine della Seconda Scolastica, aveva in sé qualcosa della teoria del dominium che di essa fu propria. L'affermazione assoluta dell'individuo attraverso il dominio su tutte le cose è, in fondo, la manifestazione estrema di un individualismo che si esprime nell'Hobbes col dominio assoluto sul mondo circostante, in un diritto che coincide con la sua stessa negazione, cioè con l'esaltazione della forza.
Ma nella dottrina hobbesiana proprio questa fu l'idea del diritto, un diritto a un'assoluta libertà per il conseguimento dell'utile. In questo scetticismo verso le concezioni tradizionali v'era non solo un distacco da ogni trascendenza che non coincidesse con la ragione per quanto riguardava il diritto naturale, ma anche da ogni legittimazione che non fosse la volontà sovrana per quanto concerneva la legge positiva. Certo si è che il pensiero che sul diritto fu espresso nel sec. XVII aveva in comune nei vari autori la ricerca di un ordine razionale, di un modo di essere del diritto corrispondente al modo di essere delle cose e della natura umana. Quel sostanziale abbandono della radice metafisica del diritto era il fondamento di un ordine razionale, che di volta in volta veniva cercato nella natura sulla scia del naturalismo allora trionfante, oppure nella logica matematica, che era anch'essa concepita come strumento per leggere nella natura. In sostanza, ciò che accomunava tutte quelle diverse manifestazioni del pensiero, fossero rivolte a considerare la relatività del diritto a seconda dei tempi o dei luoghi, come nei libertini francesi, o la natura umana, come in Hobbes, o l'ordine della natura e la forza, rispettivamente del diritto naturale obiettivo o del subiettivo, come in Spinoza, era la ricerca di una ragione delle cose raggiungibile dalla mente umana (o propria di esse) e nello stesso tempo di una realtà senza veli, di una verità da ricercarsi nell'esame degli eventi e nel quadro della quale l'ordine del diritto era visto come coincidente con l'ordine stesso dei fatti, con la loro intrinseca forza dipendente dalla natura delle cose o dalla natura stessa dell'uomo. Non dunque una considerazione del diritto puramente positiva in senso moderno, cioè di un diritto che si identificasse esclusivamente con le norme emanate dallo Stato, ma invece una ricerca più profonda dell'essenza di quanto è giuridico, delle radici della giustizia, della giustificazione della legge, insomma di una dimensione speculativa dell'ordine del diritto.
Da tutto ciò si può dedurre che il completo distacco dalla realtà e la considerazione ‛pura' del diritto, quale si è avuta nel Kelsen, costituisce una manifestazione alla quale il pensiero giuridico moderno è stato condotto a poco a poco ma che non ha alcun riscontro nella storia precedente di quella speculazione. Per quanto si possano trovare gli antecedenti della moderna sistematica e del moderno positivismo nel razionalismo giuridico dei secoli passati, non è però dato riscontrare nulla di simile a quanto si è fatto nel Novecento intorno all'idea del diritto e della sua struttura come di qualcosa a sé sufficiente, indifferente a qualsiasi richiamo alla realtà nella quale il diritto nasce e per la quale è voluto e pensato. Non si tratta infatti di considerare il diritto come un sistema concettuale rispondente a elementi costanti, che però hanno una corrispondenza o nell'ordine generale della natura o nella mente e nello spirito dell'uomo, cosa che quelle dottrine dei secc. XVI, XVII, XVIII e anche XIX hanno più volte prospettato, ma di vedere il diritto nella sua sola struttura logica, senza altri nessi o contenuti. Non si saprebbe neppure affermare se a ciò si sia giunti in piena consapevolezza, o invece procedendo per vie parzialmente già note e infine conseguendo risultati nuovi e certamente straordinari, ma anche sconcertanti. Certo si è (e questo va notato) che soltanto il sec. XX è pervenuto a una scienza giuridica nella quale il diritto è considerato esclusivamente come una costruzione logica, senza alcun sottinteso che di questa stessa logica faccia qualcosa di più di una forma e di un metodo.
Al contrario, di fronte alla disumanizzazione alla quale è pervenuta la dottrina del diritto ‛puro' nei secoli che hanno preceduto il nostro e nei quali il pensiero religioso per tanto tempo era stato la chiave di volta del sistema giuridico, il diritto era stato a poco a poco sostituito dal naturalismo e dal matematicismo. Il risultato fu questo: che il diritto non fu più considerato quale punto iniziale della giuridicità, ma come punto finale; non come un diritto metafisico da tramutare in diritto umano, ma come uno stato naturale dell'uomo da imbrigliare e disciplinare attraverso la volontà sovrana. Nella progressiva umanizzazione della ragione che era a fondamento delle regole di condotta si rivelava uno spirito nuovo, che arriverà fino a noi. Al di là dell'interpretazione volontaristica o razionalistica delle norme, la ragione umana andava dunque prevalendo sulle considerazioni teologiche della sua origine e della sua dipendenza da Dio. Non l'origine della ragione nell'uomo, ma il suo modo di essere era uno dei problemi del pensiero che si proponeva di identificare i fondamenti del diritto.
Anche la progressiva separazione del diritto naturale da ogni preoccupazione teologica, frutto della Riforma e opera del Grozio, equivaleva a un distacco dal pensiero medievale che era gravido di conseguenze. Ma a ben vedere, anche in questa diversa interpretazione della natura del diritto l'eredità medievale rimaneva per altri rispetti ben salda, perché il diritto di natura, comunque inteso, restava a fondamento e a modello del diritto positivo e perciò rimaneva ferma l'idea della norma come di una categoria generale, nella quale, discendesse da un comando o dalla ragione, si univano e si confondevano la morale e il diritto, nonostante gli sforzi di alcuni per distinguere l'una dall'altro. Ciò che più occupava la mente dei filosofi e dei giuristi era la natura della normatività, ma sempre nella sua funzione di disciplina della vita umana e quindi in relazione esplicita o implicita con essa.
L'affermazione dei diritti soggettivi, che contribuì a dare concretezza al problema del rapporto tra diritto naturale e diritto positivo e che dal giusnaturalismo essenzialmente dipese, trasferì la questione su un piano di immediato interesse politico e suscitò il problema dei limiti che alla libertà individuale dovevano essere posti dal diritto obiettivo. Inoltre il sorgere in Francia dopo le guerre di religione, di un pensiero giuridico che si ispirava all'assolutismo, contribuì in modo decisivo, insieme con il pensiero hobbesiano, a dare concretezza ad alcuni aspetti della concezione del diritto e delle sue modalità e ad avvicinare alla realtà storica un diritto ideale che si era concordemente identificato nel ius naturae. Poiché ormai un tale diritto era considerato prodotto dell'umana ragione, era inevitabile il suo progressivo avvicinamento e anche la sua identificazione col diritto storico, che era l'unico che potesse in definitiva offrire un confronto tra ciò che era e ciò che avrebbe dovuto essere, tra le norme universali del diritto naturale e la loro eventuale identificazione nelle regole del diritto positivo. In ciò si annunciava un mutamento fondamentale delle premesse del giusnaturalismo, perché il diritto di natura, anziché essere realmente una misura al vaglio della quale doveva essere valutata la validità del diritto positivo, finiva per divenire un motivo di giustificazione di quest'ultimo, col quale era frammisto e nel quale doveva essere scoperto.
11. Importanza del diritto romano
Questa posizione intellettuale era alle origini della rivalutazione del diritto romano in nome del diritto naturale e fu uno degli elementi della polemica che da allora arriverà fino al sec. XVIII e in realtà fino al XIX, quando il pensiero giusnaturalistico cederà al formalismo e al concettualismo attraverso il filtro della Scuola storica, non senza portare con sé una non lieve eredità del diritto naturale. In questo stesso quadro, la polemica ormai ricorrente pro e contro il diritto romano si rinnoverà nell'età dei lumi e proseguirà essa pure sotto mutate spoglie, cioè nella polemica sviluppatasi all'interno della stessa Scuola storica tra romanisti e germanisti, più vicini i primi alle posizioni non completamente consumate del diritto naturale, più coerenti i secondi con le premesse del Volksgeist; partecipi i primi di un atteggiamento conservatore che, in nome della ragione, si prolungherà fino alla seconda metà del sec. XIX e vedrà i giuspubblicistici tedeschi, e il loro caposcuola P. Laband, schierati a fianco del Bismarck, più inclini i secondi a vedere, secondo appunto le tradizioni del diritto germanico, una più stretta corrispondenza tra le norme e la realtà effettuale, e più favorevoli a un atteggiamento politico liberale. Anche Hegel, del resto, aveva condiviso le critiche al diritto romano che furono proprie dei germanisti, specialmente sotto il profilo della sua non eticità, come poi dovevano ripetere i tanti autori che, nella letteratura tedesca, esaltarono il carattere etico e sociale del diritto germanico di fronte all'individualismo e all'esaltazione della forza che sarebbero stati propri del romano.
Nel sec. XVII il diritto romano offriva il fondamento positivo per una conciliazione tra diritto vigente e diritto ideale e naturale, che sarà per lungo tempo uno dei problemi essenziali del pensiero giuridico. Il pensiero giusnaturalistico dibatterà la grande questione del fondamento razionalistico o volontaristico del diritto, sommo problema della teoria giuridica e della concezione dello Stato. Ma quando si trattava di esaminare in concreto il diritto privato ben difficilmente il distacco dal diritto romano era possibile. Ciò che sempre più appariva inaccettabile era però il modo col quale il diritto romano si era tramandato nei secoli, cioè l'immensa e farraginosa costruzione del ‛diritto comune', nel quale, su fondamento giustinianeo, la dottrina civilistica e canonistica era andata elevando un caotico complesso di teorie e di principî, indominabile nella varietà delle opinioni e nella contraddittorietà delle disposizioni e comunque inadatto a fungere da diritto dello Stato.
Tuttavia la dottrina del diritto comune offriva alla meditazione, per la seconda volta nella storia dopo la giurisprudenza romana, l'esempio di un pensiero giuridico che, pur avendo costruito le proprie teorie sul fondamento di una interpretazione delle norme positive, aveva raggiunto una tale importanza da poter essere considerato esso stesso fonte di norme. Il divario tra questa dottrina e quella che prenderà poi il nome di ‛giurisprudenza dei concetti' è certamente grande. Ma sarebbe difficile negare che quella dottrina del diritto comune, rielaborata a sistema proprio dalla Scuola storica e dai suoi seguaci ed epigoni, non abbia influito sui formalisti e concettualisti tedeschi nel suggerire a essi - che quella tradizione del diritto comune, specialmente nella sua versione germanica dei secoli immediatamente precedenti, avevano avuta ben presente e avevano fatto oggetto di lungo studio - la persuasione dell'onnipotenza della speculazione intorno al diritto e della creatività della logica nel campo non solo dei concetti, ma delle norme derivanti immediatamente da essi.
12. La reazione al diritto comune. Leibniz
Così anche la scienza giuridica conobbe la sua rivoluzione copernicana. La reazione al diritto comune assunse dal punto di vista filosofico l'aspetto di un'applicazione al diritto di un metodo matematico capace di ridurre le norme a sistema. Che il sistema normativo passasse attraverso lo Stato, che fosse sempre per opera dello Stato che le norme acquistavano carattere coattivo e il diritto naturale si trasformava in positivo e il diritto romano in diritto dello Stato particolare, è un'esigenza che si trova già nelle opere del Pufendorf e in quelle del Locke. La concezione secondo la quale il diritto non sarebbe più dovuto consistere di proposizioni corrispondenti al diritto romano e canonico fu sostituita da quella secondo la quale tutto il diritto era dominato da una coesione fondamentale, consistente nell'unità logica insita nel diritto e tale da consentire la scoperta di un sistema ispirato dalla ragione matematica. Il corpo delle norme non doveva più essere espresso da un'immensa quantità di proposizioni che si incrociavano in una sterminata casistica. All'analisi infaticabile si andava così sostituendo la sintesi, fondata su principî semplici dai quali dedurre regole esatte. Questa tendenza, propria del Seicento e corrispondente all'ispirazione matematica e scientifica di quel secolo, ebbe per il diritto due sommi rappresentanti, di diversissimo carattere e valore, ma uniti nella ricerca di un ‛sistema' semplificatore: il Leibniz in Germania e il Domat in Francia. Il sistema del Domat, consistente appunto nell'ordinare le leggi secondo il loro ‛ordine naturale', ha come fondamento il diritto romano e come metodo una ragione che aveva tratto ispirazione dal Pascal e dal Cartesio e si pone come l'inizio di un movimento destinato a sfociare nelle codificazioni. Alla logica matematica era informato il pensiero del Leibniz, che però non fu indotto da ciò a una costruzione astratta, fondata su ipotesi prive di riscontro nella realtà. La caratteristica costante, che abbiamo già verificata nella storia del pensiero intorno al diritto prima del sec. XIX, non si smentisce neppure in questo caso. La dottrina del Leibniz era il coronamento di una serie di sforzi compiuti in Francia fin dal Cinquecento e poi proseguiti in Germania, volti a ricercare nel corpo di un diritto storico, in primo luogo nel diritto romano, una linea logica che per- mettesse di classificare, raggruppare e ridurre a più semplice espressione la materia. Il sistema proposto dal Leibniz aveva peraltro le sue profonde corrispondenze con la storia e con lo stato della società, come del resto era accaduto per lo schematismo a lui precedente. Il solido fondamento romanistico scelto per l'applicazione del sistema di natura matematica corrispondeva a un'ispirazione non rivoluzionaria, ma anzi conservatrice nei confronti della società tedesca. Il problema fondamentale del Leibniz, come poi accadrà per tutti i sistematori delle epoche seguenti, fu la riduzione a sistema e non la riforma del diritto. Tale riforma fu estranea ai suoi fini perché la logica matematica è fuori del tempo, superamento della storicità e astrazione da essa, come astrazione furono le dottrine che dalla giurisprudenza concettuale fino al Kelsen si proposero di costruire le linee logiche generali del sistema giuridico. Dal Leibniz dunque, cioè dal suo sistema logico eretto sul fondamento di un diritto storico e tale da offrire ogni soluzione possibile nell'interno di quel sistema normativo, ha origine propriamente la dogmatica giuridica moderna, passata attraverso l'immensa fortuna riscossa dall'opera di Ch. Wolff (1670-1754) in Germania.
È evidente che questa suprema ricerca del sistema giuridico e il postulato che, data la natura logica di esso, ogni soluzione deve essere possibile nell'interno del sistema, escludono qualsiasi soluzione diversa, che sia al di fuori delle esigenze della ragione, del problema delle lacune dell'ordinamento e di un adattamento della norma al caso concreto. Non ebbero più alcun senso il richiamo all'equità, che ha avuto nella storia dell'applicazione delle norme giuridiche una funzione tanto importante così in alcune epoche del diritto romano come nel diritto dell'età intermedia, e il ricorso a diritti diversi per l'interpretazione di un diritto dato, che fu caratteristico del diritto comune ma che anche prima della sua formazione si verificò su larga scala.
Per quanto questa sistematica logica derivi dalla concezione razionalistica della norma, cioè si accordi con l'idea fondamentale nella storia del pensiero giuridico che la norma ha in sé una validità non dipendente dalla volontà ma dalla ragione, storicamente quel razionalismo si accordò con le codificazioni, quale espressione di una sistematica che, se si ispirava alla ragione nella sua forma esterna, era internamente costituita dalla volontà del legislatore. Così accadde anche per il Leibniz e così è avvenuto per i seguaci del formalismo giuridico moderno. Ma l'equilibrio tra quei due elementi, che si ripresentano eternamente di fronte alla scienza del diritto, o, per meglio dire il rapporto tra l'uno e l'altro, fu variamente inteso ed è perciò necessario soffermarsi sul problema. E il problema può essere così enunciato: la validità della norma dipende da una volontà che si considerava per sua natura razionale. Era la razionalità della storia, la concezione della storia rispetto al diritto che la Scuola storica aveva espresso e che conteneva un altro equilibrio instabile, risolto sempre più in favore della ragione e sempre meno della storia. Ma la norma conservava in sé, con la volontà razionale del legislatore, questo significato ‛soggettivo', che l'interprete doveva penetrare, andando al di là dell'espressione per raggiungere lo spirito, oppure la norma aveva un suo significato, che diveniva indipendente dall'intenzione del legislatore al momento della sua emanazione?
La prima posizione, ancora dipendente dall'impostazione della Scuola storica, è quella che conosciamo anche nella storia del diritto romano e del diritto intermedio. L'opera dell'interprete sta nella penetrazione di un significato della legge che non può prescindere dalla vera intenzione del legislatore. Questa affermazione segnò, nel diritto romano, un momento fondamentale nell'evoluzione del diritto, che si distaccò dai verba per rivolgersi al sensus. Non era quindi soltanto una questione d'interpretazione normativa, ma prima di tutto un diverso modo d'intendere il diritto nella sua totalità, che fu compiuto attraverso l'opera del pretore e che cambiò la natura stessa del diritto civile. Si può assegnare un importanza equivalente alle teorie che, in un modo o nell'altro, si sono distaccate nel secolo scorso e nel nostro dallo strictum ius, dal diritto così com'è espresso nella legge? Non riteniamo che si possa affermarlo: perché, dietro alla trasformazione del diritto in Roma, c'era una profonda trasformazione dello Stato che, nonostante tutto, è mancata negli ultimi due secoli della nostra era. La disputa è stata una questione di dotti, non una questione realmente promossa da una trasformazione civile.
13. La ‛giurisprudenza dei concetti'
In altre parole, si tratta essenzialmente di una tecnica d'interpretazione, non di una trasformazione del modo d'intendere la natura del diritto da parte dello Stato. La metodologia sull'interpretazione non è derivata nella dottrina giuridica del nostro tempo dalla necessità di risolvere in primo luogo delle questioni presentate dalla vita, ma da impostazioni teoriche che definivano il diritto come un complesso di norme in evoluzione, come un sistema concettuale a forma di piramide (un'immagine che dai primi rappresentanti della giurisprudenza concettuale arriva fino al Kelsen), nel quale le massime giuridiche, considerate alla stessa stregua dei concetti giuridici, sono collegate tra loro con un nesso organico e in modo tale che da massime giuridiche note possono dedursi altre massime prima ignote. Questa generazione concettuale (il Puchta arrivò ad affermare che ‟i concetti sono produttivi, essi si accoppiano e generano nuovi concetti") è, com'è quasi ovvio, al fondamento delle teorie sull'interpretazione, ma non può avere la vitalità essenziale che tale interpretazione ebbe nel diritto romano. Lo stesso può dirsi per il diritto intermedio, la cui importanza rimane grandissima per intendere le teorie moderne, dato che tali teorie si sono formate in qualche modo in accordo o in polemica col sistema del diritto comune. Ma anche nel diritto medievale la speculazione giuridica prese tutt'altra strada. Il fatto che il fondamento essenziale di tale speculazione fosse un testo la cui autorità poteva essere paragonata a quella di un testo sacro fece sì che l'interpretazione si svolgesse su questo presupposto fondamentale, che il giurista doveva comprendere esattamente il pensiero del legislatore e nulla più. I casi nei quali i civilisti assunsero un atteggiamento indipendente o critico nei confronti del testo sono perciò eccezionali, anche perché altri mezzi venivano se necessario usati per modificare e adattare nella sostanza la norma senza contraddire a quel principio fondamentale.
La ‛giurisprudenza concettuale' si è posta il problema dell'interpretazione in modo del tutto diverso, non per quanto poteva concernere l'analogia, che era un modo per affrontare il problema delle lacune ben noto anche alla scienza giuridica medievale, ma per quello che concerne il valore della dottrina in sé e per sé. Nessun'altra dottrina giuridica assunse in pratica il valore normativo di quella medievale. Ma ciò avvenne per la grande autorità di cui l'opinione dei dottori godette nei tribunali e non per un principio apertamente affermato dalla stessa dottrina. Invece la ‛giurisprudenza concettuale' si considerò creatrice di norme attraverso il lavoro compiuto sulle norme esistenti, dando così luogo a quello che fu chiamato ‛il diritto dei giuristi' (Juristenrecht). Questo procedimento era nuovo; e costituiva, in un ambiente come quello dell'Europa continentale nel quale aveva ormai trionfato il principio codificatorio, una singolare rivincita del razionalismo giuridico sul volontarismo.
L'inizio è anche in questo caso da identificare nel Puchta, che dallo ‟spirito del popolo", fondamento non logico posto dal Savigny alla razionalità intrinseca del sistema, spostò più decisamente l'accento sull'aspetto puramente concettuale. Con questo in realtà si perdeva il significato di quanto la Scuola storica aveva intuito, nella sua prima teoria circa il nesso tra quanto era autonoma attuazione popolare nel campo del diritto e quanto invece costituiva l'identificazione e lo sviluppo logico-tecnico di quella situazione giuridica che spontaneamente si era creata nella società nazionale. Essa attribuiva a quella logica un fondamento storico e una corrispondenza con i bisogni reali della società che doveva perdersi in una teoria nella quale lo sviluppo concettuale andò acquistando un'autonomia sempre più assoluta. In quella prima impostazione organico-storicistica, in quell'intuizione che il diritto è un fenomeno che si attua spontaneamente in una determinata comunità umana, c'era un limite alla logica e un precorrimento di altre teorie, espresse nel nostro secolo, nelle quali appunto il diritto è stato pensato in primo luogo come un fatto di organizzazione spontanea. Ancora B. Windscheid, il massimo dei pandettisti tedeschi, scriveva nel primo volume della sua opera maggiore che la ‟scuola storica moderna (cioè quella di Hugo e di Savigny) si distingue dalla scuola storica del XVI secolo specialmente per l'energia della sua tendenza a concepire i principî giuridici quali prodotti delle forze e dei bisogni che nascono dai rapporti di fatto, e a scrutare così la sua vita intima, e per la maggior attenzione a formulare esattamente i concetti e mostrare l'accordo sistematico dei singoli principî del diritto romano" (v. Windscheid, 1886; tr. it., pp. 25 ss.).
Ma, come s'è detto, col Puchta, che anche il Windscheid considerava il migliore degli allievi del Savigny, la prospettiva comincia a mutare sostanzialmente. Il problema della corrispondenza tra la società e il diritto, che era stato prospettato specialmente mediante il valore attribuito al diritto consuetudinario - che il Windscheid, seguendo il pensiero di Hegel, avvicina alla legge ‟perché la fonte ultima d'ogni diritto positivo è la ragione dei popoli", la quale ‟può stabilire il diritto in due modi, mediatamente [...] per mezzo della legislazione [...]" e ‟immediatamente [...] per via dell'uso" (ibid., pp. 50 ss.) - comincia ad affievolirsi e la ragione a rivendicare il suo primato. È R. von Jhering che, nel primo periodo della sua attività, e specialmente nella grande trattazione sullo spirito del diritto romano (Der Geist des römischen Rechts, 1852-1865), rimasta incompiuta, e nei contributi pubblicati nella rivista che egli fondò e diresse con perfetta uniformità d'intendimenti con Gerber, rappresentò in quegli anni l'espressione estrema di quel razionalismo. Proprio per il bisogno di distaccarsi dal razionalismo di origine illuministica, ancora presente nei primi rappresentanti della Scuola storica, è da ritenere che si facesse dal Jhering ricorso a immagini tolte dalle scienze naturali e sperimentali per esprimere il processo induttivo attraverso il quale egli pretendeva di creare concetti e massime giuridiche mediante un metodo combinatorio, prendendo le mosse da concetti dati per pervenire a concetti prima ignoti, ai quali peraltro mancava ogni carattere normativo.
Il problema fondamentale per una scienza giuridica che si fondasse su una produzione razionale del diritto era dunque ancora, come era stato anche in passato, il problema della ‛positività' delle norme corrispondenti a ragione. E la soluzione non poteva ormai trovarsi, essendo lontani i presupposti del diritto naturale, che nel diritto positivo. Tra le due possibilità che abbiamo enunciato poc'anzi e che si riferiscono al modo d'intendere la funzione e i limiti dell'interpretazione, il Windscheid scelse la prima. Per lui l'interpretazione doveva consistere nella penetrazione del pensiero del legislatore, nell'effettivamente voluto da lui, ed era così un fatto essenzialmente storico-psicologico. Il procedimento interpretativo, che egli definisce come ‟dichiarazione del contenuto del diritto", comincia con lo ‟stabilire il senso annesso dal legislatore alle parole da lui adoperate", dato che ‟le leggi sono norme giuridiche formulate in parole". Il primo stadio dell'interpretazione è perciò quello grammaticale. Il secondo è la penetrazione nell'animo del legislatore, tenendo conto soprattutto dello stato del diritto all'epoca dell'emanazione della legge e dello scopo che il legislatore ha voluto raggiungere, contentandosi anche della semplice verosimiglianza quando non sia possibile fare di più. Con tutto ciò si può non solo determinare il vero senso dell'espressione della legge, ma anche integrarla e correggerla, pervenendo a seconda dei casi a estenderne, restringerne o modificarne il disposto. Tuttavia l'interpretazione, secondo il Windscheid, ha anche il compito di arguire, dal senso, il vero concetto del legislatore. Quando cioè lo stesso legislatore ‟non abbia avuto una percezione completamente chiara di questo concetto", l'interprete può far valere, di fronte alla volontà da lui espressa [...], quella che aveva realmente".
È evidente che qui si compie un passo ulteriore sulla via dell'interpretazione logica; e che dalla penetrazione dell'intenzione si passa alla sua integrazione. L'estensione della funzione interpretativa trae conforto dall'unità logica del diritto nel suo insieme, di un diritto che era ormai tutto nello Stato. E poiché dietro il diritto c'era questa figura statuale, il presupposto era che la volontà di questa non altrimenti dovesse agire che nell'interesse supremo di se stessa e dei sudditi e che quindi lo Stato si identificasse con lo Stato conservatore tedesco della seconda metà del secolo scorso, che aveva il proprio ascendente nelle monarchie illuminate del secolo precedente.
Teoria, dunque, dell'interpretazione come identificazione degli scopi legislativi e come integrazione della volontà legislatrice in uno Stato al di sopra del quale non c'era ormai più nulla, e nel cui sistema i diritti subiettivi non derivavano da una fonte autonoma ma dalla sola volontà statuale. Qui il volontarismo proprio di una teoria che aveva concentrato sullo Stato tutto il significato del diritto sollevava delle difficoltà, una delle quali consisteva nel chiedersi di quale natura fosse il diritto subiettivo che sussistesse anche qualora il diritto non dipendesse dal suo titolare, da una sua manifestazione di volontà. Così nel caso che si violi un diritto del proprietario d'un fondo attraversandolo, sebbene il proprietario non l'abbia impedito; così nel caso di chi non soddisfi il suo creditore, sebbene questi non gli abbia ingiunto di soddisfarlo; così l'incapace, che può avere un diritto senza saperlo. Il Windscheid aveva dapprima cercato di risolvere la difficoltà affermando che l'ordinamento giuridico, concedendo un diritto, non dichiara decisiva la volontà del titolare, ma il contenuto della volontà. Ma poi aveva preferito l'opinione del Thon, ‟che la volontà imperante nel diritto soggettivo è soltanto la volontà dell'ordinamento giuridico, non la volontà del titolare" (v. Windscheid, 1886; tr. it., p. 109). Il problema, in realtà, era implicitamente esistito anche nella concezione dei diritti subiettivi come indipendenti dall'ordine giuridico positivo, in quanto corrispondenti a una norma del diritto naturale. Ma nelle teorie giusnaturalistiche la preoccupazione di affermare i diritti subiettivi come indipendenti e autonomi aveva posto in ombra il problema, e come questo tanti altri che vennero sul tappeto soltanto con l'affermarsi del diritto positivo come l'unico diritto possibile. Il positivismo giuridico ebbe così il grande merito di indurre all'approfondimento dei concetti giuridici, che nelle teorie del diritto naturale erano rimasti sospesi tra la dottrina del diritto romano e i problemi filosofici propri del diritto naturale.
Da tutto ciò il Windscheid deduce la sua definizione del diritto subiettivo come ‟una podestà o signoria della volontà impartita dall'ordine giuridico". Dal punto di vista del diritto obiettivo si poneva d'altronde il problema delle ‛lacune'. Ciò che qui premeva soprattutto era ancora una volta di risolvere la questione non facendo ricorso al diritto naturale, ma trovando nello stesso ordinamento il criterio per sopperirvi. Questo criterio era affidato alla scienza giuridica e lo strumento era ancora una volta quello dell'interpretazione, col quale appunto la scienza del diritto diveniva, secondo la tradizione, un elemento indispensabile d'integrazione della volontà dello Stato. L'interprete doveva perciò, in caso di ‛lacune', trovare la ‟decisione che è la giusta" nel senso dell'intero complesso delle norme, anzi, come il Windscheid precisa, nel loro ‟spirito". È evidente che nel modo d'intendere ‛lo spirito' dell'ordinamento e di trarne la giusta soluzione si introduceva nel diritto obiettivo una variabile che dipendeva dal criterio dell'interprete ma di cui sembra che il Windscheid, affascinato dalla visione del diritto positivo, non si sia reso completamente conto.
Negli stessi anni nei quali il Windscheid completava e perfezionava il suo pensiero, tre altri giuristi tedeschi, il Binding, il Wach e il Kohler, enunciavano una nuova teoria dell'interpretazione nella quale quell'elemento variabile trovava un più ampio accoglimento. Ma che tale variabile entrasse in maggior misura che di consueto nelle dottrine di questi tre giuristi non significa che essi la riconoscessero come tale. Al contrario, essi si sforzarono di sottolineare il carattere ‛oggettivo' dell'interpretazione, affermando che la legge non ha il significato che il legislatore ha voluto infondervi, ma un significato autonomo, inerente alla legge. È singolare come questa presunta ‛obiettività' si risolvesse in quella che tale era ritenuta di volta in volta dall'interprete, e quindi, in realtà, nella sua interpretazione della norma. La circostanza che nella legge si possa constatare non solo la razionalità della sua natura, ma anche la razionalità degli scopi che essa si propone, è molto importante. Se l'analisi della razionalità della legge deve prendere le mosse dalla considerazione dei principî giuridici che sono alla base dell'ordinamento e deve cercare di identificarli nella norma, un secondo criterio integratore del primo sta nel determinare gli scopi che la legge si propone in vista delle condizioni sociali che essa deve regolare. Ma è assolutamente chiaro che, mentre con questa modifica dei criteri che devono presiedere all'interpretazione si alteravano i lineamenti propri della ‛giurisprudenza dei concetti', vi si introduceva anche un principio di apprezzamento politico che, secondo i canoni della dottrina precedente, non avrebbe dovuto far parte dell'ermeneutica. Si è osservato dal Manigk, e si è confermato dal Larenz, che tutto ciò sottolinea l'antitesi tra il positivismo e il razionalismo. E questo è soprattutto vero se si tenga conto delle conseguenze che una simile teoria poteva avere sull'attività giudicante, nella quale si introduceva in tal modo inevitabilmente un più ampio margine di apprezzamento. Ma se si consideri la dottrina in sé e per sé, si dovrà riconoscere che essa è pur sempre nell'ambito del positivismo giuridico, il quale non può esaurirsi nell'antitesi tra volontarismo e razionalismo.
Se si esaminano queste teorie non soltanto sotto l'aspetto delle intenzioni dei loro autori (e non c'è dubbio che sotto questo profilo essi fossero tutti convinti di dare il loro contributo allo sviluppo di un diritto positivo) ma anche sotto quello del loro effettivo contenuto, non si può evitare di riconoscere che la positività di un determinato ordinamento e della scienza che si propone d'interpretarlo non può esser fatta dipendere dalla maggiore o minore ampiezza con la quale vengono usati dei criteri razionali per l'analisi delle norme e dei concetti che vi sono contenuti, ma dal fatto stesso che l'oggetto di tale attività è costituito da norme positive, cioè emanate dallo Stato. Il positivismo, se sia pensiero giuridico e non attività politica, deve sempre venire a patti con il razionalismo degli interpreti. Può darsi che l'interpretazione alla Windscheid fosse più aderente alla figura della legge che non quella, per esempio, del Kohler; ma questo dipende soltanto dal fatto che nella prima si sono posti dei limiti in sostanza arbitrari all'esercizio della ragione da parte dell'interprete, limiti che non hanno una giustificazione scientifica, ma soltanto politica. Tuttavia il tentativo di limitare l'attività interpretatrice è un'illusione che da Giustiniano in poi è ritornata costantemente nel mondo del pensiero giuridico, con il successo che ognuno conosce. La questione è soltanto questa: che l'interpretazione deve esercitarsi su norme positive, cioè su regole di condotta espresse da un legislatore, la cui attività si esplica nell'ambito dello Stato. Il confine ideale che divide l'interpretazione dalla fondazione di norme nuove non sta nella funzione dell'ermeneutica ma piuttosto in quella legislativa, cioè in una funzione identificabile attraverso certi caratteri formali. Se v'è una legge, la sua interpretazione ha uno sviluppo al quale non possono essere prestabiliti confini, come non si possono stabilire confini all'intelletto umano quand'esso si proponga di determinare il significato di un oggetto che esso ha assunto come proprio. O, se si preferisce una dimostrazione per assurdo, l'interpretazione cesserebbe di essere tale soltanto se essa assumesse i caratteri formali della legislazione.
14. Il problema dell'interpretazione
Il problema dell'interpretazione in generale è il problema dei limiti che essa ha nei confronti dell'oggetto interpretato. E il problema dell'interpretazione della norma giuridica ha connotazioni particolari, perché non implica solo una questione intellettiva, cioè concernente l'esatto significato della norma, bensì anche la sua applicazione. In altri termini, per quanto riguarda l'interpretazione giuridica non è sufficiente l'interpretazione della volontà del legislatore, ma è anche necessario porre tale volontà in relazione con la realtà sociale che la legge si propone di regolare. L'impostazione data al problema dal Windscheid si dimostra dunque sotto questo profilo insufficiente, perché l'interpretazione giuridica non deve soltanto ricostruire quanto è stato voluto, ma anche la sua efficacia effettiva e la sua validità sociale attuale. Questo è quanto si vuol dire quando si afferma che l'interpretazione giuridica ha carattere normativo. La sua normatività non consiste nella formale sostituzione della volontà dell'interprete a quella del legislatore, ma nel fatto che la norma non vive veramente se non venga interpretata, cioè intesa nel suo significato, il che è condizione per la sua applicazione. Un significato che, come s'è già detto, non si limita alla ricostruzione dell'intenzione del legislatore, ma attribuisce alla norma la funzione migliore possibile, considerate le circostanze.
Questa è, in sostanza, la dottrina che il Betti, che ha lungamente dedicato la sua attenzione all'interpretazione giuridica e non giuridica, ha costruito aderendo nell'impostazione generale a quanto era già stato espresso dal Wach. È evidente che il problema dell'interpretazione riveste nel diritto una somma importanza, perché inerisce alla stessa natura ed efficacia della norma, la quale richiede l'adesione di chi deve osservarla e farla osservare. Ecco perché la determinazione dell'esatta sua natura porta con sé la determinazione della stessa natura della norma. Secondo la teoria normativistica del positivismo, che ha il suo più eminente rappresentante nel Kelsen, poiché la norma è un giudizio logico, la funzione dell'interprete si limiterebbe alla formulazione rigorosa del linguaggio nel quale la norma stessa si esprime. L'interpretazione giuridica avrebbe quindi per suo compito essenziale di analizzare il linguaggio legislativo con intento scientifico (Bobbio, Glanville, Williams).
Che questa soluzione non possa soddisfare coloro che nella norma giuridica non vedono soltanto un'espressione della logica, depurata di ogni contenuto, etico, economico, politico che sia, s'intende facilmente. Quali che possano essere le linee strutturali che la logica attribuisce al diritto, esse non possono arrivare fino al punto di togliere al diritto ogni collegamento con gli scopi che esso non può non proporsi. La neutralità della teoria di fronte a tali scopi concreti è in verità questione del tutto diversa dalla sottrazione di ogni scopo al diritto quando se ne vogliano definire le linee teoretiche essenziali, perché altro è astrarre dalla sua funzione pratica, senza optare per l'una o per l'altra finalità che di volta in volta un'ispirazione politica scelga in concreto, e altro è concepire il diritto come teoricamente privo di qualsiasi contenuto. In sostanza anche il Betti, che pure non si appella a presupposti volontaristici nel criticare il razionalismo kelseniano, ha ritenuto che questa sterilizzazione della norma giuridica non possa essere sostenuta. Anche per lui ‟le norme non sono pure enunciazioni di giudizi tendenti a comunicare un sapere circa la sintesi di un soggetto e di un predicato, ma sono strumenti a un fine di convivenza sociale" (v. Betti, 1955, p. 797).
Se però si può accogliere questa definizione della norma, di fronte alla quale la nostra sensibilità reagisce positivamente per la stessa situazione storica che impone all'uomo contemporaneo di stabilire un nesso tra il diritto e le aspirazioni riformatrici insite in un'epoca di così rapidi e radicali mutamenti sociali ed economici, non tutti i problemi inerenti all'interpretazione possono considerarsi con ciò risolti. E il problema certamente più delicato è quello che riguarda il limite dell'interpretazione. Che questo limite ci sia è un avvertimento del buon senso ancor prima che una proposizione legata a una deduzione rigorosa. Ma dove il limite sia, questo è veramente incerto e controverso. Fu sicuramente l'intento di non superare il lecito interpretativo che indusse il Windscheid a ritenere l'opera dell'interprete limitata all'intendimento delle parole del legislatore e, oltre le parole, dell'intenzione effettiva. Ma questa distinzione tra interpretazione filologica e interpretazione logica fu, come sappiamo, contraddetta da una teoria obiettiva, secondo la quale la norma, una volta espressa, assume un contenuto e un significato indipendenti dalla volontà di chi l'ha emessa. Che questa elasticità attribuita al contenuto normativo sia una necessità di qualunque ordinamento giuridico, che non può essere legato alla volontà del passato per regolare i rapporti del presente, è un'esigenza che la storia dimostra pienamente valida. Le critiche che si sono rivolte dal Croce all'astrattezza della norma (che sono sintetizzate nella sua celebre definizione: ‟la norma giuridica è un atto di volizione diretto a una serie o classe di azioni"), non hanno tenuto conto del problema interpretativo, che appunto identifica nell'interpretazione quanto attualizza la norma, riproducendone la volontà tenuto conto di fatti e situazioni determinate. In realtà l'interpretazione non solo attualizza il disposto legislativo in considerazione di fatti e di situazioni generali, ma anche e in certi limiti nei singoli casi e fatti concreti. Inoltre la norma presuppone per la sua effettiva validità, cioè per la sua traduzione in norma funzionante, non solo l'interpretazione, ma anche l'accettazione dei destinatari, accettazione che implica adesione e in certi limiti anche interpretazione del significato della norma, cioè dell'intenzione del legislatore per tramite della scienza giuridica. In tal modo l'atto di volizione astratto o, per ripetere la formula espressa dal Gentile, del ‟già voluto", si attualizza e si perfeziona come diritto.
Una volta accettata la posizione di coloro che sostengono l'autonomia della norma nei confronti del suo creatore come una necessità intrinseca nell'ordinamento giuridico e comprovata ampiamente dalla storia, il problema dei limiti rimane e diviene centrale. Se è vero che l'interprete può e deve intendere la norma in considerazione della realtà attuale; se è vero che quest'opera di mediazione tra la formulazione legislativa e la sua vita effettuale per rendere la legge proficua è tanto maggiore quanto più la norma è remota nel tempo; quali sono i criteri obiettivi che fermino l'opera dell'interprete e le vietino di diventare arbitraria?
Da ciò derivano anche le obiezioni e le esitazioni mostrate da S. Romano nei suoi Frammenti di un dizionario giuridico. Di fronte alla concezione evolutiva della legge per opera della giurisprudenza, il Romano osservava che le modificazioni della legge non riguardano la sua efficacia giuridica, ma soltanto la sfera della sua applicazione. Ma è facile ribattere che questa distinzione tra sfera di applicazione ed efficacia giuridica della legge è artificiosa e inammissibile logicamente, dato che la legge non può esistere in sé, ma è soltanto quella che vive nell'intendimento degli altri, cioè nell'interpretazione. D'altro canto, anche l'opposto angolo visuale, secondo il quale l'interpretazione sarebbe un atto normativo nel senso che l'interprete assuma un'attività normativa, secondo la tesi del Gorla, costituisce un eccesso al quale sarebbe indebitamente trascinata la teoria dell'esistenza autonoma della legge. Si può su questo punto concordare col Betti, quando afferma che non si deve confondere l'atto di legiferare e quello d'interpretare, che è puramente ricognitivo e subordinato alla legge; e che, quando si parla di funzione normativa dell'interpretazione giuridica, s'intende soltanto parlare della sua destinazione e non dell'efficacia giuridica che può avere in concreto.
Tuttavia, la domanda che dobbiamo rivolgerci è ancora una volta: chi stabilisce i confini tra interpretazione e legislazione, quando si accetti che la norma giuridica può evolversi per opera della prima? Il Betti stesso indica alcuni criteri. Il primo è la ricognizione della valutazione originaria immanente e latente nella lettera della legge e costituente la ratio iuris della norma secondo quanto era già stato espresso dall'Heck (1914). Un altro criterio è la considerazione dell'ordinamento nel suo complesso, cioè un'interpretazione degli scopi della legge a seconda degli scopi complessivi impressi alle leggi che lo formano. Infine compaiono qui la valutazione degli interessi che hanno presieduto all'emanazione della legge, cioè dei suoi scopi specifici, e la valutazione degli interessi attuali che essa deve regolare. Il loro confronto darà l'indicazione del divario che s'è formato nel tempo tra la norma e il suo oggetto, divario che l'interprete è chiamato a colmare.
Ma tutti questi criteri sono subordinati non certo all'arbitrio, ma all'intendimento di colui che esercita l'interpretazione, senza fornire ancora un elemento obiettivo che lo trascenda. Tale elemento obiettivo ci sembra che debba essere trovato nell'ammissibilità che l'interpretazione giuridica incontra nella coscienza sociale. Se quei criteri fanno parte della funzione tecnica dell'interprete, in ultima analisi la sua credibilità deve passare al vaglio della società alla quale egli destina l'opera sua. Il suo modo d'intendere la legge, gli scopi che egli le propone, le modifiche che egli vi apporta, lo stesso nesso che continua ad avvincere la norma all'interpretazione, cioè l'ultimo limite della sua modificabilità, rispondono ai criteri dell'interprete, ma saranno accettati o rifiutati dalla società, nella cui coscienza si sono affermati i bisogni, gli interessi, gli scopi ai quali un disposto legislativo deve rispondere. È soltanto nell'accettazione che la coscienza sociale faccia dei frutti dell'interpretazione giurisprudenziale che questa assumerà quella funzione ‛normativa' che la distingue da altri tipi d'interpretazione. La storia ci dice che questo è infatti ciò che nella realtà avviene. La giurisprudenza romana, avesse essa dinanzi il costume o la legge, operava in stretto contatto con la coscienza sociale e la sua grandezza dipese proprio da questo, dall'aver tenuto presente che quanto essa doveva costruire era materiato di realtà e alla realtà sociale destinato. La scienza giuridica medievale, e specialmente la civilistica, si trovò dinanzi un corpo di leggi che erano vecchie di molti secoli. Quanto essa si propose fu di mantenere fino all'estremo intatto il valore legislativo del Corpus giustinianeo, partendo dalla duplice posizione di intenderlo nel suo significato originario, supponendo che tale significato fosse applicabile nel XII e XIII secolo, o di interpretare la lettera della legge secondo uno spirito che si imputava a Giustiniano, ma che in realtà era proprio del Medioevo. Nell'un caso e nell'altro la scienza giuridica mostrò la sua intenzione di operare per la civiltà coeva, ripristinando le condizioni di una società ritenuta un modello insuperabile o adattando le norme del VI secolo, o addirittura della giurisprudenza romana, alla società dei Comuni. Ma l'opera di quei giuristi, qualunque potesse esserne la sapienza e la penetrazione, divenne ‛normativa' soltanto quando superò il vaglio della coscienza contemporanea, come dimostrano ampiamente gli statuti delle città comunali, che giudicarono variamente, ma comunque sempre sindacarono, i risultati ai quali quei giuristi erano pervenuti.
Anche il metodo che i giuristi medievali seguirono nel glossare e commentare il Corpus juris soddisfa però a un'eterna esigenza del pensiero giuridico, corrispondente a una situazione politica determinata. La situazione è quella di un diritto che promani da un'autorità sovrana e che si sia concretato in una consolidazione o codificazione delle norme. La consolidazione o codificazione, a prescindere da qualsiasi ispirazione riformatrice (che fu di fatto presente in molti casi anche di raccolta non sistematica delle norme, come in quello appunto del Corpus juris giustinianeo, e accompagnò da un certo momento in poi la codificazione moderna) corrisponde al diritto dello Stato, e anzi a un diritto esclusivamente, o sempre più esclusivamente, statale. Per quanto preparato dalle teorie e dalle ideologie dell'illuminismo, il movimento codificatorio, che culminò nel Codice civile napoleonico del 1804, fu in primo luogo l'espressione dell'autocrazia.
Il rapporto tra scienza giuridica e diritto si configurò quindi nei sistemi codificati come rapporto tra l'autorità di un legislatore e la speculazione della scienza; una nuova versione, insomma, del rapporto tra auctoritas e ratio, che caratterizzò il pensiero giuridico e teologico medievale. Esso determinò nel diritto europeo le sostanziali differenze che intercorsero tra la scienza francese, che appunto ebbe come compito essenziale di interpretare la codificazione napoleonica, e quella tedesca, che invece si trovò di fronte all'imponente complesso normativo del diritto comune, sostituito dal codice civile tedesco (BGB) soltanto nel 1900. Per la scienza giuridica francese, il sistema fu un dato, preparato fin dalla trattazione del Domat, Les lois civiles dans leur ordre naturel, che aveva visto la luce nel sec. XVII; per la scienza tedesca, invece, fu qualcosa da conquistare e da continuamente elaborare, ricorrendo dapprima alla logica ramistica, poi a una sistemazione del diritto romano che aveva per presupposto la storia e l'idea dell'evoluzione del diritto, poi di nuovo alla logica. L'elaborazione dottrinale tedesca produsse dunque grandi costruzioni teoriche e sistematiche, che ebbero un punto d'arrivo nella pandettistica, nella quale si andarono preparando le strutture della futura codificazione germanica. Ma, compiuta che essa fu, la tendenza della dottrina tedesca rimase prevalentemente speculativa, nella continua impostazione di grandi problemi teorici e nei sempre rinnovati tentativi della loro soluzione, sotto l'influsso della filosofia.
15. La Scuola esegetica
Come si determinassero nella giurisprudenza tedesca i grandi motivi dell'interpretazione lo sappiamo. Ma occorre qui ancora una volta ripetere che, se quelle linee interpretative, dopo il Windscheid, si andarono evolvendo verso una teoria ermeneutica ‛oggettiva', ciò non fu certo senza che la tradizione di quel pensiero, avvezzo per secoli a interpretare il diritto comune per adattarlo alle condizioni mutate e ai tempi, e perciò anche incline ad ascoltare i suggerimenti del pensiero filosofico, vi avesse la sua influenza. Così in Germania si andò sempre più trascendendo la legge per costruire dei grandi edifici teorici, mentre in Francia la tendenza assolutamente prevalente fu di interpretare la legislazione. Determinante fu anche, per questi così diversi e anzi opposti indirizzi, la grande tradizione francese dello Stato monarchico e accentrato, e per converso quella tedesca di una molteplicità di Stati, nel cui interno la struttura sociale era quella degli Stände, cioè una struttura complicata e composta di elementi molteplici, di fronte ai quali il compito dello Stato per l'instaurazione di una sua struttura moderna apparve arduo ed ebbe un lungo itinerario da percorrere.
Non deve quindi stupire che in Francia, ancor più che in Germania a ottant'anni di distanza, quando appunto il Windscheid pubblicò la sua celebre trattazione sul diritto delle Pandette, il problema dell'interpretazione della legge si ponesse subito al centro della scienza giuridica e che esso si prospettasse essenzialmente come un compito esegetico, cioè di fedele aderenza al disposto legislativo. Determinante, per il formarsi di questo carattere della dottrina (che un suo critico, Julien Bonnecase, chiamò con un nome che poi le rimase, École de l'exégèse), fu la volontà del potere politico e la coincidenza degli interessi e delle funzioni di coloro che la coltivarono con gli interessi della monarchia napoleonica. Ma certo vi influirono anche le tendenze tradizionali dell'intelletto francese, il desiderio della chiarezza e una forma di ragionamento più amante della deduzione che dell'induzione. Poiché esisteva una legge, proposta da un potere indiscutibile, essa andava interpretata il più fedelmente possibile alla volontà del legislatore. Qui agiva un'opzione del pensiero che non era ignara del fatto politico, cioè un pensiero giuridico che non aveva alcuna inclinazione a considerarsi autonomo, ma accettava come premessa naturale che lo Stato era un'espressione politica e che solo da essa il diritto ‛positivo', unico diritto possibile, era generato.
Le premesse erano costituite dal pensiero illuministico, che col Montesquieu aveva esaltato la separazione dei poteri attuata in Inghilterra, facendone i fondamenti dello Stato moderno. Poiché il potere legislativo e quello giurisdizionale avevano sfere e compiti rigorosamente distinti, una funzione ‛normativa' dell'interpretazione, sia da parte di chi esercitava la giurisdizione sia da quella della dottrina, era del tutto inconcepibile. A questa impostazione dava nuova esca l'articolo 4 del Codice napoleonico, che concerneva il déni de justice e disponeva che il giudice. che avesse ricusato di giudicare sotto il pretesto del silenzio, dell'oscurità o dell'insufficienza della legge, poteva essere processato come colpevole di denegata giustizia. La norma fu intesa in senso restrittivo, cioè come una dichiarazione di completezza dell'ordinamento e non già come la possibilità di una sua integrazione da parte del giudice, secondo l'intenzione del legislatore. Questa proclamata fedeltà alla volontà del legislatore, che si esplicava nella parafrasi del contenuto della legge e nella spiegazione letterale in primo luogo, si espresse anche nella forma dell'esposizione, che veniva fatta articolo per articolo, titolo per titolo, libro per libro, cioè seguendo il sistema codificato e non sostituendo un ordine diverso, che avrebbe avuto il carattere della surrogazione di un sistema a un altro.
La Scuola dell'esegesi ebbe in Francia numerosissimi cultori e sorse immediatamente dopo la pubblicazione del Codice napoleonico, com'era del resto naturale considerate le ragioni che le dettero origine. Ne fecero parte giuristi insigni, come il Merlin, il Demolombe, il Troplong, il Baudry-Lacantinerie e l'Huc, la cui opera, l'immenso commentario terico e pratico di diritto civile, fu pubblicata negli anni che vanno dal 1882 al 1903. Nel complesso, il merito della Scuola fu quello di avere mostrato come si dovesse commentare la legge, al di fuori delle grandi costruzioni teoriche; quanto una disposizione legislativa potesse offrire allo spirito critico del suo interprete, e come si dovessero usare i lavori preparatori e i collegamenti che potevano essere trovati in articoli diversi del codice. Insomma, l'interpretazione letterale, intesa però con un senso critico spesso molto fine, vi celebrò i suoi fasti. Nè l'utilità grande di un simile metodo può essere disconosciuta, nè si può facilmente negare che, se l'interpretazione debba intendersi come quella che ha per oggetto un diritto positivo, una simile esegesi, nella quale la filologia si combinava a un uso della logica costantemente rapportato al dato legislativo e soltanto a quello, non può non essere il presupposto per ogni speculazione che sul diritto positivo venga condotta. Ciò spiega, del resto, oltre all'autorità che la potenza francese infuse alla propria codificazione anche nei confronti di altri paesi, la grandissima fortuna che quel metodo incontrò in tutta l'Europa continentale, a esclusione della Germania, dove anzi, da parte dello Zachariae, si andò al contrattacco e si trattò il diritto civile francese secondo la pandettistica. In Italia la Scuola esegetica fu largamente seguita, e nelle trattazioni di diritto civile è ancora possibile, o lo era fino a qualche anno fa, constatare il frequente ricorso alla sua dottrina e anche l'imitazione del suo modello. Ma se le critiche che, come eco della diversa impostazione seguita in Germania, si levarono in molte parti, sono certamente ingiuste se rivolte a quanto quella Scuola seppe pure insegnare, è altrettanto vero che la rinuncia che in essa si può constatare a qualsiasi contributo sistematico e a qualsiasi indagine sulle ragioni che avevano ispirato le norme, sulla loro rispondenza alle condizioni attuali, sulla loro natura che non fosse, insomma, soltanto un'espressione dell'autorità, non può oggi riscuotere il plauso. La Scuola dell'esegesi si risolse in una sorta di formalismo, opposto nelle modalità sue a quello del Kelsen, ma tuttavia rispondente anch'esso a una concezione immobile del diritto, che si risolveva e si risolve ancora in una rinuncia da parte della dottrina a un contributo di pensiero che sia non soltanto spiegazione aderente al testo, ma anche suggerimento e stimolo, costruzione e non soltanto analisi.
16. Jhering e la ‛giurisprudenza degli interessi'
In Germania, dunque, un simile modo di affrontare i problemi giuridici non doveva apparire congeniale. Ma nella seconda metà del XIX secolo, e precisamente nel 1877, nell'atmosfera che si era instaurata dopo la vittoria sulla Francia del 1870, uno dei maggiori giuristi tedeschi, R. von Jhering, già seguace della Scuola storica e uno dei protagonisti, a metà del secolo (1857), della sua trasformazione costruzionistica, già fondatore dei ‟Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts" insieme col Gerber, pubblicava un'opera famosa, rimasta peraltro incompiuta, dal titolo significativo Der Zweck Im Recht, lo scopo nel diritto. Ma già nella prima delle Vertrauliche Briefe über die heutige Jurisprudenz. Von einem Unbekannten, pubblicata nella ‟Preussische Gerichtszeitung" (III, n. 41) del 16 giugno 1861 e che, con altri scritti, doveva poi comporre il volume del Scherz und Ernst in der Jurisprudenz apparso molto più tardi (1884), egli faceva la satira del ‛costruzionismo' di moda in Germania. ‟Che significa ‛costruire'? Cinquant'anni fa di questa roba nessuno ne sapeva nulla, si viveva ingenui e lieti, puntate le armi solo contro l'uno o l'altro passo delle Pandette" (tr. it., p. 12). Nello scritto Wieder auf Erden. Wie soll es besser werden? di parecchi anni posteriore e anch'esso incluso in quel volume, egli tornava a dichiarare: ‟Con questo ho toccato il punto che costituisce la caratteristica saliente di quella che ho chiamato la ‛giurisprudenza dei concetti'. Il giurista opera sempre con dei concetti; pensare in termini giuridici significa lo stesso che pensare in termini di concetti. Proprio perciò è superflua codesta ulteriore qualificazione. Se io tuttavia me ne servo, è per indicare le aberrazioni di certa dottrina moderna che, trascurando lo scopo e le condizioni di applicabilità del diritto, si compiace di considerarlo poco più di una materia su cui può far le sue prove una dialettica affidata a se stessa e tutta intesa a ritrovare in sé sola il suo fascino e la sua ragion d'essere" (v. Jhering, 1884; tr. it., pp. 367 ss.). E faceva dipendere quella che ora chiamava ‟aberrazione" dal divorzio tra la teoria e la pratica. Ancora in una nota apposta al medesimo scritto, il Jhering rilevava: ‟Questa diversità di attitudini ricorre anche tra i popoli: a mio parere per esempio francesi e italiani sono decisamente superiori a noi tedeschi in sede di applicazione pratica del diritto" (ibid.; tr. it., p. 404). Questo accenno, che è probabilmente ispirato alla Scuola esegetica francese, deve essere unito con l'altro nel quale egli tesseva gli elogi dell'aspetto esegetico della prima pandettistica e della Scuola storica, e deve essere inteso come un aspetto di quella reazione che il Jhering aveva cominciato col quarto volume del suo Geist des römischen Rechts.
Quali furono i motivi che indussero il Jhering ad una così profonda trasformazione, alla seconda ‛svolta' - der Wendepunkt, come chiamarono il Windscheid e il Kuntze l'abbandono dei metodi della Scuola storica a metà del secolo - della sua vita intellettuale? Ce ne parla egli stesso nel già citato scritto Scherz und Ernst in der Jurisprudenz: ‟Insomma, non è facile che il metodo logico abbia mai avuto un seguace così fanatico come ero io allora [...], ma non tardò molto a sopravvenire la crisi. E non fu tanto una crisi maturata all'interno di me, quanto una crisi prodotta dall'esterno. Vi contribuirono i contatti assidui ‛che ho sempre cercato di stabilire e di mantenere coi pratici [...]; vi concorsero le esperienze fatte partecipando direttamente alla pratica professionale [...] e per parte non piccola vi influirono pure le esercitazioni pratiche di Pandette, che ho tenute per tutta la vita [...]" (tr. it., pp. 358 ss.). Egli non sembra avere il minimo sentore delle ragioni storiche sottostanti al mutamento, cioè lo sviluppo industriale tedesco, che accompagnò e seguì lo sviluppo della potenza prussiana, l'esaltazione dello Stato da parte della scienza del diritto pubblico, il primo rivelarsi dei problemi del lavoro come essenziali per la natura della società, e soprattutto il trasferimento del centro dell'interesse dagli ideali romantici alla vita economica ed al materialismo.
Lo stimolo rappresentato da questo complesso di eventi non cadeva però su un campo infecondo. Anche nella prima fase del suo pensiero, il Jhering aveva colto le implicazioni contenute nell'aspetto evoluzionistico, già presente nel Savigny e formulato dalla filosofia del Herder. L'intero titolo della sua prima opera di grande respiro, pubblicata a Lipsia fra il 1852 e il 1865, Lo spirito del diritto romano (Geirt des römischen Rechts), che in questa sua parte riecheggia non inconsapevolmente L'esprit des lois del Montesquieu, prosegue col sottotitolo ‟nelle diverse fasi della sua evoluzione" (auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung). E per quanto diversi potessero essere i concetti evoluzionistici di Herder e di Darwin, il passaggio del Jhering dal primo al secondo è in realtà segnato da uno svolgimento del suo pensiero e non da un brusco passaggio.
17. Rapporto tra il diritto e la società
Che la crisi del giurista fosse il risultato della ripercussione di una profonda crisi sociale e politica sul pensiero contemporaneo, è certo. La crisi proponeva nuovi problemi e richiedeva nuove soluzioni. E anche una nuova dimensione si era rivelata nell'apprezzamento della realtà, che si opponeva in modo rivoluzionario alla società quale era stata fino ad allora e ai suoi valori: il materialismo storico di Marx e di Engels, sorto in Marx sotto la forma di una polemica ideale con Hegel. Da Hegel, però, il Marx aveva tratto alcuni spunti essenziali, l'idea dell'importanza della società civile, che Hegel aveva concepito come uno stadio intermedio tra l'individuo e lo Stato e l'idea del fondamento economico delle classi di cui tale società era composta. Nella Ideologia tedesca, Marx affermava che ‟la forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile [...] vero focolaio e teatro di tutta la storia" (K. Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, a cura di F. Codino, Roma 1958, p. 32).
L'evidenza con cui l'esistenza delle classi sociali fu presente a Hegel e poi, sebbene con impostazione e conclusioni diametralmente diverse, in Marx, dipendeva, del resto, dall'importanza che esse avevano rivestito specialmente nella società germanica, nella quale gli Stände avevano formato tanto a lungo il tessuto connettivo di una società nella quale lo Stato aveva avuto, più tenacemente che altrove, la struttura feudale. Già in Hegel, del resto, in una certa dipendenza dal passato ma anche con una previsione del futuro, le classi erano fondate sull'attività economica e l'economia vi aveva assunto un'importanza che prima non aveva avuto. Hegel aveva mantenuto alla proprietà l'importanza che già il pensiero precedente le aveva attribuito come fondamento del diritto subiettivo ed espressione di libertà. Ma egli vi aveva sovrapposto l'idea del contratto, rapporto tra uomini e non tra uomini e cose, che sembrava rappresentare il passaggio da una società agricola a una società industriale e commerciale. Il Manifesto del 1848 non si rivolge contro la proprietà, ma contro la proprietà borghese: ‟la proprietà borghese moderna è l'ultima e più perfetta espressione della produzione e dell'appropriazione dei prodotti che poggia su antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni da parte degli altri" (ibid., p. 148). Contro il rimprovero rivolto ai comunisti di voler abolire la proprietà conquistata personalmente, frutto del lavoro diretto e personale, ‟la proprietà che costituirebbe il fondamento di ogni libertà, attività e autonomia personale", Marx ed Engels rispondono che tale tipo di proprietà è già stata di fatto abolita dallo sviluppo dell'industria. La proprietà è, per questi due autori, in realtà soltanto la proprietà borghese, cioè il diritto è soltanto il diritto borghese: ‟Le vostre idee stesse sono prodotti dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, come il vostro diritto è soltanto la volontà della vostra classe elevata a legge [...]" (ibid., p. 152).
Ma il capovolgimento essenziale che il pensiero di Marx aveva operato nei confronti del precedente e specialmente di quello di Hegel che era a esso il più polemicamente vicino, riguardava l'essenza stessa del pensiero e dei suoi frutti, da cui dipendevano tutte le conseguenze ideologiche e giuridiche derivate dai due sistemi. Per Hegel l'idea domina sovrana in un mondo di libertà; per Marx le idee dipendono dalle condizioni economiche. Così l'idea del diritto si innalza per il primo fino alla sfera dell'etica, per il secondo è di volta in volta un prodotto storico di una situazione economica; per il primo lo Stato è lo Stato di diritto che trascende nello Stato etico, per il secondo è lo Stato borghese, che deve essere sostituito dalla dittatura del proletariato. Non è questo il luogo di esaminare a fondo quelle due diverse filosofie, né di vedere fino a che punto quella di Hegel fosse astratta, o quella di Marx concreta, rimanendo sempre anche in questa ultima un'aspirazione etica non propriamente opposta a certe formulazioni del giusnaturalismo, per quanto il giusnaturalismo fosse stato ritenuto da Marx una giustificazione delle classi dominanti per il mantenimento dello status quo; né, in sostanza, poiché questo è il vero nodo della questione, di stabilire se la legge di gravitazione universale di Newton o l'equazione di Einstein siano l'espressione di una condizione economica. Ciò che qui importa è di notare come, nel pensiero tedesco, dal conservatorismo di Novalis e di F. Schlegel, o addirittura dal medievalismo romantico di Haller, verso il quale Hegel stesso aveva espresso il suo disprezzo, si fosse passati per tramite appunto di Hegel a una nuova concezione della società e del diritto, all'idea di uno Stato costituzionale moderno, teorizzato da Gerber e poi da Laband e Jellinek, e a quella di un diritto non più fondato sul puro ‛costruzionismo' ma su una misura della vita reale; che fu appunto il prodotto del Jhering della seconda maniera.
Jhering non ebbe simpatia per il comunismo; nè poteva averne, perché avrebbe altrimenti dovuto essere non un giurista, ma un ideologo. La misura del divario tra il suo pensiero e quello di Marx, che sono tuttavia entrambi il frutto del travaglio di un'epoca, è data dalla conferenza che il Jhering tenne nel 1872 a Vienna, poi divenuta una delle sue opere più celebri, Der Kampf um's Recht. L'idea centrale è che ‟il concetto del diritto è puramente pratico, cioè un concetto non puramente speculativo, ma tendente a uno scopo" e che il diritto, e qui si intende il diritto individuale, è la lotta contro la violenza del diritto e per la realizzazione della pace sociale. Non v'era in lui alcuna presa di posizione che richiamasse l'ideologia di Marx, di cui egli era contemporaneo, e al contrario l'istituto della proprietà privata era da lui ritenuto eterno: ‟La proprietà privata - egli scriveva in un passo della sua opera maggiore del secondo periodo, Der Zweck im Recht (1877) - e il diritto ereditario esisteranno sempre e ritengo assolutamente pazzesche le idee comunistiche e socialistiche miranti alla loro eliminazione" (v. Jhering, 1877-1883; tr. it., p. 373). Il grande romanista L. Mitteis, che non ebbe simpatia per Jhering e che si compiaceva di scherzare sul doppio senso che in tedesco, come del resto in italiano, può attribuirsi alla parola Geist, disse che le idee di Jhering avrebbero fatto un'ottima figura duecento anni prima, ma non nell'epoca di Spencer e di Marx. Ma questo giudizio è ingiusto e ciò è dimostrato dall'immensa influenza che le teorie di Jhering esercitarono sulla dottrina giuridica della seconda metà del sec. XIX e della prima metà del nostro. Fu pur sempre un fatto molto importante che nella scienza giuridica all'ideale di una scienza matematica, costruttrice di concetti senza alcuna preoccupazione della realtà, si venisse sostituendo un'altra visione, che attribuiva al diritto uno scopo, e uno scopo che doveva essere identificato nella società e nei suoi bisogni.
Come un ‟sistema dell'ordinamento sociale" Jhering definiva l'opera sua nella prefazione al secondo volume di Der Zweck Im Recht. La società è quindi al centro del suo sistema, la società che si pone prima del diritto e non, come per lo Stammler, dopo di esso. È la società che crea il diritto, perché sono i bisogni sociali, cioè gli interessi e gli scopi concreti, che creano il diritto, in un'interpretazione della storia che denuncia tutta la sua derivazione dal positivismo filosofico del secolo scorso. La stessa idea dello Stato, del resto, che nel Jhering si presenta come Stato moderno, con i suoi scopi sempre più complessi e sempre più orientati verso l'economia, dà la misura di quanto egli si fosse allontanato dalla visione astratta della ‛giurisprudenza dei concetti', alla quale contrapponeva ora una ‛giurisprudenza degli interessi'. La nazione come espressione della società era stata dunque definitivamente sostituita dalla società in quanto tale e dallo Stato, nel quale la società trovava la sua organizzazione giuridica. Nella prefazione a Der Zweck Im Recht il Jhering affermava: ‟Un unico pensiero costituisce la base di quest'opera: lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica, che non debba la sua origine a uno scopo, cioè a un motivo pratico" (ibid., p. 6). E proseguendo egli affermava che ‟i limiti entro cui la filosofia si trovava rinchiusa ai tempi di Hegel, il bando decretato contro colui che, senz'essere passato attraverso quella scuola, osava pronunciar parola su questioni filosofiche; il sovrano disprezzo con cui il filosofo della scuola hegeliana guardava l'uomo della scienza positiva, hanno fortunatamente ceduto il passo a un altro ordine d'idee" (ibid., p. 7). Per quanto lontano il suo pensiero potesse essere da quello del Marx, almeno una cosa li accomunava, la reazione a Hegel, cioè la reazione a un mondo intellettuale di cui Marx aveva avuto nozione diretta dalle lezioni berlinesi dell'allievo di Hegel, il Gans; ma anche un'altra cosa li accomunava, e cioè la polemica, che li avvicinava a Hegel, contro la Scuola storica.
Lontano ormai da ogni inclinazione verso l'astrazione, lo Zweck Im Recht si apre con questa enunciazione, che illustra meglio di qualsiasi altro argomento l'influsso del pensiero contemporaneo sulla nuova teoria: ‟Secondo il principio di ragion sufficiente, nel mondo nulla avviene da sé (causa sui) ma tutto ciò che accade [...] è la conseguenza di un evento antecedente e diverso, senza il quale essa non avrebbe potuto verificarsi. A questo fatto, postulato dal nostro pensiero e comprovato dall'esperienza, diamo, com'è noto, il nome di legge di causalità. Questa legge esiste anche per la volontà [...]; il concepire la libertà della volontà come se la volontà potesse porsi spontaneamente in movimento, senza una qualche causa efficiente, è una trovata degna del barone di Münchhausen [...]. Il principio di ragion sufficiente, quindi, è necessario tanto per la volontà quanto per la natura..." (ibid., p. 17). La causa è per la volontà lo scopo da conseguire, e lo scopo è la rappresentazione di un evento futuro che la volontà pensa di realizzare e che è mosso da un bisogno che si presenta come autodeterminazione. Ma per l'uomo v'è anche una spinta psicologica che si chiama egoismo e che si fonda sull'interesse. ‟L'orgamzzazione dello scopo raggiunge il suo punto culminante nello Stato (...]. L'organizzazione dello scopo nello Stato è caratterizzata da una vasta utilizzazione del diritto" (ibid., p. 45); né questo deve far dichiarare che la molla dell'egoismo è superflua: ‟poiché il diritto stesso [...] è però costretto a fare appello all'interesse, cioè alla libera azione secondo la propria scelta" (ibid.). In questo ragionamento del Jhering si avverte l'influsso della filosofia dello Schopenhauer, del quale Jhering cita una proposizione contenuta in Die beiden Grundprobleme der Ethik (‟Una volontà senza interesse è una volontà senza motivo, cioè un effetto senza causa") nel capitolo quarto, dove critica la filosofia kantiana, il cui imperativo categorico, contenuto nella Metafisica dei costumi e nella Critica della ragion pratica, presupponeva che la volontà fosse mossa soltanto dal volere in sé, senza tener conto dell'effetto e secondo il quale perciò ‟un semplice concetto deve spingere l'uomo all'agire": ‟come se ciò fosse possibile" commenta Jhering; ‟sperare di muovere la volontà umana per mezzo dell'imperativo categorico è come sperare di muovere un carro per mezzo di una lezione sulla teoria del movimento" (ibid., p. 50).
A questa visione della volontà e dei suoi scopi si coordina il concetto di società, che è, dice il Jhering nel capitolo sesto, un concetto moderno giunto dalla Francia: ‟il fatto - egli osserva ancora - che tutti facciano uso del termine, mentre non si è d'accordo sulla sua definizione concettuale, dimostra che, alla base di tale concetto, deve trovarsi un'idea, di cui il pensiero odierno ha necessità assoluta, ma che soltanto ora sta faticosamente giungendo alla propria piena chiarezza concettuale" (ibid., p. 74). La società in senso giuridico è, secondo il Jhering, l'unione di più persone, riunite al fine di perseguire uno scopo comune, cosicché ognuna di esse, agendo per realizzare lo scopo sociale, agisce al tempo stesso per la realizzazione del proprio. La società in senso giuridico presuppone un contratto che la costituisca e la regoli, cioè il contratto sociale. ‟Ma l'elemento sostanziale della società - egli aggiungeva - si presenta ripetutamente nella vita anche senza questa forma [...]. Pertanto la società va definita come la concreta organizzazione della vita a vantaggio e per mezzo di altri e [...] come la forma indispensabile della vita a proprio vantaggio; insomma, essa è la forma della vita umana tout court" (ibid., p. 75). Ed egli conclude queste sue considerazioni sulla società affermando che il concetto della società coincide con quello dello Stato, ma solo in parte, cioè solo in quanto il raggiungimento dello scopo sociale abbia necessità della coazione esterna.
La teoria dello scopo, o degli interessi, di Jhering ha avuto sul pensiero giuridico una straordinaria influenza, ed è per questo che qui si sono riportati alcuni brani significativi delle sue opere. Ancora oggi, come durante la seconda metà del secolo scorso e la prima del XX, l'affermazione teorica che il diritto si fonda sulla realtà economica e sui bisogni e gli impulsi fondamentali dell'uomo, che esso è la proiezione di una situazione preesistente nella vita e non una costruzione intellettuale, ha scavato tracce profonde. A essa deve non poco anche la fortuna della scienza del diritto romano e l'alta opinione che di quel diritto si è nutrita fino a oggi. Il pensiero dei secc. XVII e XVIII, che aveva veduto nel diritto una natura sistematica esprimibile mediante un pensiero matematico, aveva considerato variamente il diritto romano, ora respingendolo in nome di un diritto della ragione, ora accettandone la sostanza come ratio scripta. Ma nel complesso, il secolo dei lumi vide una critica fondamentale verso la civiltà classica e verso il diritto romano, che aveva liberato il pensiero da un'imitazione millenaria e che fu considerata come una conquista di libertà dalle pastoie della tradizione. L'esaltazione del diritto romano, di cui pure la codificazione fece un uso critico, si dovette al pensiero tedesco, soprattutto alla pandettistica e a Jhering. Con Jhering il diritto romano, e soprattutto la sua giurisprudenza, ebbero una sorta di ringiovanimento, perché apparve in tutta la sua importanza il carattere di quell'antico pensiero giuridico, rivolto alla considerazione delle condizioni reali e non avviluppato nelle ragnatele di una logica avulsa dalla realtà.
L'immensa ripercussione della teoria di Jhering sulle dottrine giuridiche europee e americane si deve senza dubbio al fatto che l'aver posto a fondamento del diritto il concetto d'interesse corrispondeva alle necessità e alle aspirazioni di un'epoca che aveva visto sorgere la dottrina marxista e nella quale i problemi economici avevano assunto un'importanza prevalente. Che in primo luogo la ‛giurisprudenza degli interessi' abbia fatto breccia in Germania si spiega dunque non soltanto per il fatto che in quel paese essa apparve, ma anche per coincidenze profonde, che furono le stesse a dare i natali alle teorie di Marx, di Engels e anche di Lassalle. Il pensiero filosofico positivista, di origine comtiana, offriva al desiderio di concretezza che era subentrato nel pensiero giuridico alle speculazioni astratte della ‛giurisprudenza dei concetti' un fondamento scientifico, che aveva il suo appoggio essenziale nel concetto di ‛causa'.
Questa ispirazione filosofico-positivistica, che aveva già corrisposto alla conversione di Jhering, continuò a fruttificare e diede origine a sviluppi ulteriori, che si addentrano nel Novecento e che prendono nome specialmente da Heck, da Stoll e da Müller-Erzbach. Anzi, della ‛giurisprudenza degli interessi' il Heck, al quale si deve anche la denominazione di questo indirizzo, si può considerare il vero padre, per averne svolto coerentemente le implicazioni teoriche e averlo portato alla sua più matura formulazione, nonostante il riconoscimento che egli apertamente ha fatto della derivazione jheringhiana della sua dottrina. Ma che gli sviluppi e la fortuna di questa teoria dipendessero dalla sua consonanza con i tempi, è già indicato dal fatto che ancora una volta, ma con la coscienza che il diritto è la proiezione di interessi reali e che l'influsso del diritto sulla vita viene rivelato nei giudizi, il problema dell'interpretazione è posto al centro della costruzione teorica. Che ancora una volta il problema delle ‛lacune' dell'ordinamento vi avesse del resto tanta importanza, dimostra non soltanto che, a partire almeno dal Windscheid, la scienza giuridica era stata sensibile alla pressione delle forze nuove che andavano muovendo la società moderna, ma che ciò diede coscienza della tendenziale necessità che l'ordinamento giuridico ha di svolgersi all'unisono con lo sviluppo dei rapporti della vita. Se, astraendo dalle opposizioni polemiche e dai punti di vista fondamentalmente diversi, ci si sollevi perciò a una considerazione complessiva della scienza giuridica a partire dal sec. XIX per giungere fino a noi, non si può non rilevare che la necessità dello sviluppo dell'ordinamento è stato il centro di ogni preoccupazione e di ogni espressione concettuale. La Begriffsjurisprudenz, non meno della futura ‛giurisprudenza degli interessi', aveva dimostrato di essere sensibile a tale necessità, che essa aveva risolto con la ‛generazione dei concetti', con la possibilità che all'ordinamento fosse infuso uno sviluppo logico illimitato. La teoria che ha i suoi inizi col Jhering ha sostituito a quella generazione concettuale il suggerimento delle condizioni effettive della vita. Il compito della scienza giuridica, ha scritto Ph. Heck in Begriffsbildung und Interessenjurisprudenz, pubblicato nel 1932, è ‟di facilitare al giudice il suo ufficio, in quanto prepara la decisione adeguata mediante l'indagine della legge e delle condizioni della vita". In questo modo nelle ‟condizioni della vita" viene identificata ogni origine del diritto, perché la legge stessa è l'espressione di quelle condizioni e il giudice si trova perciò, quando interpreta la legge, a interpretare i bisogni effettivi che la vita propone. Come posizione scientifica la ‛giurisprudenza degli interessi' si contrappone perciò non soltanto alla ‛giurisprudenza dei concetti', perché lo sviluppo del diritto era concepito da quest'ultima come puramente teorico e concettuale, mentre la considerazione degli interessi e non dei concetti deve costituire un prius, ma soprattutto alla teoria del Kelsen, nella quale la costruzione di un sistema immobile è il fine della scienza del diritto.
La concatenazione causale, che è uno dei concetti fondamentali di Heck, doveva però portare la dottrina dell'interpretazione su posizioni ben diverse da quelle della dottrina dell'interpretazione obiettiva, per quanto in essa, come s'è visto, non mancassero le aperture verso la considerazione dello scopo delle norme, e, paradossalmente, doveva in parte ricondurla all'interpretazione soggettiva di Windscheid. Poiché il legislatore, nell'emanare la legge, aveva obbedito alla pressione di interessi che costituivano la causa del disposto legislativo e al di sotto di quel disposto si erano mosse successive fasi di quella situazione obiettiva, v'era una concatenazione di eventi storici, anch'essi tenuti insieme da una concatenazione causale, secondo la visione tipica del positivismo filosofico; e perciò la considerazione della volontà del legislatore rimaneva indispensabile per l'interprete. La considerazione della volontà del legislatore, di singole leggi o di gruppi di norme, non implica per Heck la legittimità del procedimento tipico della ‛giurisprudenza dei concetti', secondo il quale sarebbe stato possibile dedurre da concetti giuridici generali, frutto di astrazione operata sulle norme positive, nuovi concetti e quindi nuove norme. Lo sviluppo dell'ordinamento secondo questo canone non è ammissibile per Heck. L'avvertire l'esistenza di lacune, che è già di per sé un'operazione critica e valutativa, che viene compiuta sulle norme esistenti e in base alla considerazione di interessi concreti, implica da parte del giudice un apprezzamento che egli deve compiere sul fondamento della realtà, ma entro i limiti dei criteri legislativi, nel mentre una valutazione autonoma deve essere considerata come eccezionale.
Si è giustamente richiamata l'attenzione sull'inconciliabilità di questi due criteri dell'interesse e del giudizio di valore. Se in questo modo Heck ha negato validità alla pretesa dell'inesistenza delle lacune nell'ordinamento, egli non ha potuto respingere l'idea, in sé contraddittoria con le premesse positivistiche, che l'interesse stesso sia non la causa meccanica della legge ma l'oggetto di un procedimento valutativo da parte del legislatore, il quale tende con ciò alla realizzazione di un ideale sociale, e anche del giudice, che deve integrare i comandi legislativi appunto sulla scorta di giudizi di valore. Come dice anche Stoll, ogni massima giuridica contiene ‟mediatamente un giudizio di valore sui conflitti di interessi che stanno a base di essa" e le idee di finalità generali e astratte, come sicurezza del diritto, equità ecc. sono nient'altro che interessi, cioè interessi ideali, che il legislatore valuta al momento della formazione delle norme" (Festgabe für Heck, Rümelin und A.B. Schmidt, Tübingen 1931, p. 67).
Questa duplicità non univoca di criteri che costituirebbero l'essenza delle norme giuridiche e il fondamento per la loro interpretazione toglie alla ‛giurisprudenza degli interessi' una parte di quell'affinità con la dottrina di Marx che sarebbe altrimenti sostenibile e che è stata del resto rilevata dalla scienza giuridica sovietica. La conoscenza delle opere di Jhering in Russia risaliva all'epoca zarista e continuò nel periodo di Lenin nello Stučka (1865-1932) e nel Pašukanis (1871-1937 circa), in giuristi cioè che consideravano fondamento del diritto la classe e della scienza del diritto l'interesse di classe, o semplicemente l'economia, e le cui teorie furono poi respinte e condannate nel periodo staliniano, quando il concetto di Stato riprese il sopravvento. E in effetti, il porre l'interesse a fondamento del diritto aveva un significato analogo a quello di considerare il diritto come una ‛sovrastruttura', non autonomo quindi, ma determinato da un substrato che avrebbe potuto facilmente ridursi a quello economico, appunto come nel Pašukanis. Ma altre implicazioni sono ancora identificabili nella ‛giurisprudenza degli interessi', che poi dovevano esprimersi e svilupparsi in altre teorie, in qualche modo ricollegabili a quella o per influssi diretti o per partecipazione spontanea a una problematica che ormai era nello spirito dei tempi. Vorremmo a questo proposito indicare un collegamento con quanto si dirà poi circa il realismo giuridico del Duguit, perché la prima apertura verso una considerazione ‛realistica' del diritto era stata appunto suggerita dal collegamento suo con gli interessi reali della società, che lo poneva in attrito con le costruzioni astrattamente intellettualistiche, e anche intorno alla teoria di Santi Romano, che a proposito della ‛giurisprudenza degli interessi' è richiamata alla mente dal pensiero che si trova in Heck, che le relazioni della vita formino già di per sé un ‛sistema interno', al quale si sovrapporrebbe il sistema teorico e ordinatore.
18. Stato e società
Il riconoscimento del valore della società, che assunse il valore della precedenza e preminenza delle condizioni effettive della vita sociale nei confronti dello Stato, visto ancora come produttore di norme dipendenti da una volontà politica e quindi in certo senso arbitraria se non all'unisono con la società, è l'elemento che accomuna le diverse teorie che tra la fine del sec. XIX e la prima metà del XX si ispirarono alla filosofia positiva. Il diritto diviene cioè il risultato degli interessi, degli scopi, di determinate situazioni storiche, espressione di formazioni spontanee nella società, concepite come indipendenti dallo Stato. Questa scoperta della relazione tra diritto e società è una scoperta moderna, che comincia nel sec. XVIII a rivelare i propri contorni e che poi, a poco a poco, ha trovato ragione di svilupparsi nelle condizioni effettuali della vita moderna. Così il diritto diviene per una parte notevolissima del pensiero giuridico quella che Marx chiamò ‛sovrastruttura', anche se questa specifica definizione non si trova nella scienza giuridica. Ma una scienza giuridica che sia posta tra il diritto e la società che lo produce, è una scienza che deve interpretare prima del diritto la società, il suo modo di essere e di evolversi. È cioè una scienza che non può sentirsi legata alla lettera della legge, almeno nei limiti nei quali essa vi era sottoposta dalle teorie rigidamente statualistiche. Accanto all'interpretazione oggettiva di Wach, di Binding e di Kohler, accanto alla ‛giurisprudenza degli interessi' di Jhering e di Heck, si affacciò negli anni dell'ultimo Ottocento un'altra teoria, che, se anche non era destinata ad avere l'accoglimento di quella del Jhering, è tuttavia sintomatica per l'indirizzo assunto da una parte cospicua del pensiero giuridico moderno. La nuova tesi ebbe carattere nettamente contrario al diritto dello Stato e fu anticipata da un'opera di O. Bülow, Gesetz und Richteramt (Leipzig 1885). L'interesse di questa nuova visione del problema del diritto sta nel fatto di aver sottolineato, con un'energia ancora non conosciuta, il peso della funzione giudicante nella creazione del diritto. Abbiamo già visto che il problema dell'interpretazione aveva assunto nelle altre teorie che abbiamo precedentemente ricordato un'importanza centrale. Ma in nessuna di esse era stato così apertamente riconosciuto che la sentenza del giudice ha una funzione creatrice di diritto, e che il diritto è soltanto ‛una preparazione' di fronte a essa. Il Bülow dice soltanto che il giudice è libero di fronte alla parola della legge, ma non specifica in che modo debba attuarsi questa libertà di fronte alla varietà delle interpretazioni possibili. L'esigenza di una precisazione fu invece sentita da E. Ehrlich, al quale si deve anche il nome preso da questo indirizzo scientifico, Freirechtsbewegung (movimento del diritto libero), e che è considerato il fondatore della sociologia giuridica. Nella conferenza da lui tenuta nel 1903 (Freie Rechtsfindung und freie Rechtswissenschaft) egli tornava a sottolineare che ogni interpretazione che il giudice faccia di una norma legislativa comprende necessariamente una sua partecipazione, attraverso la quale la norma assume un significato specifico che manca nella sua astratta formulazione. Il problema dei limiti dell'interpretazione, o della creatività del giudice, era naturalmente il punto dolente ed essenziale di questa impostazione. Tuttavia nell'Ehrlich la tendenza a determinare i confini della libertà nel giudicare sono più evidenti che non nel Bülow, e sono o presupposti o indicati nel comportamento degli uomini nella società. Soltanto nella società il diritto vive realmente e soltanto la società corrisponde a un ordinamento che si forma nella convivenza e che è anteriore alle leggi dello Stato. La famiglia, la corporazione, il matrimonio, il possesso, il contratto, la successione, egli affermava ancora nel 1922, non sono stati introdotti mediante norme giuridiche. Sono, in sostanza, dei ‛fatti' sociali, dai quali piuttosto le norme derivano; sono ‛istituti', che costituiscono un che di primario nei confronti della disciplina legislativa. L'affermazione era di estrema importanza e assume un sapore nuovo, nonostante che anche altri (il Thon specialmente) avessero già affermato che il diritto può essere prodotto da qualsiasi gruppo sociale. L'importanza attribuita alla società dava infatti un carattere di novità alla teoria, che in sostanza non era stata propriamente ignota neppure ad alcuni dei rappresentanti del formalismo giuridico statualistico. In realtà, il riconoscimento della creatività sociale del diritto era per così dire endemico nella cultura filosofica e giuridica tedesca; e basti ricordare l'importanza data dalla Scuola storica alla consuetudine e l'affermazione famosa di Hegel, secondo il quale le leggi, per il fatto di essere formulate, non cessano perciò di essere la consuetudine di un popolo. Ma le radici prime, a parte il ricorso ad Aristotele, si trovano nel Montesquieu, che in contrasto con le teorie dell'illuminismo, aveva trovato il fondamento delle leggi non nella ragione astratta ma in un ‟rapporto di convenienza", insito nella ‟natura delle cose". Egli aveva già affermato che la società è un fatto naturale e organico perché storico, e le leggi giuridiche hanno per fondamento delle altre leggi naturali, che sono costanti e fondamentali. Questo è il loro ‟spirito". Esse sono dei ‟rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose", sono cioè il modo di essere della realtà secondo la sua formazione storica. Un'interpretazione in parte diversa della natura del ‛diritto libero' fu poi espressa da H. Kantorowicz (che doveva diventare un'illustrazione anche della storiografia giuridica medievalistica), in uno scritto pubblicato nel 1906 col titolo: Der Kampf um die Rechtswissenschaft (La lotta per la scienza del diritto) e con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius. Questo manifesto appariva dunque prima che l'Ehrlich pubblicasse la sua Soziologie des Rechts, che è del 1913, e prima che Max Weber stesso desse alle stampe le sue opere sociologiche. E, pur ponendosi nella scia di un pensiero che aveva già aperto un solco nella dottrina giuridica tedesca e che avrebbe avuto poi per seguaci numerosi nomi illustri (il Rumpf, lo Sternberg, il Fuchs e anche il Radbruch), vi impresse un'orma personale, per aver concepito il diritto libero come il prodotto dell'opinione pubblica, delle sentenze giudiziali e della dottrina, oltreché, secondo l'indirizzo generale, come la culla del diritto statale.
19. Il movimento del diritto libero
In ciò che si chiama, generalizzando, ‛movimento del diritto libero', si era dunque andata rivelando e determinando una nuova dimensione del diritto, che si usa chiamare la dimensione sociologica. Ciò che la lega all'idea della libera creazione del diritto da parte del giudice è l'esigenza di svincolare il diritto dallo Stato, per trovare più liberamente il suggerimento della norma da applicare al caso concreto nell'interpretazione dei fatti sociali. Da un lato quindi il diritto si soggettivizza, perché viene lasciato alla libera decisione del giudice, per quanto poi la determinazione dei limiti di tale decisione, che fu un'esigenza universalmente sentita dai seguaci di tale tendenza, rimanga piuttosto oscura. Ma dall'altro lato il diritto si oggettivizza, perché il giudice, nella sua funzione qualificatrice e creatrice, in quanto determinante di una norma da applicare al caso, segue il fatto sociale, che egli deve intendere e trasferire in proposizioni normative. V'erano in questa concezione suggerimenti che provenivano dalla cultura, perché l'esempio della giurisprudenza romana, nell'attività della quale i giureconsulti avevano avuto tra i loro compiti quello essenziale di definire in proposizioni corrispondenti allo stadio più avanzato di formazione dello Stato quanto essi osservavano nel mos maiorum, deve aver avuto il suo peso. Anche l'idea che una società esistesse, con i suoi rapporti e le sue istituzioni, e che lo Stato si sia sovrapposto a essa, emanando una serie di norme decisionali sul fondamento delle istituzioni sociali, non può essere sorta senza un certo riferimento alla storia giuridica romana, che la scienza storica del diritto aveva studiato tanto a fondo a cominciare dal secolo scorso. Ma ciò che anche va notato in questa tendenza è il ritorno in nuova forma di una concezione per così dire obiettiva del diritto, che sembra periodicamente riaffacciarsi nello spirito dell'uomo e alternarsi con l'opposto atteggiamento, di un diritto invece prodotto della volontà e del ragionamento, che si sollevano dalle condizioni della vita per dominarle dall'alto. Una considerazione, questa del diritto come ordine obiettivo, che si era già affacciata nella Grecia antica, per opera della filosofia milesia e poi della sofistica, che avevano preceduto la speculazione socratico-platonica e che avevano dato luogo a un obiettivismo a sfondo naturalistico-politico, dapprima espressione dell'idea che il diritto corrispondente a un'ordine universale, il cosmos, riproducente l'ordine della polis, fosse un ordine dato e non costruito dall'uomo, nel quale non v'era posto per una valutazione del diritto subiettivo. Poi quest'ordine aveva trovato un paragone e un'ispirazione nell'immensità dell'impero persiano, e l'uomo, l'uomo in quanto tale, era risorto di fronte al cosmos e aveva cominciato ad accampare i suoi diritti. La grande scoperta fu l'esistenza di una società di uomini diversa da quella riunita nello Stato e che nello Stato si identificava e si esauriva completamente, e fu conseguente all'esperienza che il mondo greco fece di un'umanità più vasta, risultato delle guerre persiane. Su questa esperienza si svilupperà l'idea di un altro ordine obiettivo, comprendente tutti gli animali (‟quod natura omnia animalia docuit") col quale il giureconsulto Ulpiano riecheggiava un pensiero del Timeo che gli era giunto per tramite di Calcidio, filtrato poi, attraverso Isidoro di Siviglia, nella dottrina civilistica e soprattutto canonistica del periodo bolognese, unendosi ad altre visioni di quello stesso diritto, e soprattutto a quella che lo faceva riservato agli uomini.
L'eclettismo col quale le varie interpretazioni del diritto naturale sono espresse nei secc. XII e XIII ne fece un fenomeno di recezione del pensiero antico che rimase in sospeso tra le varie versioni, finché lo stesso pensiero medievale non risolse il problema di un ‛ordine dato' nell'interpretazione razionalistica del diritto naturale. In essa l'idea del diritto subiettivo rimase nel sottofondo, né vi fu propriamente una contrapposizione tra l'ordine naturale e il potere politico, perché questo potere conservava qualcosa della visione greca di un'identità, o di un'imitazione dell'uno dall'altro, o di un accordo necessario. Fu soltanto a poco a poco, e poi apertamente nel sec. XVII, che il diritto naturale, in seguito alle lotte di religione e come espressione del protestantesimo, spezzò quell'accordo armonico. Nel diritto naturale si vide un diritto corrispondente alla ragione, e per ciò i diritti subiettivi vi apparvero in primo piano, non più dipendenti da un ordine dato, ma manifestazione di un ordine creato e sostanza di esso.
20. La sociologia giuridica
Questa costruzione intellettuale arrivò fino al sec. XIX e non fu estranea neppure alla Scuola storica. La sua eclissi vera, cioè una costruzione della dottrina giuridica nella quale non si può dire che un ordine giuridico trascendente avesse parte alcuna, coincise con lo statualismo e con la ‛giurisprudenza dei concetti'. Ma già coll'influsso del positivismo filosofico sulla scienza giuridica quel tentativo di rendere il diritto pienamente autonomo era destinato a tramontare. Nella sociologia di A. Comte (1798-1857) il diritto ridiviene un fenomeno determinato dalle forze sociali e da quel momento si verifica nella scienza giuridica un ritorno alla considerazione di un elemento obiettivo e pregiuridico, in base al quale il diritto stesso doveva ricevere la sua valutazione. Da allora una corrente di pensiero filosofico, giuridico e paragiuridico, invase la cultura europea ed esercitò un influsso determinante sulle dottrine giuridiche in senso stretto. Le linee generali di questo pensiero sociologico e positivistico si svolsero come opposizione al diritto naturale, coincidendo in questo col pensiero giuridico detto anch'esso ‛positivo'. Ma sarebbe inesatto sostenere che questa opposizione si manifestasse sempre, come non corrisponderebbe alla realtà definire quella corrente di pensiero come costantemente contraria alla valutazione dei diritti subiettivi. In realtà, la scoperta fu, ancora una volta, quella di un ordine dato, di un ordine obiettivo e pregiuridico, sia che tale termine si intendesse come equivalente a prestatuale, oppure come un fatto costituente la causa, il fondamento non giuridico del diritto; però di un ordine dato costituito in primo luogo da una società umana dominata da leggi economiche, evoluzionistiche, fisiologiche e psicologiche, che è veramente il nuovo di fronte all'idea greca e medievale dell'ordine obiettivo. Evoluzionista fu il Sumner Maine, per il quale peraltro, accanto allo Stato primitivo, dove l'individuo subisce le norme del gruppo, v'è la condizione delle società progressive, nelle quali ai singoli membri è riconosciuta una personalità e quindi un diritto subiettivo. Evoluzionisti furono il Post (1839-1895) e il Fouillé (1838-1912), ma quest'ultimo vide nell'evoluzione storica il divenire della libertà. E il Durkheim (1858-1917), pur essendo stato allievo del Comte, enunciò una sociologia del diritto che dava a questo elemento, per lui essenziale alla vita sociale, un valore che il maestro non gli aveva riconosciuto. Finalmente H. Spencer (1820-1903), che fu contemporaneo del Jhering, applicò all'etica quell'evoluzionismo che il giurista tedesco volle applicare al diritto, concependo la morale come una necessità biologica e lo svolgimento della società, analogamente al Sumner Maine e al Marx, come conchiuso da uno stadio finale e perfetto, e sostenne che i diritti soggettivi non sono dettati dalle leggi ma sono kantianamente derivati dalla legge della libertà.
Non è difficile scorgere in tutte queste dottrine, che qui si possono soltanto sommariamente accennare, delle nostalgie giusnaturalistiche e delle contraddizioni patenti, come quella che sogna di uno stadio perfetto e definitivo dell'umanità, non meno inconciliabile con lo storicismo del Marx che con l'evoluzionismo dei positivisti. Ma queste contraddizioni avevano la loro ragione, il bisogno dello stadio finale e felice corrispondendo a un'aspirazione di certezza e i compromessi col giusnaturalismo alla difficoltà, che sempre si ripresenta, di stabilire un passaggio dalle condizioni materiali della vita a un giudizio di valore, difficilmente separabile dall'idea del diritto.
Ciò non toglie che alle due posizioni tradizionali, che avevano diviso la scienza giuridica per secoli, quella volontaristica e quella razionalistica, la prima identificante il diritto in una norma espressione di volontà e la seconda in un giudizio, se ne fosse affiancata ora una terza, profondamente diversa da quelle due, cioè una concezione sociologica. La società come ‛dato', come ‛fatto' generante il diritto, ecco la scoperta e la novità di un'epoca che doveva tutta ruotare intorno alla considerazione non dell'uomo singolo, dell'uomo come cittadino, come suddito o semplicemente come uomo, ma dell'uomo riunito in gruppi sociali e prestatuali. Non sappiamo quanto ci si sia resi conto che l'interesse mostrato dalla scienza storico-giuridica del secolo scorso, dal Sumner Maine al Post, dal Leist ai romanisti della generazione immediatamente precedente all'attuale, tra i quali sotto questo rispetto primeggia P. Bonfante, aveva come premessa questa ricerca nella storia della conferma di una tesi che in primo luogo non era storica ma teorica.
Nella fondazione di questa sociologia del diritto un posto preminente spetta, in ogni caso, all'Ehrlich, al quale si sono richiamati o dal quale comunque derivano tutti coloro che hanno dedotto le loro teorie dalla ricerca di un diritto concepito come anteriore alle norme. In che modo possa essere concepito il diritto come anteriore alla sua espressione normativa è peraltro un punto che è rimasto oscuro. L'Ehrlich sostenne che esistono, prima delle norme di ‟decisione", che sono quelle dello Stato, delle norme di ‟comportamento", le ‟vere norme giuridiche", risultanti dai fatti che danno origine al diritto. In sostanza, prima delle norme che disciplinano i rapporti, vi sono i rapporti, le ‛istituzioni giuridiche', che sono fatti anteriori alla formulazione delle norme, che sono nei loro confronti un posterius e non un prius. Ma in questo modo di rappresentarsi il diritto nel suo aspetto primo e fondamentale, come il fatto che precede la norma, c'è qualcosa di non risolto e insomma l'aspetto debole della dottrina. Che il diritto non abbia come sua caratteristica la coercizione, che è un altro aspetto di questo modo di rappresentarselo, che il diritto subiettivo passi in seconda linea di fronte all'aspetto essenzialmente obiettivo, si comprende. Ma in che cosa si distingue l'‛istituzione', di cui del resto aveva già parlato il Savigny, dalla norma consuetudinaria? Il fatto della coesione del gruppo, dell'‛organizzazione', per esprimerci con il termine adottato dal Romano, la cui dottrina deriva sostanzialmente dall'Ehrlich, in che senso è anteriore alla norma, se per norma non s'intenda esclusivamente la norma dello Stato, il che sarebbe poi un'indebita restrizione del significato di quel termine? La verità è che l'esistenza della norma, e non soltanto dell'‛istituzione' o dell'‛organizzazione', è precedente alla qualificazione che di essa fa il pensiero giuridico; o, forse, si potrebbe dir meglio che la qualificazione giuridica considera la norma come precedente al fatto tecnico della sua definizione. Se l'uomo compie volontariamente quanto gli incombe nei rapporti della vita, ciò non avviene perché egli non segua una norma, che è una norma di condotta a fondamento della quale v'è un interesse materiale o morale e che egli si rappresenta come obbligatoria e che poi potrà essere qualificata come religiosa, etica o giuridica, ma perché egli ha la possibilità di determinare la propria condotta secondo un criterio valutativo.
21. La dottrina di F. Gény
Il movimento del diritto libero, che si collega da un lato alla ‛giurisprudenza degli interessi' e dall'altro alla sociologia giuridica nel modo che abbiamo cercato di mostrare, fece breccia specialmente in Francia, dove provocò un movimento di pensiero di grande importanza. La stanchezza provocata dagli orientamenti che, nel nome della completezza dell'ordinamento giuridico dello Stato, pretendevano, sia pure con metodi diversi, di trovare in ogni caso la soluzione nelle norme codificate e che, ponendo al centro della dottrina giuridica il problema dell'interpretazione, erano divenuti l'origine di costruzioni sottili che confinavano non di rado nel virtuosismo esegetico, causò la reazione di chi ritenne che la vita reale assolvesse da quel compito, offrendo essa stessa i suggerimenti necessari. Ma quei suggerimenti furono ipostatizzati. Non furono soltanto materia di definizione giuridica e di creazione normativa da parte della dottrina giuridica e della giurisprudenza, ma, come abbiamo veduto, furono considerati essi stessi diritto, fatto istituzionale o norma. Fu in primo luogo F. Gény (1861- 1938) che si rivolse contro gli abusi dell'ermeneutica in nome di quella ‛natura delle cose' che era stata proprio in Francia oggetto di meditazione da parte del Montesquieu. Da Méthode et sources en droit privé positif, che apparve la prima volta nel 1899, a Science et technique en droit privé positif, pubblicato tra il 1914 e il 1924, il Gény costruì a sua volta una teoria che, se corrispose a quella del diritto libero, ne fu però alle origini indipendente, dimostrando che l'aspirazione alla liberazione dallo statualismo e dagli abusi della logica costruzionistica ed esegetica era diffusa per ogni dove e corrispondeva a un nuovo momento storico del pensiero giuridico. La ‛natura delle cose', un concetto della cui vaghezza egli era perfettamente cosciente, fu da lui concepita come un dato, epperò nello stesso tempo come un diritto, sottostante ai vari diritti positivi e loro naturale integrazione e fondamento. Nel 1931, d9po aver combattuto per questa tesi per oltre trent'anni, egli poteva constatare con soddisfazione che ‟il diritto contemporaneo sembra passi in maniera lenta e talvolta oscura e inconsapevole, ma continua, da uno stato di puro giuridicismo, caratterizzato dal predominio della forma e dalla sottomissione cieca ai precetti scritti, ad uno stato di ragione riflessa e di critica indipendente" (F. Gény, La notion du droit en France. Son état présent. Son avenir, in ‟Archives de philosophie du droit et de sociologie juridique", 1931, I, p. 10).
Ci si è domandati se il Gény sia stato un giusnaturalista. Ma la questione non ha, tutto sommato, una grande importanza, solo che si rilevi quanto vada al di là delle parole usate dallo stesso Gény e quali siano stati realmente il significato e l'apporto della sua teoria. Se giusnaturalismo è ogni dottrina che ponga il diritto prima dello Stato e non lo identifichi con questo, ma sostenga che vi è una pluralità di ordinamenti giuridici, il Gény fu giusnaturalista. Ma la questione diviene puramente terminologica, perché poi si dovrà avvertire che, se di giusnaturalismo si tratta, è un giusnaturalismo ben diverso da quello che conosciamo nella storia del pensiero intorno al diritto. Anche F. Ferrara, la cui dottrina aveva un'impostazione statualistica e giuridico-positivistica, definì giusnaturalista il Romano, recensendone l'Ordinamento giuridico e provocando la reazione di V. E. Orlando, che del Romano era stato il maestro e che aveva portato in Italia la scienza del diritto pubblico statualistico sorta in Germania. Ma è caratteristico che la polemica si svilupasse intorno al rimprovero mosso al Romano di volersi in qualche modo rifare al diritto naturale, che i giuristi positivisti consideravano con orrore come un passato superato per sempre.
22. La teoria dell'istituzione e il realismo giuridico
È ancora dalla posizione dell'Ehrlich che deriva la teoria di un altro giurista francese, M. Hauriou (1856-1929), il cui problema centrale fu quello dell'‛organizzazione sociale obiettiva' come situazione di diritto. Il dato primario è il gruppo sociale dotato di organi per perseguire dei fini. Questa è, secondo la terminologia già usata da altri giuristi, l'‛istituzione', nella quale rientrano lo Stato e ogni altra forma di organismo sociale.
Che questi organismi, o organizzazioni, o istituzioni, costituiscano essi stessi il diritto e non soltanto il fondamento sociale del diritto, che dunque il diritto sia in primo luogo organizzazione, e non norma, è una notazione comune al gruppo di autori che abbiamo ora considerato. Con l'Hauriou ha seguito in Francia questa via anche il Renard e in Italia il Romano, il cui Ordinamento giuridico, pubblicato per la prima volta nel 1917 e 1918, è pressoché contemporaneo alle opere dell'Hauriou (i Principes de droit public comparvero per la prima volta nel 1910, il Précis de droit constitutionnel nel 1923 e La théorie de l'institution et de la fondation nel 1925), per quanto il Romano avesse avuto nozione della tesi dell'Hauriou prima di pubblicare l'Ordinamento. Semmai una differenza tra le due dottrine può essere stabilita in questo, che l'Hauriou si propone soprattutto il problema della ‛personalità morale naturale' delle istituzioni e dei gruppi sociali, nel mentre il Romano ha presente specialmente l'obiettività dell'ordinamento giuridico come non limitata alle norme. L'ordinamento è un momento anteriore, ‛logicamente e materialmente', al suo aspetto normativo; e poiché questo ordinamento non si identifica con lo Stato, ma con ogni società organizzata, il diritto si esprime in una pluralità di ordinamenti.
Più indipendente forse dalla teoria di Ehrlich, per quanto legatissimo alle posizioni filosofiche del positivismo, è il pensiero di L. Duguit. La sua demolizione dei concetti di diritto subiettivo, di personalità dello Stato e di volontà statuale, di imperatività della legge, la sua particolare interpretazione della società come realtà che sta alla base del diritto attraverso il concetto di funzione sociale, attribuiscono alla sua dottrina un'originalità prepotente di fronte alle costruzioni dello statualismo giuridico e denunciano una sensibilità per la realtà della nostra epoca più immediata e indipendente dalle costruzioni giuridiche anteriori di quella che si esprime nelle opere, pure insigni, degli autori che appartengono, nelle linee generali del loro pensiero, allo stesso indirizzo. Quale sia stata, d'altronde, l'appassionata sua partecipazione agli eventi lo dimostra la prefazione alla seconda edizione di Le droit social, le droit individuel et la transformation de l'État, apparsa nel 1922 e riproducente le conferenze da lui tenute nel 1908 che sono quasi un riassunto del suo pensiero; una prefazione violentemente antisovietica, scritta da questo autore, così sensibile ai problemi della socialità contemporanea ma così lontano da una traduzione politica di essi in chiave marxista.
Partendo da una concezione sperimentale della scienza e quindi anche della scienza giuridica, il Duguit rigetta ogni costruzione della dottrina che non possa essere verificata nella realtà, ma sia soltanto una costruzione intellettuale. Questo ‛realismo' fu senza dubbio la sua originalità e la sua debolezza, perché è pur necessario chiedersi se sia possibile vietare alla speculazione la possibilità di qualificare la realtà attraverso concetti che la trascendono. Ma la questione non può essere posta in questi termini quando si voglia comprendere la dottrina del Duguit, perché è indubbio che ogni problema scientifico deve essere in primo luogo esaminato dal suo interno, e non già ponendosi al di fuori di esso. La premessa del Duguit stava nello sperimentalismo di marca positivistica, e questa scelta iniziale può certo essere discussa ma tuttavia deve essere presupposta se si voglia considerarne criticamente l'opera. Ciò che il Duguit combatte, con un'ispirazione del resto più o meno comune alla sociologia giuridica, è in primo luogo l'astrazione e la finzione concettuale della dottrina tradizionale; e la sua posizione ripete in questo un certo ‛germanesimo', cioè quella posizione che fu propria della scuola storica germanistica, germinata dai semi gettati dall'Hugo e dal Savigny, di cui O. von Gierke (1841-1921) fu il rappresentante più significativo e che prendeva ispirazione dal carattere connaturato al diritto germanico, che sarebbe stato, in opposizione al presunto individualismo romano, pervaso da uno spirito di concretezza e di socialità. Così Gierke non si limitava a ricercare, sotto la metafisica del concetto di ‛personalità morale', una personalità morale naturale, secondo l'indirizzo degli ‛istituzionalisti', ma negava addirittura la legittimità della finzione rappresentata dalla persona collettiva, la cui realtà sarebbe consistita esclusivamente negli individui umani che la compongono, dato che la legge non può creare ciò che nella realtà non esiste. Non solo, ma neppure il soggetto di diritto esiste, perché ciò che ha rilievo è soltanto una finalità che corrisponda alla solidarietà sociale. Questo è il punto centrale della dottrina del Duguit e questa anche la sua fondamentale originalità; perché egli frappone tra la realtà e il diritto questo dovere di socialità, che è un aspetto attivo e morale, una qualificazione e valutazione dell'azione dell'uomo che si eleva al di sopra della semplice ‛natura delle cose' concepita come una condizione subita piuttosto che dominata e trascesa dall'azione giuridica.
23. Altre teorie. Stammler
Se le teorie che si sono fin qui ricordate si riconnettevano in un modo o nell'altro col positivismo filosofico per l'importanza attribuita alla società e per l'obiettivismo da cui erano permeate, e se esse per molti rispetti erano il riflesso non soltanto di aspetti della cultura, ma anche di condizioni sociali che si erano manifestate nella seconda metà del secolo scorso ed erano divenute sempre più importanti nel nostro, non si deve credere che esse costituissero però l'unico aspetto sotto il quale il diritto veniva considerato. Nel campo della filosofia il neokantismo della Scuola sud-occidentale tedesca del Windelband e del Rickert e della Scuola di Marburg, che ebbe come principali rappresentanti il Cohen e il Natorp, e il pensiero hegeliano del Lasson e del Kohler, nonché l'idealismo italiano del Croce e del Gentile, proponevano esigenze diverse non soltanto nella filosofia in generale, ma anche nel pensiero giuridico e politico. Qui si deve ricordare, ai fini specifici di questo discorso, soprattutto lo Stammler, la cui critica del materialismo storico (1896) aveva attirato l'attenzione del Croce, allora impegnato nel riesame della teoria marxista. Secondo lo Stammler non è l'economia a condizionare il diritto ma al contrario è il diritto, come condizione a priori, a rendere possibile l'esistenza della società. Questa tesi ha interesse non soltanto come espressione di un pensiero che attribuisce importanza primaria all'aspetto formale e definitorio del diritto, ma anche in rapporto con quanto s'è accennato a proposito della dottrina dell'istituzione e dell'organizzazione. In realtà, le tesi dell'Hauriou e del Romano, per quanto abbiano connessioni profonde con la dottrina di Ehrlich e con la sociologia giuridica, rappresentano per altri rispetti una loro correzione conseguita mediante l'equiparazione del fatto sociale col fatto giuridico. Se è vero che la società non è concepibile che come organizzazione e se l'organizzazione si identifica col diritto, il diritto, cioè la qualificazione giuridica della realtà, tende a riprendere il sopravvento sul fatto sociale puro e semplice. È quanto, in sostanza, si riflette anche nella filosofia di G. Del Vecchio, per il quale il concetto universale del diritto è logicamente anteriore ai fenomeni empirici che sono definiti come giuridici. Sennonché la posizione del Del Vecchio ha, appunto, un valore logico, non storico-empirico, che invece sembra immanente nella dottrina dell'istituzione e dell'organizzazione e per il quale appunto quest'ultima è ancora per tanta parte dipendente dall'Ehrlich.
24. Marx e il diritto
Il particolare aspetto sotto il quale è stato considerato il diritto da queste teorie che hanno voluto risalire dalla norma a un ‛fatto' precedente a essa, fondando così il diritto su un'organizzazione della società soltanto in parte coincidente con lo Stato e dando perciò valore e risalto alla società in quanto tale e alla molteplicità degli ordinamenti correlativa a una molteplicità di gruppi sociali, corrispondeva al prevalere, nel periodo storico che va dalla metà del secolo scorso fino ai nostri giorni, dei problemi riguardanti la collettività come insieme di uomini prima ancora che di cittadini, e dei problemi economici soprattutto, che sono la conseguenza dello sviluppo, portato fino alle estreme conseguenze, dell'attività industriale. Alla concezione liberale si era così sostituita una nuova visione degli scopi fondamentali del diritto e della sua stessa natura, non più sovrapposizione di una volontà sovrana alla società e trasformazione della società in Stato per effetto di essa, ma una società che affermava se stessa indipendentemente dallo Stato, nel rifiuto dell'esaltazione dello Stato compiuta da Hegel, visione certamente elevatissima dell'individualità che si innalza fino all'armonia dello Stato etico, ma difficilmente riscontrabile nella realtà storica, dove anzi essa offriva facilmente una giustificazione all'ingresso del potere politico nella sfera più gelosa e riservata della persona. Ecco perché nello sforzo di ristabilire la validità dei diritti della società e della natura sociale del diritto, sforzo compiuto da tutte le teorie istituzionalistiche e giuridico-sociologiche, si può vedere implicitamente restaurato il diritto dell'individuo. Proprio questa difesa dei diritti individuali, della società non divisa in classi ma nella quale l'individuo sia parte integrante e indispensabile del tutto, segna la linea di divisione tra quelle dottrine e la teoria del Marx. Nella dottrina del Marx v'era infatti, contrariamente a quelle formulazioni teorico-giuridiche, una finalità prettamente politica, la vittoria della classe proletaria su quella borghese, del comunismo sullo Stato espressione della borghesia. Certo, anche in quella ideologia, che con lo Stato negava il diritto come espressione di una classe, era pur visibile il riscatto dei diritti della classe lavoratrice, al fondo dei quali, a ben vedere, v'erano pure dei diritti innati o naturali dell'individuo. Ma il fatto di averli riferiti non all'uomo in quanto tale, ma alla classe proletaria, diveniva la nota prevalente e trasformava una dottrina, che avrebbe potuto anche essere prospettata sotto l'aspetto del diritto, in una negazione del diritto e in un'ideologia rivoluzionaria.
Sennonché tutti questi aspetti teorici, visti nella prospettiva del liberalismo e dello statualismo della seconda metà del XIX secolo, mutarono profondamente dopo e in conseguenza della prima guerra mondiale. L'avvento delle masse sulla scena politica, delle masse che erano state le protagoniste del conflitto armato, e l'ulteriore impulso industriale che era stato una delle conseguenze capitali di quegli eventi, segnarono l'eclissi dello Stato liberale e l'avvento del comunismo in Russia, come conseguenza della Rivoluzione d'ottobre, e dei regimi fascista e nazista in Italia e in Germania. Si aprì dunque, in una così vasta parte dell'Europa continentale, un periodo caratterizzato dall'instaurazione di Stati autoritari nei quali i concetti rispettivamente di ‛classe' e di ‛società' si trasformarono in quelli dello Stato sovietico e degli Stati nazista e fascista, istituzioni autoritarie, nelle quali l'immagine dello Stato etico ritornò tragicamente quale espressione estrema dell'autocrazia, padrona dei corpi e delle anime, sbocco fatale delle rivoluzioni e dei sommovimenti violenti, nei quali l'individuo perde ogni valore nell'utopico sforzo per il conseguimento di scopi collettivi, non mai presentati nella loro concretezza ma sempre idealizzati ed espressi con l'astrazione.
Il contrasto tra, questa situazione e quella ipotizzata o teorizzata dalle teorie giuridiche che avevano preso le mosse dalla ‛giurisprudenza degli interessi, e si erano poi variamente sviluppate nel modo che s'è descritto, è troppo evidente perché vi si debba insistere. Dappertutto lo Stato fu idealizzato nelle dottrine giuridiche ufficiali, e con lo Stato tornò alla ribalta la concezione volontaristica e imperativistica, che aveva avuto la sua origine moderna nel regime di Bismarck, nel Kulturkampf e nella ‛giurisprudenza concettuale' tedesca. La definizione data dal Vyšinskij del diritto come ‟un insieme di regole della condotta umana stabilite dal potere statuale in quanto potere della classe che domina la società, nonché delle consuetudini e delle regole di convivenza sanzionate dal potere statuale coercitivamente con l'ausilio dell'apparato statuale al fine di tutelare, consolidare e sviluppare i rapporti e l'ordinamento vantaggiosi e favorevoli alla classe dominante" (Problemi del diritto e dello Stato in Marx, in Teorie sovietiche del diritto, a cura di U. Cerroni, Milano 1964, p. 283), è uno sforzo impressionante di ricomprendere e riassumere le premesse del marxismo in una formula nella quale paradossalmente riaffiorano motivi che hanno le loro radici in dottrine originate dalla Scuola storica e dall'hegelismo. Il risultato era la giustificazione e la teorizzazione della tirannia, nella quale si era trasformata la ‛dittatura del proletariato', che Marx aveva vagheggiato nella sua utopia millenaristica, e che il Vyšinskij interpretava in quei termini nel famoso discorso da lui tenuto all'Accademia delle Scienze di Mosca nel 1938, in piena epoca staliniana, sulla concezione dello Stato e del diritto in Marx. In seguito, col mutamento dell'indirizzo politico, anche tale interpretazione è cambiata per opera dello Strogovič e del Golunskij. Ma anche se con questi giuristi si è tornati, in parte almeno, alla sociologia giuridica di Stučka e di Pašukanis, rimane che la teoria giuridica è nell'URSS strettamente dipendente dalle premesse politiche, che ne sono dunque sempre le ispiratrici.
25. Gentile
L'esaltazione dell'onnipotenza dello Stato di fronte all'individuo, anzi la riaffermazione dello Stato ‛come la realtà vera dell'individuo', fu il fondamento della dottrina giuridica ufficiale anche in Italia durante il fascismo e fu formulata in termini teorici da Giovanni Gentile in varie occasioni, e specialmente nella relazione da lui tenuta al secondo congresso hegeliano di Berlino nel 1931, dove è esaltato il concetto dello Stato ed è contestato il valore delle dottrine anteriori a Hegel, fino a Fichte, per le quali ‟il concetto dello Stato [...] è negato. Lo Stato rimane una semplice realtà di fatto, contro la quale batterà l'individualismo liberale fino a sboccare nell'anarchismo", mentre a Hegel ‟spetta nella storia del pensiero il merito di aver costruito o scoperto il concetto dello Stato". Su queste premesse il Gentile dettò la teoria filosofica e politica del fascismo nella voce omonima pubblicata nel 1932 nell'Enciclopedia Italiana: ‟Il liberalismo negava lo Stato nell'interesse dell'individuo particolare; il fascismo riafferma lo Stato come la realtà vera dell'individuo". Alcuni anni prima, e con minor rigore teorico, ma con preciso riferimento al diritto, A. Rocco (1875-1936) aveva affermato a sua volta che ‟in Italia la grande tradizione è per una forte concezione dei diritti dello Stato, della preminenza della sua autorità, della superiorità dei suoi fini"; e, stabilendo l'antitesi tra liberalismo e fascismo, affermava che ‟per il fascismo il problema preminente è quello del diritto dello Stato e del dovere dell'individuo e delle classi; i diritti dell'individuo non sono che riflesso dei diritti dello Stato, che il singolo fa valere come portatore di un interesse proprio e come organo di un interesse sociale con quello convergente" (Discorso di insediamento alla presidenza della Camera dei deputati, 28 maggio 1924, in La formazione dello Stato fascista, 1925-1934, vol. III, Milano 1938, pp. 1002 ss.).
26. Il pensiero tedesco dopo la prima guerra mondiale. C. Schmitt
In Germania il pensiero giuridico del primo dopoguerra si sviluppò anch'esso nel senso di una subordinazione dell'individuo a un'entità superiore, la cui concezione variò tuttavia nei singoli autori. Può però affermarsi che nota comune del pensiero giuridico che in Germania volle costruire la dottrina del nazionalsocialismo fu il richiamo sia alla tradizione del pensiero tedesco, specialmente di Hegel, come nel Larenz e nel Binder, sia al pensiero politico di Hobbes e di Machiavelli, oltre che di Hegel, come nel caso di Schmitt. Tutti questi scrittori sentirono il fascino, alquanto torbido, dell'idea di ‛popolo', che giuridicamente voleva dire ‛diritto secondo le tradizioni del popolo tedesco', di origine romantica e già insita, sebbene con diverso significato, nella Scuola storica e nella filosofia hegeliana. Il ‛popolo' era l'espressione di una concezione del diritto antindividualistica, preoccupata dell'interesse collettivo, corrispondente quindi a quel modello del socialismo nazionale che costituiva il programma ideologico del movimento. I motivi scientifici e le conclusioni furono in un primo momento partecipi del movimento del diritto libero e delle dottrine istituzionalistiche. I diritti subiettivi furono subordinati alle ‛situazioni', la situazione essendo un concetto all'unisono con lo spostamento del centro di gravità del diritto verso il diritto obiettivo, verso l'ordinamento o l'organizzazione. Soprattutto nel pensiero dello Schmitt queste premesse furono svolte con coerenza sistematica e come punto di confluenza di pensieri di provenienza diversa e soprattutto, accanto a quelli già ricordati, della sociologia di Max Weber.
Prendendo le mosse da un'impostazione diametralmente opposta a quella del Kelsen, lo Schmitt sostenne che il diritto è un'espressione della politica. E ciò a cominciare dallo Stato. ‟Il concetto di Stato presuppone quello di ‛politico'. Per il linguaggio odierno, Stato è lo Status politico di un popolo organizzato su un territorio chiuso"; queste sono le parole con le quali si apre il lavoro Der Begriff des Politischen (tr. it.: Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 101), pubblicato per la prima volta nel 1927 e poi soggetto a successive rielaborazioni. Lo Schmitt proseguiva dicendo che lo Stato è una situazione di un popolo, anzi è la situazione che fa da criterio ‟nel caso decisivo", quello cioè che esprime il contenuto della sovranità. Questa situazione egli la vedeva storicamente svilupparsi dallo Stato assoluto del sec. XVIII fino allo Stato ‛totale' del XX, allorché Stato non è più, hegelianamente, un'entità che si colloca sopra la società, né comunque qualcosa di distinto da essa, ma con la società si identifica in un'integrazione di cui egli scorge il passo più importante nel Gierke e che è stata teorizzata da R. Smend. In questo processo, nel quale lo Stato penetra ogni sfera sociale guadagnando così tutte le forze vitali del popolo, ‟tutto è politico". Da ciò appunto dipende il fatto che lo Stato e ‟un'unità decisiva". Criticando il pensiero liberale del secolo scorso per avere esso, a suo avviso, ignorato sistematicamente lo Stato e la politica e aver posto invece l'accento su una polarità comprendente etica ed economia, spirito e commercio, cultura e proprietà, cioè composta di sfere eterogenee, lo Schmitt perviene per vie diverse alle stesse conclusioni del Marx e del Croce, affermando che ‟la signoria del diritto" non significa altro che ‟la legittimazione di un determinato status quo, al cui mantenimento naturalmente hanno interesse tutti coloro il cui potere politico ed economico si consolida in questo diritto" (ibid., p. 153).
V'era dunque nello Schmitt, come nella scienza del diritto pubblico tedesco che reagiva contro la linea purista dei Laband-Kelsen di origine liberale e d'ispirazione puramente logica, senza alcun attacco ai contenuti, un intento (che egli ha condiviso con Kaufmann, Binder, Heller, Holstein, Jerusalem, Smend) di dare al diritto una sua ontologia. Il grande quesito, se il diritto debba esaurirsi in un ‛dovere' (Sollen) o invece comprenda l'‛essere' (Sein) ritorna anche in Schmitt, con la necessità di scandagliare questo contenuto attraverso la sociologia e la storia. L'‛essere', di cui il diritto è perfuso, è una situazione dinamica, che si contrappone a una concezione volontaristica essenzialmente statica. Per questo anche la dottrina di Schmitt inclinò verso una forma di ‛istituzionalismo', dopo aver elaborato e superato, ma anche assimilato, la critica contro una metafisica dello Stato espressa dal Duguit e il pluralismo di G.D.H. Cole e di H.J. Laski. Egli si richiamò all'Hauriou, contestando la validità della critica a questi rivolta dal Bonnecase, che aveva definito la nozione d'istituzione ‟una nuova mistica", e al Romano. ‟Ogni tipo di considerazione giuridica di termini composti come ‛ordinamento-giuridico', ‛sovranità-della-legge', ‛validità-delle-norme'" egli affermava in Über die drei Arten des rechtswissenschaftlichen Denkens (I tre tipi di pensiero giuridico) pubblicato nel 1934 e poi incluso in una rielaborazione di Der Begriff des Politischen, ‟rende possibili i due diversi tipi di pensiero giuridico-scientifico: il tipo astratto fondato sulle regole e sulle norme e quello concreto fondato sull'ordinamento. Per il giurista del primo tipo [...] l'ordinamento consiste [...] sostanzialmente nel fatto che una situazione concreta corrisponda a norme generali, alle quali essa viene commisurata. D'altra parte, proprio questa ‛corrispondenza' costituisce un difficile e irrisolubile problema logico, dal momento che il pensiero normativistico, quanto più è ‛puro', tanto più conduce a una frattura sempre più drastica fra norma e realtà, fra dovere ed essere, fra regola e comportamento concreto [...]. Al contrario - egli proseguiva - oggi molti giuristi considerano irreale e fantastica la riduzione di questi concreti tipi di ordinamento a una somma o a un sistema di norme. Noi sappiamo che ogni ordinamento - anche l'‛ordinamento giuridico' - è legato a concreti ‛concetti di normalità' che non sono derivati da norme generali ma al contrario producono essi stessi tali norme, solo in base al loro proprio ordine e in funzione del medesimo" (ibid., pp. 255-259).
Da questa concezione dell'ordinamento, che egli ha chiamato ‟concreta", lo Schmitt ha ritenuto di poter e dover derivare le strutture dello Stato nazionalsocialista. Ma questa è una deduzione non necessaria, tratta dall'adattamento di una teoria, certamente corrispondente a istanze fondamentali del nostro tempo, a una situazione storica contingente.
Ogni teoria, normativa o istituzionalistica che sia, può trovare applicazione nei più diversi aspetti della realtà. Che ciò sia accaduto, che le stesse teorie giuridiche possano essere state adattate a un regime di libertà o invece a uno di tirannia, sta a dimostrare che il giudizio morale non è parte della definizione giuridica della realtà, ma la trascende e implica non la logica, ma la responsabilità di fronte all'azione. Ma tutto ciò sottolinea anche la drammaticità della storia della nostra epoca, che nelle sue contraddizioni, nelle sue violenze, nella ricerca, anche, di una giustizia che sia più giusta, si riflette sul diritto e ne piega di volta in volta le forme a rivestire i problemi e le soluzioni che la vita politica ed economica suggerisce.
27. Il pensiero americano. R. Pound
Che dunque ‟le scuole giuridiche attuali sono sorte in seguito alla dissoluzione della scuola del Savigny, quasi allo stesso modo in cui le scuole giuridiche del secolo scorso ebbero origine dal dissolversi della scuola del diritto naturale" (v. Pound, 19462; tr. it., p. 4) è un paradosso che il maggior filosofo giurista americano di questo secolo, R. Pound, espresse fin dalla prefazione dell'edizione delle sue lezioni, tenute al Trinity College di Cambridge nel 1922. Una simile visione, che ridurrebbe la storia del pensiero giuridico del XIX e XX secolo a uno sviluppo interno della Scuola storica tedesca, non è sostenibile proprio da un punto di vista storico, perché trascurerebbe ciò che v'è d'essenziale nel divenire di quelle dottrine, vale a dire il suggerimento dei tempi e delle situazioni reali e la costruzione autonoma che si è determinata su tale fondamento. Essa ha tuttavia ugualmente del vero, perché una parte cospicua dei movimenti dottrinali nell'ultimo secolo e mezzo hanno attinto ai poliedrici aspetti della Scuola storica e agli aspetti contrastanti che ne formavano il nucleo. Così lo stesso Pound ha attinto, nella costruzione della sua dottrina, che egli chiamò ‟ingegneria sociale", soprattutto al Jhering nel pensare agli interessi che si sviluppano in una società concretamente considerata, al Kohler, e perciò a Hegel, nel concepire il diritto come un elemento propulsivo del progresso sociale, in un divenire non però dipendente dall'impulso dell'Idea, ma dal mutamento stesso della società, ogni teoria essendo, secondo il Pound, il riflesso di una situazione storica. Sostanzialmente pragmatista, secondo una tendenza fiorita nel dinamismo della società americana per opera del Dewey (1859-1952) e dell'Holmes (1841-1935), il Pound accentuò ancora e soprattutto affinò l'idea dell'importanza della storia nella dottrina giuridica positiva, in sostanza pervenendo a una concezione storiografica di tipo idealistico, che ha risentito fortemente, anche se non ne ha sempre esattamente riflesso l'idea, della concezione crociana della storia. Questo suo più moderno e raffinato storicismo si esprime nell'apprezzamento critico dello storicismo del sec. XIX, non solo perché il Savigny e i suoi seguaci avevano considerato ‟la storia giuridica come un dato assoluto, e il progresso come qualcosa che avesse insito in sé il proprio fondamento, in quanto progresso della ragione o dello spirito o in quanto consistente nel realizzarsi dell'idea" (v. Pound, 19462; tr. it., p. 31), con il che si andava ben oltre la scuola savignyana e si comprendeva evidentemente anche l'indirizzo di Hegel; ma anche perché le correnti di pensiero del sec. XIX ‟consideravano tutta la storia come un lento e ordinato succedersi di eventi e d'istituti attraverso il quale le cose si perfezionavano evolvendosi fino alla realizzazione completa della loro idea" (ibid., p. 20), alimentando quel dogma del fatalismo storico che il fondamentale pragmatismo del Pound giudicava come un'abdicazione al valore dell'azione umana. La filosofia giuridica del Pound e il suo storicismo mostrano dunque fin dagli inizi un sostanziale fondamento etico, che li distingue dalle altre teorie antiformaliste e antirazionaliste. La sua eticità coincide con la ragione, ma con una ragione non astratta bensì ricercata nella storia, perseguibile cioè dall'azione concreta degli uomini. Alla conclusione del capitolo Che cos'é la giustizia, che è il primo del suo libro Justice according to law, pubblicato nel 1951, il Pound riprese la definizione della giustizia del Radbruch, che egli considerava il più grande filosofo del diritto della sua generazione, e che era espressa in questi termini: giustizia è ‟la relazione ideale tra gli uomini". Il Radbruch (1878-1949), già vicino alla Scuola del diritto libero, divenne poi, dopo le esperienze del nazionalsocialismo, uno dei massimi rappresentanti della rinascita del giusnaturalismo in Germania, promossa dall'anelito verso l'identificazione di un fondamento trascendente nel diritto, che lo sottraesse alle nefaste conseguenze politiche incluse nelle dottrine positivistico-giuridiche.
Questo nuovo indirizzo del Radbruch, per quanto stimolato dall'esperienza politica e dalle esigenze etiche che per reazione sorgevano in ogni natura sensibile, non era però in netta contraddizione con quanto il Radbruch aveva sostenuto nel periodo precedente, quando aveva pubblicato la sua Rechtsphilosophie (1932). Anche lui, come Gény, era ricorso al concetto della ‟natura delle cose" per porre in armonia il diritto positivo con la realtà effettuale; un concetto che era stato largamente condiviso da coloro che avevano posto la società a fondamento del diritto che alle necessità di essa doveva corrispondere. Proprio il Gény e il Radbruch, del resto, contribuirono a rivelare la moralità intrinseca delle dottrine ‛sociali' e come non fosse fuor di luogo avvicinare proprio quelle dottrine al giusnaturalismo, purché con questo termine non s'intendesse la forma astrattamente razionalistica che aveva assunto nei secc. XVII e XVIII. Ciò corrispondeva, in ultima analisi, a quella ricerca del contenuto dei valori significativi per il diritto, che caratterizza la filosofia di Radbruch e la differenzia da quella, che pur è alle sue origini, di Windelband, di Rickert e di Lask.
Il Pound riprese dunque la definizione della giustizia data dal Radbruch, concludendo che ‟ciò che si deve fare nel controllo sociale" - vale a dire nell'ordinamento giuridico, ove per il Pound si attua concretamente la giustizia - ‟e perciò nel diritto è conciliare e adattare questi desideri o bisogni o aspettative (dell'uomo) in modo da garantirne la massima quantità possibile" (v. Pound, 19462; tr. it., p. 251). Così il Pound, come il Radbruch, parte dalla dottrina sociologica del diritto per arrivare a una forma di giusnaturalismo che non rinnega la storia, ma vuol conciliarla con la restaurazione dei valori; ‟diritto naturale positivo", come egli lo chiama, non ‟raffigurazione razionalmente concepita della giustizia come ideale dei rapporti tra gli uomini, dell'ordine giuridico come mezzo razionalmente concepito per instaurare e conservare tale rapporto, e di precetti giuridici come strumenti ideali razionalmente concepiti", ma ‟sistema di precetti giuridici universali logicamente derivati e formati sull'esperienza del passato, postulato come formulabile in relazione alle esigenze poste da problemi universali, e in tal modo assunto a fornire precetti giuridici di validità universale" (R. Pound, Natural law and positive natural law, in ‟Natural law forum", 1960, p. 70).
28. Il ‛realismo scandinavo'
Tra le teorie moderne che hanno contestato la validità del positivismo giuridico bisogna ancora ricordare il cosiddetto ‛realismo scandinavo'. Law as fact (1939) è il titolo di una delle opere dell'Olivecrona, che di quello è uno dei rappresentanti, gli altri due essendo il suo maestro Hägerström e il Lundstedt.
Ma il ‛fatto' non dev'essere inteso questa volta come un fenomeno sociale, ché anzi l'Olivecrona nega che il fatto sociale sia di per sé normativo, perché lo Stato stesso, inteso realisticamente come organizzazione, ‟si fonda su un insieme di regole che vengono di fatto applicate all'interno di un certo gruppo sociale". Per questo aspetto la dottrina del ‛realismo scandinavo' si colloca sulla posizione opposta a quella dell'‛istituzionalismo' o del sociologismo giuridico. Infatti una simile concezione del rapporto organizzazione-norme implica non solo la critica di tutta la dottrina statualistica, che suppone il diritto creato dalla volontà dello Stato, ma implica anche che lo Stato presuppone il diritto. Ciò che accomuna però questo movimento di pensiero con la sociologia giuridica e con le teorie che ne sono derivate o connesse è il rifiuto netto di ogni metafisica giuridica e la convinzione che il diritto appartiene alla realtà empirica. Con ciò s'intende negare validità alle costruzioni della scienza giuridica che costituiscono una proiezione rappresentativa di realtà attraverso concetti che la snaturano. Così si dica per la volontà dello Stato, per il carattere volontario della norma, per il diritto soggettivo e così via. La genesi di quelle rappresentazioni è stata vista dall'Hägerström e dall'Olivecrona nella magia che avrebbe pervaso il diritto romano e che, mutatis mutandis, avrebbe continuato a dar vita ai ragionamenti intorno al diritto. Invece tutto quanto la scienza del diritto proietta nella realtà obiettiva è una realtà soltanto in quanto consiste di rappresentazioni che la mente umana va costruendo. Le norme giuridiche sono degli ‛imperativi indipendenti', cioè immagini di azioni e di situazioni proposte dal legislatore come modelli della condotta e mediante una forma imperativa. Al comando si sostituisce quindi la suggestione, perché nel comando vero e proprio è implicita una relazione personale che manca nella norma giuridica. ‟Non esiste nessuna volontà dello Stato - afferma Olivecrona - e neppure dei veri e propri comandi di legislatori individuali. Ciò che si verifica nella realtà è il seguente fenomeno: le formalità previste dalla costituzione applicate agli ‛imperativi indipendenti' contenuti nel precetto legislativo, conferiscono loro un'importanza peculiare per la vita sociale, avvolgendoli in un'aureola e contrassegnandoli in modo tale che gli uomini sono indotti ad assumerli come modelli di comportamento" (v. Olivecrona, 1939; tr. it., p. 45).
Anche i diritti soggettivi esistono soltanto nell'immaginazione degli uomini e appartengono alla sfera del tempo e dello spazio soltanto per questo e non perché corrispondano a una realtà del mondo empirico. La mancanza di una distinzione tra ideologia e realtà empirica, che si verifica nel diritto, è la conseguenza di abitudini mentali, che ottundono il senso critico. Per il Lundstedt anzi, i diritti e gli obblighi giuridici non esistono in quanto tali; i ‛diritti' sono soltanto delle posizioni tutelate dallo Stato e le norme giuridiche sono in realtà le decisioni giudiziarie.
Per l'Olivecrona il diritto nel suo complesso non è altro che l'organizzazione della forza e la forza non è il mezzo col quale attuare il diritto, ma il suo oggetto. Questo pensiero è ripreso anche da A. Ross, che ha risentito dell'influsso del Kelsen, almeno per quanto concerne la natura delle norme, che sarebbero direttive del comportamento e non semplice fatto. C'è tuttavia da chiedersi nei confronti dell'Olivecrona se la norma, concepita come rappresentazione psicologica, possa essere ridotta a mero fatto, o se essa non implichi, insieme alla rappresentazione, anche una reazione della coscienza, una partecipazione del soggetto che si traduca appunto nel Sollen e non in un semplice Sein. Comunque il Ross valuta le norme al lume della loro efficacia e qui consiste essenzialmente il suo realismo. Le norme nel loro complesso sono per lui tali se possono costituire un'interpretazione dei fatti o delle azioni sociali. Egli poi distingue tra la regola di condotta, indicazione di un comportamento obbligatorio, che sia concretamente vissuta dall'uomo che ne riconosce la validità e perciò si sente da essa vincolato, e l'idea astratta che è contenuta nella regola e che è lo schema interpretativo della condotta corrispondente. ‛Diritto valido' è l'insieme delle idee astratte che fanno da schema interpretativo dei fenomeni del diritto in atto.
Possiamo ora tornare sui nostri passi. Notevoli affinità legano al Ross la teoria del già ricordato H.L.A. Hart, che è considerato il continuatore della ‛giurisprudenza analitica' che aveva avuto nel Bentham e nell'Austin i suoi più illustri rappresentanti, per quanto la concezione del Hart sia meno radicale di quella del Ross. Come il Ross, ma anche più del Ross soggetto all'influsso del Kelsen, il che poi non è in contraddizione con il fondamento austiniano della sua teoria, Hart si è dedicato a un'analisi critica delle costruzioni giuridiche erette dalla dottrina così europea come nordamericana. Aperto ai suggerimenti di vari sistemi di pensiero, ma sostanzialmente positivista, come dimostrano le critiche da lui mosse al neogiusnaturalismo del Radbruch e di una parte della filosofia del diritto e della giurisprudenza tedesca del secondo dopoguerra, che egli considera originata più da motivi emozionali che dalla ragione giuridica e filosofica, la sua impostazione ha strette affinità con quella che in Italia è stata sostenuta da N. Bobbio, anch'egli sensibile al sistema della filosofia analitica del Wittgenstein, anch'egli incline a porre al centro della problematica l'esame critico del linguaggio, che diviene così rappresentativo delle costruzioni concettuali. Questa teoria, che il Bobbio ha sviluppato in vari scritti (Scienza del diritto e analisi del linguaggio, 1950; Teoria della scienza giuridica, 1950; Studi di teoria generale del diritto, 1955; Teoria della norma giuridica, 1958; Teoria dell'ordinamento giuridico, 1960; Il positivismo giuridico, 1961; ecc.) e che pone in rilievo la validità formale del diritto in senso affine a quello del Kelsen e quindi neopositivistico, si concilia in lui con la ricerca sociologica, come due campi diversi ma ugualmente validi. Nel Hart, invece, non si trova un analogo interesse per la sociologia, ma l'insistente motivo linguistico, che per lui costituisce la ragione più valida per la revisione e l'analisi dei sistemi concettuali applicati al diritto; e valga, a mo' d'esempio, quanto egli dice a proposito della ‛persona giuridica' in Definition and theory in jurisprudence (1953).
29. Conclusione
L'esposizione che veniamo ora concludendo non esaurisce certo gli argomenti che un tema come quello del ‛diritto' può suscitare. Anche se essa è stata volutamente limitata alle questioni intorno alla natura del diritto sollevate dalla filosofia giuridica e dalla teoria generale, si è cercato di tener presenti le linee fondamentali dello sviluppo dei vari sistemi, trascurando necessariamente tutto quanto, anche se in sé validissimo, non rientrava nel disegno generale di tale problematica giuridica per ragioni di equilibrio espositivo e di economia della materia. Riassumendo quanto è stato svolto fin qui, si può dire che il Novecento ha ereditato dal secolo precedente i fondamenti essenziali delle sue dottrine intorno alla natura del diritto e alla sua struttura. I grandi problemi sono ancora quelli suscitati dalla polemica del positivismo giuridico nei confronti del giusnaturalismo e dalla sociologia giuridica contro il formalismo positivista. Quest'ultimo ha assunto la sua forma più raffinata e logicamente coerente nel sistema del Kelsen, che ha per questa ragione inciso profondamente sulla scienza giuridica del sec. XX. Ma, se dobbiamo darne un giudizio complessivo, non ci sembra che sia proprio l'indirizzo kelseniano ad avere per sé il futuro. Che un sistema logico quale quello del ‛diritto puro' abbia in ogni caso molte cose da insegnare a chi analizzi la struttura concettuale del diritto, è certo; e a ciò si deve il suo grande successo. Ma è sempre valida la questione se chi studia il diritto debba appagarsi di quegli elementi strutturali, o non debba invece ricercare nel diritto una disciplina dei rapporti umani alla quale questa umana realtà non è sottraibile. Vi sono nella storia del pensiero svolgimenti che apparentemente derivano dal sistema dei pensieri precedenti, in cui cioè la tradizione intellettuale sembra avere la prevalenza; e svolgimenti che più apertamente e immediatamente traggono la loro ispirazione dai fatti, e nel caso del diritto, dai fatti della vita sociale. È probabile che questa diversa origine delle costruzioni teoriche sia soltanto apparente, e che anche dietro ai primi vi siano, se esaminati nel profondo, motivi che derivano da una storia più complessa che non quella delle pure teorie. Ma questo pare che si possa comunque affermare oggi con certezza: che, pur nell'estrema vastità e nell'intima compenetrazione di influssi e di dottrine diverse, tutte agenti contemporaneamente, che è poi un'altra caratteristica della teoria giuridica dei nostri giorni, un'esigenza di verifica storica si va affermando sempre più ampiamente e sicuramente nella scienza del diritto. La stessa ricerca di una concretezza che porti le dottrine a contatto immediato con la realtà e ne faccia l'espressione stessa dei suoi suggerimenti, il principio di ‛effettività' nella considerazione teorica del diritto, vanno guadagnando terreno. Anche nella scienza giuridica dell'Ottocento non mancarono certamente questi richiami alla storia; e anzi, come ben sappiamo, è proprio allora che la via della storia venne sperimentata in questo senso.
Ma ciò non vuol dire che oggi il ricorso alla storia non rivesta un significato nuovo. Autori pur di diverso indirizzo come il Pound, il Triepel, il Verdross, il Romano, lo Schmitt, il Jemolo, il Calamandrei, l'Ascarelli, l'Hauriou, il Cesarini Sforza, il Radbruch, il Quadri, che qui si citano a mo' d'esempio, hanno avuto sempre più spesso necessità di verificare le loro dottrine alla luce della storia. La più giovane generazione dei giuristi italiani ha anch'essa mostrato una decisa inclinazione verso la storia, nella quale l'economia e la società sono gli aspetti salienti per la costruzione dell'edificio giuridico.
Si avverte, dovunque diffuso, un bisogno di revisione delle idee che corrisponde al mutamento delle condizioni della vita e che prelude, o ha già preluso, a una revisione degli ordinamenti positivi. Può darsi che in tale revisione si affaccino prepotentemente e si rivelino allo scoperto, come non era mai accaduto prima, delle istanze politiche alle quali il diritto viene subordinato. Non spetta qui a noi giudicare se questo sia un bene o un male. Del resto, il giudizio sulla positività o negatività di questa tendenza dipende dai limiti in cui ciò può venir fatto. Ed è questa una questione sulla quale soltanto il futuro potrà pronunciarsi.
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