Diritto
Il diritto può essere definito, in estrema sintesi, come un insieme di previsioni normative che, supportato da un adeguato apparato sanzionatorio, tende a regolamentare in modo uniforme i rapporti sociali, tutelando la vasta gamma di situazioni originate da interessi egoistici confliggenti; è, in buona sostanza, una tecnica di manipolazione del comportamento collettivo e l'uomo, destinatario della tutela e, al contempo, oggetto, strumento di realizzazione pratica della norma, ha rilevanza non già solo nella propria individualità, ma anche come entità fisica sulla quale ricade una serie di coazioni. Nell'esperienza giuridica il vocabolo diritto consiste in una pura astrazione cui si attribuiscono significati a posteriori e, come tale, è sempre stato oggetto di speculazione per giuristi, storici, filosofi, sociologi. In questa sede, prescindendo da una trattazione generale dell'argomento, si focalizza l'attenzione sul ruolo del corpo all'interno del diritto e sui modi in cui, di volta in volta, la norma e la prassi si siano rapportate a questa particolare unità di misura.
L'idea raccapricciante del corpo di un bambino reciso da un colpo di spada per accontentare due madri rese celebre la saggezza di un re d'Israele che, in tal modo, fu in grado di mostrare quanto profonda fosse la sua conoscenza dell'animo umano. Ma il giudizio di Salomone (I Re 3, 16 e segg.), trascendendo i confini puramente religiosi, offre lo spunto per un'interessante osservazione di carattere storico-giuridico che può estendersi alla maggior parte dei sistemi normativi antichi: l'essere umano, privato di quella che oggi definiremmo la personalità, trovava, in campo giuridico, una sua specifica funzione come oggetto del contendere o come strumento, indiretto o diretto, di punizione. Il sottile legame tra diritto, religione e arte, tra norma, regola e tradizione, fa dei testi sacri i primi compendi legislativi e delle opere d'arte gli esempi più chiari di un pensiero comune in grado di influenzare la produzione normativa: il sapere giuridico antico, di solito affidato a una figura dominante quale il re, che rivestiva il triplice ruolo di capo politico, sommo sacerdote e magistrato, era spesso connesso e confuso con pratiche religiose, riti apotropaici e convinzioni laiche di origine remota che focalizzavano la propria attenzione sul corpo umano, ora come fonte di potenza, ora come simbolo di purezza, ora come espressione del peccato, insito nel concetto stesso di fisicità. Si pensi, per es., al Giudizio universale, evento escatologico per sua stessa natura più vicino a ritualità giuridiche che religiose. Nella dimensione ultraterrena è l'anima, ossia l'essenza stessa dell'uomo, a essere giudicata, ma il corpo a subire le pene: i dannati di Michelangelo somatizzano lacerazioni interiori, quelli di I. Bosch patiscono demoniache torture; in entrambi i casi, il corpo è al centro del sistema punitivo. Il dualismo anima-corpo insito nell'idea stessa di uomo non trova, nelle forme giuridiche più arcaiche, una netta dicotomia terminologica. Il corpo era sinonimo ora di uomo, inteso, con accezione moderna, come persona giuridicamente capace, ora di res, "cosa", e, come tale, oggetto di una serie di rapporti di diritto privato, quali la compravendita o la promessa al pubblico.
La cessione di uno schiavo, del quale Polibio e Demostene ci offrono una definizione estremamente interessante individuandolo semplicemente come σῶμα, "corpo", era un contratto non dissimile da quello previsto per gli altri beni produttivi. Lo schiavo, nella società e nel diritto romani, era oggetto e non soggetto di diritto e perciò, a somiglianza delle altre res, il suo corpo era sottoponibile all'altrui dominio, anche se tale fenomeno di reificazione non escludeva che si potessero riconoscere agli schiavi alcuni attributi e qualità della persona. In campo religioso, la personalità dello schiavo era parzialmente riconosciuta, dal momento che gli schiavi potevano partecipare con pieno diritto ai riti e alle cerimonie pubbliche; analogamente, nell'ambito dei rapporti patrimoniali, come è stato rilevato da recenti indagini, veniva attribuita allo schiavo una limitata capacità tanto nel diritto sostanziale quanto in quello processuale (Franciosi 1989). Tali considerazioni, tuttavia, non modificano i tratti qualificanti dei sistemi schiavistici in cui il corpo dello schiavo ha rilevanza soltanto in quanto tale e non come persona dotata di capacità giuridica, il cui presupposto indefettibile consiste nella libertà. Pertanto, in tali sistemi, il concetto di schiavo coincide con quello di corpo giuridicamente incapace, la cui potenziale affrancazione determina, tuttavia, la possibilità di acquisire la condizione di uomo libero e, dunque, di divenire destinatario di norme giuridiche.
Al di là del diffuso fenomeno della schiavitù, le modificazioni dello status individuale erano legate anche ad altre situazioni giuridiche originate da contratti o da meccanismi punitivi conseguenti alla commissione di un reato. La possibilità per ogni singolo individuo di acquisire o perdere la libertà e con essa, il più delle volte, la vita, rispondeva a una logica fatalista: ogni intervento umano che modificasse il disegno tracciato dal destino ne generava uno da parte della divinità tale da ristabilire l'equilibrio iniziale. L'idea di equità insita nel termine greco μοῖρα è alla base, infatti, di un sistema distributivo della sorte umana; lo stesso che, in un certo senso, si riscontra in ogni forma di obbligazione giuridica. Obligatio è termine dal significato ampio, che, genericamente, sta a indicare un vinculum originato ora da accordi privati di natura contrattuale, ora da atti illeciti. In tempi remoti 'obligato' era l'uomo nella sua interezza: il corpo, infatti, veniva a svolgere un ruolo preminente sia nei rapporti di natura privatistica, laddove la funzione del diritto, lungi dal costituire per sé fonte diretta di obbligazione, consisteva proprio nel conferire efficacia all'espressione della volontà negoziale, sia in quelli derivati da atto illecito, ai quali la consuetudine prima e la legge poi riconducevano un potere diretto e materiale dell'offeso sulla persona dell'autore dell'illecito o, comunque, su altro membro della sua gens. Lo stesso termine vindicta, "rivendicazione", lascia intendere come i meccanismi valutativi dell'illecito non fossero altro che la risultante di un'equazione dove la riparazione del torto doveva necessariamente essere rappresentata da un valore pari all'offesa subita.
Che la vendetta privata trascendesse fini meramente espiatori e, in qualche modo, contenesse ragioni compensative, appare chiaro dal fatto che la logica punitiva era duplice. Da un lato, il delictum affidato alla potestà punitiva privata veniva sanzionato in base ad astratte regole religiose, così come avveniva per tutti quei reati ritenuti 'inexpiabili' per i quali era il re, custode della pax deorum, a stabilire una sanzione in grado di riequilibrare i rapporti con gli dei offesi dal crimine. Dall'altro, il rapporto retributivo torto/offesa tendeva a compensare la perdita subita, annullando l'ingiusto arricchimento dell'autore dell'illecito: in una società primitiva, basata su un'economia di scambio, infatti, la lesione o l'uccisione di un uomo, al pari del danno recato a ogni altro bene produttivo, costituiva una perdita effettiva e un nocumento patrimoniale, in quanto poneva il gruppo offeso in una situazione di inferiorità economica rispetto all'antagonista/rivale. Il corpo umano, dunque, nell'iter evolutivo delle obbligazioni ha avuto un ruolo fondamentale, svolgendo ora la funzione di garante, ora quella di soggetto sostitutivo di una prestazione, ora quella di strumento espiatorio o compensatorio: l'obbligato veniva consegnato al creditore affinché questi assoggettasse il suo corpo in una sorta di prigionia redimibile a garanzia di un rapporto giuridico, o a tutela di un credito (schiavitù per debiti), o se ne servisse, con ogni potere di vita e di morte, come diretta conseguenza di un illecito.
Il concetto di vindicta che, presso le comunità arcaiche, si identificava nel mero atto vendicativo del gruppo offeso, muta sostanzialmente con il trascorrere del tempo e con l'acquisizione di cognizioni giuridiche migliori, tanto che, nell'ambito del diritto romano, l'asservimento fisico non costituisce più il fine ultimo, ma il mezzo per giungere a una composizione pecuniaria, a un'aggressione patrimoniale sostitutiva di quella fisica. Il problema giuridico della determinazione del danno subito era, sin da una fase protostorica del diritto, strettamente connesso con il concetto di risarcimento, che veniva inteso come rimedio equivalente alla perdita o all'alterazione del bene tutelato. Finalizzata a ridurre quanto più possibile le conseguenze dannose dell'illecito, la dazione di denaro o altro bene a scopo risarcitorio trova origine nel significato stesso attribuito alla morte e all'abbandono del colpevole, attraverso cui si estingueva il debito con gli dei o con gli uomini, a seconda del fatto commesso. La compiuta organizzazione giuridica della società arcaica non soltanto cambia, per alcuni aspetti, i termini del rapporto corpo/evento, sostituendoli con denaro/evento nell'ipotesi risarcitoria, ma affianca la collettività, quale entità metaindividuale - in tal senso lo Stato nasce come un'evoluzione della tribù -, al soggetto principale destinatario della tutela: l'autosoggezione fisica ed economica a una o più persone viene, quindi, a essere sostituita dalla soggezione agli apparati del potere collettivo e, più generalmente, alla legge, posta a tutela di ogni uomo. In tal senso la comunità si sovrappone al singolo tanto nella tutela dell'interesse sociale, quanto nel momento identificativo della condotta e dell'eventuale sanzione.
Il corpo ha da sempre costituito il punto di riferimento privilegiato dell'intervento penale. In tale sfera giuridica, infatti, da un lato trova tutela rispetto a tutte quelle ipotesi in cui lo stesso venga a essere minacciato, violato o distrutto, dall'altro viene utilizzato come oggetto su cui far ricadere ogni forma di sanzione. La strada da seguire per un esame dei vari sistemi giuridici nei diversi periodi storici è l'analisi del modo in cui il corpo è tutelato, giudicato e punito. Nelle società arcaiche l'espiazione avveniva secondo una logica per cui colui che violasse un precetto normativo meritava una sanzione. Il meccanismo punitivo che ne scaturiva rispondeva a due differenti metodi repressivi, entrambi posti a tutela del corpo: secondo un primo sistema, il colpevole subiva la stessa quantità di dolore o di danno arrecato alla vittima ('taglione'); secondo l'altro metodo, impostato sull'equilibrio delle equivalenze e dei contrasti, invece, il colpevole era sottoposto a pene che riproducessero situazioni soggettive contrarie o speculari a quelle volute con l'atto delittuoso ('contrappasso'). Tuttavia ogni regola vuole le sue eccezioni e la sanzione penale poteva eccedere i limiti sostanziali del rapporto punitivo oppure restarne al di sotto: l'uccisione di uno schiavo, per es., non comportava alcun provvedimento corporale, mentre in termini opposti, il furto poteva essere punito con il taglio della mano. Ogni società organizzata, con le ovvie distinzioni storiche, culturali e politiche, ha altresì provveduto a predisporre una serie di norme per disciplinare il procedimento che porta all'inflizione di una sanzione, sia essa civile o penale; la legge del processo penale, in particolare, e il modo di applicarla sono tra i fenomeni più importanti di convivenza organizzata e testimoniano del grado di civiltà di un popolo (Cordero 1978). Attraverso tali norme, infatti, è possibile stabilire quale concetto abbia la società dell'individuo e, per conseguenza, quale ruolo, posizione e garanzie riconosca al corpo umano.
Le forme del giudicare, analizzate storicamente, consentono di rintracciare due principi o più propriamente due tendenze contrapposte, che appaiono tra loro continuamente combinate: quella dell'accusa e quella dell'inquisizione. Queste due tendenze rimandano a due modi distinti di concepire l'individuo: nell'una come valore assoluto e, in quanto tale, contraddittore ad armi pari dell'antagonista accusatore, nell'altra come mezzo per fini ultraterreni e metafisici, siano essi la salvezza dell'anima o la felicità del genere umano. La contesa insita nell'idea di processo accusatorio rimanda immediatamente allo sforzo agonistico tra due corpi. Nelle esperienze giuridiche medievali, duelli, ordalie e rituali giurati vedono sempre la presenza di due contendenti davanti a uno spettatore-giudice intento a verificare la regolarità delle azioni. L'esito del duello dipende dall'abilità e dalla tattica dei due contendenti. Nel giuramento l'antagonista pagherà sul suo corpo la vendetta del dio chiamato a essere testimone sotto condizione di quanto affermato, incontrovertibilmente, secondo un'operazione vocale mimica perfetta. Nell'ordalia, fenomeno giuridico e religioso insieme, l'agonista affronta delle performance, il cui esito fausto, concepito come diretta manifestazione della volontà divina, comporta vittoria nella contesa: la regola vuole che l'innocente nella prova del veleno lo rigetti, in quella del fuoco, passandovi sopra, rimanga illeso, nello iudicium ferri candentis, tenendo nelle mani un ferro rovente, subisca lesioni nulle oppure più lievi di quanto ci si aspetterebbe. In tutte queste ipotesi è sempre il corpo dell'antagonista-paziente al centro dell'attenzione giudiziale.
Nei rituali accusatori il corpo del soggetto sottoposto al processo è al centro dell'osservazione e, al tempo stesso, soggetto agente della disputa; nell'inquisizione, invece, venuta meno ogni forma di contesa, il giudice, campione del sistema, afferma il proprio assoluto primato, dominando la scena processuale e intervenendo in modo coercitivo sul corpo dell'inquisito, divenuto oggetto della giustizia penale. Il processo, inteso in questi termini, tende a 'curare'. Colui che viene sottoposto all'accertamento inquisitorio è un 'paziente' e il suo corpo diviene strumento catartico e al tempo stesso cognitivo. Nella dinamica processuale ogni intervento coercitivo mira a ottenere dal paziente che vi è sottoposto la confessione di un crimine, commesso o meno. La tradizione classica, reinterpretata, a partire dal 12° secolo, dai dottori di Bologna e applicata dagli inquisitori per giustificare l'uso di mezzi costrittivi, suggerisce un sistema infallibile per indurre l'inquisito a esternare ogni notizia utile al processo: la tortura. Il corpo del criminale che confessa nei tormenti viene a giocare, così, il ruolo della verità vivente. Il sistema processuale viene caratterizzato dall'uso continuo della forza che plasma e piega il corpo e, per suo tramite, l'anima. Non esistevano trattati o codici da cui potesse evincersi il modo attraverso il quale praticare la tortura; ogni accenno normativo a tale atroce 'mezzo istruttorio' era estremamente vago, limitandosi la legge, di volta in volta, a raccomandarne un uso limitato ai casi più gravi (Emerico, Directorium inquisitorum, 1607). Discutibile sistema conoscitivo, la tortura determina tuttavia una fase evolutiva del processo penale e del senso della giustizia, che non si pone più come la risultante di una particolare abilità della parte nel far prevalere le proprie ragioni, attraverso prove di forza o di coraggio, ma come un sistema di accertamento della verità dei fatti.
La tortura costituirà il primo e più efficace mezzo cognitivo processuale di un sistema quale quello inquisitorio che dominerà l'esperienza continentale europea dal 12° secolo sino alla Rivoluzione francese, con l'importante eccezione dell'Inghilterra. La funzione della tortura quale strumento di conoscenza forzata non esaurisce lo spettro delle sue applicazioni, potendo questa diventare un vero e proprio supplizio da infliggere al già condannato; è uno dei più gravi castighi, venendo dopo la morte, nell'Ordonnance criminelle del 1670. La doppia utilizzazione della tortura, come strumento di pressione ad eruendam veritatem, per estorcere la verità, e come anticipazione del prevedibile e futuro supplizio trova dunque piena applicazione in quei sistemi nei quali il sospettato, in quanto tale, è potenzialmente un oggetto di coercizione. Il corpo interrogato nel supplizio è il punto di applicazione del castigo e il luogo di estorsione della verità. La soppressione della vita di un individuo per punirne la condotta criminosa è la conseguenza estrema di una sentenza di condanna. Il supplizio, con tutta la sua carica 'clamorosa e macchiante' (Foucault 1975), costituisce l'epilogo del processo a cui l'accusato viene sottoposto. Il corpo è il fulcro della macchina processuale, soggetto e oggetto principale del rito del castigo pubblico sin dalla lettura della sentenza. Sotto l'ancien régime in Francia è consuetudine che il cancelliere, recatosi nella prigione, legga la sentenza esecutiva a pena corporale al detenuto che ascolta in ginocchio (Hélie 1863).
Da questo momento il corpo del condannato diviene attore principale e supporto pubblico di un rito sino ad allora consumatosi nell'ombra. Il tragitto che il condannato percorre dalla prigione al luogo dove viene innalzato il patibolo è cadenzato da una serie di gesti con cui il condannato stesso rende pubblico il suo crimine. È per il tramite del suo corpo che si instaura un rapporto diretto tra il supplizio e il delitto: a piedi nudi, con la veste dei penitenti e portando una torcia in mano, prima di essere ucciso il condannato viene spesso ricondotto nel luogo del delitto e lì attanagliato o, in alcuni casi, giustiziato per imporre, a fini catartici, un più stretto contatto con il crimine da punire e la colpa da espiare. Non infrequente è l'amputazione delle membra nel corso del tragitto: nella Firenze tardomedievale un tal Busecchino, riconosciuto colpevole d'omicidio, subì dapprima il taglio della mano destra, che gli venne appesa al collo a immagine imperitura del suo reato, e, quindi, davanti alla casa dell'ucciso, gli fu amputata anche la mano sinistra (Zorzi 1993). La forma stessa dell'esecuzione rimanda frequentemente al fatto commesso: viene tagliata la mano all'omicida, bucata la lingua al bestemmiatore, vengono bruciati sul rogo le streghe e gli impuri. Con il supplizio si chiude dunque il ciclo iniziato dalla quaestio che ha visto il corpo del condannato produrre e riprodurre la verità del crimine, elemento essenziale che testimonia, attraverso una serie di prove e rituali, che il crimine ha avuto luogo, che il condannato lo ha commesso e che sul suo corpo sopporta il castigo e i suoi effetti. Il Settecento apre il periodo delle grandi riforme che porterà soprattutto in campo penale a un mutamento dei sistemi punitivi. L'Illuminismo francese e italiano ne costituiranno l'humus ideologico.
I pamphlet di Voltaire in Francia e le opere di C. Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764) e di P. Verri (Osservazioni sulla tortura, 1804) in Italia metteranno in evidenza i limiti e le disarmonie del sistema. La seconda metà del 18° secolo è un periodo di intensa passione civile segnato dalla convinzione quasi fideistica della necessità di mutare ogni fondamento della convivenza umana, anche mediante un uso razionale e mirato della giustizia punitiva: la contemplazione di pene e procedure meno crudeli non vuole essere, infatti, una mera reazione alla ferocia dell'antico regime, bensì una delle espressioni più significative dell'Illuminismo utilitarista (Alessi 1987). All'inizio del 19° secolo le premesse ideologiche dell'Illuminismo si concretizzano in sistemi punitivi che lentamente tendono ad abolire i supplizi pubblici, a limitare l'applicazione delle pene corporali e, comunque, a fare in modo che queste non siano più un mero strumento di afflizione fisica del condannato. Il rapporto castigo-corpo si configura in modo del tutto diverso: seppure continueranno a esistere pene che lo colpiscono direttamente (reclusione, lavori forzati, deportazione), il corpo funge ora da intermediario e si interviene su di esso solo per privare l'individuo della libertà, considerata un diritto e insieme un bene (Foucault 1975). La sofferenza fisica non è più elemento costitutivo della pena, l'esecuzione capitale, che permarrà per tutto l'Ottocento e buona parte del Novecento nella maggior parte dei paesi europei, tocca e recide la vita più che il corpo; la morte, con le nuove tecniche (la ghigliottina o, in tempi più recenti, le iniezioni letali), tende a essere ridotta a un avvenimento istantaneo e indolore. La 'presa sul corpo', però, non può dirsi fenomeno del tutto eliminato con la scomparsa dei supplizi.
La stessa pena della reclusione, intesa come pura privazione della libertà, non è andata mai disgiunta da un certo supplemento di punizione che investe il corpo in quanto tale: regime alimentare, astinenza sessuale, cella di isolamento, ora d'aria, regolamentazione dei colloqui. Limitazioni queste che, seppur possono apparire inevitabili e connaturate alla stessa misura della reclusione, non impediscono di evidenziare come la prigione comporti ancora oggi in qualche misura la sofferenza fisica. Se il regime carcerario può dirsi tendenzialmente mutato, per quel che riguarda le condizioni sanitarie e di vita, rispetto al secolo scorso, l'idea di fondo che lo domina, pur mitigata dagli interventi legislativi del 1975 e del 1986, che hanno introdotto un sistema di misure alternative alla detenzione, rimane immutata: un fondo suppliziante, un sottofondo non ancora completamente dominato, anche se sempre più caratterizzato, da una 'penalità dell'incorporeo' (Foucault 1975). Alla fine del 20° secolo l'osmosi concettuale tra persona e corpo sposta l'attenzione sull'essere umano nella sua interezza, quale destinatario di pene, ai cui fini espiatori si affiancano scopi rieducativi, e di norme poste a tutela della vita e dell'integrità fisica. Così come il corpo diviene l'intermediario dell'azione rieducativa dell'intera persona, allo stesso modo la tutela dell'integrità fisica dell'individuo diviene il riflesso di una più ampia tutela dell'essere umano. I modi attraverso i quali, nei vari ordinamenti contemporanei, una simile tutela si concretizza nelle scelte incriminatrici oppure scriminanti, di non punibilità, dipendono irrimediabilmente dalla soluzione che questi danno al prioritario problema del modo di intendere l'essere umano. La tutela penale del corpo, infatti, passa attraverso la contrapposizione dialettica, mai risolta, tra concezione personalistica dell'uomo-fine o valore e quella utilitaristica dell'uomo-mezzo o cosa.
Il corpo umano, quale supporto materiale della persona, gode di maggiore o minore tutela penale a seconda, appunto, del ruolo che questa ha all'interno di ogni ordinamento giuridico. Al di là di quelle fattispecie penali che, in ogni sistema normativo, possono considerarsi i delitti naturali contro l'essere umano, in quanto costituiscono un dato pressoché costante di ogni ordinamento (si pensi ai reati di omicidio, lesioni, o percosse, in cui è evidente l'aggressione al corpo umano), l'interesse giuridico e politico di ogni singolo ordinamento determina la criminalizzazione di ulteriori condotte che, incidendo direttamente o indirettamente sul corpo umano, rivelano, di volta in volta, un maggiore o minore interesse alla tutela della persona (si pensi alla legislazione in materia di infortuni sul lavoro, di inquinamento ecc.).
Le dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le codificazioni ottocentesche, matrici dei codici attuali, individuano nell'uomo, inteso come titolare di una serie di diritti strettamente personali e, in quanto tali, intrasmissibili e inalienabili, un valore da tutelare. Tuttavia non si può certo affermare che gli ordinamenti giuridici contemporanei prendano in considerazione l'essere umano prescindendo in modo assoluto dall'idea della corporeità. La naturale inscindibilità degli aspetti fisici e mentali di un individuo pone il corpo come un veicolo, uno strumento ineliminabile e necessario affinché perduri la vita, e ciò comporta il verificarsi di situazioni soggettive in cui la tutela dell'essere umano è strettamente vincolata all'elemento fisico, tale che, anche laddove si debba intervenire a fini punitivi, all'individuo possa garantirsi una piena tutela dell'integrità fisica.
L'abbandono delle più eclatanti tecniche inquisitorie di coercizione fisica e mentale, precedentemente analizzate, non ha determinato, infatti, un'eliminazione completa e sistematica della tortura; anzi sarebbe estremamente limitativo ritenere che tale aberrante manifestazione della 'patologia giuridica' dei secoli passati non sia in alcun modo penetrata nei sistemi giuridici contemporanei, alcuni dei quali l'hanno, invece, recepita non solo quale strumento d'indagine giudiziaria, ma anche e soprattutto come mezzo di controllo politico, il cui fine sembra giustificare persino la violazione dei principi fondamentali posti a tutela della dignità umana. La Dichiarazione sulla protezione dalla tortura e da altra pena o trattamento crudele, inumano e degradante, adottata dall'ONU nel 1975 e trasformata, nel 1984, in Convenzione, lascia facilmente intendere quanto, ancora oggi, sia vivo e nient'affatto trascurabile il fenomeno della tortura, nonostante, fin dalla seconda metà degli anni Quaranta, l'attenzione all'integrità fisica e psichica dell'uomo abbia suggerito al legislatore italiano - così come a quelli della maggior parte degli Stati moderni e delle Nazioni Unite - norme di tutela diretta contro la tortura e l'inumanità delle pene (per es., gli artt. 13 e 27 della Costituzione; l'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali).
Ulteriori interessanti problematiche giuridiche, strettamente connesse con l'idea della corporeità, emergono, infine, quando si affronta lo studio e si procede all'applicazione delle nuove tecniche biomediche, a partire dalle pratiche chirurgiche sostitutive fino a giungere alle manipolazioni genetiche più audaci (v. bioetica). L'ordinamento giuridico italiano non contempla una disciplina generale e organica in materia di bioetica, né più discipline attinenti a specifiche aree problematiche. L'inerzia legislativa è sicuramente legata a fattori culturali che, nel tentativo di arginare, attraverso l'indifferenza, i meccanismi di crescita scientifica, antepongono, a una disciplina giuridica fortemente innovativa, vaghi assiomi etico-religiosi. Il confine tra la tutela del corpo e la tutela della persona è segnato dal 'principio personalistico' in base al quale il primato dell'uomo si afferma come valore etico in sé, come fine ultimo della tutela giuridica, il che ne esclude ogni forma di strumentalizzazione. In tal senso il principio personalistico comporta il capovolgimento della più antica concezione giuridica in base alla quale, come si è visto, l'uomo era strumentalmente piegato ai superiori interessi dello Stato, quale unica entità in grado di riconoscergli lo status di persona e, come tale, fornirgli adeguata tutela.
Tuttavia, seppur ancora in forma del tutto embrionale rispetto alla maggioranza degli ordinamenti stranieri, anche in Italia esistono norme che, salvaguardando l'essere umano, inevitabilmente, vanno a incidere in modo particolare sulla sfera della corporeità. La Carta costituzionale italiana tutela l'essere umano sotto molteplici aspetti, che possono essere ricondotti a quattro gruppi normativi: a) la salvaguardia della vita, dell'integrità fisica e della salute (artt. 2 e 32 Cost.); b) la salvaguardia della dignità della persona umana (artt. 3, 27, 32 e 41 Cost.); c) la garanzia dell'uguaglianza giuridica e della pari dignità morale tra gli uomini, senza discriminazioni di sorta (art. 3 Cost.); d) la presupposizione del consenso del soggetto destinatario di attività medico-chirurgiche (artt. 13 e 32 Cost.). Accanto a queste disposizioni ne esistono altre che tutelano la libertà di scienza e di ricerca e che fondano la legittimità della sperimentazione (artt. 9 e 33 Cost.). Alcune leggi speciali attengono, infine, a materie che, direttamente o indirettamente, toccano questioni bioetiche, come, per es., la l. 22 maggio 1978, nr. 194, sulla interruzione volontaria di gravidanza che, all'art. 1, ribadisce il principio secondo cui lo "Stato tutela la vita umana dal suo inizio". Sul piano strettamente giuridico il 'personalismo' genera il principio di indisponibilità del proprio corpo che, ancor prima dell'entrata in vigore della Costituzione, trovava espressione in norme come l'art. 5 del codice civile. Ed è proprio il concetto di indisponibilità che sta alla base della regolamentazione del trapianto di organi - tecnica legata all'evoluzione della medicina e risalente già alla fine dell'Ottocento, quando si tentarono, con discreto successo, trapianti ossei e di cornea - e che si presenta quanto mai complesso in ordine alla liceità e ai limiti giuridici.
Per impostare e dare risposta a tutti i quesiti che si pongono appunto in materia di disponibilità del corpo umano, è stato rilevato come non si possa prescindere da alcune premesse utili nell'individuare la soluzione ai molteplici problemi, soluzione che oscilla tra poli dialetticamente opposti. Al singolo possono ricondursi: in astratto, un diritto assoluto di vivere, inteso come possibilità di scegliere l'autosoppressione o la cura, ivi comprese le differenti opzioni terapeutiche; in concreto, un dovere di vivere che coincide con l'interesse collettivo alla conservazione della vita. Agli altri soggetti pubblici sono invece attribuibili poteri in merito alla disponibilità del corpo, anche senza il consenso del soggetto titolare, e al contempo all'indisponibilità nonostante il consenso, qualora si violino principi etici universalmente riconosciuti (Mantovani 1995).
Liceità, quindi, e tolleranza del suicidio in senso stretto; apprezzamento giuridico del sacrificio della propria integrità fisica per un fine eteronomo, pur sempre all'interno di un atto libero e spontaneo non pregiudizievole dell'altrui interesse (penalmente punito, questo, dagli artt. 642 c.p. e 157, 158 c.p. m.p.); tendenziale illiceità di atti dispositivi da parte di altri soggetti, pubblici o privati, sia nell'ipotesi dell'assenza del consenso del soggetto la cui integrità si colpisce (prelievi da viventi di organi a scopo di trapianto), sia, oltre certi limiti, anche con il consenso del soggetto, illiceità di quegli atti che siano contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume, anche se non comportino una menomazione permanente dell'integrità fisica. Il sorgere e lo svilupparsi della chirurgia sostitutiva hanno determinato un mutamento sostanziale non solo nel cammino evolutivo della scienza medica, ma anche nella rappresentazione di alcuni importanti assiomi culturali: in primo luogo la presunzione dell'indispensabilità di ogni parte del corpo umano che è venuta meno con la pratica di trapianto del rene, cui la l. 458/67, tuttavia, guarda con estrema cautela considerandola un'esplicita deroga al divieto di atti di disposizione del proprio corpo; in secondo luogo, il significato stesso e i tempi di accertamento della morte.
La cessazione delle funzioni vitali, da sempre oggetto di una commistione di elementi scientifici, sentimenti, simboli e pregiudizi, è oggi più che mai legata a una sorta di relatività assoluta: l'espianto di un organo da un corpo morto, regolamentato dalla l. 644/75 e dalla l. 301/93 per la cornea, consente, infatti, la sua ultrattività fisica in un corpo vivente e rivoluziona inevitabilmente il sistema dell'accertamento tanatologico, poiché sempre più brevi sono i tempi richiesti per la sopravvivenza dell'organo. Il r.d. 1880/42 prevedeva un periodo di osservazione post mortem di 24-48 ore e considerava effettuabile il solo trapianto corneale. Con le leggi 235/57, 458/67, 519/68 e con il d.p.r. 78/70 e la vigente l. 644/75, l'elenco degli organi prelevabili fu notevolmente esteso e l'accertamento del decesso venne legato a quella che una commissione di esperti della scuola di medicina di Harvard definì come 'morte cerebrale', cioè quella situazione in cui, nonostante il perdurare dell'attività cardiaca, la completa distruzione delle cellule neuronali esclude ogni possibilità di vita autonoma. Questo dato è ormai pienamente acquisito anche nella sfera giuridica, laddove la l. 578/93, così come le legislazioni di vari paesi europei, nonché il documento del 1987 del Consiglio d'Europa, abbandonando i tentativi di definizione del fenomeno morte, ha stabilito che questa coincida con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo. Il concetto di morte, come fenomeno fisico inevitabile introduce problematiche ben più ampie relative alla tutela della vita. A finalità terapeutiche si affiancano, infatti, problemi relativi alla scelta, effettuata per sé o per altri, di morire.
Aborto ed eutanasia, in questo caso, presentano dei tratti comuni: all'agente, sulla base di esigenze e valutazioni personali, si riconosce un diritto, valevole erga omnes, di disporre della vita. La differenza è data dal destinatario della decisione: nell'aborto si decide esclusivamente per la vita altrui, mentre nell'eutanasia per la propria, tenuto conto che l'intervento di un estraneo, in questo caso, integra gli estremi del reato di cui all'art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), o, nel caso in cui il paziente versi in stato di incoscienza, la più grave ipotesi di omicidio volontario (artt. 575-577 c.p.). Il tentativo di porre un freno al cosiddetto accanimento terapeutico, ossia al mantenimento in vita di un individuo con ogni mezzo e macchina, ha acceso dibattiti a livello nazionale e internazionale (v. bioetica; eutanasia). Particolare attenzione al fenomeno è stata prestata dalla Commissione europea per la protezione dell'ambiente, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori, che, nel 1992, ha approvato la risoluzione Schwartzenberg sull'assistenza ai pazienti terminali, ove si sancisce la non perseguibilità di quell'"aiuto medico e umano che interrompa un'esistenza che ha perso ogni dignità [...] ed è talvolta denominato eutanasia". La risoluzione Schwartzenberg sembra particolarmente significativa per trarre delle conclusioni in merito al concetto contemporaneo di dignità, attribuibile alla persona e non anche al corpo biologicamente in vita.
L'unico precedente di autorizzazione legale all'eutanasia risale alla legislazione della Germania nazista che, peraltro, superando di gran lunga i limiti imposti dal riconoscimento del diritto alla vita, attribuiva dignità umana alla sola razza ariana, consentendo sperimentazioni scientifiche mutilanti o letali su esseri viventi di origine ebraica. Per analizzare adeguatamente i fenomeni dell'aborto e dell'eutanasia non si può prescindere dal tracciare gli elementi caratterizzanti della vita, intesa come capacità soggettiva di autoproduzione, ossia autonomia e spontaneità dei meccanismi vitali, ma questo è uno dei casi in cui il tentativo di una definizione impone dei limiti all'oggetto definito: l'ovocita fecondato, per es., ha un suo metabolismo, tanto che il cumulo ooforo resta a esso aderente per due o tre giorni dopo la fecondazione e secerne progesterone, estradiolo e prostaglandine. Inoltre, già prima dell'impianto in cavità uterina, l'embrione ha la capacità di secernere gonadotropina corionica e di provocare l'individuazione del gene corrispondente e dell'insuline like gravid factor. Sulla base di queste considerazioni, la l. 194/78 ha scatenato lunghe e irrisolte polemiche eticosociali.
L'intervento del legislatore ha comportato l'abrogazione del titolo 10° del libro 2° del codice penale che prevedeva e puniva i delitti abortivi come delitti contro l'integrità della stirpe. In buona sostanza si è giunti a eliminare l'equivalenza tra il diritto della donna alla salute fisica e psichica e quello potenziale dell'embrione: in questa materia la differenziazione tra il concetto di corpo, inteso come porzione di materia fisica, e di persona emerge in modo quanto mai evidente. La fictio giuridica, tuttavia, richiede, a volte, incoerenza: così la legalità dell'aborto, che presuppone la mancata attribuzione al feto della qualità di essere vivente, non esclude che al nascituro e al non concepito vengano riconosciuti diritti testamentari, attribuendogli, evidentemente, il ruolo di persona. L'enucleazione del concetto di 'personeità', intesa come vitalità di un organismo e, nello stesso tempo, come attitudine dello stesso ad assumere la qualità di persona e a godere dei diritti a essa spettanti, introduce un'ultima interessante considerazione in merito all'attività scientifica di manipolazione genetica: la clonazione, di cui la fantascienza cinematografica ha mostrato applicazioni su larga scala, è oggi una realtà scientifica ai suoi esordi, la quale, combinata con altre biotecnologie, offre un contributo notevole alla terapia genica della linea germinale, ossia all'individuazione di un sistema che, attraverso un insieme di modificazioni, sia in grado di correggere un difetto genetico: dall'embrione con il difetto genetico, nei confronti del quale, giuridicamente, si adottano i medesimi criteri valutativi della l. 194/78, si crea un clone corretto. Tuttavia le ricerche sulla clonazione non trovano nella terapia genica il loro unico scopo, mirando anche, e soprattutto, alla creazione artificiale di esseri viventi, nonostante la normativa vigente, nazionale e internazionale, vieti rigorosamente, a tutt'oggi, che tali sperimentazioni possano essere eseguite su esseri umani il cui unico ruolo, secondo una concezione neoschiavistica della società, sarebbe quello di forza-lavoro.
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