Diritto
Parte prima. Aspetti del fenomeno giuridico nel tempo e in diversi luoghi e gruppi sociali.
1. Congetture sulle comunità primitive. 2. Cenni sui diritti del Vicino Oriente antico: a) sguardo generale ai diritti della civiltà 'palaziale'; b) i diritti mesopotamici, anatolici e altri della civiltà palaziale; c) il diritto dell'Egitto faraonico; d) il diritto biblico. 3. I diritti greci. 4. Il diritto romano e i suoi modelli: a) il regime repubblicano; b) i giuristi artefici e scienziati del diritto; c) il 'ius honorarium'; d) il cristianesimo del tardo Impero. 5. Il diritto hindu fino al 500 circa. 6. Il diritto cinese fino al 500 circa. 7. I regni e le altre comunità organizzate nell'Europa medievale: a) i Regni germanici, l'Impero carolingio, il feudalesimo; b) il Sacro Impero romano germanico; c) le Chartae medievali e la Magna Charta. 8. Elementi e modi di formazione dei diritti europei continentali nel Medioevo: a) origine della tradizione romanistica e leggi romano-barbariche; b) consuetudini e leggi germaniche; c) il diritto canonico; d) rinnovato studio e applicazione pratica del diritto romano; e) diritto comune e diritti particolari. 9. Elementi e modi di formazione del diritto inglese nel Medioevo: a) la common law; b) l'equity. 10. Il diritto musulmano. 11. Cenni sui diritti europei o di origine europea dal XVI secolo agli inizi del XX: a) l'assolutismo e le dichiarazioni dei diritti umani; b) le scuole di diritto; c) la codificazione. 12. Cenni sui diritti hindu, cinese e giapponese dal Medioevo all'età contemporanea: a) il diritto hindu dopo il 500; b) il diritto cinese dopo il 500; c) il diritto giapponese. 13. Aspetti dei diritti dell'età contemporanea: a) socialismo e Stati totalitari; b) tendenze della dottrina giuridica italiana prima e dopo la seconda guerra mondiale; c) nuovi orizzonti del diritto.
Parte seconda. Riflessioni teoriche su struttura e funzione del diritto.
14. Raccordo con la parte precedente. 15. Gli elementi del diritto: a) imperativismo e normativismo; b) il 'realismo' scandinavo e americano; c) norme e precetti; d) la teoria dell''istituzione'; e) norme e principî. 16. Distinzione del diritto dalle altre prescrizioni di condotta. 17. Se la sanzione sia elemento essenziale delle norme giuridiche. 18. Categorie di norme giuridiche: a) norme costituzionali e ordinarie; b) norme che conferiscono poteri e che prescrivono condotte; c) norme di organizzazione, di relazione, sanzionatorie. 19. Caratteri peculiari delle norme giuridiche: a) destinazione delle norme a durare nel tempo; b) carattere 'espansivo' delle norme; c) principio di non contraddizione. 20. Il contenuto delle norme giuridiche: a) rilevanza della funzione; b) rilevanza degli interessi; c) rilevanza dei valori etici. 21. Diritto e giustizia: a) giustizia, religione, diritto naturale; b) giustizia, morale e validità delle norme giuridiche; c) organi giurisdizionali autorizzati ad adeguare il diritto all'equità. 22. Formazione (o fonti) del diritto: a) la consuetudine; b) fonti di tipo legislativo; c) fonti dei precetti; d) i precedenti giudiziari nei sistemi di common law; e) precedenti giudiziari e dottrina nei sistemi diversi da quelli di common law; f) atti di autonomia (negozi giuridici, contratti collettivi, trattati internazionali). 23. L'opera dell'interprete: a) l'interpretazione delle norme e dei precetti; b) l'analogia e i principî generali. 24. I soggetti a cui norme e precetti si riferiscono: a) le 'persone fisiche': capacità e 'status'; b) le 'persone giuridiche' e gli 'insiemi' non personificati. 25. Le situazioni giuridiche soggettive: a) il punto di vista dei soggetti e quello degli atti da essi compiuti; b) situazioni giuridiche favorevoli e sfavorevoli. 26. Le situazioni giuridiche soggettive elementari: a) il dovere; b) dubbi intorno all'onere; c) dovere e obbligo; d) pretesa e potere di tutela; e) facoltà e immunità; f) potere e soggezione. 27. Il 'diritto soggettivo' come situazione giuridica complessa: a) l'uso di denominare 'diritto' qualunque situazione elementare favorevole; b) tendenze a far coincidere il diritto soggettivo con una singola situazione elementare o a ravvisarvi invece una situazione elementare in più; c) importanza della definizione jheringhiana del diritto soggettivo come "interesse giuridicamente protetto"; d) la protezione dell'interesse con un aggregato, variamente composto, di situazioni elementari; e) valenza ideologica e sociopolitica del diritto soggettivo. 28. Le misure di tutela del diritto soggettivo. 29. L'azione come potere processuale di promuovere le misure di tutela e il suo rapporto col diritto soggettivo. 30. Mutamento di prospettiva e di poteri nel passaggio dal diritto sostanziale al processo. □ Bibliografia.
Pare opportuno iniziare questo studio con la descrizione a grandi linee degli aspetti assunti dal fenomeno giuridico nel corso del tempo e in alcuni fra i luoghi e i gruppi sociali più significativi. Non è necessario condividere l'affermazione di Gaio (Digesto, 1,2,1), secondo cui "cuiusque rei potissima pars principium est", per riconoscere che la nascita è certo vicenda fondamentale del fenomeno giuridico. È per altro, ovviamente, la vicenda più oscura, essendo in sostanza impossibile stabilire quando e come sia avvenuta. Un piccolo aiuto viene dal postulato che il diritto sia sorto quando si costituì una, sia pure embrionale, comunità, dotata di un minimo di organizzazione. Fra uomini isolati, anche se non, hobbesianamente, in perpetua lotta fra loro, non c'è diritto. E una qualsiasi organizzazione pare inconcepibile tra uomini incapaci di parlare o di comunicare con certezza di capirsi, e privi di qualsiasi arma, strumento, indumento, ossia non ancora usciti dallo stato animale. È vero che esistono e sono stati studiati gruppi organizzati di animali; ma, supposto pure che il loro elemento connettivo sia da qualificarsi diritto, si tratterebbe, comunque, di un diritto intrinsecamente diverso da quello umano, oggetto del presente scritto. Gruppi umani embrionali sono dunque da immaginarsi posteriori all'inizio della cosiddetta età paleolitica (nella quale potrebbe aver avuto influenza un dominio del fuoco sufficiente a creare focolari attorno a cui riunire gruppi parentali: cfr. B. Chiarelli, Origini della socialità e della cultura umana, Roma-Bari 1984, pp. 123 s.). Si tratta di una data post quam, che è però non solo incerta, ma da immaginarsi diversa nei diversi gruppi umani.
Diversa ugualmente fra gruppo e gruppo, ma meno incerta, è la data ante quam, se la si individua nel momento in cui alcuni uomini cominciarono a coltivare costantemente certi vegetali e (sembra più tardi) ad allevare stabilmente certi animali. Poiché tracce sicure di agricoltura e pastorizia si sono rinvenute nel Vicino Oriente per un'epoca compresa fra i 10.000 e gli 8.000 anni fa, si può supporre che quella coltivazione e quell'allevamento siano iniziati in tali luoghi fra i 12.000 e i 10.000 anni a.C. (su tutto il tema cfr. Transitions to agriculture, a cura di A.B. Gebauer e T.D. Price, Madison, Wis., 1992, e Pastoralism in the Levant, a cura di O. Bar-Josef e A. Khazanov, Madison, Wis., 1992). In tali anni gruppi umani organizzati certo esistevano già e la nascita dell'agricoltura e della pastorizia influì soltanto sulla loro struttura. Come la datazione, così è molto difficile determinare con qualche precisione la localizzazione dei fatti inerenti alla nascita del diritto. Il luogo d'origine dell'umanità suole porsi nell'Africa centromeridionale, ma prima di aggregarsi in embrionali comunità gli uomini hanno certo compiuto molte migrazioni. Si può solo supporre che le comunità le quali, avendo sviluppato l'agricoltura estensiva, cominciarono a stanziarsi in villaggi abbiano avuto sedi nei (o prossime ai) territori (Mesopotamia, Siria, Palestina, Egitto, Anatolia, poi India e Cina) il cui diritto all'inizio della protostoria aveva raggiunto le punte più avanzate. Se poi si vuole immaginare come il diritto abbia inizialmente operato, possono servire da punto di riferimento le comunità primitive dei nostri tempi, quali Malinowski, Llewellyn, Hoebel, Pospisel, Binford e altri antropologi culturali le hanno descritte (cfr. A. Colajanni, Il diritto nelle società primitive, Bologna 1973; L. Straus, The reconstruction of Upper Paleolithic adaptations, in Congreso de antropología, vol. III, Vitoria 1988, pp. 5 ss.). Esse sono certo molto diverse tra loro per stadio di sviluppo, condizioni geografiche, contatti con popoli di civiltà avanzata (bastano anzi questi contatti per inquinare la testimonianza che esse possono fornire a tal fine) e, d'altra parte, è estremamente probabile che le comunità primitive antiche abbiano avuto un'organizzazione giuridica assai più embrionale. Indicazioni tuttavia se ne possono trarre. Grazie a esse è immaginabile che le comunità più antiche siano state gruppi parentali (o lignaggi) matrilineari, per l'assenza di una paternità accertata o riconosciuta. (Hoebel anzi ha rilevato che i gruppi parentali Ashanti, Ghana, rimasero matrilineari anche dopo l'istituzione di un matrimonio legittimo). La stabilizzazione di tali gruppi si ebbe quando i componenti riconobbero, espressamente o di fatto, un proprio capo nella persona, di solito, dello zio materno o del fratello maggiore.
Nelle 'moderne' comunità primitive il gruppo parentale è incluso in comunità più ampie (clan o tribù). Ciò nelle comunità 'antiche' dovette avvenire forse solo dopo unioni occasionali per lottare con gruppi vicini, organizzare cacce, difendersi da belve o pericoli naturali. L'allargamento stabile delle comunità 'antiche' implicò un salto di qualità del diritto, che comprese regole organizzative più complesse, divieti (alcuni forse analoghi ai tabù polinesiani), pene umane e/o magiche. L'insieme era certo influenzato da credenze in entità soprannaturali, per il momento non personificate in divinità, di cui si faceva interprete uno sciamano o stregone. Le regole organizzative, pur assai varie in concreto, dovevano avvicinarsi a due modelli che si notano nelle comunità primitive 'moderne': un modello quasi paritario o a potere diffuso, come quello osservato da E. Biocca fra gli Yanoàma, con un capo e/o un consiglio degli anziani ispirati dallo stregone e dotati - l'uno e gli altri - di scarsi poteri, mentre il resto della comunità si reggeva praticamente da sé secondo gli usi e/o secondo regole magiche; un modello autoritario o a potere centralizzato, con un capo guerriero dotato di ampi poteri e forti disuguaglianze tra i consiglieri del capo o altri 'nobili' e la restante popolazione. Varianti e modelli più articolati si ebbero con lo sviluppo delle attività pastorali e agricole, che aggiunsero nuovi beni a quelli già oggetto di appartenenza, mentre peraltro le terre continuarono ad appartenere alla collettività o al capo, pur spettando probabilmente i prodotti a chi le coltivava. Lo sviluppo dell'agricoltura - oltre all'insediamento delle comunità nei primi villaggi - favorì anche, grazie al matrimonio, l'enuclearsi di famiglie nel gruppo parentale.
Dall'epoca or ora considerata (intorno all'8000 a.C.) fino agli ultimi secoli del IV millennio a.C. le comunità più avanzate di Mesopotamia, Siria, Egitto dovettero accelerare in modo prima non immaginabile il loro sviluppo, dato che tra il 3200 e il 3000 a.C. furono scritti documenti di contenuto giuridico, i quali presuppongono, oltre che ovviamente la padronanza della scrittura, un'organizzazione giuridica abbastanza evoluta. Tali documenti attestano che la città sumera di Uruk (bassa Mesopotamia) era retta da una monarchia e aveva raggiunto fra il 3000 e il 2500 a.C. considerevole importanza politica ed economica. Uno di quei documenti riferisce che furono gli dei (personificazione prevalente ormai delle forze soprannaturali) a creare la città e a far scendere per essa il re dal cielo: leggenda singolarmente analoga a quella di una comunità primitiva moderna (quella dei già menzionati Ashanti), secondo la quale il capo della tribù Kumasi, dopo aver vinto altre tribù, poté diventare re dell'intero popolo grazie al miracolo, propiziato dal sommo sacerdote, della discesa dal cielo di un trono d'oro, segno della volontà degli dei che gli Ashanti fossero uniti sotto quel re. La civiltà allora sorta in Mesopotamia, Siria, Anatolia, ed estesasi con nuove forme a Creta e poi ai Regni micenei, suole qualificarsi 'palaziale', perché il palazzo del re - da lui costruito ai margini di uno degli antichi villaggi - costituiva il centro politico, militare, legislativo, giudiziario, amministrativo, economico della comunità. In quei palazzi si conservavano i prodotti, per lo più agricoli, che i sudditi dovevano farvi affluire e che poi l'amministrazione provvedeva a distribuire. Partendo da quei palazzi, gli eserciti di alcuni re riuscirono a costituire estesi imperi, come il babilonese, l'assiro, lo hittita. In questi Imperi, ma anche nei regni minori, si svolse un'intensa attività giuridica che faceva leva su leggi anche complesse, testimoniate da stele di pietra e tavolette d'argilla, e si concretava in una miriade di negozi privati e di atti amministrativi documentati da migliaia di piastrelle di ceramica, il tutto in scrittura cuneiforme.
Alla fine del III e durante il II millennio a.C. risultano emanate leggi composte di vere e proprie norme. Esse constano di una protasi, descrivente in forma astratta un fatto o un insieme di fatti, e di un'apodosi, enunciante la relativa conseguenza (una prescrizione di condotta, una pena, ecc.). Le più note finora scoperte sono le leggi di Ur-numma (intorno al 2100), le leggi (o codice) di Lipit-Ishtar (di poco posteriori), le leggi di Eshnunna (tra il 1900 e il 1800), il Codice di Hammurabi (intorno al 1740), di gran lunga la più ampia raccolta (almeno 282 'articoli') e la prima a essere scoperta (nel 1902), le leggi assire (1400-1100) e quelle hittite (1400-1300). Non si sono finora trovate raccolte di norme a Ebla, in Siria (palazzo almeno del 2500 a.C.), ma forse parte del diritto potrà ricostruirsi con l'analisi delle tavolette, una delle quali (TM 75 G 2420) presuppone atti normativi. Altre norme risultano emanate nella stessa epoca a Larsa. Le norme di queste leggi sono spesso particolari, come se avessero preso lo spunto da un caso specifico, fossero cioè 'casistiche'. La maggior parte delle norme generali è invece presupposta con una specie di rinvio alla consuetudine. La norma consuetudinaria base deve avere semplicemente stabilito che il re aveva tutti i poteri, purché li esercitasse nell'interesse del suo popolo e facendo regnare in esso la giustizia. Autori e garanti di questo limite appaiono gli dei, come si desume principalmente dal prologo e dall'epilogo del Codice di Hammurabi e dalla relativa stele custodita nel museo parigino del Louvre, nella cui parte alta il re, ossequente dinanzi al dio Marduk, sembra riceverne i suggerimenti. Il prologo, a sua volta, riferisce la chiamata del re da parte degli dei Anum ed Enlil e l'ordine, impartitogli da Marduk, di far regnare la giustizia nel paese, e fa appello, come poi fa anche l'epilogo, al dio della giustizia Šamaš. La religione era ormai il solo tramite fra gli uomini e gli esseri soprannaturali, e gli stregoni erano stati non solo messi da parte, ma puniti (cfr. Codice di Hammurabi, 2; leggi assire, A. 47). Si potrebbe ritenere che il Regno di Hammurabi e i consimili regni in Mesopotamia, Siria e Anatolia fossero teocratici, ma non sembra esatto, dal momento che il re era raffigurato in diretto rapporto con gli dei, senza l'intermediazione di sacerdoti, e le norme da lui emanate avevano in definitiva carattere puramente regio.
Esistevano beninteso sacerdoti e templi, e questi erano anche importanti centri economici, ma non esisteva una casta sacerdotale che si contrapponesse al re o, all'occorrenza, ne guidasse l'opera di governo. Dall'insieme delle norme legislative pervenute si desume che in materia penale la vendetta privata, talvolta sotto forma di taglione, coesisteva con la repressione giudiziaria, promossa nel tribunale del re o di altri giudici con un'accusa fondata su regolari prove, quali testimonianze e scritture. Era anche prevista in alcuni casi l'ordalia del fiume, la quale probabilmente si eseguiva con modalità diverse. Una di queste - secondo il Codice di Hammurabi, 2, in merito all'accusa di stregoneria - consisteva nell'attraversamento dell'Eufrate da parte dell'accusato, il quale, se veniva inghiottito dal fiume, risultava colpevole e subiva con ciò stesso la prevista pena di morte, mentre, se usciva sano e salvo dando così la prova della sua innocenza, poteva impadronirsi dei beni dell'accusatore, colpevole di calunnia. Le restanti norme indicano che il matrimonio era monogamico, che solo il marito poteva divorziare, che solo la moglie aveva il dovere di fedeltà e subiva (così come il suo complice) la pena dell'adulterio, in dati casi anche capitale (Codice di Hammurabi, 129; leggi assire, A. 13).
Risulta inoltre che, oltre ai beni mobili, anche certi immobili potevano essere goduti in modo esclusivo da un privato (sia o no corretto parlare al riguardo di proprietà: Codice di Hammurabi, 42-47; leggi assire, B. 10-20) e che erano riconosciuti vincolanti i contratti di mutuo e locazione e certi contratti di lavoro (legge di Eshnunna, 5;9;32; Codice di Hammurabi, 218-233; 238-239). (Su tutto il tema cfr. R. Haase, Die keilschriftlichen Rechtssammlungen in deutscher Ubersetzung, Wiesbaden 1963; R. Yaron, The laws of Eshnunna, Jerusalem 1969; E. Szlechter, Codex Hammurabi, Roma 1977; G. Cardascia, Les lois assyriennes, Paris 1969; F. Imparati, Le leggi ittite, Firenze 1964). Dall'inizio del II millennio a.C. la civiltà palaziale è attestata a Creta presso i Minoici e poi nei regni micenei di Grecia e della stessa Creta da essi conquistata verso la metà del millennio. Non vi si sono finora scoperti codici né leggi, ma, fra l'altro, non si è ancora decifrata la lineare A. Il re dei Micenei, in qualche modo rievocato da Omero (cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, Milano 1979), era chiamato wanax (⟨FT52>F⟨FT111>άναξ); è controverso se egli fosse a capo di un regno teocratico o di una monarchia più simile a quelle mesopotamiche e anatoliche. Dal Regno miceneo provengono documenti di contratti di vendita (cfr. The Knossos tablets, testo traslitterato a cura di J. Chadwick, J. T. Killen e J.-P. Olivier, Cambridge 1971⁴; per una visione generale cfr. L.R. Palmer, Mycenaeans and Minoans: Aegean prehistory in the light of the Linear B tablets, London 1961, tr. it.: Minoici e micenei: l'antica civiltà egea dopo la decifrazione della Lineare B, Torino 1969).
I faraoni avevano costituito il loro Antico Regno in epoca anteriore anche al Regno di Ebla ed erano stati iniziatori di una civiltà avente caratteristiche inconfondibili. Nessun codice né raccolta di leggi è stato trovato in Egitto, pur non potendo negarsi che i faraoni emanarono leggi (cfr. J.M. Kruchten - a cura di - Le décret d'Horembeb, Bruxelles 1981; A. Théodoridès, La formation du droit dans l'Égipte Pharaonique, in AA.VV., La formazione del diritto nel Vicino Oriente antico, Napoli 1988, pp. 13-33). Pare certo, ad ogni modo, che il diritto egizio fosse di origine consuetudinaria; forse era anche giudiziario-casistico, poiché sembra che il supremo giudice, il Ciaty, e anche altri organi giudiziari godessero, nel decidere i singoli casi, di una certa discrezionalità. Il diritto egizio appare invero più flessibile di quello degli altri regni e, d'altro canto, più egualitario verso le donne, mentre recepiva più che negli altri regni l'influenza dei sacerdoti (cfr. in generale B. Menu, Recherches sur l'histoire juridique, économique et sociale de l'ancienne Égypte, Versailles 1982).
Una ben più profonda influenza della religione e della casta sacerdotale si riscontra nella comunità ebraica, la quale, fuggendo dall'Egitto (secondo la tradizione biblica) o emigrando dall'Arabia (secondo alcuni studiosi), si stanziò verso la fine del II millennio a.C. nella terra di Canaan. Essa merita di essere qui considerata soprattutto come esempio di una comunità teocratica retta da un diritto strettamente legato alla religione. Il suo effettivo costituirsi fu infatti preceduto dalla diretta imposizione al popolo, tramite Mosè, della Torah (legge) da parte di Dio sul monte Sinai. Alcuni libri del Pentateuco - in particolare i capp. 20-31 dell'Esodo, ma anche qua e là i capitoli successivi, nonché il Levitico e il Deuteronomio - contengono, oltre ai dieci comandamenti, norme enunciate, anzi in parte scritte su pietra (cfr. Esodo, 32,13; 34,1-49), da Dio stesso: norme che possono bensì distinguersi in religiose, rituali e giuridiche (per la somiglianza di queste ultime, quanto a materia regolata e, talvolta, a forma di prescrizione, con norme delle leggi mesopotamiche), ma che formalmente sono tutte accomunate dalla natura divina della fonte (cfr. D. Piattelli, Tradizioni giuridiche d'Israele, Torino 1990; R. Yaron, The evolution of Biblical law, in La formazione del diritto del Vicino Oriente antico, cit., pp. 77 ss.).
La conseguenza fu che esse furono considerate non modificabili né integrabili, nemmeno quando furono istituiti in Israele i re, titolari invero di poteri tanto deboli da non comprendere quello di emanare leggi atte a incidere, almeno a scopo di aggiornamento, sul diritto divino. L'intrinseca rigidità di questo diritto venne attenuata con l'ammissione di leggi tramandate oralmente (Torah orale) e con le sottigliezze interpretative mostrate soprattutto dai dottori della legge ispirati dal sacerdote Esdra dopo il ritorno dalla cattività di Babilonia (fine del VI secolo a.C.). Si formarono così, accanto alla Torah, prima un insieme costituito dalle leggi morali e dalle varie interpretazioni, noto complessivamente come Mishnah (200 a.C. circa), poi, a grande distanza di tempo (VI secolo d.C.), i Talmud (il babilonese in 12 libri e il più succinto palestinese), nei quali persisteva, beninteso, la tradizionale commistione tra religione e diritto.
Quanto sia stato importante il contributo greco alla civiltà umana non ha bisogno di essere illustrato. Non occorrono nemmeno molte parole per sintetizzare l'apporto della Grecia antica allo sviluppo del diritto. Intorno al X secolo a.C., re (βασιλεῖϚ) molto più deboli dei wanaktes micenei erano a capo di singole città e della campagna circostante e vennero poi sostituiti da (o inglobati in) magistrature repubblicane. Sorse così la πόλιϚ, la quale costituì (nonostante l'eventuale presenza di re fra i suoi organi) il più antico e sostanzialmente il più illustre modello di repubblica. Essa era imperniata su tre organi: assemblea dei cittadini (᾽Εϰϰλησία ad Atene, ᾽Απέλλα a Sparta), consiglio (Βουλή, Γεϱουσία), magistrati. La natura di questi ultimi e la concentrazione di poteri nell'uno o nell'altro organo determinavano il tipo di governo. Secondo i pensatori greci riassunti da Aristotele e poi da Polibio, i tipi possibili di governo erano sei, alternativamente uno buono, uno cattivo: monarchia o tirannide, aristocrazia (governo dei migliori) o oligarchia (governo di pochi privilegiati), democrazia (governo del popolo) o oclocrazia (governo delle masse). Si immaginò, schematizzando e sintetizzando la storia costituzionale di alcune città, un passaggio ciclico dall'uno all'altro tipo. In concreto la costituzione di Sparta, caratterizzata dalla persistenza di due re e dalla radicale disuguaglianza degli abitanti (gli Spartiati, dediti alle armi, beneficiari di terre loro concesse dalla πόλιϚ, soli ammessi all'᾽Απέλλα e agli altri organi pubblici; gli Iloti, semischiavi, costretti a coltivare le terre degli Spartiati; i Perieci, abitanti dei territori conquistati, liberi solo di dedicarsi ad attività economiche), rimase sempre, pur con varianti, aristocratica o oligarchica. Invece la costituzione di Atene fu, a partire da Solone (inizio del VI secolo), tendenzialmente democratica, malgrado non irrilevanti parentesi di tirannide e nonostante la generale inferiorità socio-giuridica delle donne (escluse, fra l'altro, dai diritti politici), nonché le disuguaglianze tra i cittadini pieni (πολῖται) e i Meteci (stranieri autorizzati ad abitare in territorio ateniese sotto la protezione di un patrono: πϱοστάτηϚ).
Eccetto che nei periodi di tirannide, i πολῖται avevano tre fondamentali diritti politici: partecipare attivamente all'assemblea, rivestire una magistratura (spesso, tranne quella degli strateghi, per estrazione a sorte), essere giudici nel tribunale eliastico. Il diritto ateniese (che si prende qui ad esempio come il più noto) era costituito anzitutto da leggi (νόμοι) votate dall'assemblea, e se ne scorgeva la divina ispiratrice in Temi, dea della giustizia e moglie di Zeus. Le leggi apparivano quindi tendenzialmente immutabili; tuttavia le costituzioni del V-IV secolo per lo più stabilivano che ogni anno l'assemblea deliberasse se o quale legge dovesse modificarsi. Il diritto derivava pure dalla consuetudine (legge non scritta, ἄγϱαϕοϚ νόμοϚ). Gli atti contrari alla legge erano colpiti con una pena o un'altra sanzione. La sua irrogazione da parte dei giudici, se l'interesse violato appariva individuale o familiare (tale anche quello degli stretti parenti di un assassinato), poteva essere chiesta dal singolo interessato con un'azione giudiziaria chiamata δίϰη, se invece appariva collettivo, poteva essere chiesta da qualunque cittadino con un'azione giudiziaria chiamata γϱαϕή. I pensatori greci trattarono del diritto e dell'organizzazione della πόλιϚ sotto il profilo filosofico o sociologico. Altri autori scrissero le orazioni con cui attore o accusatore e convenuto o accusato sostenevano le loro rispettive ragioni dinanzi ai giudici, citando spesso le leggi attinenti al caso e svolgendo argomenti con la tecnica della retorica. Mancò invece in Grecia uno studio scientifico del diritto (su tutto il tema cfr. H.J. Wolff, Rechtskunde und Rechtswissenschaft bei den Griechen, in "Beiträge zur Rechtsgeschichte Altgriechenlands", 1951, XLIV, pp. 243 ss.; E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit.; A. Biscardi, Diritto greco antico, Milano 1982; M. Talamanca, Il diritto in Grecia, in Il diritto in Grecia e a Roma, di M. Bretone e M. Talamanca, Roma-Bari 1981; J. Bleicken, Die athenische Demokratie, Paderborn-Zürich 1988²).
Quasi cinque secoli dopo la fine dei Regni micenei in Grecia e mille anni dopo il Codice babilonese di Hammurabi, ossia nell'VIII secolo a.C., fu, secondo la tradizione, fondata Roma, ma solo intorno al 450 a.C. questa comunità cominciò a mostrare le sue capacità di organizzazione giuridica e solo dal II secolo cominciò a emergere per la qualità dei suoi giuristi. Già nel 450 a.C. (epoca delle XII tavole) i Romani conoscevano la cultura greca e, specie successivamente, ne sentirono l'influenza, ma nel campo del diritto, senza rendersene del tutto conto, essi la superarono largamente. Il diritto formatosi a Roma durante sette o otto secoli fornì a lungo modelli ai diritti europei ed extraeuropei. Basterà qui indicare i principali fra questi modelli.
Questo primo modello concerne la struttura della comunità politica, in ispecie la struttura repubblicana (V-I secolo a.C.). La repubblica romana, sulle orme delle πόλειϚ greche era imperniata su tre organi - assemblea popolare (comitia), consiglio (senatus), magistrati (consules, praetores, ecc.) - ma la distribuzione dei poteri fra essi era tale, nel III-II secolo a.C., che lo storico greco Polibio poté dire che Roma era contemporaneamente, a seconda dell'organo considerato, una monarchia, un'aristocrazia e una democrazia. In realtà fra il V e il II secolo a.C. Roma fu essenzialmente un'aristocrazia temperata dalla presenza dei tribuni della plebe, i quali, eletti dall'assemblea plebea, potevano ciascuno con la propria tempestiva intercessio arrestare il corso di qualsiasi provvedimento e far approvare inoltre dalla stessa assemblea atti normativi (plebiscita) vincolanti, dal 286 a.C., per tutto il popolo. I tentativi di rendere la repubblica più democratica, iniziati dai Gracchi grazie all'esercizio di quei poteri, determinarono tensioni che, attraverso guerre civili, intermezzi democratici e poteri personali, condussero nel 27 a.C. al principato di Augusto (sul molto più complesso tema cfr. P. De Francisci, Storia del diritto romano, 3 voll., Milano 1936-1939²; F. De Martino, Storia della costituzione romana, 5 voll., Napoli 1972-1975²; J. Bleicken, Die Verfassung der römischen Republik, Paderborn 1975; S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, vol. I, Milano 1981).
Il secondo modello riguarda principalmente il diritto dei rapporti fra privati, parte privilegiata dell'eredità giuridica romana, ed è costituito dall'opera dei giuristi fra il IV secolo a.C. e il IV d.C. Essa consistette dapprima nell'interpretazione evolutiva delle XII tavole da parte dei giuristi appartenenti al collegio sacerdotale dei pontefici, poi, divenuta laica la categoria, si estrinsecò soprattutto in modo casistico, mediante pareri (responsa) sull'esatta soluzione di casi concreti loro sottoposti da uno degli interessati, discussioni di casi controversi tradizionali (quaestiones), esposizioni del diritto vigente nelle varie materie. Fra queste, almeno dal I secolo d.C., vi fu anche il diritto penale, che, a differenza del privato, era stato spesso dopo le XII tavole regolato da leggi, molte delle quali verso la fine della repubblica avevano istituito ciascuna una giuria di cittadini di elevato rango sociale presieduta da un magistrato (quaestio), affidandole il compito di giudicare le persone accusate del singolo delitto da tale legge precisamente descritto e punito con pena fissa (più lieve in massima della pena capitale). I giuristi analizzarono tali leggi anche come spunto delle modificazioni introdotte nel principato da organi (senato, principe, suoi funzionari) che giudicavano senza giurie e fuori della relativa procedura (extra ordinem), infliggendo pene flessibili, ma in genere più gravi, anche crudeli. I giuristi romani (le cui punte più alte furono Labeone, Giuliano, Papiniano) si distinsero per la loro capacità di combinare ragionamenti rigorosi con valutazioni etico-sociali dei singoli casi ispirate a giustizia ed equità (entro i limiti - beninteso- della persistente schiavitù e delle gravi disuguaglianze sociali). Essi contribuirono largamente alla formazione del diritto, grazie al loro prestigio più che a poteri loro ufficialmente conferiti, e fornirono il primo esempio in Occidente (un altro, intrinsecamente diverso, ne vedremo in India) di uno studio scientifico e imparziale del diritto (cfr. F. Schulz, History of Roman legal science, Oxford 1963²; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 1982²; F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, vol. I, München 1988).
Un terzo modello è costituito dall'attività dei pretori e di altri magistrati operanti nell'amministrazione della giustizia. Chiave del modello fu il potere di quei pretori, e in parte degli altri magistrati, di derogare più o meno ampiamente al diritto vigente, se esso appariva inadeguato alle nuove (o diversamente valutate) esigenze sociali, e di introdurre quindi procedure e criteri di giudizio da esso divergenti. Così furono in grado di tutelare sia persone, sia interessi per i quali fino alla loro innovazione o non esisteva nessuna tutela o ne esisteva una arretrata e (divenuta) ingiusta. Essi intervennero dapprima, a quanto sembra, caso per caso (altro probabile esempio di formazione casistica del diritto), poi con promesse di intervento formulate in modo generale o astratto nell'editto emanato di regola ogni anno. Si formò così, accanto al diritto delle XII tavole aggiornato e arricchito dalla consuetudine e dai giuristi e da quanto era stato sporadicamente introdotto da leggi, e poi anche da disposizioni del senato e del principe (nell'insieme ius civile), un diritto parallelo (ius praetorium o honorarium) destinato, secondo Papiniano, a integrare, supplire, correggere il ius civile. Deve solo aggiungersi che gli interventi dei magistrati furono spesso consigliati o tecnicamente elaborati dai giuristi, chiave di volta dell'intero diritto del tempo. Un ponte poi fra il ius civile e il praetorium fu il ius gentium, diritto applicabile anche agli stranieri, in parte derivato dagli usi internazionali e da quelli del commercio con stranieri, in parte creazione pretoria, sempre con la guida dei giuristi (cfr. E. Betti, La creazione del diritto nella 'iurisdictio' del pretore romano, in Studi in onore di G. Chiovenda, Roma 1927, pp. 89 ss; M. Kaser, 'Ius honorarium' und 'ius civile', in "Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte", 1984, CI, pp. 1 ss.; G. Pugliese, 'Ius honorarium' e 'equity', in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1988, XLII, pp. 1101 ss.).
Ci siamo riferiti fin qui a quelli che sogliono chiamarsi periodi preclassico e classico. Cominciò poi (nel corso del III secolo d.C.) quello detto postclassico, concluso con l'epoca giustinianea e caratterizzato dall'instaurazione della monarchia assoluta (detta 'dominato'), dal forte sviluppo della burocrazia e della relativa disciplina giuridica, dal largo impiego dei testi classici riuniti in raccolte di varia natura e ampiezza (talvolta in versione 'volgare' per la prevalenza dello sbrigativo senso pratico sui concetti e i ragionamenti precisi), dall'influenza del cristianesimo (da Costantino in poi, IV-VI secolo d.C). Il diritto romano, dopo l'iniziale stretta connessione con la religione e la magia, era stato fino allora caratterizzato dalla 'laicità'. L'influenza cristiana, che iniziò con Costantino e non determinò mai quella commistione fra religione e diritto che si avverte nel diritto biblico, si manifestò prevalentemente nel campo delle persone e della famiglia, mitigando per esempio la condizione degli schiavi e introducendo nuovi modi o cause di acquisto della libertà, conferendo ai figli maggiore autonomia dalla patria potestà, punendo il divorzio unilaterale senza giusta causa, nonché i comportamenti di un coniuge che costituissero giusta causa per il divorzio dell'altro, vietando con Giustianiano anche il divorzio consensuale. Inoltre nel campo del diritto penale causò la soppressione della pena della crocifissione, ma non la mitigazione delle altre pene; solo Giustiniano alleviò la condizione dei carcerati e invitò i vescovi a curarsi di essi. In tutti gli altri campi tale influenza si manifestò in modo diffuso e capillare con nuovi modi di legiferare (ne sono esempio le costituzioni imperiali del IV-VI secolo), nuovi modi di interpretare e applicare il diritto, forse anche - ma il punto è controverso - con alterazioni dei testi raccolti (cfr. S. Riccobono, L'influsso del cristianesimo sul diritto romano, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia 1935, pp. 59 ss.; A. Beck, Christentum und nachklassische Rechtsentwicklung, in Atti del Congresso internazionale di diritto romano, vol. II, Pavia 1935, pp. 89 ss.; O. Robleda, Diritto romano e cristianesimo, in "Atti dell'Accademia Costantiniana", 1981, IV, pp. 268 ss.). Giustiniano promosse poi la grande compilazione dei testi classici e postclassici attuata tra il 529 e il 534: opera eccezionale per qualità e rapidità di esecuzione. Essa comprende il Codice (costituzioni imperiali da Adriano in poi), il Digesto o Pandette (antologia dei giuristi classici), le Istituzioni (esposizione elementare). Vi furono poi aggiunte le Novelle (costituzioni giustianianee successive al 534, più alcune dei suoi due primi successori). L'insieme fu chiamato Corpus iuris civilis dall'edizione di Gotofredo in poi (Ginevra 1583).
Il diritto hindu è meno antico di quelli mesopotamici, siriaci, anatolici e di quello egizio, poiché le sue più antiche tracce, connesse con la letteratura 'vedica', non risalgono più indietro del 1500 a.C., mentre le sue fonti più importanti, costituite da opere di autorevoli saggi, sono di un'epoca compresa tra il IIIII secolo a.C. e il IV-V d.C. La nozione hindu più simile a 'diritto' è dharma, che significa 'rettitudine', 'giustizia' e comprende insieme aspetti etici, religiosi, giuridici. Che cosa fosse il dharma era teoricamente intuito e percepito dal singolo individuo come frutto della rivelazione divina (śruti), ma in pratica lo fissava la tradizione (smṛti) e lo riferivano e spiegavano i saggi (bramini), che in fondo erano - a modo loro - giuristi. Le loro numerose opere erano chiamate dharmaśāstra, che significa pressappoco 'scienza della giustizia (del bene, del diritto)' (cfr. P.V. Kane, History of dharmaśāstra, Poona 1968²). Queste opere nell'epoca considerata (fino al 500 circa d.C.) erano anonime, frutto della riflessione della dottrina braminica, e costituivano un intreccio di religione, morale e diritto, con qualche vaga somiglianza, per la commistione del contenuto, con la Torah biblica (la quale però era una legge imperativa emanata da un Dio persona, intrinsecamente molto diverso dall'indefinita e cosmica divinità indiana). Le regole che se ne desumevano erano diverse per le varie caste (varna, donde varnasramadharma) e anche, in pratica, per i vari regni in cui il vastissimo territorio indiano era diviso. Uno dei temi trattati in quelle opere era appunto il Rajadharma, ossia le regole che i re dovevano osservare, mentre altre opere (arthaśāstra) consigliavano ai re l'arte di governare. La più nota delle opere prima indicate è quella di Manu (Manusmṛti: cfr. G. Bühler, The laws of Manu, Oxford 1886), anonima nonostante l'indicazione dell'autore e probabilmente del III-II secolo a.C. ma con aggiunte posteriori (è da notare che cronologia ed esatto tenore testuale di questa e altre opere sono ancora incerti, ma un'edizione critica dei testi, in corso a Torino presso il CESMEO, si propone fra l'altro di dissipare per quanto possibile queste incertezze). Oltre che da tali opere le regole di condotta degli individui si desumevano dalle consuetudini locali. Non sembra invece che i re abbiano emanato leggi o altri atti normativi, tranne che in materie amministrativa e processuale. Nei riguardi dei privati si limitavano a giudicare o far giudicare se avessero violato il dharma e meritassero una pena corporale, di regola inflitta con la frusta, danda. (Più ampie e precise notizie possono leggersi in R. Lingat, The classical law of India, Berkeley 1973; J.D.M. Derrett, Religion, law and State in India, London 1968, e Essays in classical and modern Hindu law, voll. III-IV, Leiden 1977-1978; W.F. Memski, Diritto dell'India, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma 1988, pp. 2-6).
La tradizione cinese fa risalire la storia, anche giuridica, della Cina alla fine del III millennio a.C., ma in realtà una documentazione manca. Non solo non esiste qualcosa di simile alle fonti giuridiche mesopotamiche, ma non è nemmeno immaginabile, poiché il diritto, in quanto munito del suo apparato sanzionatorio detto fa, non occupava nella società cinese una posizione centrale. Una leggenda lo diceva creato nel 2200 a.C. dal popolo barbaro Miao, che aveva bisogno della sua forza repressiva, non sapendo altrimenti governare. Al fa si contrapponeva il li, come insieme di regole etico-religiose, che Kong Fuzi (Confucio, 551-479 a.C.) avrebbe poi precisato e sviluppato. Vi fu nel I millennio a.C. un contrasto politico-culturale tra i 'legisti', sostenitori del fa, e i confuciani, nonché i taoisti, sostenitori della sufficienza del li. I legisti ebbero un momentaneo sopravvento sotto la dinastia Qin, fondatrice dell'Impero cinese (221-206 a.C.), ma con la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) la prevalenza tornò ai confuciani. La società cinese era una società senza diritto? Due punti devono essere tenuti presenti:
a) la sostanza del li non era soltanto etico-religiosa, ma aveva anche aspetti giuridici, essendo una specie di diritto naturale a maglie larghe;
b) la società cinese era, come le altre società, giuridicamente organizzata, senonché, a differenza delle altre, non aveva una densità di diritto uniforme in tutti i settori, bensì l'aveva normale in alcuni (quelli della struttura e amministrazione dell'Impero, delle corti giudicanti, della repressione penale), mentre l'aveva molto tenue negli altri, dove il diritto scolorava nei riti e nell'etica o in una specie di diritto naturale.
La repressione penale fu il precipuo oggetto delle leggi e dei codici emanati dai re e poi dagli imperatori che iniziarono le varie dinastie. Un libro delle pene (Hing-shu) sarebbe stato inciso su un tripode di bronzo (536 a.C.) e il Li Kuei sarebbe stato il primo codice, modello dei successivi, dei quali però il primo a essere conosciuto è quello della dinastia Tang (624 d.C.), posteriore al limite di tempo convenzionalmente posto alla presente esposizione. Se ne può tuttavia desumere qualche punto certamente comune ai precedenti codici. Essi prevedevano i 'cinque castighi' (marcatura a ferro rovente, amputazione del naso, dei piedi, dei testicoli, pena di morte per strangolamento o, considerata più grave, per decapitazione); più tardi le amputazioni furono convertite in altre pene (di solito un dato numero di colpi di bambù). La pena di morte era comminata per delitti "che il Cielo e la Terra non possono tollerare" (ribellione all'imperatore, distruzione di templi, aggressione dei propri genitori, ecc.). Fra i delitti più lievi erano compresi anche violazioni dei doveri inerenti a rapporti fra privati, il destinatario dei quali non poteva esigere l'adempimento, ma soltanto accusare penalmente l'inadempiente, e questo era sconsigliato dal costume (la cosiddetta 'paura dei tribunali'). Un aforisma di Confucio diceva che "il li non discende fino alla gente comune e il fa non sale fino ai nobili letterati". Questi soprattutto erano coloro per i quali era sconveniente adire i tribunali. La distinzione tra fa e li si fondava dunque anche su una contrapposizione di classe. La società cinese era in verità profondamente divisa in classi, e Confucio predicava agli inferiori la pazienza e la tolleranza nelle "cinque relazioni" (cfr. J. Escarra, Le droit chinois, Pékin-Paris 1936; I. Lanciotti - a cura di - Il diritto in Cina. Teoria e applicazioni durante le dinastie imperiali e problematica del diritto cinese contemporaneo, Firenze 1978; O. Weggel, Chinesische Rechtsgeschichte, Leiden-Köln 1980; Tche-Hao Tsien, Le droit chinois, Paris 1982; J. Gilissen, Diritto cinese. I, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma 1988, pp. 1-30).
Alla caduta dell'Impero romano d'Occidente esistevano già sul suo territorio alcuni regni germanici e altri se ne formarono sia in questo territorio, sia al di là dell'antico limes dell'Impero. I regni principali nei primi secoli furono quelli dei Visigoti (prima nella Gallia meridionale, poi in Spagna), dei Franchi (che dal nord presto si estese verso sud ed est) e dei Burgundi, in una fascia a cavallo del medio e alto Reno fino alla Gallia orientale, alla Svizzera occidentale e alla Valle d'Aosta. Questi popoli, aventi allora un grado di sviluppo inferiore a quello romano, nonché diverso tra loro, erano dotati di caratteristiche e qualità proprie, descritte efficacemente da Tacito (Germania, 6-20). La struttura politica che questi popoli si diedero, quando si stanziarono stabilmente in un territorio, fu, come già accennato, la monarchia. Ma i loro re, pur con poteri ed entro limiti diversificati da regno a regno, non avevano poteri assoluti sui loro sudditi germanici, i quali anzi erano spesso chiamati con le loro assemblee a partecipare alle deliberazioni e svolgevano in varia guisa funzioni giudiziarie. Molto diverse le condizioni della popolazione romana o romanizzata sottomessa, che non aveva diritti politici ed era stata privata al momento della conquista dei due terzi delle proprie terre, sicché era dedita soprattutto all'artigianato e al piccolo commercio. Tra il VI e il IX secolo il regno più forte era quello dei Franchi, estesosi in definitiva all'intera Francia; i Visigoti di Spagna erano certo civilmente più evoluti, ma si erano indeboliti e al principio dell'VIII secolo il loro regno venne quasi interamente spazzato via dagli Arabi. Così durante l'VIII secolo i Franchi cominciarono a espandersi e infine, sotto la guida di Carlomagno, conquistarono vasti territori germanici a est del Reno, la Boemia e il Regno longobardo d'Italia, cosicché, grazie anche ai legami stabiliti con la Chiesa, Carlomagno fu in grado nell'anno 800 di farsi incoronare imperatore dal papa Leone III, quale restauratore dell'Impero d'Occidente.
L'evento è importante, anche perché implicò, come si vedrà presto, il riconoscimento dell'autorità del papa nel campo politico costituzionale. Nell'Impero carolingio prese corpo il sistema feudale, già in embrione nel tardo Impero romano e confacente ai caratteri dei popoli germanici. Esso importò la concessione di terre in feudo fatta dal sovrano (nell'Impero carolingio l'imperatore) a suoi stretti seguaci - che gli si sottomettevano come vassalli - con l'attribuzione a essi, mediante una speciale investitura, dei poteri di goderle e governarle autonomamente in cambio di un atto di omaggio e della promessa di fedeltà e di servizi. I vassalli, che potevano anche avere il rango di re o di principi, erano autorizzati a subinfeudare in tutto o in parte le terre, avendo quindi insieme la veste di vassalli e di signori (cfr. F. L. Ganshof, Qu'est-ce que la féodalité?, Bruxelles 1964²; H. Mitteis, Lehnrecht und Staatsgewalt, Weimar 1933).
L'Impero carolingio durò fino all'888. Al suo scioglimento emersero principalmente i Regni di Francia, Italia e Germania, e circa cento anni dopo il re Ottone di Germania, dopo aver conquistato parte dell'Italia, riuscì a sua volta a farsi incoronare imperatore dal papa, fondando il Sacro Impero romano-germanico (in tedesco modernizzato Heiliges römisches Reich deutscher Nation). Ottone I si volle considerare continuatore dell'Impero carolingio, ma proprio il re di Francia rifiutò di essere suo vassallo e i suoi esperti coniarono le formule, utilizzate poi anche dai re normanni d'Inghilterra e di Sicilia, "rex superiorem non recognoscens est princeps in regno suo", "rex in regno suo est imperator". Questi re rivendicarono inoltre a sé il potere di concedere feudi e di investire quindi propri vassalli. Anche il papa fu riconosciuto sovrano e titolare del potere di concedere feudi, pur con riguardo a territori estranei a quelli donatigli dai re franchi Pipino e Carlomagno e agli altri che con essi formarono lo Stato della Chiesa: bastò che la loro popolazione o il loro capo (re, duca, ecc.) ne invocasse la protezione e gli si sottomettesse, rendendogli omaggio. Ciò favorì il sistema medievale dei due poteri simmetrici (del papa e dell'imperatore). Si disputò (in sede non dottrinale, bensì politica) se fossero poteri uguali, provenendo entrambi direttamente da Dio, o se quello del papa fosse superiore, in quanto l'imperatore da lui riceveva il titolo e la corona: i guelfi sostenevano quest'ultima teoria, i ghibellini la prima, che fu, fra l'altro, sostanzialmente difesa con particolari argomenti da Dante nel De monarchia. Il regime feudale rendeva deboli tutti gli Stati e talvolta determinò anche situazioni paradossali, come quella in cui si trovò per qualche secolo il re d'Inghilterra, che, avendo ereditato ampi feudi nella Francia occidentale, era divenuto vassallo del re di Francia e ancora lo era, sia pure in misura ridotta, nel momento in cui tra Inghilterra e Francia scoppiò la guerra dei Cent'anni (1339-1453). In tutti gli Stati il potere centrale era debole, ma - prima in Inghilterra, come si dirà, poi anche in Francia e in Spagna - esso si venne rafforzando.
Lo svolgimento storico fu opposto nell'Impero romano germanico, nel quale i vari vassalli, sia civili (capi di autentici Stati, qualunque fosse il loro titolo ufficiale), sia ecclesiastici (vescovi o arcivescovi di date diocesi), godevano di forte autonomia e, pur con oscillazioni, la accrebbero fortemente nel corso del tempo. Alcuni di questi vassalli avevano inoltre il potere di scegliere il nuovo imperatore, anche se di regola nell'ambito, se esistente, della medesima dinastia. Quali fossero questi vassalli (o principi elettori, Kurfürsten) fu stabilito definitivamente con la Bulla aurea del 1356 dall'imperatore Carlo IV di Boemia. La debolezza del potere centrale dell'Impero rese inoltre possibile l'autonomia che i Comuni italiani e le città delle Fiandre e della Germania occidentale riuscirono in vari modi e in vari tempi a conquistarsi. In particolare i Comuni italiani, pur rimanendo sottoposti al potere imperiale, ottennero autonomia normativa, amministrativa e giudiziaria e, grazie a essa, si diedero una struttura costituzionale imperniata su tre organi (magistrati, consiglio, assemblea) simili a quelli istituiti per la prima volta nelle πόλειϚ greche. La composizione di questi organi rispecchiava il loro orientamento, per lo più aristocratico. Le lotte politiche al loro interno, anche per far prevalere l'indirizzo democratico, furono tali che i Comuni finirono col cadere nel potere di un signore, con qualche analogia col passaggio, a Roma, dalla repubblica al principato (cfr. H. Mitteis e H. Lieberich, Deutsche Rechtsgeschichte, cit.; F. Calasso, Medioevo del diritto, Milano 1954, pp. 419 ss.).
Nel regime feudale anche i vassalli di secondo o terzo grado (valvassori) e gli ecclesiastici di alto rango (abati e, talvolta, vescovi) avevano poteri politici sugli abitanti del loro territorio e facilmente ne abusavano; a maggior ragione ne abusavano i signori di più alto rango e i sovrani. Ora, a cominciare pressappoco dal X secolo, i sudditi, approfittando di un periodo o momento di debolezza di tali titolari di poteri o di una particolare situazione sociale, riuscirono a estorcere loro una charta con cui questi promettevano l'immunità da uccisioni, aggressioni, arresti da parte loro e dei loro agenti, salvo che a seguito di un regolare procedimento giudiziario, e riconoscevano il diritto di libera circolazione e soggiorno nella loro giurisdizione, nonché la proprietà dei beni posseduti e il potere di disporne tra vivi e per causa di morte. Simili chartae erano di solito confermate con giuramento e prevedevano talvolta il diritto di resistenza delle popolazioni. La loro efficacia non fu molto grande, ma bastò a porre non trascurabili limiti ai poteri delle varie autorità feudali. L'unica charta, comunque, che nonostante numerose violazioni ebbe efficacia ed influenza durevoli fu quella che Giovanni d'Inghilterra dovette concedere nel 1215 e che è nota come Magna Charta. Essa è da riconnettere all'opera di rafforzamento del loro potere centrale condotta in precedenza dai re inglesi, i quali, mentre rispettarono sostanzialmente i diritti patrimoniali dei feudatari, che infatti sono sopravvissuti fino all'attuale secolo e ancora si intravedono nell'odierno regime fondiario inglese e degli stessi Stati Uniti, riuscirono a limitare grandemente i loro poteri, sia sul terreno giudiziario, sia su quello finanziario e amministrativo, il che non era certo gradito alla Chiesa, né ai grandi feudatari (baroni). Così, quando il re Giovanni Senzaterra, valendosi di tali più ampi poteri, intraprese una politica nociva a quasi tutte le classi sociali e alla Chiesa, queste gli si coalizzarono contro (eccettuati i contadini, che per il momento non venivano presi in considerazione, in quanto semischiavi) e riuscirono a conciliare le loro diverse rivendicazioni in un unico documento, appunto la Magna Charta, che il successore di Giovanni Senzaterra, Enrico III, nel 1217 dovette confermare e impegnarsi a rispettare. Essa ripristinò i diritti e le libertà della Chiesa e la competenza dei baroni a giudicare delle rivendicazioni di diritti fondiari da parte dei loro vassalli (competenza per altro risultata di breve durata), riconobbe libertà di movimento ai mercanti, ma soprattutto introdusse importanti diritti in materia giudiziaria, come per tutti i cittadini quello di non essere giudicati da sceriffi o altri funzionari di polizia e per gli accusati di omicidio quello di ottenere, con un espediente processuale, che l'esito del processo fosse determinato dal giudizio di una giuria anziché dal duello giudiziario (come era in precedenza la regola). Fu, in notevole parte, una vittoria della Chiesa e dei grandi baroni, ma, per un'altra parte, la premessa di diritti di libertà e di garanzie giudiziarie che sarebbero stati più ampiamente tutelati nel XVII e XVIII secolo, facendo dell'Inghilterra il modello dei regimi liberali (cfr. G. Pugliese, Appunti per una storia dei diritti umani, in "Rivista trimestrale di diritto e di procedura civile", 1989, XLIII, pp. 643-651).
L'esposizione degli elementi costitutivi dei diritti europei e del loro modo di formazione nel Medioevo richiede un discorso articolato. Innanzi tutto occorre distinguere l'Europa continentale dall'Inghilterra e trattare di quest'ultima a parte. Bisogna poi fare una distinzione cronologica: nell'alto Medioevo l'impronta del diritto fu prevalentemente germanica, poi essa divenne essenzialmente romanistica e la composizione del diritto risultò più complessa.
La compilazione giustinianea rappresenta per il diritto una specie di cerniera tra l'antichità e il Medioevo. Da essa derivò - attraverso riassunti, commenti e con l'aggiunta di nuovi atti normativi- il diritto bizantino, che da Costantinopoli penetrò nei Balcani, poi in Ucraina e in Russia. Ma questo contributo bizantino alla storia giuridica dell'Europa orientale può qui, per ragioni di spazio, essere solo menzionato. A sua volta, il contributo dato dal Corpus iuris civilis nella versione originale alla storia giuridica italiana e dell'Europa occidentale fu favorito dalla sua introduzione in Italia come diritto vigente nel 553, poco dopo che Giustiniano l'aveva riconquistata dagli Ostrogoti e poco prima dell'invasione dei Longobardi. La sua influenza cominciò tuttavia a manifestarsi attivamente solo nell'XI secolo e non fu, beninteso, l'unico fattore dei diritti europei, poiché vi concorsero anche i diritti dei popoli germanici, il diritto canonico e una serie di diritti particolari. Per effetto del principio della personalità del diritto gli abitanti romani e romanizzati dei Regni germanici continuavano ad applicare il diritto romano e alcuni re del VI secolo emanarono leggi che contenevano un'antologia dei testi romani pregiustinianei utilizzabili, la migliore delle quali fu la lex romana Visigothorum (Tolosa 506). Nonostante questa legge, la tradizione del diritto romano in Spagna (specie dopo l'invasione araba) e nella Francia meridionale si andò impoverendo, e sarebbe del tutto svanita se Giustiniano, come si è detto, non avesse fatto entrare in vigore in Italia la sua compilazione, la quale rese poi possibile la rinascita dello studio del diritto romano, a cui quelle evanescenti tradizioni si riagganciarono. Importante fu anche in questo senso la funzione della Chiesa, che applicava allora entro certi limiti il diritto romano (Ecclesia vivit secundum legem romanam).
Fra i Germani il diritto aveva essenzialmente origine consuetudinaria; molto importanti furono le consuetudini franche, che si radicarono nella Francia centrosettentrionale (coutumes). In alcuni regni parte delle consuetudini furono sintetizzate in leggi generali o codici (per esempio Codex Euricianus del 480, liber indiciorum o lex Visigothorum II dei Visigoti prima in Francia, poi in Spagna; lex Salica nella prima versione, che si suppone dell'inizio del VI secolo, mentre altre versioni sono alquanto più tarde; edictus Rothari del 643 presso i Longobardi; lex Ribuaria, dei Franchi orientali, del VII secolo) oppure furono integrate da leggi (come quelle longobarde di Liutprando, Autari e altri re e i capitolari franchi di Pipino, Carlomagno, Lotario, ecc.). In linea di massima i sovrani e i signori feudali di vario rango avevano nella loro giurisdizione potere normativo (subordinato o no a norme superiori), come poi l'ebbero i Comuni italiani e le altre città autonome dell'Impero (cfr. F. Olivier-Martin, Histoire du droit français des origines à la Révolution, Paris 1948, pp. 15 ss.; H. Mitteis e H. Lieberich, Deutsche Rechtsgeschichte, cit.).
Intanto la Chiesa, grazie alla sovranità che, al più tardi con Carlomagno, le era stata riconosciuta, aveva cominciato a costituire un ordinamento a sé stante, estraneo a qualsiasi Stato, e aveva cominciato a elaborare un diritto proprio (il diritto canonico). Per la precisione, già con la nascita delle prime comunità cristiane guidate da un vescovo (ecclesiae, chiese) si erano formate, con deliberazioni dei concili o disposizioni dei vescovi, norme (generali o relative alle singole chiese) aventi intrinseca natura giuridica, la cui validità però, non essendo tali comunità organismi sovrani (almeno se incluse nell'Impero romano), era subordinata alle norme di questo Impero: in un primo tempo tale validità fu spesso negata (formalmente anche all'interno delle singole comunità), dopo l'editto di Costantino invece fu ammessa, ma molte di tali norme, più che confermate, furono fatte proprie da costituzioni imperiali. A parte ciò, anche dopo la caduta dell'Impero d'Occidente quelle norme e le altre numerose emanate durante l'alto Medioevo (cfr. J. Gaudemet, Les sources du droit de l'Église en Occident du II au VII siècle, Paris 1985) valevano perché autorizzate o convalidate dal diritto romano, che si applicava alla Chiesa di Roma (ormai divenuta la Chiesa universale) in virtù del principio della personalità del diritto. Questo spiega la massima che afferma: "Ecclesia vivit secumdum legem romanam".
Ancora nel XII secolo le norme stabilite da concili, collegi di vescovi, pontefici (canoni e decretali) venivano insegnate nella scuola di Bologna dal monaco Graziano sotto il nome di theologia practica. Solo dopo che questo monaco ebbe compilato nel suo Decretum parte di tale materiale, apparve evidente la sua natura di diritto avente valore di per sé, indipendentemente dalla tradizione romana, dall'Impero e da qualsiasi Stato, tanto più che veniva applicato da distinti organi giurisdizionali. Si trattava evidentemente di un diritto a sfondo religioso, tanto che una sua parte fu qualificata ius divinum (naturale e positivum); ma si differenziava dal diritto biblico (a cui era per l'origine apparentato), sia perché non era sorto per il popolo di un dato territorio o appartenente a una data stirpe, bensì per i fedeli dovunque si trovassero, sia perché riguardava solo la parte della vita sociale attinente alla Chiesa e ai sacramenti o rilevante per la salvezza dell'anima, mentre la restante parte era oggetto di uno o più fra i diritti laici vigenti al suo fianco e capaci di delimitarne la portata. Giova poi rilevare che, per la stretta connessione di varia natura col diritto romano, esso adottava termini, concetti, metodi romani, e che dal XII secolo in poi operò in concorso con la versione medievale e moderna del diritto romano giustinianeo. Infine deve menzionarsi la continuazione, dopo il Decretum Gratiani, delle raccolte di canoni di varia provenienza con le Decretales di Gregorio IX o Liber extra, il Liber Sextus, ecc.: l'insieme già nel XV secolo era chiamato Corpus iuris canonici, mentre solo alla fine del XVI, come sappiamo, fu chiamata Corpus iuris civilis la compilazione giustinianea.
Il fatto principale relativo alla formazione del diritto nel Medioevo fu appunto il ritorno allo studio del diritto romano attestato dalla compilazione giustinianea. Di questa da secoli non venivano letti se non riassunti ed estratti più o meno attendibili, mentre era divenuto interamente ignoto il Digesto. Invece intorno all'anno Mille, per effetto di una rinascita culturale che anticipò quella più vasta del XV-XVI secolo, si ricominciò a Bologna e nella Francia meridionale a leggere i testi originali e si recuperò gradualmente il testo del Digesto. I risultati si videro dapprima in opere modeste (come la Exceptiones Petri e la Summa Trecensis, ecc.), ma pur sempre ben superiori a quei riassunti ed estratti, poi anche di alto livello (come la Summa codicis di Azone), e si videro soprattutto con l'istituzione a Bologna di una speciale scuola di diritto, in cui si leggevano e spiegavano i passi della compilazione giustinianea per trarne nozioni e regole utili alla vita attuale. Ciascun passo (lex) della compilazione giustinianea veniva spiegato con chiose chiamate glosse, e da esse derivò il nome di glossatori dato a quei maestri. Uno di essi, Accursio, pubblicò due secoli dopo l'intera compilazione annotata da glosse, sue o di altri da lui scelti (Magna glossa). Parallelamente vennero glossati i passi (canones) delle compilazioni canoniche: donde la contrapposizione dialettica fra canonistae e legistae. I glossatori decaddero verso la metà del XIII secolo, mentre in Francia fioriva la scuola di Orléans, da cui in parte derivò la seconda scuola italiana, quella dei 'commentatori', con Bartolo e Baldo fino a Giason del Maino (XVI secolo).
Deve sottolinearsi che gli avvocati, giudici, notai usciti dalla scuola di Bologna cominciarono, nel difendere in giudizio gli interessi dei loro clienti, decidere liti, redigere contratti e testamenti, ad applicare il diritto romano nella versione (a cui naturalmente d'ora in poi sempre ci si riferirà) insegnata in quella scuola, nonché, nei campi loro propri, il diritto canonico e il nuovo diritto feudale. E poiché la scuola di Bologna venne a essere frequentata da un numero crescente di studenti, sia italiani, sia stranieri, e nuove scuole sul suo modello - nuclei anch'esse delle nuove Università - furono man mano fondate in Italia, Francia, Spagna, poi anche in città tedesche e a Praga, si diffuse il modo bolognese di organizzazione universitaria e di insegnamento del diritto (per un'accurata analisi cfr. H. Coing, Die juristische Fakultät und ihrer Leherprogramme, in Handbuch der Quellen und Literatur der neueren Europäischen Privatrechtsgeschichte - a cura di H. Coing - vol. I, München 1973, pp. 39 ss.). Si estese anche l'applicazione pratica del diritto (romano, canonico e feudale) ivi insegnato, ma con maggiori difficoltà e in modo diseguale: più, si capisce, esso venne applicato dove (Italia, Francia centromeridionale, Spagna) nell'alto Medioevo era rimasta una sia pur tenue tradizione romanistica, meno dove (per esempio la Francia centrosettentrionale) una simile tradizione non era rimasta e operarono anche ostacoli politici; nessuna applicazione poi nei paesi germanici a nord delle Alpi e a est del Reno, ma al riguardo deve farsi l'osservazione essenziale che l'influenza del diritto romano operò allora in Europa anche nelle esposizioni teoriche e nelle applicazioni pratiche di diritti non romani, come le raccolte di coutumes della Francia centrosettentrionale, il diritto inglese del XII e XIII secolo, i diritti germanici e, da un altro punto di vista, il diritto commerciale: fu un'influenza culturale, che si manifestò- oltre che nei termini e nei concetti - nel modo di impostare, discutere, risolvere le questioni giuridiche.
L'applicazione pratica ebbe un'infinità di varianti, dipendenti dal luogo, dal momento storico, dalla materia regolata. In media prevalse un orientamento conforme a questo schema: diritto romano e diritto canonico costituivano il ius commune, avente carattere generale e applicazione pratica limitata ai casi non considerati da una disposizione particolare. Disposizioni particolari erano in massima quelle locali (consuetudinarie, legislative, giudiziarie: importanti fra le ultime le pronunzie dei Parlements francesi), ma ve ne erano anche per la materia regolata, come quelle del diritto commerciale. Questo invero sorse nel Medioevo all'interno delle corporazioni o delle Gilden dei mercanti e di alcune categorie di artigiani, ed ebbe la natura di usi dapprima comunemente accettati, poi fissati per iscritto in statuta delle corporazioni o delle città mercantili, la cui interpretazione e applicazione venne spesso affidata ad arbitri o a organi interni delle corporazioni, poi anche a speciali organi giurisdizionali esterni, composti con la partecipazione di esperti. Le esigenze del commercio determinarono il costituirsi di rapporti fra mercanti, non solo di diverse città, ma anche di diversi paesi, con qualche tendenza alla formazione di un diritto comune o uniforme. Maggiori realizzazioni di questa tendenza possono riscontrarsi nel campo del diritto marittimo, commerciale e no, grazie alle consuetudini e agli statuti raccolti nelle varie città marinare e sfociate, per il Mediterraneo, nel catalano Consulat de mar (documentato dal 1370) e per il Baltico nel codice di Wisby (Lubecca, 1407). (Per fonti e dati bibliografici cfr. H. Pohlmann, Die Quellen des Handelsrechts, in Handbuch der Quellen und Literatur..., cit., vol. I, pp. 801 ss.). Passando al ius commune, la linea di confine tra diritto romano e canonico fu in teoria piuttosto stabile, poiché al canonico spettava occuparsi, oltre che dell'organizzazione ecclesiastica, dei sacramenti (fra cui il matrimonio), delle persone e della famiglia; in pratica, tuttavia, col favore dei canonisti, non di rado si oltrepassò tale linea, adducendo l'esigenza canonistica della salvezza delle anime (salus animarum) o la connessione con causae spirituales. La componente romana riuscì a farsi strada attraverso l'influenza culturale anche dove mancava una tradizione romanistica (eccettuata però l'Inghilterra). La penetrazione fu lenta e graduale nei francesi pays de coutumes, ma risultava ormai notevole nel XVI secolo, quando ai giudici del Parlement de Paris era richiesta la conoscenza del diritto romano. Essa si attuò invece rapidamente in Germania, dove il grandioso fatto storico della Rezeption - già iniziato alla fine del XV secolo con la prescrizione dell'imperatore Massimiliano al Reichskammergericht, supremo tribunale dell'Impero, di giudicare "nach des Reichs gemeinen Rechten" (secondo i diritti comuni, romano e canonico, dell'Impero) - maturò nel corso di pochi decenni tra il XV e il XVI secolo.
I Normanni, di origine scandinava, provenivano dalla Francia settentrionale dove, oltre alla lingua, avevano recepito la struttura feudale, che importarono in Inghilterra dopo la loro conquista (1066). Questa struttura comportava l'esistenza di una corte di giustizia presso ogni signore e determinava, insieme con le preesistenti e non soppresse corti di contea, un notevole particolarismo giudiziario, che si rifletteva nel particolarismo del diritto. L'opera dei re, che, come accennato, mirò a separare i poteri pubblici dei signori (lords) dai loro diritti patrimoniali, rafforzò in materia giudiziaria la regia corte (curia regis), riuscendo a farla prevalere sulle corti particolari senza sopprimerle, e a favorire così l'unificazione del diritto. La common law fu il risultato dell'unificazione. Intanto la voce della scuola romanistica di Bologna era giunta a farsi sentire in Inghilterra, oltre che probabilmente con altri, con Vacario, il quale risulta presente in Inghilterra presso l'arcivescovo di Canterbury nel 1140. Ne derivò un'influenza culturale romanistica che è palese in due note opere del XII e XIII secolo: Tractatus de legibus et consuetudinibus regni Angliae di Ranulf de Glanvil, e De legibus et consuetudinibus Angliae di Henry de Bracton. Intanto alcuni ecclesiastici avevano fondato le Università di Oxford e di Cambridge, dove fu introdotto, accanto a quello del diritto canonico, l'insegnamento del diritto romano. Ma qui la penetrazione del diritto romano (non del canonico) si arrestò. I giudici e gli avvocati della curia regis (ormai articolata in più corti), i quali applicavano la common law esprimendosi in law French (il francese giuridico importato dalla Normandia e divenuto presto un linguaggio esoterico), difesero il loro monopolio, prima istituendo accanto alle corti speciali scuole per la professione forense (dette inns of court) e facendole riconoscere dal re Edoardo I (seconda metà del XIII secolo), poi ottenendo da Edoardo III la conferma della loro prassi che ammetteva alla professione forense solo i diplomati in tali scuole. Così in Inghilterra, a parte il diritto canonico in materia matrimoniale e di eredità nella personal property (in massima beni mobili), si applicò la common law (qua e là intessuta di termini e concetti romanistici, come action, contract, res iudicata). Intanto si stava formando il diritto commerciale (law merchant), in parte con apporti continentali ma con pratico inserimento nella common law, e fu poi recepito il diritto marittimo, considerato invece di origine continentale e quindi inserito nella civil law (nel senso inglese di diritto romanistico proveniente appunto dal continente).
La common law appare di formazione eminentemente giudiziaria, sebbene sia notevole nella storia inglese il numero e l'importanza delle leggi (statutes). Tale formazione è conforme a due caratteristiche dei common lawyers: lo spirito pratico e la concretezza. Lo spirito pratico esigeva che si considerasse ciò che il singolo soggetto poteva, mediante un writ concessogli dal chancellor, chiedere e ottenere dal giudice. Vi era un elenco dei writs, a cui per un certo tempo il cancelliere poteva (gratuitamente o anche a caro prezzo) aggiungerne uno adatto al caso del richiedente; ma verso la metà del XIII secolo l'elenco fu chiuso e solo il Parlamento poté con statute creare nuovi writs, rendendo preliminare in ogni causa la ricerca di un writ utilizzabile. La concretezza, a sua volta, esigeva che si discutesse di casi specifici e reali, non sulle fattispecie astratte delle norme. La common law era tendenzialmente avversa alle norme. Ma la concretezza doveva conciliarsi con l'altra esigenza fondamentale della certezza, e questa fu soddisfatta con la rule of precedent, per la quale la decisione di un giudice vincolava praticamente i giudici successivi a decidere allo stesso modo i casi in cui ricorresse la medesima ratio decidendi. Così si profilava, però, il rischio della cristallizzazione del diritto; a tale rischio si cercò di porre rimedio con l'arte del distinguishing.
Il rimedio del distinguishing non poté operare che in parte e non impedì che la common law rimanesse vincolata a decisioni ingiuste e socialmente arretrate. Un altro grave inconveniente era determinato dalla chiusura del registro dei writs e dalla loro conseguente tipicità, che non permetteva di tutelare interessi nuovi o divenuti nel frattempo rilevanti. A ciò pose riparo il chancellor - ed è un aspetto tipico del diritto inglese - con l'esercizio di un particolare potere giurisdizionale di grazia, prima delegatogli dal re, poi divenuto competenza propria. Esso gli permise di decidere, su ricorso di una parte, liti ricadenti nella normale competenza delle corti regie o addirittura già decise da una di queste, e di assumere a criterio della propria decisione o del proprio provvedimento, anziché la common law o la specifica disposizione di uno statute, una propria valutazione guidata, come si disse, dall'equity, ossia dal senso di giustizia del chancellor, che allora era normalmente un ecclesiastico. Egli cominciò a pronunziare in equity verso la fine del XIV secolo ma furono pronunzie saltuarie, e il principale effetto che produssero, ossia il nuovo istituto dell'use (precursore del trust), fu soppresso nel XVI secolo da Enrico VIII. Soltanto successivamente, come si vedrà, si ebbe un'attività costante del chancellor e della Court of chancery da lui presieduta e si formò un diritto distinto dalla common law, chiamato appunto equity.
L'origine del diritto musulmano risale al 622, una ventina d'anni prima che i Longobardi in Italia elaborassero l'editto di Rotari. Nel 622 appunto Maometto, abbandonata la Mecca per Medina (egira), iniziò la predicazione della religione islamica (da islām, cieca sottomissione a Dio, Allāh), che costituì l'energia vitale di quella civiltà e del corrispondente diritto. Questo è infatti, anche in confronto al diritto biblico, l'esempio più coerente e duraturo di diritto religioso. Il concetto centrale da tener presente è quello di sharī'a, che letteralmente significa 'via (diritta) rivelata da Allāh' (metafora non nuova nel nostro campo, salvo la sottolineatura della rivelazione divina). La portata del termine però può essere più o meno ampia. La più ristretta è quella che qui interessa e indica la via rivelata ai soli musulmani per la loro condotta esterna. Connesso al concetto di sharī'a è quello di fiqh, in cui l'accento cade sulla formulazione e la conoscenza delle qualificazioni giuridiche della condotta umana. La fonte fondamentale del fiqh è il Corano (Qur'ān), che contiene le rivelazioni fatte in arabo a Maometto direttamente da Dio, ma solo in piccola parte (si dice meno di un decimo) relative al diritto. Seconda fonte è la sunna, tradizione consolidata e convalidata dagli atti e dalle parole del profeta. Terza fonte (non ammessa però dagli Sciiti) è l'iǧmā', ossia l'accordo della comunità sul fiqh, come sulle credenze religiose. Quarta fonte (però controversa) è infine il qiyās, ossia l'estensione analogica di una qualificazione giuridica a un caso prima non considerato. La natura religiosa di queste fonti, in specie delle prime due, non impedì, come a un certo momento non l'impedì nel diritto biblico, la loro interpretazione ed elaborazione da parte di scuole di dottori (fuqahā'). Dopo oscillazioni le scuole sunnite si consolidarono in quattro: ḥanafita, mālichita, sciafiita, ḥanbalita; altre scuole furono riconosciute dagli Sciiti. Il diritto musulmano, che si diffuse in seguito alle conquiste e alla penetrazione degli Arabi fino alla Spagna in Occidente e all'Indonesia in Oriente, ha una storia ormai di quasi 1400 anni ed è stato applicato in tempi e paesi molto diversi, sempre però soltanto ai fedeli dell'islamismo e conservando quindi, nonostante le loro diverse origini etniche, immutata la propria sostanza. L'esistenza tuttavia nel suo ambito di diversi Stati, fra cui principalmente per molti secoli l'Impero ottomano, gli impresse qualche particolare carattere e rese in alcuni casi necessaria l'emanazione di leggi, in deroga alla natura essenzialmente non legislativa delle sue fonti. Leggi più frequenti, e anche alcuni codici, furono emanate nell'ultimo secolo per effetto di contatti coi diritti europei e delle connesse trasformazioni economiche.
Un istituto caratteristico e spesso menzionato del diritto islamico è il waqf, insieme di beni vincolati a uno scopo per lo più di beneficenza o assistenza, assimilabile quindi funzionalmente all'istituto della fondazione nei diritti europei continentali. Ma il suo regime è particolare. I beni capitali (raqaba), da molti autori considerati senza soggetto, se non appartenenti addirittura ad Allāh, sono sottoposti a un regime di indisponibilità che impedisce la nascita su di essi di qualsiasi diritto dominicale altrui; i frutti (mamfa'a) sono vincolati alla destinazione prestabilita dal fondatore (sotto questo aspetto si sono viste somiglianze col trust). Altro ovvio aspetto caratteristico del diritto musulmano è l'ammissione da parte del Corano che un uomo abbia fino a quattro mogli. Infine è da segnalare l'esistenza di immobili ritenuti, per ragioni storiche, appartenenti alla comunità musulmana o allo Stato ed esclusi dalla proprietà piena dei privati, i quali possono avere su di essi soltanto un diritto chiamato tessaruf (in Egitto hukr), praticamente quasi equivalente alla proprietà, ma avente formalmente natura simile all'enfiteusi tardoromana o bizantina.
La generale conoscenza dei ricchissimi dati relativi a questo periodo e l'impossibilità di riferirli con una certa completezza inducono a concentrare l'attenzione su alcuni importanti temi particolari: l'assolutismo e le dichiarazioni dei diritti umani, le scuole di diritto, la codificazione.
Dal XVI secolo alla fine del XVIII le strutture costituzionali prevalenti (con l'eccezione di alcune Repubbliche a Venezia, Genova, Ginevra, ecc.) furono quelle delle monarchie assolute, che costituirono essenzialmente una reazione alla frammentazione feudale. Già i re inglesi, come si è visto, erano riusciti a rafforzare il loro potere centrale, ma la Magna Charta del 1215 aveva frenato le loro tendenze all'assolutismo, cosicché, dopo la guerra dei Cent'anni e quella delle Due Rose, nel XVI secolo la monarchia inglese non era più feudale, ma nemmeno assoluta. L'assolutismo maturò invece in Francia (dove già pensatori del primo Cinquecento e poi specialmente Jean Bodin, Six livres de la République, 1575, ne avevano posto in anticipo le basi politologico-giuridiche: cfr. F. Oliver-Martin, Histoire du droit français..., cit., pp. 335 ss.) e si estese alle altre monarchie continentali, fra cui da un lato la Spagna e gli Stati tedeschi compresi nell'Impero (inclusa l'Austria unita stabilmente all'Impero dalla dinastia degli Absburgo), dall'altro, in Italia, il Ducato di Savoia (poi Regno di Sardegna), il Granducato di Toscana, il Regno di Napoli (cfr. G. Astuti, La formazione dello Stato moderno, Torino 1957, pp. 101 ss.). L'assolutismo comportò, con varianti da Stato a Stato, la subordinazione al potere centrale degli antichi signori, che conservarono i titoli e in massima i beni ma perdettero il potere politico, e inoltre la soppressione delle autonomie delle città e delle corporazioni. Una manifestazione dell'assolutismo fu l'emanazione di importanti atti legislativi. In Francia, dove si erano avute compilazioni private di coutumes fin dal XIII secolo (celebre fra tante quella di Philippe de Beaumanoir), Carlo VII aveva intrapreso compilazioni ufficiali nel XV secolo e i suoi successori le continuarono attivamente nel XVI, mentre molti giuristi, fra cui Tiraqueau, Du Moulin, Pithou, le commentarono; ma più importanti furono le ordonnances, come quelle emanate da Luigi XIV nel 1667 (touchant l'administration de la justice), nel 1670 (criminelle), nel 1673 (du commerce), ecc.
Altri atti legislativi notevoli sono la Constitutio criminalis Carolina (1532), che costituì a lungo la guida del diritto penale in Germania, e gli editti dei principi elettori; la Recopilaciòn de las leyes de estos Reynos in Spagna (1567), che si ricollegò alle varie leyes de fuero precedenti, volte a interpretare o integrare clausole delle romanistiche Siete partidas; i decreti e le costituzioni dei Savoia registrati nella raccolta di Sola (Commentaria ad decreta antiqua ac nova novasque constitutiones, Torino 1607) e le Reali costituzioni del 1770; nel Regno di Napoli gli atti normativi raccolti da D.A. Vario, Pragmatica, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani (1772). Naturalmente questi e vari altri atti normativi, che riguardavano in prevalenza il diritto e il processo penale e il diritto amministrativo, ma in certa misura anche il privato, ridussero l'ambito di applicabilità del diritto romano comune, quale diritto sussidiario, ma in materia di diritto privato esse si riferirono per lo più a punti di dettaglio e non impedirono che le sue nervature fondamentali continuassero a essere di origine romanistica. Parallelamente l'assolutismo determinò l'istituzione o il rafforzamento delle Corti supreme, strumento essenziale della giurisdizione centralizzata, alla quale ovviamente le monarchie assolute aspiravano. E l'autorità delle sentenze pronunziate da queste Corti si accrebbe anche nel senso di costituire precedenti vincolanti, sì da assumere praticamente valore di fonte di diritto in modo analogo alle decisioni delle Corti inglesi. Venne così meno, come ha messo in luce G. Gorla (v., 1981), un aspetto importante delle differenze tra common law e diritti continentali. In Inghilterra, d'altro canto, dove la monarchia era quasi in equilibrio tra feudalesimo e assolutismo, vi furono tentativi di instaurare l'assolutismo da parte dei re Stuart, ma in nome dei principî della Magna Charta essi furono respinti dalla violenta opposizione di Cromwell e poi dalla Glorious revolution del 1688, che - preceduta dall'Habeas corpus act del 1679, grande presidio della libertà - fu coronata da una dichiarazione dei diritti del Parlamento e dei cittadini (Bill of rights, 1689), capostipite delle numerose dichiarazioni di diritti che da allora si sono succedute contro l'assolutismo in particolare e contro gli abusi di potere in generale.
L'assolutismo aveva certo assicurato una maggiore efficienza del governo e dell'amministrazione e favorito in molti paesi la formazione o il rafforzamento della borghesia. Ma i sovrani assoluti, sopprimendo le libertà politiche, violando molti diritti umani, procedendo ad arresti arbitrari, comminando pene crudeli, da tempo avevano sollevato l'opposizione di pensatori e filosofi, quali Giovanni Althusio, teorico agli inizi del Seicento della sovranità popolare, e di altri giusnaturalisti che, diversamente da Hobbes, concepivano in modo liberale il rapporto fra sovrano e cittadini, nonché degli illuministi, fautori di riforme dirette a limitare i poteri dei sovrani e a umanizzare il diritto penale. Riforme in realtà furono attuate dall''assolutismo illuminato' in Prussia, Austria, Toscana, Regno di Napoli (cfr. G. Astuti, La formazione dello Stato moderno, cit., pp. 201 ss.); ma non impedirono lo scoppio in Francia della Rivoluzione del 1789, che, sostenuta dalle cresciute forze della borghesia, spazzò l'assolutismo dalla Francia e alla fine dagli altri paesi. I principî formulati al suo inizio con la Déclaration des droits de l'homme, sul modello dei bills of rights di singoli Stati americani ribaditi dalla Costituzione federale del 1791, posero le basi nel continente europeo del moderno Stato di diritto.
I. Le scuole di diritto furono a lungo qualificate nel continente europeo dal loro rapporto col diritto romano. Alla fine del XV secolo cominciò, favorita dall'Umanesimo, la penetrazione nello studio del diritto romano di interessi storici e filologici. I primi a introdurre questo nuovo metodo furono il francese Guillaume Budé con le sue Adnotationes in XXIV Pandectarum libros e l'italiano Andrea Alciati, più attento ai problemi del diritto, il quale, avendo cominciato l'insegnamento ad Avignone e a Bourges, introdusse con successo il suo metodo in Francia, mentre in Italia, dove poi insegnò nelle Università di Pavia, Ferrara e Bologna, ebbe scarso seguito. In Francia sul modello suo e del Budé si sviluppò la scuola detta 'dei culti', il cui massimo esponente fu Jacques Cujas, e si ebbe, comunque, un'eccezionale fioritura di giuristi di alto livello e anche di vario indirizzo; infatti, oltre quelli (come François Duaren e Cujas) inseriti, pur col nuovo metodo, nella tradizione romanistica, vi furono François de Connan e Hugues Doneau (Donellus), che grandemente contribuirono a fondare l'elaborazione teorico-sistematica del diritto, il già menzionato teorico dell'assolutismo Jean Bodin e coloro, infine, che approfondirono la critica storico-filologica delle fonti romane, come lo stesso Cujas e Jacques Godefroy (Gotofredus), editore e commentatore del Codex Theodosianus. L'Italia aveva perduto ormai il primato degli studi romanistici, nonostante la difesa del mos italicus contro il mos gallicus fatta da Alberico Gentili e nonostante ulteriori grandi figure di romanisti, come quella di Giambattista De Luca, esperto, del resto, in molti rami del diritto. Essa aveva però ancora illustri esponenti in altre branche degli studi giuridici: nel diritto internazionale lo stesso Gentili, nel diritto commerciale Benvenuto Stracca (De mercatura, Venetiis 1553), Sigismondo Scaccia (Tractatus de commerciis et cambio, Romae 1619), il De Ansaldis e altri; nel diritto penale - anch'esso solo marginalmente derivato dal diritto romano e, d'altro canto, già studiato con particolare impegno alla fine del XIII secolo da Alberto da Gandino (Libellus de maleficiis) - le grandi figure di Prospero Farinacci (Praxis et theorica criminalis, 1616), Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), precursore delle dottrine penalistiche attuali, Gaetano Filangieri, una parte della cui monumentale Scienza della legislazione, 1780-1791, delinea i principî generali del diritto penale. Importanti giuristi francesi illustrarono ancora la Francia nel XVII e XVIII secolo (basti ricordare Hérault, Domat, Pothier e il rapporto degli ultimi due col code civil), ma negli studi romanistici, sia nel senso attualizzante, sia in quello storico-filologico, il primato stava passando all'Olanda (da un lato Grozio e Voet, dall'altro van Binkerschoeck) e alla Germania (da un lato gli esponenti dell'usus modernus Pandectarum - fra cui, notevoli per la loro capacità di combinare i dati romani con quelli germanici, il Carpzov e lo Struve - dall'altro gli antiquari come J.G. Heinecke).
II. Contemporaneamente era fiorita, su un piano più filosofico che storico-giuridico, la scuola di diritto naturale (giusnaturalismo). Di diritto naturale avevano parlato già Aristotele e gli stoici, nonché a Roma Cicerone e alcuni giuristi classici, e ne parlarono poi i pensatori cristiani, da Agostino a Tommaso d'Aquino e agli esponenti della seconda scolastica spagnola, come Francisco de Vasquez e Ayala, i quali, pur con ragionamenti e risultati diversi, ancoravano tutti il diritto naturale alla volontà di Dio. Il giusnaturalismo invece, che sorse e si sviluppò in ambiente culturale protestante, fondò i suoi principî sulla natura razionale dell'uomo, senza espressamente negarne la radice divina, né contestarne i possibili presupposti religiosi, ma prescindendone. I primi giusnaturalisti, come Johannes Althuius e Huig van Groot (Grozio, forse complessivamente il più grande), considerarono soprattutto gli aspetti costituzionali e internazionali; i successivi, in particolare Samuel Pufendorf e Christian Thomas Wolff, fecero esposizioni organiche, che comprendevano il diritto pubblico, il penale e il privato. In linea di principio i giusnaturalisti avevano una posizione diversa dalla tradizione romanistica, anzi quasi antitetica, ma il contenuto delle loro esposizioni di diritto privato era in larga parte desunto dal diritto romano, depurato di quanto appariva eticamente inaccettabile o storicamente superato e inserito in un loro quadro sistematico, di cui, d'altronde, i romanisti Connan e Donello era stati gli iniziatori. È singolare a questo riguardo che autori tedeschi del Settecento (più giuristi che filosofi), quali Nettelbladt e Darjes, abbiano composto trattazioni elementari tanto di diritto naturale che di diritto romano comune. È ovvio porre la domanda (e la si può porre per tutte le dottrine che in qualunque tempo o modo configurino il diritto naturale) se questo fosse o fosse considerato diritto vigente (la pone di recente S. Cotta nel saggio Diritto naturale: ideale o vigente?, in "Rivista di diritto civile", 1989, I, p. 639). Fra i giusnaturalisti la risposta rimase ambigua: molti di essi lo esposero come diritto vigente, pur consapevoli del suo carattere ideale; comunque in pratica, o direttamente o tramite l'illuminismo, essi influirono sul diritto realmente applicato e le loro teorie furono, d'altro canto, fattore fondamentale sia delle summenzionate Rivoluzioni americana e francese, sia della codificazione.
III. Nel campo del diritto inglese le scuole giuridiche non potevano certo classificarsi in base al loro rapporto col diritto romano; deve anzi più esattamente dirsi che in Inghilterra, più che i giuristi (nel senso di studiosi e professori di diritto) contarono i giudici. Un esempio precipuo della fine del XVI secolo e prima metà del XVII è costituito da Edward Coke, che fu chief justice della Court of common pleas e del King's bench e la cui attività giudiziaria è documentata da 13 volumi di Reports (London, 1600-1613, 1656, 1659). Ma egli scrisse anche un'opera dottrinale (Institutes of the laws of England, 4 voll., London 1628-1644), il cui primo volume si apre col testo e il commento dell'opera del giurista del XV secolo T. Littleton, Tenures, relativa al regime fondiario di common law, indicazione significativa del proposito di Coke di valorizzare la tradizione della common law contro possibili simpatie romanistiche dei primi Stuart. Altri nomi rilevanti tra il XVI e il XVIII secolo sono quelli dei chancellors (in particolare lord Ellesmere e lord Nottingham) che, dopo la soppressione dell'use da parte di Enrico VIII, gli ridiedero vita, in definitiva, col nuovo nome e la parzialmente diversa struttura del trust. Distinguendo in materia di real property i legal dagli equitable estates - questi ultimi aventi un contenuto limitato al reddito dei beni e non opponibili ai terzi, salvo date eccezioni - essi posero le basi dell'espansione del trust negli ultimi due secoli. I chancellors estesero inoltre in vari modi l'equity ben al di là del trust, per esempio con l'imporre mediante injunction dati comportamenti a una delle parti di una controversia, oppure con lo stabilire il principio che il consenso fra le parti bastava a trasferire beni e a costituire diritti su di essi. Un altro noto giurista inglese, William Blackstone, fu invece prevalentemente uno studioso e un insegnante, fu anzi il primo a coprire a Oxford la cattedra di diritto inglese, fino allora inesistente; e tuttavia anch'egli finì col divenire giudice. I suoi Commentaries on the laws of England (4 voll., 1765-1769) si distinguono, fra l'altro, per aver stabilito un ponte fra la dottrina inglese e quella del continente, specie quella francese.
Il giusnaturalismo, si è detto, fu uno dei fattori che sul continente indussero alla codificazione. Questa, beninteso, corrispondeva anzitutto all'esigenza pratica di ordinare e semplificare la confusa molteplicità di norme, precetti, principî di varia natura e origine, di cui il diritto romano comune e i numerosi diritti locali erano composti. La consolidazione delle coutumes e certe raccolte private (come quelle citate di Sola nel Ducato di Savoia e di Vario nel Regno di Napoli) miravano a soddisfare tale esigenza. Ma solo i giusnaturalisti mostrarono che erano possibili una scelta e una sintesi logicamente ordinata delle norme da mantenere o mettere in vigore e indussero nel XVIII secolo giuristi e politici a compiere tale tentativo. I primi passi vennero fatti in terra tedesca e i primi risultati furono tre Codici bavaresi (di diritto penale, processuale e civile: 1751-1754). Invece i tentativi di Samuele Cocceio in Prussia non ebbero esiti apprezzabili, ma successive iniziative analogamente indirizzate condussero qualche decennio dopo all'emanazione dell'Allgemeines Landrecht (ALR, 1794), codice insieme di diritto privato, penale, processuale, amministrativo, avente validità locale - e in questo senso Landrecht -, sì da risultare compatibile col diritto romano comune. Ormai il movimento per la codificazione era in corso: presto si ebbero il Codice civile della Galizia (1797), quello penale austriaco (1803), quello civile austriaco (ABGB, 1811). Intanto i rivoluzionari francesi avevano tratto anch'essi dall'ispirazione giusnaturalistica l'iniziativa della codificazione, ma oltre a un Codice penale (1791) erano riusciti soltanto a elaborare e discutere un progetto di codice civile, che toccò a Napoleone riprendere, completare ed emanare nel 1804 (Code civil des Français, talvolta poi chiamato Code Napoléon), facendolo seguire dai Codici de commerce (1806), de procédure civile (1807), d'instruction criminelle (1808), pénal (1810).
Deve sottolinearsi che codici come quelli che si sono menzionati non erano stati mai emanati. Quelli dell'antica Mesopotamia, che così sono stati chiamati dagli studiosi moderni, erano raccolte più o meno ampie e più o meno ordinate di norme disparate, senza pretese né di completezza, né di organicità. Meno che mai erano codici in senso moderno il Corpus iuris civilis né quello iuris canonici, dato che erano anch'essi raccolte antologiche, talvolta (non sempre) guidate da un filo logico ma prive dei caratteri di sinteticità e organicità propri dei codici moderni. Né ovviamente vale qualcosa di diverso per quelle raccolte di costituzioni imperiali, che i tardo-Romani stessi chiamarono codici, ma con allusione essenzialmente al tipo di libro utilizzato. I codificatori moderni si valsero di una tecnica tutta nuova. Un altro punto da rilevare è che fino a poco dopo il 1815 i codici furono creazione originale di ogni paese in cui si applicarono; in paesi diversi essi si applicarono solo per effetto della conquista militare o dell'annessione (come per esempio i Codici francesi nei Paesi Bassi, nel Regno d'Italia ecc., durante il periodo napoleonico, o, dopo la Restaurazione, il Codice civile austriaco nel Lombardo-Veneto). Allo stesso modo in precedenza si era più o meno integralmente trasmesso alle colonie extraeuropee il diritto della madre patria. Invece dopo il 1815 i Codici francesi, in ispecie quello civile, vennero in larga misura copiati o imitati in vari Stati, come quelli italiani preunitari, quelli dell'America Latina resisi indipendenti dalla Spagna, la Luisiana (1825), l'Olanda separatasi dal Belgio (1837), l'Italia unita (1865), più tardi la Spagna (1888-1889). Il modello della codificazione fu parzialmente adottato in paesi di diritto musulmano nel quadro di una parziale occidentalizzazione. Venne così emanato nell'Impero ottomano dopo il 1856 un Codice penale di tipo europeo, varie volte modificato e accompagnato da norme di procedura di ispirazione francese; ma più interessante fu la codificazione, mediante la cosiddetta Megelleh (1870-1876), del diritto musulmano attinente alle obbligazioni, a parte dei diritti reali, alla procedura.
Anche in Inghilterra l'idea di una generale codificazione, suggerita bensì dalle teorie continentali ma indipendente dai relativi modelli, fu insistentemente sostenuta da Jeremy Bentham in numerose opere, fra cui uno specifico progetto di codici civile e penale (General view of a complete code of laws, in Works, Edinburgh 1838-1843, vol. III, pp. 155-210); nel quadro di un certo avvicinamento inglese alle dottrine continentali, di cui sono prova le Lectures on jurisprudence di J. Austin, tale idea ottenne alquanto seguito, talché dal 1833 al 1876 furono prese alcune iniziative in quel senso dal Parlamento, ma nessuna ebbe successo. Venivano così ad accentuarsi le peculiarità del diritto inglese, ma esse costituivano ormai un vanto di quegli operatori giuridici, a cominciare da due grandi giuristi e storici, F. Pollock e F.M. Maitland. Si emanarono invece verso la fine dell'Ottocento numerose leggi di vasta portata, fra cui la riforma dell'ordinamento giudiziario (Judicature act, 1873-1875), con l'unificazione delle Corti di common law e di quelle di equity, e la legge sulla vendita commerciale (Sale of goods act, 1893). Un'iniziativa di codificazione, questa sulla base del modello francese, venne presa anche per gli Stati tedeschi non rientranti nell'Impero d'Austria: se ne fece promotore A.F. Thibaut. Ma la recisa opposizione manifestata col famoso scritto Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechtswissenschaft (1815) da Carl von Savigny, fondatore della scuola storica, fu seguita dalla maggior parte dei giuristi e della classe dirigente. Rimase quindi in vigore la preesistente combinazione di diritti locali e di diritto romano comune; anzi il Savigny e i suoi continuatori, i pandettisti, mirarono a desumere, invece che dalla tradizione romanistica, direttamente dalle fonti romane, in ispecie dal Digesto o Pandette, le norme, i principî, i concetti reputati utili per la disciplina attuale dei rapporti privati. Così, mentre in Francia si sviluppava sulla base dei codici l'école de l'exégèse (commento, al limite parola per parola, degli articoli dei codici e delle leggi), in Germania la dottrina giuridica privilegiava (sotto il nome di Dogmatik) la rigorosa formulazione di concetti e principî e il loro logico coordinamento.
Intanto con la maturazione della pandettistica e il mutare delle condizioni politico-sociali l'avversione ai codici era diminuita in Germania, talché, oltre a codici per singoli Stati, furono emanati nel 1861 il Codice di commercio (ADHGB), nel 1870 il Codice penale (SGB), e in seguito l'ordinamento processuale civile (ZPO); finalmente, dopo la vittoria sulla Francia di Napoleone III e la fondazione del II Reich (1871), ci si sentì di porre mano all'elaborazione del Codice civile (BGB), il cui testo definitivo fu però approvato solo nel 1896 ed entrò in vigore il 1° gennaio 1900. Esso divenne presto modello di altri codici; dei Codici giapponese e cinese, come presto si vedrà, di quelli svizzero (1907), brasiliano (1916), greco (1941), portoghese (1967). Il Codice civile svizzero, a sua volta, insieme con altri codici di tipo europeo, fu assunto a modello del Codice civile turco, fatto emanare negli anni venti da Kemāl Atatürk nel quadro della laicizzazione ed europeizzazione di quell'ordinamento. La dottrina tedesca che stava alla base del Codice civile era già in quel momento molto discussa. Alla Begriffjurisprudenz o giurisprudenza concettuale, a cui in prevalenza si ispirava, si era cominciata a contrapporre l'Interessenjurisprudenz o giurisprudenza degli interessi, che, rifacendosi in parte a Jhering, badava, più che ai concetti, agli interessi in gioco e al modo pratico di soddisfarli. Si stava inoltre sviluppando la giurisprudenza sociologica, che aveva il suo più insigne esponente in F. Ehrlich, mentre H.U. Kantorowicz delineava la sua dottrina del diritto libero, che anteponeva il libero criterio del giudice ai codici e alle leggi (dottrina parzialmente recepita dall'art. 1, comma 2 del Codice civile svizzero). In armonia con un orientamento culturale di ampia portata nelle arti e in altri campi dello spirito, venivano contestati in quel primo decennio del XX secolo concetti e principî che nell'Ottocento erano sembrati indiscutibili. Anche la francese école de l'exégèse appariva superata e lasciava il posto alle idee di L. Duguit, F. Gény e altri innovatori.
A partire dal VII secolo il diritto hindu sembrò tendere a maggior concretezza, poiché gli insegnamenti della dottrina vennero riferiti a casi concreti e fu tenuta presente la prospettiva di un giudizio con la relativa procedura (vyavahāra). Al XII secolo si ritiene appartengano due opere importanti: Dāyabhāga di Jōmūtavāhana e Mitāhsarā di Vijñaneśvara. Intanto però i musulmani, insediatisi qua e là in India già verso la fine del VII secolo, erano riusciti nell'XI-XII secolo a unificare i loro domini in un regno con capitale Delhi, che praticamente controllava quasi l'intero subcontinente. Il diritto musulmano, che penetrò così in India, riguardava però i soli fedeli. Gli hindu (eccettuati, si capisce, i convertiti all'islamismo, che dovettero essere in definitiva piuttosto numerosi) conservarono il loro diritto e i loro giudici, tranne che nelle materie penale e fiscale. Diversamente operarono gli Inglesi, che nel XVII secolo cominciarono a occupare alcune località e città indiane e completarono la conquista nella seconda metà del XVIII. Forse essi avrebbero voluto importare senz'altro in India il proprio diritto, come avevano fatto in America, ma si resero conto che, con civiltà giuridiche così evolute come quelle hindu e musulmana, ciò non era possibile. Così già nel 1772 il governatore del Bengala stabilì che, in materia di successione, matrimonio, statuto personale, doveva applicarsi il diritto locale (hindu o musulmano). Ma anche in tali materie la giustizia era amministrata dagli Inglesi, i quali, pur valendosi di esperti (pandit), giunsero spesso a decisioni difformi dai genuini diritti hindu e musulmano e rese difficilmente modificabili dalla regola del precedente. Ne risultò quindi un diritto ibrido, che gli Inglesi, diversamente da quanto solevano fare in patria, vollero verso la metà dell'Ottocento in qualche modo codificare, emanando prima i Codici penale e di procedura penale, poi altri Codici anglo-indiani. Più tardi altre leggi furono emanate per l'India in tema di società, cambiali e altre materie commerciali o finanziarie. Raggiunta l'indipendenza, l'Unione Indiana (come il Pakistan e il Bangladesh, sorti nei territori a maggioranza musulmana) ereditò il composito diritto in vigore in quel momento, ma si diede al più presto (1950) una Costituzione che, fra l'altro, distingue un diritto nazionale, comune a tutti i cittadini, e un diritto personale per ciascuna comunità etnico-religiosa. Il diritto nazionale dovrebbe comprendere un codice civile, finora non emanato; è entrato invece in vigore il testo dei già vigenti Codici penale e di procedura penale. Il diritto personale comprende il diritto hindu rimasto in vigore, pur con alterazioni, sotto gli Inglesi: esso è stato in buona parte riformato e codificato con quattro leggi, chiamate non di rado Indian code: sul matrimonio (1955), le successioni (1956), l'adozione e gli alimenti (1956), i minori e la tutela (1956). Il diritto personale dei musulmani al di qua del confine col Pakistan e il Bangladesh è rimasto imperniato sulla sharī'a: sue riforme sarebbero costituzionalmente legittime, ma ragioni politiche le sconsigliano.
Questo diritto, come si è visto, è stato a lungo molto diverso dagli altri: le sue peculiarità non sono cessate fino all'inizio del presente secolo. Fra tali peculiarità vi è la fondamentale distinzione tra li e fa, nonché un tradizionalismo sconfinante in apparenza nella stagnazione. Nel settore del fa, comprendente in sostanza norme penali e amministrative, si moltiplicarono i Codici penali, ma il loro contenuto poco mutò, salvo l'incremento del numero dei reati. Nell'ultimo Codice anteriore all'influenza europea, emanato sotto la dinastia Qing (XVIII-XIX secolo), il loro numero era elevatissimo, ma il 20% era costituito da violazioni di doveri privatistici, privi di sanzioni civili. In tema di amministrazione aveva e acquistò ancora maggior rilievo la struttura burocratica imperiale che constava di 20-25.000 funzionari-letterati (i 'mandarini'). Essi erano reclutati con concorsi, i cui esami si svolgevano in genere ogni tre anni e vertevano su temi filosofici e letterari, senza nessun riferimento al diritto. Scuole di diritto, d'altronde, esistettero solo in alcuni periodi storici e non sembra fossero di alto livello. Contatti rilevanti della Cina con gli europei cominciarono ad aversi solo dopo la 'guerra dell'oppio' e la conseguente apertura forzata (1842) di 46 porti cinesi, che fin dal 1757 erano chiusi agli stranieri, tranne due (Macao, già portoghese, e Canton).
Ma solo all'inizio del XX secolo ne derivarono influenze nel campo giuridico, prima con una rielaborazione del già citato Codice penale, sostituito nel 1912 da uno nuovo su modello tedesco, poi con progetti, non approvati, di codici civile e di procedura civile e con un progetto di codice commerciale, divenuto invece operativo per alcuni anni. Caduto il bimillenario Impero e frantumatosi lo Stato, i progetti - che in realtà contraddicevano l'avversione cinese, fuori del campo penale e amministrativo, a vere norme giuridiche (fa) - vennero sospesi e furono ripresi solo tra il 1929 e il 1936, quando furono infine emanati il Codice civile su modello tedesco (1929-1930) e un nuovo Codice penale su modello italiano. Fu elaborata anche una Costituzione, facente perno sul Guomindang (il partito unico di Jiang Jieshi), ma non poté essere approvata se non dall'Assemblea nazionale riunita a Nanchino (1946) dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta dei Giapponesi, che nel 1937 avevano invaso la Cina. Il travaglio di questa Costituzione e di quei Codici non era, d'altronde, finito, poiché la guerra civile coi comunisti e infine l'instaurazione della Repubblica Popolare Cinese ne impedirono l'applicazione fuori dell'isola di Taiwan rimasta a Jiang Jieshi.
Nella Repubblica Popolare si adottò il modello socialista sovietico con molte varianti, che però non furono costanti, in quanto si susseguirono in Cina tra il 1954 e il 1982 ben quattro Costituzioni, fra cui quella radicale della 'rivoluzione culturale'. Si dice che, nonostante tutto, il li avrebbe ancora efficacia, ma ciò non appare praticamente possibile se non di fatto nei rapporti fra privati, poiché fuori di questi le leggi e i poteri dello Stato e del partito coprono ogni spazio. Ora, comunque, abolite le 'comuni', l'agricoltura è gestita in massima parte direttamente dai contadini, e nei settori non agricoli, accanto alle imprese di Stato, operano imprese private. In proposito negli anni ottanta sono state emanate alcune leggi, ma, anche al di là di queste, il campo delle attività economiche private e dei loro rapporti con le attività pubbliche è stato oggetto di un'evoluzione che negli ultimi anni ha determinato un forte aumento del prodotto interno lordo. L'essere rimasta la Cina, nonostante i successi dell'iniziativa economica privata, l'ultimo grande paese socialista al mondo accresce l'interesse per gli incerti eventi futuri (cfr. Xo Baikang, Panorama du droit chinois en vigueur, in "Revue internationale de droit comparé", 1990, pp. 885 ss.; Mi Iian, Evoluzione storica e caratteristiche del sistema giuridico cinese, in "Index", 1991, XIX, pp. 343 ss.).
Il Giappone, retto da una struttura feudale in cui i poteri imperiali erano esercitati, anziché dall'imperatore, dal suo primo vassallo (shōgun), era del tutto isolato dagli occidentali ancora verso la metà del secolo scorso e fu costretto allora ad aprire i suoi porti al commercio estero dalla minaccia di una flotta americana e dalle lotte interne che questa suscitò. Ma meno di trent'anni dopo esso stava già studiando quali modelli europei scegliere per trasformare il suo diritto: trasformazione che però non eliminò i suoi principî etico-sociali (come la ragionevolezza, jōri). Già nel 1889 il Giappone si era dato una Costituzione ispirata, con rielaborazioni e adattamenti, al modello prussiano, la quale, rimasta in vigore sino alla fine della seconda guerra mondiale, fu sostituita nel 1946 da un'altra di influenza statunitense. In materia di codici i modelli considerati, grazie al giurista francese G.É Boissonade colà invitato, erano stati dapprima quelli francesi, che avevano dato la loro impronta ai Codici penale e di procedura penale del 1880 e il Codice di commercio del 1890 (cfr. J. Robert e altri, Boissonade et la réception du droit français au Japon, in "Revue internationale de droit comparé", 1991, pp. 327 ss.). Il modello francese era stato tenuto presente anche per i Codici civile e di procedura civile, ma venne poi preferito il modello tedesco, che ispirò infatti il Codice di procedura civile del 1891 e quello civile del 1898 (entrato in vigore due anni prima del BGB in Germania). La preferenza accordata ai modelli tedeschi si riverberò sui Codici di commercio, penale e di procedura penale, che in tempi diversi vennero coerentemente sostituiti. Dopo la seconda guerra mondiale l'influenza degli Stati Uniti determinò correzioni e parziali sostituzioni dei Codici di commercio (specie in materia di società per azioni), di procedura civile (per le cause di esiguo valore e l'istruzione probatoria), penale (abolizione dei reati contro la famiglia imperiale e dell'adulterio), nonché la radicale riforma del Codice di procedura penale. Si è avuta in conseguenza una parziale recezione della cultura di common law, e tuttavia il diritto giapponese e la relativa dottrina giuridica continuano ad appartenere alla famiglia romano-germanica. Rilevanti trasformazioni stanno, del resto, sopravvenendo (come un po' dappertutto nel mondo, ma in Giappone forse più celermente che altrove a causa della sua eccezionale espansione economica) in seguito all'internazionalizzazione del commercio, delle comunicazioni e delle informazioni, da cui è derivata l'emanazione di nuove norme di diritto internazionale privato o relative all'efficacia in Giappone delle sentenze straniere e delle decisioni di arbitrati internazionali. (Per un quadro efficace dei vari istituti e relativi problemi cfr. Y. Taniguchi e T. Kojima, Diritto giapponese, in Enciclopedia Giuridica, vol. XI, Roma 1989).
Si può, ai fini di questa esposizione, far iniziare l'età contemporanea dalla prima guerra mondiale. Essa comprende, se si adotta questo inizio, un periodo di quasi ottant'anni, che è (o per la prospettiva ravvicinata appare) caratterizzato da rapidissime evoluzioni e oscillazioni. Di molte di esse non sarà possibile, purtroppo, nemmeno far cenno, altre si considereranno, direttamente o di scorcio, dal solo angolo visuale dei temi trattati nella seconda parte.
Verso la fine del XIX secolo si era affermata la tendenza a estendere a nuovi paesi lo Stato di diritto, perfezionato con l'introduzione della generale impugnabilità dei provvedimenti amministrativi, anche discrezionali, o dinanzi ad appositi organi giurisdizionali o, come era allora regola senza eccezioni in Inghilterra e negli Stati Uniti, a quelli ordinari. Questa tendenza perdurò fino alla prima guerra mondiale, e non la turbarono né il rafforzarsi dei partiti socialisti (causato dalle persistenti gravi disparità delle condizioni di vita in molti paesi d'Europa e del mondo, ma guidato dall'ideologia ormai dominante di Marx ed Engels), né i falliti moti rivoluzionari bolscevichi del 1905 nella Russia zarista. Una grave scossa invece provenne dalla stessa Russia, quando nell'ottobre 1917 il secondo tentativo rivoluzionario bolscevico ebbe successo. Attraverso varie fasi si istituì in quasi tutto il territorio dell'ex Impero zarista, sotto il nome di Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), uno Stato socialista (marxista-leninista), il quale, per giungere alla soppressione della proprietà e dell'iniziativa economica privata, non esitò a sovvertire le regole dello Stato di diritto e a usare metodi lesivi dei diritti umani. Mentre quelle fasi si svolgevano, la paura del bolscevismo e le incapacità dei partiti di governo determinarono, prima in Italia (1922), poi in Germania (1933), l'instaurazione di un regime illiberale e antidemocratico (fascista in Italia, nazionalsocialista in Germania), in qualche modo simmetrico al sovietico e anzi quello tedesco a esso persino superiore nella violazione dei diritti umani.
Si parlò di Stati totalitari, prendendo lo spunto da una formula del capo del fascismo ("tutto nello Stato, nulla contro lo Stato, nulla fuori dello Stato"), e si distinsero quelli di destra da quello di sinistra. Vi erano tra essi, nonostante le numerose differenze di fondo e di dettaglio, alcuni punti comuni: la concentrazione del potere in un uomo (dittatore), esente in pratica da controlli o, come in URSS, esponente di un ristretto organo collegiale (Politbjuro), né l'uno, né gli altri, comunque, eletti dal popolo; il coinvolgimento, non riscontrabile nelle passate tirannidi né nei passati regimi reazionari, delle masse popolari nell'attività politica sotto la guida del partito unico; l'inclusione nella loro struttura di assemblee svolgenti in teoria funzioni analoghe a quelle dei parlamenti o dei consigli comunali o provinciali degli Stati di diritto, ma prive in pratica di qualsiasi potere e composte di persone che, anche se elette, erano in realtà scelte dal partito.
Le differenze di fondo tra loro riguardavano, da un lato, la proprietà e la gestione dei beni produttivi - che nei totalitarismi di destra erano, conformemente al loro indirizzo economico-sociale, lasciate ai privati (pronti però a seguire e plaudire le direttive del dittatore), mentre nell'URSS erano riservate allo Stato o ad altri enti -, dall'altro lato l'ideologia di base, che nei totalitarismi di destra consisteva nel nazionalismo (o nel razzismo) e nella supremazia militare, nell'URSS invece era l'utopia comunista, che prometteva l'abolizione delle classi sociali e intanto dello sfruttamento capitalistico sia dell'uomo da parte dell'uomo, sia dei paesi poveri da parte di quelli economicamente più avanzati. Nel 1939 la Germania nazista, incoraggiata da iniziali successi politici ed economici, scatenò la seconda guerra mondiale e fu travolta dalla sconfitta insieme con l'Italia fascista e regimi satelliti minori. L'URSS invece si trovò tra i vincitori e poté imporre con la forza l'istituzione di 'repubbliche popolari' in molti paesi d'Europa, mentre veniva inoltre assunta a modello, per il suo anticapitalismo e anticolonialismo, da paesi come la Cina, la Corea del Nord, il Vietnam e Cuba. Qui lo speciale totalitarismo di sinistra sopravvive oggi, più o meno alterato e annacquato, al definitivo dissolversi dell'URSS, suo modello, e delle repubbliche popolari. Questo dissolvimento ha determinato negli ultimi anni il riespandersi nel mondo dei regimi liberal-democratici a economia di mercato, ma l'inarrestabile corso della storia ha suscitato presto altri, a volta tragici, problemi.
Nell'Ottocento la dottrina giuridica italiana aveva recepito dapprima gli insegnamenti e l'esempio della scuola francese dell'esegesi, poi quelli della pandettistica e della successiva dottrina tedesca. In alcune discipline, però, quali il diritto penale e in parte il commerciale, i giuristi italiani furono fin dall'inizio del tutto autonomi, e tale fu anche il processualista L. Mortara. Negli altri campi, comunque, già alla fine del secolo essi avevano raggiunto una propria specifica fisionomia. È significativa la posizione di due maestri, Vittorio Scialoja e Giuseppe Chiovenda, che in tempi diversi fecero da tramite tra la dottrina tedesca e l'italiana, l'uno per il diritto romano e il civile, l'altro per il processuale civile e la storia del processo, ma assolta questa funzione, per così dire storica, svilupparono poi la loro personalità di studiosi secondo i caratteri nazionali. Scialoja fu, tra l'altro, il più autorevole esponente di un tipico carattere nazionale italiano: la versatilità, che gli permise di dare contributi, oltre che come studioso del diritto romano e civile, come avvocato e come politico. Passando ai giuristi che, formatisi prima o durante la prima guerra mondiale, illustrarono il periodo tra le due guerre, si menzionano a mero titolo di esempio Santi Romano, autore del famoso Ordinamento giuridico (1917) e poi costituzionalista e amministrativista di primo piano; F. Carnelutti (notevole in molte sue opere da La prova civile, 1916, alla Teoria generale del diritto, 1951³); A.C. Jemolo (ecclesiasticista, amministrativista, storico, dotato di vastissima cultura e insieme sempre attento al concreto dato di esperienza); P. Calamandrei (processualista, costituzionalista, letterato finissimo e animato da alti ideali democratici); un'ampia schiera di romanisti, fra cui spiccano V. Arangio-Ruiz, P. De Francisci, E. Betti, e inoltre internazionalisti come D. Anzilotti, penalisti come V. Manzini e naturalmente molti altri. Si è attribuito ai giuristi italiani, specie di questo periodo, il difetto di astrattezza e mero tecnicismo. Il Merryman, che fra gli altri ha rilevato questo difetto (per un americano certo assai grave), lo ha giustificato (Lo 'stile italiano': la dottrina, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1966, XX, pp. 116 ss.) come un espediente adottato dai giuris
ti italiani, specialmente durante il fascismo, per isolare le loro opere da motivazioni o interferenze politiche; giustificazione in qualche misura condivisibile. Ma occorre anche osservare che, considerando l'insieme delle opere di quei giuristi, la loro astrattezza risulta molto minore, poiché alcune di queste opere, fra cui le numerose note a sentenza, per molti autori tutt'altro che secondarie, sono un chiaro esempio di concretezza. È difficile, d'altra parte, giudicare astratti giuristi come Jemolo o Calamandrei. Occorre dunque soprattutto guardarsi dalle generalizzazioni, e si potrà allora constatare che per molti di quei giuristi, nelle cui opere il punto nevralgico era costituito dall'interpretazione delle norme da applicare nelle questioni discusse, era già maturata l'evoluzione descritta da Gény con riguardo alla dottrina francese: dalla "interprétation strictement littérale" alla considerazione delle "réalités de la vie moderne" (cfr. F. Gény, L'évolution contemporaine de la pensée juridique dans la doctrine française au milieu du XX siècle, in Études offertes à George Ripert, vol. I, Paris 1950, pp. 3 ss.). La spiegazione teorica del loro modo di interpretare è poi venuta dopo la seconda guerra mondiale da E. Betti (il romanista prima menzionato), con le sue opere sull'interpretazione (L'interpretazione delle norme giuridiche, Milano 1949; Teoria generale dell'interpretazione, 2 voll., Milano 1955), nelle quali ha, fra l'altro, messo in luce come l'interprete e il giudice 'continentali', pur vincolati assai più di quelli di common law, possano nondimeno interpretare le norme e gli atti giuridici in modo abbastanza flessibile da tener ragionevole conto delle peculiarità dei casi controversi. La fine della seconda guerra mondiale determinò una svolta, che tuttavia non modificò il carattere di per sé variegato della dottrina italiana. Continuarono a esservi romanisti, che scrissero opere di diritto vigente, quali per esempio G. Grosso e G. Branca, e altri, come già prima Arangio-Ruiz e De Francisci, che diedero indirettamente grandi contributi alla dottrina giuridica. Nuovo rilievo assunsero poi i commentari articolo per articolo dei codici di recente entrati in vigore. Le vere e proprie innovazioni, a parte quanto si dirà nel prossimo paragrafo, furono dovute a cause in apparenza contraddittorie: da una parte alla cultura giuridica anglosassone, in ispecie a quella americana, che era in qualche modo una scoperta, dall'altra anche, in certa misura, a indirizzi politici di sinistra.
Specificamente vi furono vari filoni innovativi:
a) l'impiego della sociologia (oggetto, come la cultura anglosassone, di una specie di scoperta, dato il velo steso su di essa dal dominante idealismo crociano), che diede luogo sia alla nuova disciplina della sociologia giuridica, di cui fu antesignano R. Treves, sia a opere ( come per esempio il manuale di istituzioni di diritto privato di P. Rescigno) in cui aspetto sociologico e aspetto giuridico appaiono strettamente connessi;
b) la deduzione (in cui si distinsero, fra gli altri, S. Rodotà e A. Pizzorusso) dalla Costituzione del 1948 di principî e criteri interpretativi atti in generale ad adeguare a nuove esigenze il diritto in vigore e in particolare a proteggere gli interessi dei soggetti più deboli senza bisogno di nuovi atti legislativi;
c) l'asserita prevalenza delle pronunzie giudiziarie rispetto alle norme dei codici e delle leggi, suggerita chiaramente dai modelli inglese e americano (di ben difficile imitazione in Italia, eppure seguiti da molti autori, fra cui M. Cappelletti) ma sostenuta anche da un autore come S. Satta, ben poco sensibile invece a quei modelli;
d) l'interesse per gli studi comparatistici, già coltivati in Italia da M. Sarfatti e successivamente da M. Rotondi, ma assai sviluppatisi dopo la seconda guerra mondiale grazie soprattutto a G. Gorla, poi a R. Sacco e Cappelletti, infine a tutta una nuova generazione di studiosi.
In complesso, per opera dei suddetti fattori e di altri, è prevalsa in Italia dopo la seconda guerra mondiale la tendenza ad accantonare o superare quanto rimaneva del positivismo giuridico (caratteristiche in questo senso le posizioni, pur diverse, di S. Pugliatti, R. Orestano, M.S. Giannini).
I. Pensiero dominante degli ambienti democratici all'indomani della sconfitta del fascismo e del nazismo fu l'apprestamento di strumenti giuridici atti a ostacolare la ricostituzione di regimi a essi in tutto o in parte ispirati: il primo strumento fu l'adozione di costituzioni rigide, che, come quella degli Stati Uniti del 1791, non potessero modificarsi in nessuna delle loro norme con legge ordinaria e che istituissero un organo giurisdizionale capace di annullare le leggi contrarie alla costituzione stessa; secondo strumento fu l'inclusione nelle costituzioni di un elenco di diritti umani, simile al Bill of rights inglese e americano e alla francese Déclaration des droits de l'homme e arricchito di un elenco di diritti sociali (al lavoro, a un equo salario, alla salute, ecc.) sul modello, ampliato, della Costituzione tedesca di Weimar (1919). Si cercò anche di dare al riconoscimento e alla tutela di questi diritti una dimensione internazionale con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite (1948) e con convenzioni internazionali, di cui la più efficace è la Convenzione europea per la protezione dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (1950) rafforzata da una Commissione e da una Corte europea dei diritti dell'uomo con sede a Strasburgo. Questi organi in realtà hanno funzionato e i loro provvedimenti sono stati numerosi (non pochi a sfavore dell'Italia), ma la loro efficacia pratica appare dubbia. A parte ciò e fuori della sfera della Convenzione europea, le violazioni di diritti umani da parte di organi civili e militari degli Stati sono state e continuano a essere gravi e numerose, nonostante l'opera dell'ONU e di altre istituzioni come Amnesty International. Altro elemento da considerare è la possibile incompatibilità tra l'uno e l'altro dei diritti umani o tra uno di questi diritti e fondamentali compiti dello Stato. I diritti sociali, a differenza delle libertà tradizionali, comportano obblighi positivi dello Stato, che deve farvi fronte con risorse tutt'altro che illimitate. Su questi ostacoli alla diffusione e al rafforzamento dei diritti umani e sociali ha richiamato l'attenzione, fra gli altri, M. Villey (Le droit et les droits de l'homme, Paris 1983), il quale ne ha dedotto che questi diritti sono da considerare mere rivendicazioni di categorie o declamazioni dello Stato. Sembra invece preferibile trarne l'ammonimento a regolare con rigore, in sede nazionale e internazionale, l'ambito di ciascun diritto, in modo da assicurarne la compatibilità con (diversi o uguali) diritti altrui e con la realtà delle risorse finanziarie.
II. L'aspirazione a un diritto uniforme (se non 'comune', nel senso e nei limiti in cui si era attuato nell'Europa continentale e nei territori extraeuropei da essa dominati nell'età moderna fino alla codificazione) si rinnovò poco prima della seconda guerra mondiale e soprattutto dopo. La si soddisfò in qualche misura spontaneamente mediante l'estensione di diritti europei (romano-germanici o di common law) ai paesi extraeuropei divenuti indipendenti dopo la decolonizzazione. In effetti i codici, specie civili, emanati negli anni quaranta e cinquanta in paesi islamici mediterranei e del Vicino Oriente furono orientati a combinare norme o istituti di origine europea (francese per lo più, ma anche italiana o inglese) con norme o istituti nettamente musulmani. In un più ampio ambito geografico leggi di paesi ex coloniali, attinenti allo sfruttamento di miniere e pozzi petroliferi, all'installazione di impianti industriali e ad altre attività economiche e finanziarie in quei territori, hanno avuto, pur con qualche oscillazione, componenti europee o americane. È un fenomeno certo più limitato di quello che tra il XVI e il XIX secolo aveva condotto alla diffusione in vari continenti dei diritti spagnolo, inglese, francese, olandese, ma degno ugualmente d'attenzione. Esso piuttosto ha incontrato e incontra ostacoli dall'inizio degli anni settanta nei movimenti nazional-religiosi diffusisi soprattutto nelle aree a maggioranza musulmana, ma la proliferazione dei particolarismi etnici lo minaccia anche fuori di tali aree e indipendentemente da fattori religiosi.
Nondimeno si deve registrare negli anni ottanta entro i paesi islamici e fuori di essi l'emanazione di molte leggi aventi la natura anzidetta. È del 1990 una di tali leggi emanata nello Yemen, ossia nello Stato che era rimasto a lungo il più chiuso a contatti con il diritto e l'economia occidentali. A ogni modo, è evidente che per simili vie il cammino dell'uniformizzazione del diritto non può oltrepassare certe mete. Un diritto uniforme pare potersi creare a lungo termine attraverso gli arbitrati relativi al commercio internazionale, le cui decisioni, se sono state osservate le prescritte regole, devono essere riconosciute e rese esecutive dagli Stati aderenti alla Convenzione di New York del 1958 o a quella europea di Ginevra del 1961. Secondo queste convenzioni gli arbitri devono applicare il diritto statale scelto dalle parti nell'accordo arbitrale, ma esse possono anche rimettersi ai principî generali del diritto o al diritto internazionale. In questo secondo caso gli arbitri potrebbero in definitiva dettare essi stessi la regola adatta al caso, la quale, se ripetuta da successivi arbitri, potrebbe affermarsi come regola stabile e, unita alle altre regole nel frattempo formatesi in modo analogo (nonché agli usi che di per sé disciplinano il commercio internazionale), dare infine vita a un diritto non internazionale, bensì, come molti dicono, transnazionale, comune, se non a tutti, a una larga serie di Stati (per più ampi sviluppi cfr. R. David, L'arbitrage dans le commerce international, Paris 1982).
La prospettiva è affascinante, ma, supposto che si realizzi, essa non può riguardare se non un limitato numero di operatori economici, sia pure di alto livello. Un'altra via che si è percorsa e si sta percorrendo verso la stessa o analoga meta è quella di ottenere mediante conferenze internazionali l'accettazione da parte di molti Stati di leggi uniformi relative a vari settori del diritto, le quali vengono nel frattempo elaborate e discusse da comitati di esperti nominati da praticamente tutti gli Stati del mondo. Dopo un primo esperimento negli anni trenta in materia di cambiale e assegno bancario, si è adottata in prevalenza dopo la guerra una tecnica analoga a quella con cui negli Stati Uniti si sono emanate e si emanano leggi uniformi da applicarsi all'interno dei vari Stati (per esempio lo Uniform commercial code). Molte convenzioni di questo tipo sono state elaborate e sottoscritte, ma per ora solo in parte ratificate; la più importante fra quelle ratificate è la Convenzione di Vienna del 1980 sulla vendita internazionale di merci, il cui testo, per effetto della ratifica compiuta da un numero sufficiente di Stati, è entrato in vigore direttamente in ciascuno Stato ratificante il 1° gennaio 1988. Tecnicamente lo strumento è stimolante, ma sembra che nemmeno esso possa condurre a vaste aree (geografiche e socioeconomiche) di diritto uniforme perché, nonostante labili dichiarazioni di intenti, esso urta contro la riluttanza di giuristi, burocrati e politici a discostarsi dalla loro tradizione. Solo nell'ambito dell'Unione Europea, se verrà attuata, si potrà istituire non un diritto uniforme, bensì un'essenziale armonizzazione dei diritti dei vari Stati. La generosa aspirazione a un diritto, almeno privato, comune a tutti o a molti paesi civili non sembra prossima a realizzarsi se non - a essere ottimisti - in ambiti ristretti.
III. Un diritto sovranazionale nel senso proprio del termine è quello delle Comunità di Stati: se ne sono progettate e in parte attuate alcune, ma le uniche Comunità realmente esistenti e operanti sono le Comunità Europee, destinate a dar vita, per effetto del Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, all'Unione Europea, che molti sperano possa a suo tempo effettivamente attuarsi. Buone prospettive sembra anche avere una Comunità, per ora solo deliberata in una convenzione internazionale, tra Argentina, Brasile e altri Stati latino-americani (Mercosur). Questa è la principale novità prodottasi dopo la seconda guerra mondiale e diretta chiaramente all'accorpamento di più Stati in unità maggiori; essa è peraltro contraddetta e contrastata dalla tendenza, accentuatasi (sovente con successo) negli ultimi anni, alla frammentazione delle unità statali esistenti in unità più piccole, corrispondenti a etnie più o meno definite e rilevanti. A parte ciò, il diritto sovranazionale delle Comunità Europee, chiamato di regola 'diritto comunitario', è il prodotto di atti normativi, precetti e sentenze emanati da organi delle Comunità (Consiglio, Commissione, Corte di giustizia) e aventi spesso diretta efficacia all'interno di ciascuno Stato nei confronti delle persone fisiche, delle società, degli enti ivi operanti. In seguito all'istituzione del SEBC (Sistema Europeo di Banche Centrali) e della BCE (Banca Centrale Europea) si avrà un'estensione del numero e della natura degli atti di organi comunitari operanti automaticamente all'interno degli Stati.
IV. Innovazioni si sono avute anche nel diritto internazionale in senso stretto. Sono innovazioni soprattutto quantitative, consistenti nella grande estensione delle materie considerate, nella creazione di numerosi nuovi enti, nell'enorme aumento delle convenzioni internazionali, alcune qua e là già menzionate, come per esempio la Convenzione di New York sull'arbitrato internazionale e quella di Roma sulla protezione dei diritti umani; a questa si è aggiunta a distanza di tempo una Convenzione americana (Josè de Costarica, 1969), per altro resa meno efficace dalla mancata adesione degli Stati Uniti. Deve anche menzionarsi la Convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 sulla competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle sentenze in Stati diversi da quelli in cui sono state pronunziate. Ma, come si diceva, le convenzioni degli ultimi quarant'anni e i loro oggetti sono innumerevoli. Un'innovazione anche qualitativa è stata l'istituzione dell'ONU al posto della vecchia Società delle Nazioni (a cui, fra l'altro, gli Stati Uniti non partecipavano). Si è tentato di creare un organismo più efficiente dandogli una struttura più compatta, assicurando la partecipazione degli Stati Uniti e rendendo più funzionale il meccanismo delle sanzioni. È grandemente cresciuto anche il numero dei suoi membri, a causa soprattutto della decolonizzazione e, molto di recente, per la partecipazione dei nuovi Stati sorti dalla frammentazione dell'URSS e della Iugoslavia.
Ma il punto cruciale in tema di efficienza rimane quello delle sanzioni, sia della capacità di deliberarle, sia di quella di attuarle con la forza. A quest'ultimo riguardo è ragionevole immaginare che la comunità internazionale possa o debba ripercorrere il cammino delle comunità primitive o anche protostoriche e limitarsi quindi per un certo tempo ad autorizzare, una volta accertata l'illiceità della condotta di un soggetto (di uno Stato), l'impiego della forza privata (di uno o più Stati). Ciò sembrerebbe essere avvenuto non tanto nei riguardi della Corea del Nord negli anni cinquanta, quanto nel più recente caso dell'Iraq con le (pur tanto criticate) operazioni di guerra autorizzate dall'ONU ed eseguite contro l'Iraq dagli Stati Uniti e da alcuni altri Stati. La fantasia, se non la speranza, corre alla teoria kantiana della comunità universale e alla connessione da Kant individuata tra pace internazionale e libertà individuale. Ma forse siamo ancora a livello di utopia. Certo, un ammonimento a frenare l'ottimismo viene dal rilievo che, nel caso dell'Iraq e in quello più recente e problematico della Serbia, soggetti alle sanzioni erano piccoli paesi, mentre paesi più grandi, anch'essi possibili autori di illeciti internazionali, non solo hanno la propria forza militare, capace di opporsi, magari vittoriosamente, all'attuazione delle sanzioni, ma possono inoltre, se membri permanenti del Consiglio di sicurezza, bloccare col proprio veto la deliberazione di qualsiasi sanzione contro di sé o contro propri amici o alleati (come è invero avvenuto alcune volte). Gravi sforzi e molte fortunate vicende ancora ci vorranno perché il diritto possa effettivamente disciplinare il mondo internazionale.
L'esposizione fin qui fatta, avente (pur nella sua inevitabile sommarietà) sostanza storico-comparatistica, si è iniziata col postulato che il diritto operi necessariamente in una comunità organizzata, sia pure solo embrionalmente. L'esame successivo non ha mostrato alcun esempio di un diritto relativo a individui isolati e quindi per lo meno non ha smentito il postulato. Sembra dunque corretto affermare che dove non c'è comunità, almeno embrionalmente organizzata, non c'è diritto, il che si può anche volgere in forma positiva, dicendo che, quando si emanano proposizioni giuridiche, in qualche modo si organizza una comunità. Alla massima comunemente ripetuta 'ubi societas, ibi ius' si affianca quindi la massima simmetrica 'ubi ius, ibi societas', la quale in pratica coincide con la funzione del diritto indicata da Grozio (Epistulae ad Gallos CVI, Lipsiae et Francofurti 1634): il diritto "omnes homines hominibus, et gentes gentibus sociat". È importante in questa breve formula la precisazione che il 'sociare' reso possibile dal diritto riguarda anche i popoli, i quali infatti - può completarsi - sono associati l'uno all'altro dal diritto internazionale, della cui moderna dottrina Grozio fu appunto uno dei fondatori. L'interdipendenza tra diritto e società non è smentita dall'esistenza di comunità come quella cinese, in cui per lungo tempo dati settori della vita sociale non erano regolati dal diritto (fa). Deve infatti rilevarsi che l'esistenza del diritto come fattore di organizzazione di una comunità non è incompatibile con la devoluzione (esplicita o, come nel nostro caso, implicita) di dati settori della vita di quella comunità ad altre regole di controllo sociale, che non diventano solo per questo giuridiche. Si è, d'altronde, notato a suo luogo che l'elemento regolante quei settori, il li, potrebbe anche essere inteso come una specie di diritto naturale. Tenuto conto, dunque, dei vari aspetti del diritto finora descritti, si prospettano alcune essenziali domande: a) di che cosa sia composto il diritto; b) come esso si formi; c) in quali modi e con quali mezzi esso operi; d) quale rapporto sia individuabile fra diritto e giustizia; e) quale linea di confine possa tracciarsi fra il diritto e gli altri elementi deontici (o le altre regole rilevanti per il controllo sociale). Sono domande che in qualche misura si sovrappongono e a cui si può rispondere talvolta in modo interdipendente; esse devono nondimeno venire formulate e considerate distintamente.
Preliminare a questo esame dev'essere il richiamo a due correnti dottrinali, sulla cui contrapposizione fino alla metà di questo secolo si è forse fin troppo insistito, specie in Italia: l'imperativismo e il normativismo. Entrambi prendono in considerazione la 'prescrizione' quale materia prima del diritto, ma il primo la concepisce come un comando, ossia un imperativo, che promana necessariamente da un'autorità avente il potere di comandare e crea nel destinatario l'obbligo coercibile di tenere una data condotta "commissiva" o "omissiva" (terminologia desunta da F. Carnelutti - v., 1951³ - e forse preferibile agli aggettivi 'positiva' e 'negativa'). Principale rappresentante italiano dell'imperativismo in questo secolo può appunto considerarsi Carnelutti. Il normativismo invece concepisce la norma come l'enunciazione di criteri di giudizio con cui valutare la condotta dei soggetti da essa in astratto contemplati, o come - aspetto sottolineato da H. Kelsen - la determinazione dei presupposti di validità di altre norme da essa dipendenti. Ma la differenza, guardando alla sostanza, è meno grande di quanto appare. Gli imperativisti non possono seriamente sostenere che il comando o imperativo, a cui si riferiscono, costituisca una realtà effettiva. È ammissibile, come si dirà, respingere il 'realismo' scandinavo o americano; ma non occorre appartenere a questa corrente di pensiero per accorgersi che nella norma (intesa come prescrizione - rivolta, sulla base di una data situazione di fatto astrattamente ipotizzata, a tutti i soggetti che si trovino in tale situazione - di una condotta descritta ugualmente in modo astratto) è (dagli stessi imperativisti) ravvisabile solo con una finzione uno specifico comando o imperativo indirizzato personalmente a ciascun soggetto concreto.
Altro è un ordine che il comandante di un reparto militare rivolga specificamente a un inferiore, o forse anche quello contenuto in un'ingiunzione amministrativa o in un provvedimento giudiziario indirizzato a un concreto soggetto, altro è una prescrizione generale e astratta, specie se questa, come è pur possibile, sia di origine consuetudinaria anziché autoritativa, o si desuma per analogia da una diversa norma. Rispettivamente, i normativisti non possono seriamente escludere che la norma, intesa, come essi preferiscono, quale enunciazione di criteri in base a cui una data condotta viene giuridicamente qualificata, contenga effettivamente la prescrizione di tenere o non tenere tale condotta e determini per i singoli soggetti contemplati - a prescindere da qualunque riflesso psicologico, da porsi, se mai, su un diverso piano - una data situazione giuridica inerente a tale condotta (per esempio la necessità giuridica, ossia dovere o obbligo, di tenere o non tenere tale condotta). L'unica rilevante differenza tra le due correnti finisce col riguardare l'ambito del diritto, in quanto gli imperativisti, e non invece i normativisti, riconnettono necessariamente il diritto allo Stato, in quanto unico ordinamento in cui essi ravvisino un apparato idoneo a comandare e a far osservare il comando contenuto nella norma. Poiché questa aprioristica limitazione non sembra accettabile (salvo specifica analisi ed eventuali distinzioni), la scelta dev'essere a favore del normativismo, purché la norma venga intesa nel duplice senso sopra accennato: come qualifica a posteriori della condotta di dati soggetti e prescrizione a priori concernente (in senso positivo o negativo) la medesima condotta.
Alla domanda sugli elementi che compongono il diritto sembra si sia già implicitamente risposto indicando le norme come uno, almeno, di tali elementi. Ma la risposta non è così pacifica. La principale contestazione al riguardo, che vorrebbe negare o, se non altro, molto svalutare le norme, proviene dal già accennato realismo scandinavo e americano. Punto di partenza fu l'assunto di Axel Hägerström (inizialmente filosofo della conoscenza e naturalista), il quale sostenne che, come le scienze naturali hanno respinto la metafisica e fatto oggetto delle loro ricerche la realtà, così la scienza giuridica deve prendere in considerazione esclusivamente il mondo dell'esperienza sensibile e respingere le nozioni giuridiche correnti "che non corripondano ai fatti" (ragionamento metodologico che è il primo dei sofismi ricorrenti nelle sue opere, sintetizzate dalla raccolta postuma Inquiries into the nature of law and morals, 1953). Su questa base egli e i suoi seguaci svedesi (in specie W. Lundstedt e K. Olivecroma, ciascuno con le sue peculiarità) assegnano alla norma (e alle figure soggettive che ne derivano, quali dovere giuridico, diritto soggettivo, illecito, ecc.) valore psicologico e sociologico, non giuridico. Più articolata è la posizione di A. Ross, in realtà allievo di Kelsen (a cui dedicò la prima importante opera: Theorie der Rechtsquellen), ma più tardi per molti anni, durante e dopo la seconda guerra mondiale, ospite di università americane. Come gli altri realisti, ma con varie prospettive, egli dà preminente valore ai comportamenti effettivi, ma dapprima li considera complementi indispensabili per la validità delle norme (cfr. Theorie der Rechtsquellen, Leipzig-Wien 1929, pp. 27 ss.), poi sembra vedervi l'unico dato da cui è desumibile la conoscenza del diritto (cfr. Om ret og retfaerdiget, København 1953; tr. it.: Diritto e giustizia, Torino 1965, pp. 10 ss.; qui la celebre, ma assai discutibile, argomentazione dal gioco degli scacchi). Nel parlare di 'comportamento effettivo' egli sembra combinare insieme il comportamento dei comuni individui e quello dei giudici, ma sono elementi da distinguere; d'altro canto è molto probabile che la rilevanza accordata a questi ultimi sia dovuta al suo soggiorno americano, data la preminenza negli Stati Uniti, come in Inghilterra, della formazione giudiziaria del diritto.
I realisti americani, in effetti, muovono dalla generale preminenza di fondo assegnata nella loro cultura alla formazione giudiziaria del diritto rispetto a quella legislativa o normativa in genere, nonché, di riflesso, all'aspetto patologico del diritto, in quanto oggetto di controversia e determinato solo dalla relativa decisione, rispetto al suo aspetto fisiologico, che lo mostra invece stabilito dalle norme e pacificamente osservato dalla generalità dei soggetti. Essi quindi considerano soprattutto le pronunzie dei singoli giudici, le quali nel singolo caso sono in linea di massima prevedibili solo con ampio margine di incertezza. In questo senso è da intendere la famosa risposta di O.W. Holmes a chi gli chiedeva che cosa fosse il diritto: "È quello che prevedo stabiliranno i giudici in ogni singolo caso". E così J.N. Frank manifestò il suo indirizzo realistico domandandosi che cosa i giudici realmente fanno, non che cosa dicono di fare (cfr. What the judges do in fact, in "Illinois law revue", 1932, pp. 45 ss.).
Analogamente K.N. Llewellyn, antropologo culturale e personaggio di estrema versatilità, analizzò con attenzione, grazie alla sua esperienza di grande avvocato e di ascoltato coautore dell'Uniform commercial code, il comportamento dei giudici, comprendente secondo lui regolarità e irregolarità (cfr. un'opera postuma in tedesco, frutto di lezioni tenute a Lipsia nel 1931-1932, Recht, Rechtsleben und Gesellschaft, Berlin 1977, pp. 54 ss.), ma suscettibile di ragionevoli previsioni (The brumble bush, New York 1951, pp. 53 ss.), in base alle quali egli distinse le regole effettive dalle paper rules (norme o precedenti giudiziari obsoleti). In conclusione, i realisti americani, guidati dal generale assunto che la scienza del diritto sia scienza di fatti e non di entità immateriali o intellettuali, e incoraggiati dalla persuasione che il comportamento di fatto, libero o poco vincolato, dei giudici sia più idoneo delle norme a soddisfare le esigenze sociali e a seguirne l'evoluzione, sono giunti, anche se forse meno radicalmente degli scandinavi, a 'dissacrare' le norme, sia quelle contenute in leggi e regolamenti, sia quelle costituite dagli stessi precedenti giudiziari. La loro vera tesi di fondo è che il diritto si identifica con la soluzione giuridica dei singoli casi; e ne traggono un'affermazione con cui anche i giuristi europei continentali possono convenire, ossia che tale soluzione è quella (con le parole di Holmes) che si prevede "stabiliranno i giudici in ogni singolo caso". Occorre però considerare che essa dipende non solo dal diritto in sé, ma anche dal modo in cui i fatti di quel caso saranno prima prospettati e poi provati ai giudici nonché dal modo in cui questi applicheranno a essi le norme o i precedenti giudiziari. Norme e precedenti preesistono alla singola decisione e 'possono' essere certi, laddove quella per le ragioni dette ha di necessità un più o meno ampio margine di incertezza. I 'realisti' si distinguono dunque anche dagli ordinari giuristi di common law, poiché questi - specie gli inglesi - ritenendo vincolanti i precedenti giudiziari, ricavano da essi una norma valida per l'indefinita serie di casi in cui ricorra la stessa ratio decidendi del caso deciso. È, beninteso, una subcategoria di norme, che si distingue dalle comuni sia per la natura dell'organo da cui emana, sia per la sua ristrettissima fattispecie. Di conseguenza anche la dottrina dei paesi di common law, in quanto conferisce preminente valore a tale subcategoria di norme, si distingue dalle dottrine (di solito le europee continentali) che privilegiano le norme di codici o leggi. Ma essa si distingue anche dalle teorie 'realistiche', giacché queste fanno consistere il diritto solo nei comportamenti materiali dei soggetti o, tutt'al più, anche nelle pronunzie dei giudici nel singolo caso.
L'esame critico delle teorie 'realistiche' e la dovuta considerazione del peculiare orientamento con cui i giuristi di common law impostano le questioni giuridiche non impediscono di constatare, con tutte le sfumature, le precisazioni e le riserve opportune, che le norme costituiscono materia essenziale del diritto. Schematicamente la norma risponde al seguente schema: se è vero A (fattispecie), il soggetto X tenga la condotta B. Uno schema semplificato è: se è vero A, si produca l'effetto B; ma dev'essere chiaro che il prodursi dell'effetto B sottintende la previa o successiva condotta B₁, B₂, ecc. dei soggetti X₁, X₂, ecc. Tanto la fattispecie che la condotta prescritta sono enunciate in modo astratto. Ma, oltre alle norme, si constata che il diritto opera anche con prescrizioni indirizzate a singoli individui riguardo a un singolo caso, un singolo rapporto, una singola questione. Sembra opportuno indicarle col termine 'precetti', da intendersi convenzionalmente in questo specifico senso (cfr. S. Romano, L'ordinamento giuridico, Pisa 1918, p. 21: "precetti individuali e concreti"; invece Hart - v., 1961; tr. it., pp. 3 ss. - sembra preferire 'comandi' o 'ordini', ma sono termini che rischiano, anche se erroneamente, di riaprire il problema dell'imperativismo; per contro M. Virally, La pensée juridique, Paris 1960, p. 49, seguito da J.-L. Bergel - v., 1985, p. 41 -, aggiunge semplicemente una delimitazione al comune termine norme: "normes qui ordonnent une seule relation juridique"). I precetti devono ulteriormente distinguersi (benché, come spesso è richiesto dalle scienze sociali, in modo sfumato) in 'primari' e 'secondari'.
Nei sistemi giuridici moderni i precetti sono per lo più secondari, in quanto sono distintamente previsti da norme o altri precetti come effetti di dati atti. Atti di questo genere sono ovviamente le sentenze dei giudici (dei sistemi europei continentali), e inoltre le ingiunzioni tributarie, i provvedimenti amministrativi in genere, e infine i negozi giuridici (contratti, testamenti, ecc.) conclusi da soggetti privati. I precetti secondari, pur essendo desunti da una norma o altro precetto, contengono sempre un aliquid novi la cui ampiezza dipende dal tenore della prescrizione preordinata: è massima, se questa è una cosiddetta 'clausola generale' (per esempio: "il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza", art. 1175 del Codice civile italiano), e gradatamente si restringe fino alla norma rigidamente formulata, che potrebbe non lasciare nessun margine a precetti in qualche misura divergenti da essa. Del resto, la più o meno ampia novità del precetto (per esempio giudiziario) vale fra le parti, non in modo immediato per l'ordinamento, poiché non sembra condivisibile l'opinione di quei giuristi che (trascurando l'obbligo costituzionale dei giudici di applicare le norme vigenti) vedono nella sentenza l'unica effettiva creazione del diritto. Beninteso, se il precetto di una sentenza viene costantemente ripetuto, esso, nonostante la mancanza nell'Europa continentale della regola del precedente vincolante, finisce col consolidarsi in modo da indurre i successivi giudici a ripeterlo. E lo stesso ordinamento risulterà arricchito o modificato. Con i ritmi attuali in un ventennio l'arricchimento e la modificazione così introdotti dai giudici possono essere notevoli.
Un fenomeno analogo si verifica, pur in modi diversi, attraverso la costante ripetizione di precetti amministrativi o negoziali, poiché col tempo può crearsi una 'prassi', che è fattore anch'essa di arricchimento o modificazione del diritto. I precetti primari dovevano essere frequenti nelle comunità primitive antiche e sono certo ravvisabili in quanto resta delle comunità primitive moderne. Nelle comunità evolute l'esempio più sicuro è costituito dalle pronunzie emesse dai giudici di common law nei casi, indubbiamente sempre più rari, in cui nessuna norma legislativa appare applicabile e tutti i precedenti addotti dall'uno o dall'altro avvocato risultano guidati da una ratio decidendi estranea alla controversia da decidere: allora il giudice, come aveva fatto un tempo, quando statutes e precedenti non esistevano o erano rari, deduce dai tradizionali principî etico-sociali di fondo o dall'insieme della common law inglese o, negli Stati Uniti e in altri Stati federali del Commonwealth, da quella del proprio Stato una nuova ratio decidendi e a essa conforma il precetto primario con cui decide la controversia. La peculiarità, spesso già rilevata, dei sistemi di common law è che questo precetto primario, oltre all'efficacia immediata di regolare definitivamente i rapporti fra le parti della controversia decisa, ha anche quella, parimenti immediata, di dare origine a una norma dal ristrettissimo spettro, corrispondente alla nuova ratio decidendi delineata.
Secondo e diverso esempio è il precetto emanato dal giudice svizzero che, in mancanza di una norma scritta o consuetudinaria, deve, ai sensi e nei limiti dell'art. 1, comma 2 del Codice civile, decidere la controversia secondo la norma che stabilirebbe come legislatore. Col terzo esempio si torna ai giudici angloamericani che, in quanto successori del chancellor e delle corti d'equità, sono autorizzati a giudicare in equity nei casi in cui la decisione secondo il diritto ordinario (at law) appare inadeguata o ingiusta. Spesso i giudici si limitano ad applicare precetti già consolidati ed equiparabili a norme, ma, in mancanza, possono decidere secondo i loro criteri di giustizia o di opportunità, emettendo un precetto primario, come ne avevano emessi in passato il chancellor e le corti d'equità e analogamente a quanto aveva fatto nell'antichità il pretore romano. Anche in sistemi diversi da quelli angloamericani si hanno giudizi d'equità per effetto di norme che li prescrivono ai giudici. In questi casi la regola del giudizio consiste in un precetto posto discrezionalmente dal giudice e qualificabile quindi come primario, ma suscettibile anch'esso di consolidarsi, se costantemente ripetuto, in qualcosa di simile a una norma.
Finora potremmo dire che il diritto è composto di norme e di precetti (primari o, per lo più, secondari, ma capaci tutti a medio termine di diventare norme). Alcuni giuristi, sotto la guida di S. Romano (cfr. L'ordinamento giuridico, cit., pp. 10-65) e in parte di M. Hauriou (v., 1910 e 1925), sostengono che vi sarebbe un terzo (e preminente) elemento: l'istituzione. Questa è ritenuta una più o meno complessa "organizzazione", fatta di "meccanismi o ingranaggi", di "collegamenti di autorità e di forza", che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse. In sostanza l'istituzione sarebbe l'organizzazione e struttura di un gruppo sociale, che grazie a essa diventerebbe un ordinamento giuridico. Non si può negare l'importanza di questa teoria, che rende più chiara la natura e la funzione del diritto e può fornire un criterio di distinzione tra il diritto e le altre regole di controllo sociale. Ma ci si domanda in limine in qual modo il diritto possa creare quell'organizzazione e quella struttura: non certo (diversamente forse da quanto penserebbero i realisti scandinavi) con l'impiantare uffici per il gruppo dirigente e reclutare impiegati con relative scrivanie, telefoni, computer, terminali, ecc. Dietro questi elementi materiali, e le persone che se ne servono, non può non avvertirsi l'esistenza (e l'esigenza) di entità immateriali. Ma quali sono queste entità immateriali?
Il Romano e i numerosi autori che, specie in Italia, lo seguono spiegano benissimo che cosa l'istituzione sia o debba essere come organizzazione e struttura della società e dei gruppi sociali, ma sostengono o presuppongono (e lo conferma da ultimo R. Meneghello: cfr. Validità giuridica del normativismo e dell'istituzionalismo, in "Diritto e società", 1991, pp. 1 ss. e 381 ss.) che essa sia una struttura sociogiuridica distinta e indipendente da norme e precetti. La verità sembra invece essere che, quando la combinazione di persone, cose e attività assume la stabilità e vincolatività necessarie perché sussista un'organizzazione giuridica, alla sua base stanno norme e precetti giuridici (che possono beninteso derivare, anziché da leggi o altri atti autoritativi, dalla mera consuetudine). Così l'istituzione, anziché un terzo elemento costitutivo del diritto accanto alle norme e ai precetti, appare più esattamente come un carattere intrinseco e un risultato necessario delle norme e dei precetti giuridici. Si è già messa in risalto la stretta connessione tra diritto e società; l'istituzione è il punto di raccordo tra essi: 'punto di raccordo', non 'terzo elemento del diritto'. La massima 'ubi ius, ibi societas' significa esattamente che, se non c'è una societas (da organizzare e di cui, e/o dei cui membri, regolare la condotta), non c'è ius, e simmetricamente che, se c'è ius, c'è necessariamente una societas organizzata, poiché il risultato inevitabile dell'autentico ius è l'organizzazione di una societas e la disciplina dell'attività sua e/o dei suoi membri. In altri termini una comunità (ampia o ristretta che sia) è punto di riferimento indispensabile del diritto.
E la sua formazione può avvenire dal basso o dall'alto: dal basso, in quanto preesista una combinazione di persone, cose e attività e vi sia la spinta sociale all'organizzazione (o all'organizzazione separata da una più ampia organizzazione esistente), e allora il diritto, eventualmente consuetudinario, serve a stabilizzare ('istituzionalizzare') quella (separata) combinazione, creando l'organizzazione e la comunità organizzata; dall'alto, quando, come più raramente accade, la combinazione (separata) di persone, cose e attività è prefigurata e in anticipo stabilizzata dal diritto (di origine, allora, per lo più autoritativa). In ogni caso è evidente che, se la comunità e la sua organizzazione non operano realmente come tali, se cioè manca il requisito dell''effettività', vengono in definitiva a mancare sia la comunità organizzata, sia il diritto. Ciò aiuta a capire il rapporto fra istituzione e ordinamento giuridico. Non sono a nostro avviso due entità differenti, bensì due facce della stessa entità: l'istituzione è la faccia rivolta alla comunità sociale, è in sostanza la comunità sociale giuridicamente organizzata; l'ordinamento giuridico è la faccia rivolta al diritto, è in sostanza l'insieme delle norme e precetti combinati in modo da organizzare la comunità sociale e regolare l'attività sua e dei suoi membri. Il chiarimento della natura dell'istituzione conferma che il diritto consta di norme e precetti. È vero che di frequente ricorre nel linguaggio dei giuristi e operatori del diritto anche il termine 'principî', ma nemmeno esso indica un terzo elemento costitutivo del diritto, poiché formalmente il principio è una norma o frammento di norma e ha i suoi caratteri di generalità e di astrattezza. Le differenze dalla norma sono empiriche e relative: un principio è più ampio di una norma, ma può, a sua volta, essere sovrastato da un principio più ampio fino ad arrivare a un cosiddetto principio generale, e la regola (derivante dalla natura dell'ordinamento come insieme di norme e precetti logicamente subordinati e coordinati tra loro) è che la norma più ristretta, a meno che sia una norma eccezionale, deve essere conforme alla disposizione più ampia (sia questa chiamata empiricamente norma o principio) ed è soggetta, in caso contrario, agli aggiustamenti previsti in sede di interpretazione; il principio inoltre può coprire solo una parte (in massima la generalizzazione della prescrizione) della o delle norme sottordinate, ma ciò è lungi dal contraddire la loro natura normativa. I principî, d'altra parte, al pari delle norme comuni, possono essere scritti o non scritti: scritti per lo più nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti; non scritti quando hanno origine consuetudinaria o sono dedotti mediante interpretazione dalle singole norme o dal loro insieme (cfr. F. Modugno, Principî generali dell'ordinamento, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXIV, Roma 1991).
Norme e precetti si riscontrano anche nella morale, la religione, l'etica sociale, persino nel galateo, i giochi, gli sport. Criteri distintivi sono stati ricercati nella fonte, il contenuto, l'efficacia, e non si può negare che nell'uno o nell'altro caso l'uno o l'altro di questi criteri sia calzante. In molti casi tuttavia fonte, contenuto, efficacia possono essere uguali in norme ritenute giuridiche e in norme morali, religiose, etico-sociali. Il criterio sicuro di distinzione è l'appartenenza delle norme e dei precetti giuridici (e non di quelli morali, religiosi, ecc.) a un insieme congegnato e coordinato in modo da organizzare una comunità e regolare l'attività sua e dei suoi membri in vista di uno scopo comune da raggiungere. Quale possa essere questo scopo è controverso. Vi è chi pensa al solo scopo, del resto multiforme, dello Stato; vi è chi, seguendo la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici (corollario in fondo di quella dell'istituzione, e sostenuta appunto ancora da S. Romano), pensa a una pluralità di scopi. In realtà è difficile negare l'esistenza di ordinamenti al di là dello Stato. Se non si vuol prendere in considerazione la comunità internazionale per il motivo che le norme a essa attinenti sarebbero prive di sanzioni o di sanzioni efficaci attuabili con la forza, si deve tener conto della Chiesa cattolica (o delle Chiese in genere) e delle comunità sovranazionali, come in ispecie le Comunità Europee o l'Unione Europea, e nel prossimo futuro forse il Mercosur, la già ipotizzata Comunità di Stati latino-americani. Ma si deve guardare anche al di qua dello Stato e in particolare entro lo Stato. In questa direzione si incontrano anzitutto gli Stati inclusi in uno Stato federale, i Cantoni svizzeri, i Länder tedeschi, le regioni, le province e i comuni italiani (e gli enti corrispondenti, ma altrimenti denominati, di Francia, Spagna, ecc.).
È difficile stabilire, al di qua dello Stato, un limite inferiore oltre il quale non sia più ammissibile ravvisare un'istituzione o un ordinamento nel senso di S. Romano. Ma è altrettanto difficile non riconoscere questa natura ai sindacati, ai partiti, alle altre associazioni riconosciute o no come persone giuridiche. È sintomatico in questo senso che, quando si deve redigere lo statuto, il regolamento o altra normativa interna di tali enti o si discute sui poteri di questo o quel loro organo o sui doveri dei loro membri o su temi analoghi, organi e membri si rivolgono istintivamente agli esperti di diritto al loro interno o, in mancanza, al loro esterno, perché avvertono che si tratta di problemi di natura giuridica. Si capisce che, quando simili ordinamenti sono interni allo Stato, il loro diritto non può essere in contrasto con quello dello Stato, anzi è talvolta costituito in parte da norme dello Stato stesso o in conformità di sue direttive. È poi un problema delicato, a cui si accennerà più innanzi, se organizzazioni, non solo illecite, ma apertamente in lotta contro lo Stato o contro la morale, come le Brigate Rosse, la mafia e simili, possano, se ne ricorrano i presupposti strutturali, essere formalmente, scientificamente, qualificate come istituzioni e/o ordinamenti. A parte questo tema specifico piuttosto scottante, non c'è spazio per ulteriori analisi del tema generale della pluralità degli ordinamenti. Deve solo avvertirsi che le (precedenti e seguenti) esposizioni e discussioni si riferivano o riferiranno, salvo diversa indicazione, al diritto statale, che ha pur sempre valore paradigmatico.
Occorre ora riprendere e chiarire gli accenni qua e là fatti alla sanzione. Al riguardo e di qui in poi si parlerà soltanto di norme, ma il discorso varrà anche per i precetti. Deve chiarirsi prima di tutto che cosa si intenda per sanzione. Potrebbe dirsi che sanzione è la conseguenza sfavorevole minacciata al (o subita dal) soggetto per aver tenuto una condotta difforme dal modello indicatogli dalla norma. In questo caso sarebbe facile ammettere che tutte le norme giuridiche sono munite di sanzione, ma ciò non costituirebbe un elemento differenziale delle norme giuridiche da quelle religiose, morali, ecc. Tutt'altro è l'assunto di Hans Kelsen, il quale vede nella minaccia di sanzione (e, in massima, di una sanzione irrogata dal giudice) l'essenza della norma e su di essa impernia il suo schema di norma. Semplificato al massimo, il suo tenore sarebbe questo: 'se sussiste X, il giudice applichi la sanzione Y'. Ma, beninteso, la semplicità svanisce se si considera che l'evento X potrebbe articolarsi in una serie non definita di eventi (per esempio: 'se l'organo costituzionalmente competente ha emanato una data norma, se il soggetto A e il soggetto B, capaci di agire secondo il proprio diritto, hanno validamente concluso un dato contratto, se la prestazione che, secondo la norma sopra indicata, è per effetto di tale contratto a carico di B non è stata eseguita per causa imputabile a B,..., se A ha proposto azione in conformità del Codice di procedura civile applicabile..., il giudice applichi la sanzione Y'.
Sembrerebbe che con questo schema le varie specie di norme, che la storia e l'esperienza ci pongono sotto gli occhi, vengano ricomposte in una sola specie, la quale, pur indicando una serie amplissima di presupposti, si riassuma nella prescrizione al giudice di applicare una data sanzione. Ma si osserva subito che questa prescrizione, proprio secondo Kelsen, costituisce veramente una norma solo se anche il giudice sia minacciato di sanzione per la mancata applicazione di tale sanzione. E in realtà questa minaccia in molti ordinamenti si può, evitando di sottilizzare, ritenere esistente (per esempio in Italia può pensarsi alla soggezione del giudice a sanzioni disciplinari da parte del Consiglio superiore della magistratura e alla sua responsabilità civile e penale). Ma delle due una: o si sposta la sanzione finale da quella Y applicabile dal giudice a quelle disciplinari, civili o penali a cui il giudice stesso è soggetto, anzi a quelle a cui sono soggetti gli organi chiamati a giudicare il giudice, allungando così fuor di misura la serie di presupposti a cui l'essenza della norma sarebbe subordinata, o si ammette che gli schemi di norma siano due o più, e si perde tutto il beneficio dell'unitarietà.
La verità di fondo è che, ravvisando l'unico elemento normativo nella prescrizione all'organo sanzionatorio di applicare la sanzione (il quale di solito dovrà ulteriormente prescrivere ad altri di compiere i relativi atti materiali), si perde di vista la funzione delle norme come dei precetti, in sostanza la funzione del diritto, che non è quella di applicare sanzioni, bensì di ordinare il corpo sociale rendendolo una comunità organizzata, e di disciplinare il complicato insieme di rapporti fra la comunità, i titolari di poteri e i comuni soggetti, nonché quelli meno complicati, ma altrettanto rilevanti, dei comuni soggetti fra loro. Coerentemente non appare giustificato, benché sostenuto anche da illustri processualisti (quali Oskar von Bulow ed Enrico Allorio), che l'unico vero destinatario delle norme giuridiche sia il giudice (o l'organo sanzionatorio in genere). La scelta di questo destinatario significa voler dare risalto (col consenso, come già rilevato, di molti teorici realisti e di alcuni common lawyers, specie americani) all'aspetto patologico del diritto, quello della sua inosservanza e delle controversie su di esso, a scapito del suo aspetto fisiologico, della sua pacifica applicazione fuori dei tribunali, che è da ritenersi almeno altrettanto importante. Argutamente osserva Hart (v., 1961; tr. it., pp. 50 e 96) che sarebbe come sostenere che le regole del calcio sono 'in realtà' rivolte all'arbitro e ai segnalinee. Un'ulteriore ovvia osservazione è che, assegnando valore essenziale alla sanzione (specie a quella disposta dal giudice e attuata eventualmente con la forza), si escludono in pratica dall'ambito del diritto le norme attinenti ai rapporti internazionali e quelle costituzionali, che regolano la condotta dei più alti organi dello Stato. È vero che la Carta delle Nazioni Unite e le costituzioni più moderne hanno cercato di introdurre in questi campi sanzioni simili, almeno come efficacia, a quelle vigenti all'interno degli Stati nei rapporti privati, ma le loro norme lasciano spesso senza nessuna sanzione varie condotte lesive di interessi altrui e, d'altro canto, il ricorso alle sanzioni previste e la loro effettiva attuazione sono circondati per lo più da tante difficoltà da farle risultare in pratica, in molti casi, poco o punto operative.
Eppure, a parte il problema delle norme internazionali, nessuno ha mai dubitato dell'appartenenza al diritto delle norme costituzionali attinenti ai vertici dello Stato. Considerare essenziale al diritto la minaccia di una sanzione che comporti, occorrendo, l'impiego della forza fisica è un'inutile complicazione dei problemi. La distinzione tra le norme giuridiche, da una parte, e le altre norme (religiose, morali, etico-sociali, ecc.), dall'altra, è resa evidente da quanto si è osservato a proposito dell'istituzione. Le norme giuridiche hanno la funzione e la capacità di organizzare una comunità, in modo che i soggetti che la compongono possano cooperare per il raggiungimento degli scopi comuni. Tornando al tema della sanzione, deve solo precisarsi che, avendo le norme giuridiche la funzione e la capacità di organizzare una comunità umana e di disciplinare la condotta dei suoi membri in vista del raggiungimento dello o degli scopi comuni, esse sono congegnate in modo che i vari loro destinatari le osservino il più pienamente possibile, e così creano una struttura organizzativa in grado, più di qualunque altra, di predisporre misure (in massima, ma non soltanto, sanzioni) dirette a ottenere tale osservanza. Potremmo dire dunque che le norme e i precetti giuridici tendono a essere muniti di sanzioni, le quali al limite si traducano in mutamenti dello stato di fatto e siano, ove necessario, attuate con la forza. Ma se una certa norma risulta priva di sanzione o, più probabilmente, ha una sanzione inefficace o che non si riesce ad attuare, non per questo essa cessa di avere natura giuridica o addirittura di essere una norma valida.
Si è visto quanto sia discutibile e intrinsecamente imperfetto il tentativo di Kelsen di ridurre le norme a unità col degradare quelle che nell'esperienza quotidiana sono norme distinte a semplici presupposti (o a elementi della fattispecie) di un'unica norma, la cui essenza sarebbe l'ordine al giudice di applicare la prevista sanzione. Occorre dunque ammettere l'esistenza di varie specie di norme e precetti, ma questa pluralità non esclude la loro sostanziale omogeneità.
Le norme si distinguono anzitutto per la loro efficacia. Vi sono le norme delle costituzioni dette 'rigide', che non possono essere modificate dalle norme ordinarie, ma anzi si impongono a queste, le quali dunque sono in vario modo invalide o impugnabili se si trovano in contrasto con esse. Le norme costituzionali, a loro volta, si distinguono secondo che si indirizzino solo al legislatore oppure anche ai cittadini (vale a dire siano direttamente operative senza bisogno di venire trasfuse in tutto o nei loro principî in una legge ordinaria) o anche, come per taluna può sostenersi, siano puramente programmatiche e quindi valgano per il legislatore come mere raccomandazioni. Sotto questo aspetto si può vedere un parallelismo con le norme delle Comunità Europee, le quali, se contenute in regolamenti, valgono direttamente per i cittadini dei singoli Stati; se contenute in direttive impegnano i singoli Stati a tradurle con gli opportuni dettagli e le opportune varianti in proprie leggi; se hanno invece la forma di raccomandazioni, devono essere tenute presenti come indirizzi della politica legislativa e amministrativa.
Un'altra distinzione riguarda il tenore e gli effetti immediati delle norme. Schematicamente si possono distinguere due categorie. La prima categoria comprende le norme che conferiscono poteri, in quanto stabiliscono che, se un dato soggetto o un dato organo, composto secondo dati criteri da dati soggetti, compie un dato atto con l'osservanza di date regole, questo atto contiene (o consiste in) una o più norme o uno o più precetti ('primari' o 'secondari'), ossia produce diritto nei riguardi dell'intera comunità o di uno o più dati soggetti. La norma che conferisce questi poteri può, a sua volta, essere frutto dell'esercizio del potere conferito da una norma vigente a monte, ma può anche avere la sua radice in un fatto o un insieme di fatti. Questa radice non è ammessa da alcuni autori, i quali immaginano che esista all'esterno dell'ordinamento una norma fondamentale (Grundnorm, secondo Kelsen) o una norma di riconoscimento (rule of recognition, secondo Hart) capace di rendere giuridico tale fatto o insieme di fatti, di conferire cioè all'uno o all'altro di essi l'efficacia di creare poteri. Ma tale norma è una finzione non necessaria, poiché non è per nulla irrazionale, né assurdo, ma dimostrato dalla storia, che un'istituzione o un ordinamento (ossia un'entità giuridica) prenda origine da un fatto o insieme di fatti. Si pensi alla nascita di una comunità primitiva maggiore dall'unione di due o più comunità minori per effetto di un atto di forza compiuto dal capo di una delle comunità minori, il quale coi suoi seguaci si proclami capo della comunità maggiore, che nel contempo organizza. Si pensi a una rivoluzione o a un colpo di Stato che istituisca un nuovo regime in uno Stato esistente, o ancora a un'etnia inserita in uno Stato multietnico, la quale con una guerra civile riesca a separarsi da questo Stato e a costituirsi in Stato indipendente. In tutti questi casi si istituisce una nuova organizzazione e un nuovo ordinamento mediante una serie di fatti che nell'ordinamento prima esistente erano illeciti e punibili e che invece, istituita la nuova organizzazione, risultano esercizio di un potere. Ma perché questo trapasso si verifichi, non basta il fatto o insieme di fatti iniziali; occorrono ulteriori fatti, ossia che la nuova organizzazione abbia un minimo di effettività (nel che si avverte un ovvio punto di incontro con i realisti scandinavi e americani).
La storia degli ultimi anni fornisce due esempi molto chiari. Nel caso del tentato golpe moscovita dell'estate 1991 il gruppo di generali e politici che assunse il potere all'alba del 18 agosto parve instaurare un nuovo regime; ma poiché non riuscì a trascinare con sé una parte consistente del popolo e tre giorni dopo dovette desistere, il suo atto di forza, che doveva essere la fonte di una nuova legittimità, risultò invece un reato alla luce del vecchio ordinamento, che sopravvisse, mentre le norme che quel gruppo aveva regolarmente emanato, e che apparivano norme giuridiche, si rivelarono ben presto prive di valore. Al contrario la Slovenia e la Croazia, proclamatesi con un atto di ribellione Stati indipendenti dalla Federazione iugoslava, riuscirono a difendersi validamente con le armi e soprattutto il loro gruppo dirigente riuscì a farsi obbedire dal proprio popolo e a ottenere gradualmente il riconoscimento dalla comunità internazionale, sicché quell'atto di ribellione, in sé illecito, risultò a posteriori l'esercizio di un potere. Le norme della seconda categoria prescrivono a singoli soggetti o a loro classi di tenere o omettere una data condotta, stabilendo la sanzione a cui si espongono se tengono una condotta difforme. Un esempio paradigmatico è quello delle norme penali, che comminano una sanzione afflittiva (di regola un male fisico o patrimoniale) a chi compia un dato atto di cui presuppongono l'illiceità o che implicitamente, e talvolta esplicitamente, vietano.
Un altro esempio è quello delle norme privatistiche, che regolano i rapporti personali e patrimoniali tra i soggetti e comminano, al soggetto che non tiene rispetto all'altro la condotta prescritta, una sanzione restitutoria, che mira a procurare a tale altro soggetto pressappoco lo stesso risultato che avrebbe avuto la condotta prescritta, o un risultato patrimonialmente equivalente. Alcuni autori qualificano 'primarie' le norme appena menzionate, 'secondarie' quelle che conferiscono poteri; altri invece qualificano le prime 'sostanziali', le seconde 'strumentali'. Sono qualifiche fuorvianti, poiché presuppongono, e comunque fanno credere, che le norme che conferiscono poteri siano meno importanti di quelle che prescrivono una data condotta, mentre al contrario sono, se mai, più importanti poiché con esse si costruisce l'organizzazione della comunità umana e, a un altro livello, si forniscono gli strumenti per l'attuazione della sanzione. Ma è preferibile evitare qualsiasi qualifica che faccia credere a un ordine gerarchico fra tali categorie di norme.
Se poi invece che alla struttura si guarda alla funzione esplicata dalle norme e si fa riferimento alle comunità che raggiungono il livello di Stati, si possono individuare tre categorie di norme:
a) quelle che attengono all'organizzazione e alla struttura della comunità;
b) quelle che regolano i rapporti personali e patrimoniali fra i membri della comunità, nonché l'appartenenza e l'uso dei beni e delle altre risorse;
c) quelle che stabiliscono le pene e le altre sanzioni e determinano le modalità (in particolare processuali e giudiziarie) della loro attuazione.
Nella prima e nella terza categoria prevalgono le norme che conferiscono poteri, nella seconda quelle che regolano la condotta dei soggetti. Ma in ciascuna categoria sussistono importanti intrecci di una specie di norme con l'altra. Si osserva infatti che nel primo e nel terzo gruppo, dove prevalgono le norme che conferiscono poteri, esistono pure numerose norme che regolano l'esercizio di tali poteri e quindi la condotta degli organi legislativi, di governo, di amministrazione, giudiziari e dei soggetti che li impersonano (è significativa al riguardo la figura, che si è venuta elaborando nell'ultimo secolo, del 'potere-dovere'). Parallelamente si sono moltiplicate le prescrizioni ai cittadini, in genere ai soggetti privati, di non impedire l'esercizio di quei poteri, di astenersi da offese ai loro titolari, di osservare i loro precetti. Simmetricamente nella seconda categoria, nella quale prevalgono le norme che regolano la condotta (per lo più di soggetti privati), ve ne sono però anche che conferiscono poteri ai soggetti privati, ai quali in particolare si consente di determinare con propri atti (negozi giuridici) l'applicabilità o no di tali norme o la loro sostituzione (integrazione, sviluppo) con altre norme o precetti da essi stessi creati. È ciò che suole chiamarsi autonomia privata. In alcuni casi (sia pure rari, come si è già sottolineato) si giunge a conferire a un privato il potere di produrre con un suo atto o negozio unilaterale un effetto sfavorevole a un altro privato (per lo più la sua controparte in un rapporto giuridico).
L'indicazione di alcuni caratteri delle norme è qui fatta con riferimento alle norme statali, ma con gli opportuni adattamenti potrà spesso valere anche per norme non statali.
Un carattere comune delle norme è quello di durare nel tempo. Esso dipende dalla funzione generale di fondo del diritto: quella di rendere stabili l'assetto organizzativo-istituzionale e la soluzione dei conflitti etico-socio-economici, quali in un momento dato si sono stabiliti in una data comunità umana per il prevalere in essa di certe forze politiche, certe classi, certe tecniche organizzative, certe correnti di pensiero, certe concezioni della giustizia piuttosto che certe altre. Coloro che in uno qualunque di questi campi sono prevalsi tendono per natura a rendere stabile ('istituzionalizzare') il loro successo, e la loro aspirazione coincide con la funzione di fondo del diritto, che è proprio quella di impedire che si debba ridiscutere ogni giorno quel che, bene o male, si è deciso il giorno innanzi. La decisione caso per caso è intrinsecamente l'antitesi del diritto; essa diventa ammissibile, anzi utile, solo quando si inserisce in un quadro generale di stabilità. Le norme (comprese quelle derivanti dai precedenti vincolanti) sono i principali strumenti di questa stabilità e la conseguenza è il durare nel tempo del diritto con esso stabilito. Durare non significa essere immutabili. Non di rado tiranni, vincitori di guerre civili, seguaci di credi religiosi, autori di monumenti legislativi hanno fatto emanare norme per vietare ogni mutamento o porre eventuali mutamenti sotto il loro esclusivo controllo. Ma la storia ha fatto giustizia di questi illusori vincoli. Maggiore successo ha ottenuto talvolta il tentativo di cristallizzare nel suo insieme l'assetto sociale col rendere molto difficile il mutamento di classe o di casta, come è accaduto a Roma nel basso Impero o, più efficacemente, in India: ma i risultati non sono stati certo felici. In senso opposto si manifesta talvolta la necessità di limitare la durata di date norme. Di regola invece essa è indefinita, mentre vengono parallelamente predisposti i modi dei fisiologici mutamenti. La conseguenza è la varietà della durata effettiva delle norme e la varietà dell'età delle norme vigenti in un momento dato in un dato ordinamento. In Italia, ad esempio, accanto a norme appena emanate, sono in vigore quelle del Codice civile del 1942 e alcuni articoli della legge del 1865 sull'espropriazione per pubblica utilità; in Francia coesistono nel Code civil articoli del 1804 con molti articoli derivanti da leggi speciali di vari tempi; in Inghilterra i 300.000 precedenti applicabili secondo la Law Commission sono scaglionati nell'arco di più di un secolo e qualcuno risale anche a secoli anteriori.
Un altro carattere delle norme (salvo si tratti di norme da considerarsi 'eccezionali' perché difformi in quel momento storico dai principî dell'ordinamento) è la loro attitudine a operare oltre il loro ambito iniziale. Da un lato ci sono gli effetti puri e semplici dell'interpretazione, dall'altro la capacità espansiva delle norme stesse, fondata sul presupposto che esse contemplino potenzialmente non solo i casi espressamente previsti, ma anche altri per i quali valga in linea logica la stessa ragione normativa. Si ha così l'estensione per analogia; si ha anche - manifestazione ancora più chiara della capacità espansiva delle norme - la deduzione da esse di principî, al di là dell'analogia, fino alla formulazione dei cosiddetti principî generali.
Correlativamente la logica, che appare connaturata al diritto, rende tendenzialmente inammissibili norme contraddittorie. Si è messo in luce che le norme si combinano in un insieme che può qualificarsi, guardando alla comunità umana con esse organizzata, un'istituzione e, guardando invece al diritto per se stesso, un ordinamento. Ora, sotto entrambi i punti di vista, vige nell'insieme (se non sono previste al suo interno particolari deroghe come quelle del ius honorarium, dell'equity, dei giudizi di equità, ecc.) il principio di non contraddizione, per il quale la norma che si trovi in contrasto con una disposizione da considerarsi prevalente (perché di grado superiore o perché più recente) viene tacitamente abrogata o è costituzionalmente invalida.
I punti fin qui considerati hanno per lo più natura formale. Interessa ora qualche punto sostanziale, che attiene al contenuto delle singole norme: quale potere conferiscano, a chi, con quali limiti; quali condotte prescrivano, come risolvano i conflitti tra i soggetti privati o fra ciascuno di essi e gli organi direttivi della comunità; quali interessi proteggano, quali criteri o quali valori le ispirino. Si capisce che al riguardo è rilevante la funzione esplicata dal diritto. Importano anzitutto le funzioni generali sopra indicate: quella di organizzare la comunità, quella di disciplinare i rapporti fra i suoi componenti, risolvendo i loro eventuali conflitti, quella di stabilire le modalità e gli organi per giudicare sull'osservanza delle norme e attuare le eventuali sanzioni. Secondo che la singola norma esplichi l'una o l'altra di queste funzioni, avrà un tipo di contenuto o un altro. Ma importano inoltre, e a maggior ragione, le funzioni specifiche della norma nell'ambito di una di quelle funzioni generali, poiché esse determinano esattamente il suo oggetto. E da questo, in casi limite, può dipendere interamente il suo contenuto. Ma fuori di questi casi limite è normale che le discipline compatibili con l'oggetto siano parecchie e che il 'legislatore' (ossia la persona, l'organo o l'insieme di persone i cui atti o il cui comportamento sono 'fonte' della norma in questione) abbia un potere di scelta.
Ora la scelta del legislatore è spesso determinata dagli interessi (per lo più politici ed economici) da lui giudicati prevalenti; ed è verosimile che giudichi prevalenti gli interessi suoi o della sua classe o categoria. Di qui l'importanza dei modi di formazione del diritto. Di qui le teorie, come quella di Marx, secondo cui il diritto è lo strumento per tutelare gli interessi della classe borghese e sfruttare i proletari, e dovrà sparire con l'avvento utopico della società senza classi. Il problema del rapporto fra diritto e interessi è in realtà molto più complesso, anche perché le classi, ammessane l'esistenza, non sono sempre né compatte, né portatrici di interessi unitari. L'individuazione degli interessi da far prevalere e tradurre in norma giuridica occupa da oltre due millenni la mente di filosofi, politologi, studiosi di strutture costituzionali. A parte i precedenti greci e romani, almeno dal XVI secolo si sono studiati in vari paesi d'Europa e d'America i modi per allargare la sfera dei soggetti i cui interessi dovrebbero influire sul tenore delle norme. I modelli prima del liberalismo, poi della democrazia, ampliando l'ambito dei cittadini ammessi a influire nel processo di formazione delle norme, allargarono l'ambito degli interessi da considerare e proteggere. Ma, come è noto, questi modelli non hanno impedito che per lunghi periodi e in molti paesi prevalessero, in contrasto con essi, l'assolutismo o le oligarchie più chiuse o il totalitarismo di destra o di sinistra. D'altra parte appare evidente che l'allargamento degli interessi da considerare non migliora di per sé le condizioni della comunità nel suo insieme: l'interesse dei più non equivale automaticamente all'interesse generale o (come dicono certe costituzioni) al bene comune. E non c'è dubbio che, dal punto di vista degli interessi da soddisfare e dei benefici da conseguire, la corrispondenza del contenuto delle norme al bene comune rappresenta il livello più alto tra i benefici che le norme possono apportare a una comunità e quindi il più apprezzabile fra gli scopi da perseguire. Come in democrazia il rispetto della volontà (e, almeno nominalmente, degli interessi) dei più possa determinare o permettere l'emanazione di norme conformi al bene comune, è problema che politologi e giuristi devono costantemente studiare; è anche un traguardo che, almeno teoricamente, i partiti dichiarano ai loro elettori di volere (e di essere capaci di) raggiungere. Realisticamente deve dirsi che l'effettivo raggiungimento di questo traguardo avviene talvolta grazie a un precario equilibrio prodottosi tra le forze sociali che, nonostante la natura stabilizzatrice del diritto, è difficile mantenere. Ma non si è trovata finora, per giungere a quella meta, nessuna via migliore della democrazia.
C'è tuttavia un altro aspetto da considerare. La valutazione delle norme non è da farsi soltanto alla luce della loro capacità di realizzare in singoli momenti il bene comune, bensì anche in base alla loro corrispondenza o no a valori etici. Il valore etico specifico del diritto è la giustizia. Ma di questa si potrà meglio parlare dopo aver considerato gli altri valori etici e le norme particolari che ne derivano. Ci si riferisce in specie alle norme religiose, morali, etico-sociali. La distinzione delle norme giuridiche da quelle religiose, morali, etico-sociali, già messa in luce, non impedisce che il contenuto delle prime abbia potuto e possa recepire tutto o parte del contenuto delle seconde o abbia risentito e possa risentire la loro influenza. Il rapporto fra diritto e religione è molteplice. La religione ha spesso suggerito il contenuto di norme giuridiche, il quale infatti ha riprodotto più o meno frequentemente e talvolta in qualche misura riproduce il contenuto di norme religiose. Queste, a rigore, regolano i rapporti fra Dio e i fedeli e possono allora divenire giuridiche solo nei diritti religiosi, come il biblico, il musulmano o lo hindu. Ma in realtà molte norme religiose si occupano, con riguardo alla vita eterna, della condotta dei fedeli l'uno verso l'altro e nel mondo profano. E queste norme possono essere e sono state in effetti recepite in norme di sistemi giuridici 'laici', dove non sempre la loro origine religiosa è percepita. Ma accade anche che la norma sia intrinsecamente, originariamente, giuridica, ma che, per assicurarne l'autorità, la si ricolleghi alla divinità che o l'avrebbe direttamente prescritta (come alcune delle norme che Mosè o Maometto avrebbero ricevuto da Dio in ebraico o in arabo) o l'avrebbe suggerita al legislatore, come per esempio è il caso del Codice di Hammurabi e del diritto di alcune città greche (cfr. A. Biscardi, Diritto greco antico, Milano 1982, il quale da questa asserita origine divina fa derivare la tendenza greca all'immutabilità delle leggi). Altre volte l'intervento divino si manifesta contro chi ha violato la norma, colpendolo con una sanzione religiosa, come la romana sacertà o la minaccia dell'inferno.
La scomunica invece è sanzione di norme intrinsecamente religiose, la quale in dati periodi storici ha avuto conseguenze giuridiche. Affiora qui un altro aspetto del rapporto fra religione e diritto; esso emerge interamente nel caso dei seguaci di una religione che si organizzano in comunità di fedeli, divenendo un'istituzione e un ordinamento. In questa direzione il caso limite è quello già visto dei diritti biblico, musulmano, hindu. Nella stessa direzione sembravano muoversi le comunità cristiane primitive (ecclesiae), che però, come si è cercato di spiegare, non raggiunsero quel traguardo. Volgendo ora l'attenzione alle norme morali in senso stretto, si nota facilmente che molte delle loro prescrizioni, dirette all'individuo in sé considerato, corrispondono al contenuto di norme giuridiche. Ma la loro recezione è probabile sia avvenuta per tramite o delle norme religiose o di quelle etico-sociali, nelle quali ultime può vedersi riassorbita la parte esteriore delle norme morali, divenute così idonee a regolare i rapporti sociali. Precisamente a questa morale o etica fanno riferimento le opinioni di quei filosofi del diritto secondo cui le norme giuridiche prescrivono il 'minimo etico' (il giurista romano Paolo osservava che "non omne quod licet honestum est": Digesto 50,17,144 pr.). E a essa ugualmente pensava il Carnelutti, quando affermava che compito del diritto è "ridurre l'economia all'etica".
A questo punto è da domandarsi se vi sia o no una linea di confine fra la morale o etica sociale e la giustizia, che prima si è qualificata come il valore etico specifico del diritto. Si può rispondere in modo affermativo, ma certo si tratta di una linea spesso sottile, talvolta labile. Deve comunque rilevarsi che la giustizia, diversamente da quanto può ritenersi dell'etica sociale, non riguarda soltanto le norme di condotta, ma anche quelle organizzative. Essa, d'altro canto, offre un nuovo punto di vista da cui considerare il rapporto fra religione e diritto. È infatti ricorrente l'idea che la giustizia abbia origine divina.
A prescindere dal prologo e dall'epilogo del Codice di Hammurabi e da altri spunti di pari o maggiore antichità, dobbiamo almeno ripetere che per i Greci Temi, la Giustizia, era una dea, figlia di Zeus. Dei diritti biblico, musulmano, hindu basta invece la pura menzione, poiché la derivazione della giustizia da Dio è a essi intrinseca. Una simile origine divina non è affermata dai giuristi romani, che pur spesso si richiamano alla iustitia e all'aequitas; tuttavia Ulpiano si esprime in termini parareligiosi quando dice (Digesto 1,1,1,1) che qualcuno "nos [giuristi] sacerdotes appellat", e infatti "iustitiam colimus", veneriamo la giustizia. Si tratta - potremmo dire - di una religiosità laica. Invece col cristianesimo la derivazione della giustizia da Dio assume maggiore intensità. Secondo sant'Agostino "quod Deus vult ipsa iustitia est"; e a lui fece eco molti secoli dopo Tommaso d'Aquino, il quale anche più incisivamente disse essere la giustizia la ragione stessa di Dio, che governa il mondo.
Egli tentò pure di indicarne il contenuto precisando, sul modello di Aristotele (Etica Nicomachea) conosciuto attraverso gli Arabi, che essa consisteva "in hoc, quod alteri reddatur quod ei debetur secundum aequalitatem" (Summa theologica, II, 2, qu. 80, art. 1), dove aequalitas è da intendere nel senso di quantità proporzionale, in senso positivo, ai meriti e, in senso negativo, alle colpe. Lo stesso indirizzo fu seguito dalla seconda scolastica, la quale - come la prima - a conferma che la giustizia è il valore specifico del diritto, riannodò alla giustizia di origine divina la sua nozione di diritto naturale. Sostanzialmente non diverso è il rapporto fra giustizia e diritto naturale concepito dai giusnaturalisti laici dei secoli XVI-XVIII: essi però fecero dipendere la giustizia, anziché dalla volontà di Dio, dalla natura e dalla ragione dell'uomo. Il diritto naturale, incarnazione della giustizia (divina o laica), venne praticamente accantonato per effetto della codificazione (pur di ispirazione giusnaturalistica) e, soprattutto, della scuola storica tedesca, decisamente avversa invece alla codificazione, e più in generale ad opera del positivismo giuridico. Esso tuttavia, sia nella sua forma laica, sia specialmente in quella cristiana, continuò e continua ad avere sostenitori (v. Cotta, 1989, pp. 156 ss. e 185 ss). A maggior ragione rimane vivo, indipendentemente dal diritto naturale, il problema della giustizia delle norme (sia organizzative, sia disciplinanti la condotta). Il criterio di valutazione al riguardo, secondo una tradizione che attraverso Tommaso d'Aquino risale almeno ad Aristotele, sembra quello dell'uguaglianza, nel senso di proportio hominis ad hominem. Intendendo in questo modo la giustizia, può profilarsi una distinzione tra giustizia e norma morale, in quanto prescrizione del bene in sé o divieto del male in sé. Per esempio appare un problema di giustizia stabilire se un soggetto con 40 milioni di reddito e uno con 2 miliardi debbano essere esclusi nella stessa misura dall'assistenza sanitaria pubblica; appare invece un problema morale quello della liceità o meno dell'aborto.
Supposta l'esistenza di principî di giustizia o di norme morali, quale sarà il valore di una norma giuridica che si dimostri in contrasto con un principio di giustizia o una norma morale? Il problema oggi è semplificato grazie alle generazioni di filosofi, politologi, giuristi, che dal XVI secolo in poi hanno dibattuto sulla giustizia, il diritto naturale, i rapporti fra morale e diritto, e grazie anche ai movimenti politici inglesi, francesi, statunitensi del XVII e XVIII secolo che, da quelli ispirati, hanno condotto all'inclusione di alcuni principî di giustizia e di morale nei bills of rights e nella Déclaration des droits de l'homme, da cui sono penetrati nelle costituzioni di molti paesi. Attualmente in queste costituzioni numerose norme, non solo attinenti ai diritti fondamentali, ma anche organizzative o disciplinanti altri aspetti della condotta umana, rispecchiano più o meno compiutamente gli insegnamenti della giustizia e della morale. Alcuni di questi, d'altronde, sono anche stati fatti propri da dichiarazioni o convenzioni internazionali. La loro violazione viene dunque ad avere le stesse conseguenze di quella delle corrispondenti norme costituzionali o internazionali. All'infuori di queste ipotesi alcuni ordinamenti ammettono che una norma possa essere annullata o disapplicata dalla Corte costituzionale, o da altro organo giurisdizionale, se risulta 'irragionevole', e tale potrebbe essere considerata una norma macroscopicamente contraria alla giustizia o alla morale; ma, supposto pure che questo rimedio teoricamente sussista, esso dovrebbe venire impiegato con estrema cautela per evitare facili arbitrî. Che cosa prescrivano in date situazioni di fatto la giustizia o la morale è spesso controverso; dedurre poi da un'ipotetica ingiustizia o immoralità di una data norma la sua irragionevolezza è ovviamente ancora più delicato. Una terza ipotesi, in cui il contrasto di una norma con la giustizia o la morale può avere diretta rilevanza giuridica, è quella dell'obiezione di coscienza consentita dal legislatore a chi, dovendo applicare una norma, la ritenga contraria alla giustizia o alla morale e sia in conseguenza scusato se non la applica. Beneficiario di una simile obiezione potrebbe anche essere un giudice, ma nel senso di permettergli non di disapplicare la norma, bensì di non giudicare. Se non ricorre nessuna delle ipotesi prospettate, la norma asserita ingiusta o contraria alla morale, allo stesso modo di quella che si dicesse favorevole solo a interessi particolari e contraria all'interesse generale, potrebbe essere giudicata una cattiva o pessima norma e combattuta quindi in sede politica (anche con referendum) al fine della sua abrogazione o riforma, ma conserverebbe nel frattempo intatto il suo vigore.
Diversa naturalmente può essere la soluzione nei sistemi giuridici in cui l'organo giurisdizionale ordinario, o un altro organo, è autorizzato a pronunziare su una controversia in base a criteri diversi da quelli del normale diritto vigente e senza incidere su questo con le sue pronunzie. Sistemi di tal genere, come già si è visto, sono quello romano classico, in cui il pretore e altri magistrati ordinari erano in grado di colmare le lacune e correggere le ingiustizie o immoralità del diritto vigente (ius civile), creando in un modo o nell'altro un diverso diritto parallelo (ius honorarium), e quello inglese e i suoi 'trapianti' oltre mare (Stati Uniti, Canada, Australia, ecc.), in cui attualmente lo stesso organo giurisdizionale ordinario è in grado di decidere una controversia sia secondo il diritto vigente (common law, statute law), sia (se questo nel caso gli appaia insufficiente, immorale o ingiusto) secondo equity. Nei sistemi di tipo continentale europeo il giudice gode di una certa latitudine di apprezzamento nell'interpretare le norme, nell'estenderle per analogia e nel trarre dal loro insieme e/o dalla costituzione principî generali; egli riesce così talvolta a realizzare l'equità (la ἐπιείϰεια di Aristotele, Etica Nicomachea, 5,10,1-4), ossia a 'rettificare il diritto legale' con l'adattamento della norma alle caratteristiche del caso concreto. Al di là di questo il giudice europeo continentale (tranne che per eccezione abbia ricevuto particolari poteri, come quello di decidere 'secondo equità') non può e non deve andare, non ricorrendo in lui né i poteri, né le condizioni sociopolitiche dei giudici inglesi, statunitensi, ecc.
Poiché si è visto che il diritto consta direttamente di principî, norme e precetti, il tema che ora ci si propone è quello dei modi in cui questi si formano. Si suole parlare al riguardo di 'fonti del diritto', mentre alcuni giuristi, sull'esempio di Rodolfo Sacco, preferiscono l'espressione 'formanti'. Questa ha il vantaggio di non richiedere le precisazioni occorrenti invece per il termine 'fonti', che in realtà serve a indicare, oltre agli atti e ai fatti da cui il diritto è prodotto ('fonti di produzione'), anche i documenti che fanno conoscere norme e precetti agli interessati ('fonti di cognizione'), nonché tutto il materiale (epigrafi, reperti archeologici, scritti di ogni genere, ecc.) da cui si trae la conoscenza di eventi (anche giuridici) del passato ('fonti storiche'). Qui si userà nondimeno con una certa frequenza l'espressione consolidata 'fonti del diritto' e non vi si aggiungeranno precisazioni, salvo quando ci sia il rischio di equivoco. Di particolare importanza sembrano però tre precisazioni: la prima è che i principî, quando non sono desunti con l'interpretazione da gruppi di norme o dall'insieme dell'ordinamento, sono prodotti allo stesso modo delle norme, e in specie dalle costituzioni e dichiarazioni dei diritti; la seconda è che il diritto di ciascuna comunità è caratterizzato dal rapporto quantitativo-qualitativo tra fonti di norme e fonti di precetti; la terza è che la conformità al bene comune, piuttosto che a interessi particolari, del diritto di ciascuna comunità dipende in larga misura dalla natura degli organi che, conformemente all'assetto politico-costituzionale della comunità, sono legittimati a emanare norme e precetti.
La prima fonte da considerare è la consuetudine, più rilevante e complessa di quanto l'ottica dei sistemi occidentali contemporanei non porti a immaginare. Essa in teoria consiste nella condotta costantemente osservata dai membri della comunità nella convinzione, a un certo momento fra essi maturata, che si tratti di condotta obbligatoria. I dettagli di questa nozione teorica (per esempio come si specifichi quantitativamente la 'costanza' della condotta o come si manifesti la convinzione dell'obbligatorietà o opinio necessitatis) sono stati e sono molto discussi, ma ai nostri fini tale nozione può considerarsi di per sé adeguata. Deve invece notarsi che accanto al termine consuetudine (dal latino consuetudo adottato già nel II secolo a.C.) ricorrono altri termini, come mores, coutumes, usi, aventi talvolta diverse sfumature di significato. Mores, con la variante mores (mos) maiorum, è termine impiegato per la consuetudine romana più antica, dalle origini fino circa al II-I secolo a.C., e si riferisce a costumi che avevano non di rado una componente religiosa. Costumi giuridico-religiosi di analoga natura furono molto probabilmente alla base delle comunità giuridiche protostoriche. Con coutumes si indicano invece le consuetudini di impronta germanica, che furono in vigore nelle regioni della Francia centrosettentrionale fino alla codificazione; altre furono in vigore nelle varie regioni germaniche. Di molte, come si è detto a suo luogo, furono fatte fin dal XIII secolo consolidazioni prima private (per esempio le Coutumes de Beauvaisis di Philippe de Beaumanoir e gli Spiegeln tedeschi), poi in Francia per opera dei re. Coutumes francesi importate dai Normanni, e precedenti consuetudini celtiche e anglosassoni, contribuirono in Inghilterra alla trama di fondo della common law (cfr. l'esame analitico di J. Gilissen, Consuetudine, in Digesto: discipline privatistiche. Sezione civile, vol. III, Torino 1990⁴, pp. 489 ss.). Col termine 'usi' si indicano le consuetudini locali o specializzate, in quanto vigenti in date località o fra coloro che esercitano date attività economiche (per esempio la coltura della vite, la concia delle pelli, il commercio internazionale). In massima il loro valore normativo è attualmente subordinato al rinvio che a essi faccia la norma di un codice o di una legge.
Alla consuetudine è affine la prassi, parola con la quale si indica il costante modo di procedere di organi pubblici o soggetti privati. Si parla spesso in proposito di prassi giudiziaria, amministrativa, costituzionale, negoziale. Esse hanno indubbia rilevanza pratica, mentre appare incerto il loro intrinseco valore normativo. La consuetudine, in quanto fonte non scritta, anzi nemmeno formulata, ha bisogno di essere provata. Rimane vero sul continente europeo, anche riguardo a essa, che iura novit curia (i giudici conoscono il diritto, e formalmente non si ha l'onere di darne la prova); ma in pratica la parte a cui essa giova ha interesse a provarla, salvo al giudice il potere di conoscerla e applicarla da solo. Una prova importante è la precedente pronunzia di un altro giudice che dichiari di conoscere e applicare la norma consuetudinaria: una prova affidabile, ma suscettibile di prova contraria. Un'altra prova può essere la conoscenza e l'applicazione della norma consuetudinaria da parte di una prassi negoziale di sufficiente durata. In Italia gli usi attestati dalle raccolte ufficiali di usi nazionali e locali da parte di ministeri o di camere di commercio si presumono esistenti, salvo prova contraria. L'importanza della consuetudine è largamente diminuita negli ordinamenti evoluti dal XVIII secolo in poi. In linea di principio essa è ammessa solo per colmare lacune delle norme legislative (cosiddetta consuetudine praeter legem) o per svilupparne e precisarne le disposizioni (cosiddetta consuetudine secundum legem), mentre è stabilita l'inefficacia di quella contra legem o abrogativa. L'art. 1, comma 2, del Codice civile svizzero, invece, in mancanza di norma scritta prescrive il ricorso alla consuetudine. Quanto all'inefficacia della consuetudine abrogativa, non sembra che essa possa valere in modo assoluto.
Si è infatti già osservato che, mentre il requisito dell'effettività non può condizionare l'entrata in vigore di una norma regolarmente emanata, la mancanza di effettività di una norma (da decenni, poniamo, né osservata, né fatta osservare) rende almeno dubbia la legittimità della repentina decisione di farla osservare da parte dell'autorità giudiziaria o amministrativa. Grande sviluppo ha avuto, d'altra parte, la consuetudine nella comunità internazionale. È pacifico invero che la trama di fondo del diritto internazionale è costituita dalla consuetudine. Su tale trama si sono venuti innestando i vari trattati che fin dall'antichità sono stati stipulati ai vari livelli del potere politico-militare, e a essa si sono aggiunte, pur sulla base di un trattato o di più trattati, le disposizioni di vario tipo emanate in parte già dalla Società delle Nazioni, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale dalle Nazioni Unite e da numerose altre organizzazioni internazionali. I trattati e le disposizioni suddette hanno prodotto ormai una fitta rete di norme, ma esse lasciano spazio alle nuove consuetudini che si sono venute formando: né v'è alcuna remora né limitazione all'efficacia di queste. Un altro campo in cui la consuetudine largamente opera è quello dei rapporti commerciali internazionali, non fra Stati, bensì fra imprese o singoli privati, i quali deferiscono la decisione delle loro controversie ad arbitri internazionali. Le loro decisioni, che hanno un'efficacia fra le parti stabilita parimenti dalla consuetudine, possono divenire efficaci come sentenze nel diritto dei singoli Stati, grazie ad appositi trattati internazionali che vincolano appunto gli Stati, sotto date condizioni, a riconoscerle e a darvi esecuzione.
I. La più puntuale antitesi alla consuetudine è rappresentata dalle fonti dette autoritative. Esse consistono in atti compiuti da soggetti (organi dello Stato o di altri enti) a cui le norme-base dell'istituzione-ordinamento hanno conferito il potere di creare, mediante tali atti, diritto (con efficacia generale o particolare). Questi atti possono avere contenuto normativo oppure precettivo. Cominciamo con l'esaminare i primi, che sono di tipo legislativo in quanto il loro prototipo è la legge. Gli atti di tipo legislativo possono avere vari gradi di efficacia ed essere indicati con vari termini. Prototipo è l'atto indicato per lo più negli Stati col termine legge (νόμοϚ, lex, loi, ley, Gesetz, statute) o anche, in passato, coi termini editto, constitutio, ordonnance, ecc. Esso è emanato dall'organo titolare della sovranità, talvolta col concorso di altri organi; nelle moderne democrazie dal parlamento (comprendente una o due camere, di cui almeno una coi membri eletti dal popolo), più il capo dello Stato. È prescritta una data procedura, che demanda la proposta, discussione e approvazione al parlamento e la promulgazione al capo dello Stato, il quale in alcuni Stati può rinviarla una sola volta al parlamento con le proprie osservazioni in contrario. In alcuni Stati al di sopra della legge stanno la costituzione e le leggi costituzionali, a cui la legge (ordinaria) non può derogare, pena la sua impugnabilità con una particolare procedura.
II. Alla categoria delle leggi appartengono anche i codici. La loro caratteristica è quella di fornire la disciplina di base a un intero ramo del diritto con un numero piuttosto elevato (da poco meno di mille a tremila o più a seconda delle materie disciplinate e dei sistemi giuridici) di articoli o paragrafi normalmente brevi. Ciascuno di questi può corrispondere a una norma, ma anche a più norme o solo a una parte di norma, secondo che lo richiedano le esigenze (o lo permettano le capacità tecniche) dei compilatori. Gli articoli o paragrafi, e di conseguenza le norme, sono raggruppati in ragione della materia contemplata e inoltre sogliono essere combinati e coordinati insieme secondo un disegno logico, pur senza raggiungere (né in massima voler raggiungere) il rigore e la completezza di un sistema. La loro elaborazione suole essere affidata a commissioni formate in prevalenza di professori, giudici e avvocati, il cui lavoro talvolta consistette e consiste nello scegliere e seguire più o meno pedissequamente un modello straniero (il che, da un lato, fu uno dei fattori dell'espansione extraeuropea dei sistemi giuridici romano-germanici o civilistici, dall'altro assicura una certa omogeneità fra i vari codici di questa famiglia e fornisce loro un livello tecnico e culturale piuttosto elevato). Negli ultimi anni si è sviluppato in Italia, specialmente nel settore privatistico e su iniziativa del civilista N. Irti, un movimento per la 'decodificazione', ossia per la sostituzione del codice, in pratica del Codice civile, con un certo numero di leggi speciali ('microsistemi'). Argomenti contro i codici, e in particolare contro il Codice civile, non ne mancano; ma c'è da temere che, se esso venisse veramente 'smontato', il risultato non sarebbe felice, nonostante l'apparente avvicinamento ai sistemi di common law.
III. In alcuni casi norme di livello legislativo sono deliberate dal governo e promulgate dal capo dello Stato. I casi sono essenzialmente: a) quelli in cui il parlamento ritiene opportuno fissare soltanto le linee direttive della legge e delegare al governo, di solito assistito (o, come nel caso dei codici, guidato) da esperti, il compito di formulare le vere e proprie norme; b) quelli in cui sussiste la necessità di emanare norme al più presto, e vi provvede allora il governo emanando un decreto che ha lo stesso valore della legge, ma decade se a breve termine il parlamento non lo ratifica. Altre norme di tipo legislativo sono deliberate da varie autorità, anziché dal parlamento, per specificare e rendere attuabili le norme di leggi, o anche di codici, alle quali devono conformarsi. Gli atti che le contengono sogliono chiamarsi 'regolamenti' (règlements, Verordnungen, bylaws).
IV. Nelle comunità che non sono Stati, gli atti normativi sono emanati in massima dai loro organi centrali e non hanno per lo più nome di leggi. Nella Chiesa cattolica le norme che non hanno origine divina (ius divinum e ius divinum naturale) sono emanate, se di carattere generale, con atti dei concili o del pontefice (constitutiones, bullae, brevia, ecc.), se di carattere particolare o locale, dallo stesso pontefice o anche da vescovi e da conferenze episcopali. La Chiesa ha ritenuto opportuno, seguendo gli esempi degli Stati, addivenire alla redazione di un codice. E al primo Codex iuris canonici emanato nel 1917, comprendente 2.414 canones (termine tradizionale ecclesiastico in luogo di articoli) ha fatto seguire nel 1983 una versione aggiornata, che ne comprende solo 1.782. Nella comunità internazionale norme autoritative sono emanate essenzialmente dalle Nazioni Unite mediante deliberazioni della propria Assemblea generale o risoluzioni del proprio Consiglio di sicurezza. Su un gradino inferiore stanno le raccomandazioni, il cui valore è essenzialmente etico-politico. Nell'ambito delle Nazioni Unite operano numerose organizzazioni internazionali che anch'esse, per raggiungere i loro vari fini, emanano risoluzioni e altri atti normativi, nonché mere raccomandazioni. Comunità sovranazionali di grande rilievo sono attualmente, come è ben noto, le Comunità Europee, che mediante 'regolamenti' emanano norme direttamente per i cittadini degli Stati membri, e mediante 'direttive' obbligano invece gli Stati membri a legiferare in conformità. Minore effetto vincolante hanno le 'raccomandazioni'.
Le fonti autoritative il cui prodotto non è una norma, bensì un precetto relativo a un singolo caso, richiedono qualche distinzione. Praticamente tutti i precetti che ormai vengono emanati negli ordinamenti evoluti sono da considerarsi 'secondari', in quanto presuppongono una norma di cui sono applicazione. Essi possono essere emanati con le debite procedure dal capo dello Stato, dal governo, dagli organi dello Stato centrali e periferici e dagli organi degli enti locali. Alcuni di questi provvedimenti sono senza dubbio atti politici, ma dal punto di vista qui rilevante sono da qualificare in generale 'amministrativi'. Come tali creano senza dubbio diritto per i soggetti a cui si indirizzano, ma, oltre che essere impugnabili entro dati termini, possono anche in massima venire revocati dall'organo che li ha emessi; e pertanto il diritto da essi creato non ha la stabilità di quello derivante, per esempio, dalle leggi. Stabilità ha invece il diritto creato dai giudici con le loro sentenze. Queste possono presentare vari aspetti, contenere vari precetti, produrre vari effetti. Senza farne naturalmente l'analisi, notiamo che, quali che siano la specie di processo e il provvedimento finale da emettere, i giudici compiono anzitutto un accertamento (analitico o sommario): per esempio se i fatti addotti dall'attore o dall'accusatore (coloro che promuovono un processo civile o penale) sussistono, se la norma addotta da costoro o quell'altra che i giudici ritengano in astratto applicabile, debitamente interpretata ed eventualmente (se a essi consentito) estesa per analogia, qualificano giuridicamente quei fatti in modo conforme all'assunto dell'una o dell'altra parte.
Può anche accadere che né le parti né il giudice trovino una norma che possa applicarsi o estendersi al caso (nemmeno tra quelle derivanti in common law da una precedente sentenza). Le soluzioni sono allora di due tipi principali: o si ricorre ai cosiddetti principî generali desunti dall'intero ordinamento o dalla costituzione, oppure il giudice stabilisce lui il precetto specifico da applicarsi, tenendo conto (Codice civile svizzero) degli insegnamenti della giurisprudenza o della dottrina, o traendolo (common law) dai valori etico-sociali e dagli orientamenti di fondo dell'ordinamento. Le tecniche sono diverse, ma i risultati sostanziali possono anche coincidere. Talvolta i giudici si fermano all'accertamento ed emettono un precetto che dichiara in modo vincolante sussistere o non sussistere una data situazione giuridica dell'attore o un dato reato dell'accusato. Spesso però traggono la conseguenza dal loro accertamento ed emettono un precetto che assolve (libera) il convenuto o l'accusato, oppure lo condanna a una somma di denaro o a una pena fisica, oppure ancora rende un soggetto incapace di compiere negozi giuridici, o rende invalido un negozio, o trasferisce la proprietà di un bene da un soggetto a un altro, ecc. Le sentenze sono impugnabili e può accadere che l'accertamento e il precetto a esso conforme, o quelli a esso consequenziali, siano rovesciati o modificati. Ma prima o poi esse 'passano in giudicato' e i loro precetti diventano immutabili. Questa è la stabilità del diritto creato dai precetti giudiziari.
Fin qui, nonostante l'estrema varietà e complessità dei dettagli, la sostanza di fondo è semplice; ma le sentenze, soprattutto nell'addivenire all'accertamento complessivo sopra accennato, devono spesso risolvere questioni particolari: per esempio quale interpretazione debba darsi di una data norma o parte di norma; se un dato fatto costituisca l'uno o l'altro o nessun reato; se un certo atto fosse o no idoneo a trasferire la proprietà di un certo bene, ecc. La soluzione di una di queste questioni può fungere da giustificazione dell'intero accertamento o di un suo specifico aspetto o del precetto conseguente all'accertamento. Ora, nei sistemi di common law essa, in quanto, come quei giudici dicono, ratio decidendi di una data sentenza, è in massima vincolante per ogni altro giudice, di pari o inferiore grado, dinanzi a cui la stessa questione si ripresenti. Questa è la regola detta in latino dello stare decisis o del precedente (attenersi alle precedenti decisioni). Il precedente, dapprima semplice prova del diritto vigente (very strong evidence of the law), divenne poi oggetto dell'obbligo del giudice (consuetudinario, ma in Inghilterra nel XIX e nel XX secolo in vario modo espressamente formulato dalla House of lords) di conformarsi a esso (cfr. W. Blackstone, Commentary of the laws of England, vol. I, Oxford 1766, p. 69; R. Cross, Precedent in English law, Oxford 1977³). In sostanza quest'obbligo rivela che la pronunzia del giudice è fonte di una norma con ristrettissima fattispecie, che vincola i futuri giudici ad attenersi alla o alle decisioni contenute nella pronunzia, sempre che ricorra nei nuovi casi la medesima ratio decidendi che aveva condotto a quelle decisioni. Ma avvocati e giudici, esercitando l'arte del distinguishing, possono non di rado dimostrare che tale ratio decidendi non sussiste perché i fatti e gli altri aspetti del singolo nuovo caso sono, nel punto rilevante, diversi da quelli del caso deciso. La certezza del diritto viene così messa in pericolo, ma si evita l'opposto pericolo della cristallizzazione. Le sentenze pronunziate in equity non sono soggette alla regola del precedente e quindi hanno una più spiccata efficacia creativa nel singolo caso, mentre formalmente non creano diritto per i casi futuri. Nella sostanza però la costante pronunzia di decisioni nel medesimo senso ha prodotto un'equity consolidata, che comprende istituti e principî (per esempio il trust, l'esecuzione forzata in forma specifica, il trasferimento dei property rights col mero consenso, ecc.) applicati senza discussione. (Su questi e in generale sui vari aspetti dei sistemi di common law cfr. U. Mattei, Common law. Il diritto angloamericano, Torino 1992).
Qualcosa di simile può dirsi per i sistemi civilistici e in genere non di common law. In linea di principio le sentenze non costituiscono precedenti vincolanti, bensì soltanto persuasivi. In pratica nessun avvocato, a cui si sottoponga un caso, esprimerebbe la sua opinione sull'opportunità di promuovere un'azione giudiziaria o di resistervi senza avere attentamente esaminato la 'giurisprudenza', ossia i precedenti giudiziari, specialmente quelli della Corte suprema. D'altro canto, se in questa consultazione l'avvocato trova autorevoli sentenze che risolvono il caso sottopostogli dal cliente nel senso da questi desiderato, sarà certo incoraggiato ad assumere la sua difesa, ma non potrà dargli assicurazioni altrettanto serie quanto potrebbe se quei precedenti fossero vincolanti (cfr. però G. Gorla, Precedente giudiziale, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXIII, Roma 1990, §§ 2.2-2.3). Un discorso analogo può farsi riguardo alla 'dottrina' (scritti dei giuristi), con l'ovvia avvertenza, però, che le soluzioni da essa date alle questioni che esamina non hanno né la forma né la natura di precetti e quindi non rientrano tra le fonti autoritative. Il paragone con le sentenze si riferisce solo all'eventuale efficacia persuasiva di quelle soluzioni nei riguardi dei giudici di futuri casi: un'efficacia per altro evidentemente inferiore - almeno in teoria, ma spesso anche in pratica - a quella delle sentenze. E tuttavia non c'è dubbio che giurisprudenza e dottrina, operando con la loro istituzionale concordia discors, spesso riescono in capo a qualche decennio a modificare sensibilmente i rami del diritto di cui si sono più occupate, senza che nessuna legge o atto equivalente sia intervenuto. Queste modificazioni sono opera di decisioni giudiziarie e/o di opinioni dottrinali ripetute costantemente per un certo tempo. La loro ripetizione, divenuta a un dato momento incontrastata, fa sì che tanto la giurisprudenza quanto anche la dottrina operino a lungo termine come fonti di diritto (cfr. E. Giannantonio, Dottrina e giurisprudenza come fonti del diritto, in "Giurisprudenza italiana", 1991, IV, col. 375). In questo senso e in questi limiti può dirsi valida in generale l'affermazione di A. Wald nel suo Rapport brésilien (in AA.VV., Les réactions de la doctrine à la création du droit par les juges, Paris 1982, pp. 53 ss.), secondo cui in Brasile e in Portogallo si possono modificare le norme scritte "quando in proposito c'è l'accordo della comunità giuridica, che comprende i giudici, i professori e gli avvocati".
Fin dall'alta antichità mesopotamica ed egiziana sono stati stabiliti e si stabiliscono precetti fra soggetti privati e anche fra re o Stati (nel senso anzidetto di disposizioni relative a singoli casi concreti) per opera degli stessi interessati con loro propri atti: fra soggetti privati con negozi giuridici, fra re o Stati con trattati internazionali, ed entrambe le categorie sono classificabili come atti di autonomia, atti, cioè, con cui ciascun interessato dà legge a se stesso, formulando, di solito con la partecipazione di una controparte, un precetto a cui si sottopone. Mentre dunque le fonti di tipo autoritativo producono norme o precetti che vincolano altri, gli atti di autonomia producono precetti che vincolano di solito solo chi li pone o li accetta. All'interno degli Stati gli atti di autonomia sono una manifestazione e nel contempo la misura della più o meno ampia libertà riconosciuta dagli Stati ai privati; nelle comunità internazionali essi, sotto forma di trattati o convenzioni, integrano la consuetudine e hanno a lungo surrogato e in parte ancora surrogano le fonti autoritative, che mancano o scarseggiano. La libertà riconosciuta dagli Stati ai privati può essere semplicemente quella di permettere loro di rendere o no operativo uno schema di negozio già disegnato dalla consuetudine o da una fonte autoritativa e ai cui elementi e ai cui effetti i privati nulla possono aggiungere né togliere. Questa autonomia minimale fu molto frequente nel periodo antico dei vari ordinamenti, ma può trovare qualche riscontro ai nostri tempi nei testi negoziali predisposti in tutti i loro dettagli da una delle parti (di solito un'impresa grande o media) e presentati all'altra parte perché li sottoscriva oppure rinunzi ai beni o servizi prodotti da quell'impresa: forte limitazione della libertà del comune privato, la quale trova scarso rimedio nell'accorgimento di fargli specificamente sottoscrivere le condizioni di contratto per lui presumibilmente più gravose (art. 1341 del Codice civile italiano).
Di solito invece l'autonomia, attraverso evoluzioni e oscillazioni plurimillenarie, ha raggiunto ben più vasta ampiezza, pur entro limiti che variano in funzione delle materie da regolare e dei sistemi giuridici. C'è un ultimo punto da considerare. Gli atti di autonomia non producono soltanto precetti relativi a un singolo caso, bensì anche regole generali e astratte, ossia norme. Ciò è evidente nel campo dei trattati internazionali, che anzi si era proposto di distinguere in trattati-contratto e trattati-leggi, ma che in realtà non si distinguono per la natura, né per la struttura, bensì per gli effetti che producono in funzione della materia regolata e del numero degli Stati partecipanti (cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli 1976). Producono per esempio precetti i trattati che pongono fine a una guerra fra due Stati o regolano i loro confini; producono invece norme quelli per esempio che disciplinano la vendita di armi, stabiliscono come rendere efficaci nei singoli Stati le sentenze straniere, istituiscono una comunità sovranazionale. Anche i contratti collettivi di lavoro producono norme, compresi quelli che vincolano soltanto gli iscritti ai sindacati contraenti; dubbi però sono stati espressi sulla loro natura di atti di autonomia (cfr. E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Torino 1960², p. 587). Vi sono comunque altri atti privati che, costituendo per esempio un'associazione, una società commerciale, un condominio, producono di necessità norme organizzative; e ha ugualmente contenuto normativo anche, sempre a titolo di esempio, l'atto di approvazione di un regolamento di comunione o di condominio.
Le norme e i precetti (compresi quelli negoziali) operano in conformità del loro significato, che viene chiarito con l'interpretazione. L'interpretazione è disciplina di portata assai più ampia delle norme e dei precetti (è ben nota l'opera di E. Betti, Teoria generale dell'interpretazione, Milano 1955), ma in materia giuridica essa obbedisce a sue proprie regole. Poiché norme e precetti sono composti di parole, deve anzitutto considerarsi "il significato proprio delle parole secondo la connessione di esse" (art. 12 delle disposizioni italiane sulla legge in generale) e si deve poi tener conto (sempre secondo lo stesso articolo) della "intenzione del legislatore". Questa peraltro si può fruttuosamente ricercare, pur con tutte le inerenti difficoltà, solo per qualche tempo dopo l'emanazione della norma; successivamente, quando essa è stata interpretata e applicata più volte e si è inserita fra le altre norme, l'intenzione (soggettiva) del legislatore sfuma nello spirito (oggettivo) della norma o mens legis, ossia in quel che la norma vuole effettivamente stabilire nel contesto delle altre norme o nell'insieme del diritto, che ha come suo punto di riferimento e di orientamento la costituzione. Tutto ciò sembra pacifico, ma l'impressione cessa, quando ci si domanda se, tenendo conto dell'intenzione del legislatore, della mens legis o degli orientamenti della costituzione, si possa giungere ad attribuire alla norma o precetto un significato incompatibile col significato letterale come sopra indicato.
Analoga domanda può farsi riguardo alle fonti negoziali, se sulla scorta dell'art. 1361 del Codice civile italiano si deve, come è giusto, "indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole". Il senso letterale non è uno solo, ma ce ne possono essere vari. Non di rado una singola proposizione normativa o precettiva presenta un ventaglio di sensi letterali possibili; ed è giusto che il giudice possa scegliere fra essi, facendosi guidare dall'uno o dall'altro criterio. Il criterio ottimale sarebbe quello della conformità al prevalente orientamento dell'insieme di norme in cui quella da interpretare si inserisce, oppure quello della conformità agli orientamenti della costituzione. Ma l'auspicio di un'interpretazione ragionevolmente uniforme e costante deve cedere di fronte all'utilità sia di opinioni diverse, nei primi tempi dall'emanazione della norma, sia del variare nel tempo dell'opinione divenuta prevalente che assicura l'evoluzione del diritto senza l'emanazione di nuove norme. Quella che non sembra potersi ammettere è un'interpretazione incompatibile col significato letterale, che equivarrebbe alla libera creazione del diritto da parte del giudice e dei giuristi. Molti autori che, auspicando questa libera creazione, si ispirano ai modelli di common law vanno in realtà al di là di questi modelli. Ma, anche rimanendo a essi, occorre ribadire che loro presupposto è l'esistenza di giudici reclutati e controllati in modo adeguato a tale compito (ben diversamente che, in particolare, in Italia), nonché il conferimento ai medesimi giudici del potere di pronunziare in equity, che a quelli europei continentali di solito non spetta.
Gli interpreti (e quindi anche i suddetti giudici) hanno maggior potere di creare diritto quando la norma correttamente interpretata non contempla il caso da decidere. Essi devono allora cercare se fra le norme vigenti ve ne sia una, la cui fattispecie A possa considerarsi analoga alla fattispecie A₁ in cui rientra il caso da decidere. L'analogia sussiste se la ragione per la quale alla fattispecie A il legislatore ha collegato la prescrizione o l'effetto B è valida anche per collegare la prescrizione o l'effetto B alla fattispecie A₁; se, in altri termini, dalla norma in questione, tenuto conto di tutti i fattori etico-politico-economico-sociali e anche tecnico-giuridici, sia logicamente desumibile un principio che abbracci la fattispecie A e la fattispecie A₁. È un'operazione delicata, che molti sistemi non permettono in materia penale e talvolta nemmeno riguardo a norme eccezionali; essa ammette una certa flessibilità, non certo la casualità o l'arbitrio. Se manca anche una norma da estendere per analogia, il già citato art. 12 delle disposizioni italiane sulla legge in generale prescrive il ricorso ai "principî generali dell'ordinamento giuridico dello Stato" e il Codice civile austriaco rinvia ai principî del diritto naturale. Una prescrizione simile non ricorre in altri codici civilistici, ma la soluzione è praticamente la medesima. Invece il più volte menzionato art. 1, commi 2 e 3, del Codice civile svizzero dispone che il giudice deve colmare la lacuna anzitutto col diritto consuetudinario e, in mancanza, con la 'regola' che egli porrebbe come legislatore, tenendo però conto della dottrina consolidata e della tradizione.
Questo richiamo del comma 3 alla dottrina e alla tradizione attenua evidentemente il potere a prima vista conferito al giudice dal comma 2. L'applicazione concreta di tale disposizione è stata poi ulteriormente ristretta negli ultimi quarant'anni dal Tribunale federale sulla scorta della dottrina (cfr. A. Engel, Rapport suisse, in AA.VV., Les réactions de la doctrine... cit., pp. 173 ss.). Il risultato pratico finisce così con l'essere poco divergente da quello a cui si giunge col ricorso ai principî generali. Ma che cosa sono i principî generali? Alcuni sono formulati da articoli della costituzione, dei codici, delle leggi, altri sono desunti dall'insieme del diritto per opera della giurisprudenza e della dottrina (per approfondimenti e discussioni, oltre al già citato F. Modugno, Principî generali dell'ordinamento, in Enciclopedia Giuridica, vol. XXIV, Roma 1991, cfr. le relazioni di A. Falzea, G. Oppo, A. Pizzorusso, R. Sacco, P. Rescigno in Atti del Convegno Linceo. I principî generali del diritto, Roma 1992, pp. 11 ss., 219 ss., 239 ss., 163 ss., 331 ss.). Per la Francia è interessante l'ampia esposizione di J.-L. Bergel - v., 1985, pp. 90-111- che riferisce, fra l'altro, sull'opera svolta al riguardo dal Conseil d'État. Per altri paesi si veda la relazione generale di R. Schlesinger nei Rapports généraux du VII Congrès international de droit comparé, Hamburg 1962, e le relazioni segnalate da R. Sacco, nei già citati Atti del Convegno Linceo, p. 163 n. 1. Fra i contributi tedeschi cfr. J. Esser, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1956). Ma occorre aggiungere che principî generali si desumono anche dai trattati e dalle convenzioni internazionali, prime fra essi le più volte menzionate Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e Convenzione europea del 1950. Su questa via si è arrivati a delineare principî generali comuni a vari sistemi giuridici o addirittura a tutte le nazioni civili, come presuppongono l'art. 38 dello statuto della Corte permanente di giustizia internazionale e l'art. 38, comma 1, dello statuto della Corte internazionale di giustizia, quando indicano fra i criteri di decisione che esse debbono adottare i "principes généraux de droit reconnus par les nations civilisées" (cfr. G. Gaja, Principî del diritto. Diritto internazionale, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXV, Milano 1986, pp. 53 ss.; G. Gorla, I principî generali comuni alle nazioni civili, in Atti del Convegno Linceo, cit., pp. 177 ss.).
Le norme e i precetti di cui il diritto consta sono emanati per gli esseri umani: come dice un passo del giurista romano Ermogeniano, riportato nel Digesto (1,5,2), "hominum causa omne ius constitutum est". Norme e precetti danno anzitutto una qualifica giuridica a tali esseri e, più in generale, stabiliscono quali siano i 'soggetti' a cui riferirsi e nei cui riguardi creare attribuzioni e vincoli, indicati globalmente come situazioni giuridiche soggettive.
Norme e precetti determinano anzitutto la qualifica giuridica di ciascun homo (che in latino significa 'uomo' o 'donna', ossia appunto essere umano, persona fisica). Da tale qualifica dipende se la singola persona fisica sia 'soggetto', abbia cioè la 'capacità giuridica' (intesa come attitudine a divenire titolare di situazioni giuridiche soggettive); da ulteriori qualifiche dipende se essa abbia o no la 'capacità d'agire' (attitudine a compiere validamente da sola negozi o altri atti giuridici), se abbia o no eventuali altri requisiti personali per la titolarità di talune situazioni giuridiche soggettive. Suole parlarsi al riguardo di status. A Roma il termine status aveva un significato specifico, in quanto indicava la qualifica dell'individuo rispetto a tre gruppi sociali, dalla quale dipendeva se fosse o no (pienamente) capace: la qualifica di libero o schiavo, di romano o straniero, di capo o sottoposto nella propria familia. Oggi nei sistemi giuridici evoluti il termine status ha un significato più esteso, ma in compenso la rilevanza della corrispondente qualifica giuridica è minore. Infatti l'art. 1, comma 1, del Codice civile italiano (sostanzialmente conforme a quanto vige in quasi tutti gli ordinamenti statali contemporanei) dice che "la capacità giuridica (ossia la condizione di 'soggetto') si acquista dal momento della nascita".
Non esiste più (almeno lecitamente) schiavitù ed è irrilevante ai fini della capacità giuridica la posizione nella famiglia. Relativamente al diritto privato sono pure divenuti irrilevanti (salvo eccezioni marginali, che possono essere qui tralasciate) il sesso e la cittadinanza. Nel diritto pubblico invece gli stranieri hanno in massima (quando l'hanno) una capacità limitata, in quanto non possono, in particolare, esercitare funzioni pubbliche. Le donne, d'altro canto, hanno appena ottenuto la piena capacità (teorica) in molti, ma non in tutti gli ordinamenti evoluti. Nella comunità internazionale poi i soggetti riconosciuti sono quasi sempre soltanto gli Stati e le organizzazioni internazionali, e solo recentemente e solo parzialmente si sono considerati soggetti singole persone fisiche (cfr. M. Giuliano, T. Scovazzi, T. Treves, Diritto internazionale. Parte generale, Milano 1991, p. 180). Nemmeno oggi dunque è corretto nel mondo del diritto (a prescindere da quanto poi avviene di fatto) stabilire l'equazione 'persona fisica (maschio o femmina, cittadino o straniero) = potenziale soggetto di situazioni giuridiche'. Altri status rilevanti sono quelli attinenti all'età e alla sanità mentale, sia per la potenziale titolarità di particolari situazioni giuridiche, sia per la capacità di agire (o come presupposto di pronunzie giudiziarie incidenti sulla capacità di agire). Infine gli status attinenti alla posizione nella famiglia (coniugato o celibe, genitore, figlio, coniuge di una data persona e simili rapporti) sono ugualmente presupposti per la potenziale titolarità di particolari situazioni giuridiche. Altri status possono essere rilevanti sotto speciali profili o in sistemi giuridici diversi da quelli del mondo occidentale.
Vi sono soggetti che non sono persone fisiche, bensì loro aggregati perseguenti insieme un fine comune, aggregati di beni aventi una particolare destinazione, organizzazioni sociali private o pubbliche che il diritto riconosce e tratta come soggetti. Si è adottata per questi l'espressione 'persone giuridiche'. Naturalmente esse compiranno i vari atti inerenti alla vita del diritto mediante loro organi composti di singole (o insiemi di) persone fisiche. Un grave problema sorge quando situazioni giuridiche fanno capo, anziché a persone fisiche o a persone giuridiche, a insiemi di persone (fisiche o giuridiche), o eventualmente anche di beni, non riconosciuti come persone giuridiche (per esempio in Italia associazioni non riconosciute, società semplici, condomini di edifici, ecc.). Si è pensato che essi costituiscano ugualmente un soggetto unitario collettivo, diverso dalla persona giuridica, o che invece basti a giustificare il fenomeno la semplice nozione di contitolarità o ancora l'ipotetica figura dei 'diritti senza soggetto' (della quale sarebbe esempio, secondo alcune scuole, l'islamico waqf). Ciascuna teoria offre il fianco alla critica, ma ciò naturalmente non consente di negare l'esistenza del fenomeno (cioè la spettanza di una situazione soggettiva a un insieme non riconosciuto come persona giuridica): qui tuttavia ci si deve accontentare di sottolineare, oltre la delicatezza del problema, l'inevitabilità che, in singoli casi non regolati da norme, il giudice bene o male lo risolva; e si deve solo aggiungere che, in casi regolati da norme, spesso l'insieme è considerato un'entità a sé stante, ma è non di rado stabilito che gli atti compiuti da persone fisiche come organi di tali enti vincolino direttamente le persone stesse.
Si è accennato che norme e precetti possono determinare la nascita di attribuzioni o vincoli in capo ai singoli soggetti e che attribuzioni e vincoli indicano globalmente (benché in modo poco perspicuo) come situazioni giuridiche soggettive. Fra di esse sono da includersi in certo senso anche gli status, ma ora ci si riferisce alle altre situazioni soggettive.
Il punto di vista da cui normalmente ci si pone è quello dei soggetti titolari delle situazioni giuridiche. Si può adottare però anche il punto di vista degli atti che quei soggetti correlativamente siano in grado (o nella necessità) di compiere. Si riuscirà così a stabilire la qualifica giuridica che a quegli atti in conseguenza compete: per esempio atti illeciti, se il soggetto aveva il dovere di non compierli; atti dovuti, se il soggetto aveva il dovere di compierli; atti leciti, se al soggetto spettava la facoltà di compierli o no. Quando la normativa è elementare, è facile riscontrare una corrispondenza tra la situazione giuridica del soggetto e la qualifica degli atti da lui compiuti; quando la normativa diventa complessa o sofisticata, la corrispondenza, se pur sussiste, è molto più difficile da rintracciare perché possono, ad esempio, sovrapporsi nel soggetto due o più situazioni giuridiche riguardo al medesimo atto. Francesco Carnelutti (v., 1951³) ha tentato di individuare, più e meglio di altri giuristi, la corrispondenza tra ciascuna situazione soggettiva e la qualifica degli atti compiuti in conseguenza dal suo titolare, ma si può constatare che alcune di quelle corrispondenze sono problematiche e altre quanto meno forzate. Pare dunque preferibile, una volta segnalata l'esistenza di un rapporto fra situazione giuridica di un soggetto e qualifica degli atti da lui correlativamente compiuti, adottare il più consueto punto di vista dei soggetti.
Norme e precetti incidono sul potenziale giuridico dei soggetti (su ciò che essi possono o devono fare, su ciò che possono ottenere o devono procurare ad altri, su ciò che sono esposti a subire o che possono invece far subire ad altri) e possono accrescerlo o ridurlo: se lo accrescono, danno luogo a situazioni giuridiche soggettive da qualificarsi 'favorevoli', se lo riducono, danno luogo a situazioni da qualificarsi 'sfavorevoli'. Al riguardo influiscono anche, come spesso nel campo giuridico, aspetti economici, sociali, psicologici, i quali rafforzano, sotto il loro particolare profilo, l'anzidetta distinzione tra le due categorie di situazioni giuridiche. Naturalmente il contenuto di entrambe le categorie ha subito una notevole evoluzione nel corso dei secoli. Si è inoltre verificata, come e più che in altre materie, una forte sfasatura cronologica tra l'effettiva disciplina giuridica e la riflessione che i giuristi venivano facendo su di essa. Per quanto si siano tentate definizioni di singole situazioni da parte sia dei giuristi romani, sia di quelli medievali, un loro studio complessivo - ancora in corso - si può dire sia cominciato solo con Ugo Donello nella seconda metà del XVI secolo, mentre una loro valutazione sotto l'aspetto politico e ideologico si è avuta solo con i pensatori dei Sei-Settecento. La mancanza di analisi teorica ha determinato all'inizio un impiego promiscuo e generico dei termini 'diritto', 'vincolo', 'obbligo' e nel complesso una notevole incertezza terminologica, che non si è dissipata nemmeno dopo che si sono meglio precisati i relativi concetti. Per approfondire questa precisazione si cercherà anzitutto di individuare (in parte sulla scorta di W.N. Hohfeld, Some fundamental legal conceptions as applied in judicial reasoning, in "Yale law journal", 1913-1914, XXIII, pp. 15 ss.; 1916-1917, XXVI, pp. 710 ss.) quelle che possono considerarsi situazioni elementari.
La prima situazione giuridica da prendere in considerazione (dopo lo status), in quanto logicamente centrale benché storicamente sorta forse dopo di altre, è il 'dovere giuridico'. Esso consiste nella necessità giuridica, in cui un dato soggetto si trova, di tenere una data condotta prescrittagli da una norma o un precetto. È stato spesso sostenuto o considerato implicito che tale necessità giuridica derivi effettivamente dalla minaccia di pena o di altra sanzione rivolta al soggetto per il caso in cui egli non tenga tale condotta. Si ricorderà che la stessa idea è stata enunciata riguardo alla norma (la cui essenza risiederebbe appunto nella minaccia di sanzione), ma si è visto che valide obiezioni autorizzano a non accoglierla. Analogamente deve negarsi che la minaccia di sanzione sia essenziale perché sorga la necessità giuridica in cui il dovere si concreta. La minaccia di sanzione opera invece sul piano psicologico, creando nel soggetto il senso di costrizione e di vincolo, se e in quanto, naturalmente, la minaccia sia credibile e la sanzione possa procurare al soggetto una perdita maggiore di quella che gli deriverebbe dall'osservanza della norma. Il piano psicologico, beninteso, è tutt'altro che trascurabile, in quanto ispira o dovrebbe ispirare la politica legislativa; ma, in sede di analisi delle situazioni soggettive, occorre tenerlo distinto dal piano giuridico.
A questo proposito si pone la domanda se debba considerarsi una situazione giuridica o soltanto psicologica l''onere', che sussiste quando un soggetto può conseguire o conservare una data situazione giuridica favorevole, oppure produrre un effetto giuridico per sé vantaggioso, solo se compie un dato o dati atti. La componente psicologica è evidente, ma sembra possibile vedervi anche una componente giuridica, se una norma o un precetto prescrive che l'atto o gli atti in questione siano compiuti con date formalità o modalità e/o entro un dato termine. È normale in questi casi che la norma e il precetto usino il verbo 'dovere' (per esempio 'l'interessato deve presentare ricorso su carta legale entro trenta giorni dalla notifica del presente atto'); non si tratta propriamente di dovere, ma sembra difficile negare la presenza di una componente giuridica e rifiutare quindi all'onere la qualifica di situazione giuridica soggettiva.
In italiano la necessità di tenere una data condotta è chiamata, oltre che 'dovere', anche 'obbligo'. Si tratta di accertare se alla duplicità dei termini dovere-obbligo corrisponda anche una duplicità di situazioni giuridiche. Preliminarmente va osservato che una duplicità terminologica come quella italiana non si riscontra in altre lingue: in inglese, francese, tedesco in contrapposto a duty, devoir, Pflicht si usa obligation, obligation, Verpflichtung, termini che indicano prevalentemente (in tedesco esclusivamente) il rapporto obbligatorio sorto da contratto o da atto illecito; in ogni modo la distinzione italiana tra 'obbligazione' e 'obbligo' è almeno molto rara. Terminologia a parte, è facile constatare l'esistenza di casi in cui la necessità giuridica di tenere una data condotta (commissiva o omissiva) sussiste nei confronti della collettività genericamente intesa, e altri in cui tale necessità sussiste nei confronti di un soggetto (persona fisica o giuridica o insieme non personificato). Convenzionalmente (ma in conformità di alcuni precedenti, in ispecie S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, pp. 104 s.) potremmo chiamare 'dovere' la prima specie di necessità giuridica, 'obbligo' la seconda. Esempi della prima si trovano per lo più nelle norme penali: esse prescrivono di solito una condotta omissiva, contengono cioè un divieto, spesso implicito, talvolta esplicito (come il "non uccidere", "non rubare", "non commettere adulterio" del decalogo), e questo dovere di omettere la condotta vietata non ha nessun particolare destinatario, bensì genericamente tutte le possibili vittime di tale condotta, ossia la collettività indeterminata; in caso di violazione lo Stato o, per dati doveri e in date epoche (passate o attuali), qualunque cittadino oppure la vittima della violazione o suoi stretti parenti acquistano il potere di (fare) infliggere la pena prevista, seguendo la procedura e con le modalità prescritte.
Analogamente può dirsi che i terzi a cui è prescritto in modo generico di non ingerirsi nei beni altrui, di non interferire nei rapporti familiari altrui, e simili, siano vincolati da un dovere, il quale diventa obbligo quando uno di essi viola o minaccia di violare il diritto di uno fra i tanti possibili proprietari o titolari di diritti familiari o di simili diritti, rendendolo propria specifica controparte. Esempio di obbligo fin dall'inizio è invece quello del soggetto che si sia impegnato con contratto verso altri a una prestazione o che abbia leso altri con atto illecito (sia o no questo colpito anche con una pena). Altri esempi si trovano nel campo del diritto pubblico, sia negli obblighi derivanti da un contratto di diritto pubblico fra lo Stato e un soggetto privato, sia in quelli dei contribuenti verso lo Stato o gli enti pubblici, sia in quelli derivanti allo Stato dalla violazione - poniamo - di un diritto fondamentale di un soggetto commessa nell'esercizio di un proprio potere. In tutti questi e in simili casi si stabilisce un 'rapporto giuridico' fra il soggetto obbligato e il soggetto attivo, il quale diviene titolare di una situazione giuridica favorevole, che suole chiamarsi 'pretesa' e di cui si dirà. Tranne questa, che è, beninteso, tutt'altro che secondaria, non vi è apprezzabile differenza giuridica tra dovere e obbligo. Vi è invece differenza sociale, poiché l'esistenza a carico di soggetti di doveri (specie negativi) è normale, e la loro violazione appare una 'devianza' combattuta dalla pressione sociale (sull'argomento v. Hart, 1961; tr. it., pp. 98-108), e invece gli obblighi in sé e la loro singola violazione non determinano discredito sociale, ma lo determinano il numero di queste e - se hanno (come spesso accade) contenuto patrimoniale - la loro entità: un soggetto carico di molti e gravosi debiti decade dal suo rango sociale. Sotto l'aspetto psicologico, il dovere (salvo i casi marginali in cui opera l'anzidetta pressione sociale) è più lieve o persino irrilevante (nessuno, di regola, si accorge del dovere di non molestare il possessore di un terreno sito in una remota regione del proprio o di altro paese), mentre l'obbligo, per la pressione del 'beneficiario', appare un vincolo più intenso.
Si è detto che colui nei cui confronti o a cui vantaggio sussiste un obbligo è titolare di una 'pretesa'. Questa situazione giuridica favorevole è stata individuata dapprima dai giuristi tedeschi del XIX secolo, che le diedero il nome di Anspruch (espressamente confermato poi dall'art. 194 del Codice civile tedesco come "diritto di chiedere ad altri di fare o non fare alcunché"), ma indipendentemente dall'elaborazione tedesca essa è nota nei sistemi di common law sotto il nome di claim o anche senz'altro di right, mentre la dottrina italiana, influenzata da quella tedesca, ha finito con l'indicarla col termine 'pretesa'. Al riguardo non vi sono normalmente problemi. Occorre solo precisare, ribadendo quanto si è detto a proposito della situazione soggettiva dovere-obbligo, che i titolari di proprietà, diritti reali, familiari e altri opponibili a chiunque diventano titolari di una pretesa solo nei confronti di quegli che si individui, fra gli innumerevoli terzi, violare o minacciare concretamente di violare il loro diritto. A rigore la pretesa, in quanto simmetrica all'obbligo, è soltanto l'aspettativa, giuridicamente garantita, della condotta prescritta o del suo risultato: è cioè, come è stato detto, una 'situazione inattiva'. Ma essa può esplicarsi sul piano sociale e su quello psicologico con richieste e diffide dotate su quei piani di una certa influenza; costituisce inoltre di solito il fondamento del potere di tutela, che però, beninteso, può spettare anche a chi sia titolare di una situazione giuridica diversa dalla pretesa (per esempio di uno status). L'esercizio di questo potere è previsto avvenga tanto in via stragiudiziale con l'autotutela (rara ormai, ma non del tutto scomparsa, almeno come misura preventiva) o, in certi casi come quello dei crediti, con costituzione in mora, diffide, ecc. aventi dati effetti protettivi, quanto soprattutto in via giudiziale con l'azione civile o penale, come potere processuale di promuovere giudizi sul rapporto giuridico controverso o sull'asserito delitto commesso ed, eventualmente, di far attuare le previste misure 'esecutive'.
Si è accennato varie volte in precedenza alla 'facoltà' e al 'potere'. Occorre chiarire i relativi concetti. La 'facoltà', chiamata privilege dai common lawyers e Befugnis dai giuristi di lingua tedesca, è, abbastanza ovviamente, la situazione soggettiva di chi compie un atto puramente lecito (non vietato, né oggetto di un dovere o obbligo positivo, né fonte di ulteriori situazioni giuridiche). I giuristi che concepiscono le norme e i precetti unicamente come prescrizioni o comandi di una data condotta, e ancora quelli che, come Kelsen, vi ravvisano soltanto in definitiva una minaccia di sanzione, considerano la facoltà una situazione irrilevante o di puro fatto o come riflesso del dovere o obbligo altrui di non impedire l'atto che ne è oggetto. In realtà la facoltà come situazione elementare ha un'effettiva consistenza giuridica, ma in posizione simmetrica a essa non sta tale dovere, bensì l'assenza di potere (di organi dello Stato o di privati) di punire l'autore di tale atto o promuovere l'attuazione di sanzioni contro di lui. Se la situazione di essere al riparo da dati poteri altrui si denomina 'immunità' (d'accordo con l'americano Restatement of the law of property, vol. I, St. Paul, Minn., 1936), possiamo dire che il titolare di una facoltà gode dell'immunità da poteri sanzionatori altrui, sussista poi o no verso di lui anche il dovere o obbligo di non impedirgli di compiere tale atto. L'immunità peraltro ha un campo d'azione più vasto del suddetto, poiché copre tutti i casi in cui un potere altrui è inoperante verso un dato soggetto (per esempio colui che ha trascritto un suo atto d'acquisto conformemente al sistema di pubblicità vigente in Italia è immune dal potere di rivendica di chi abbia acquistato prima di lui dallo stesso alienante con un atto non trascritto o trascritto dopo).
Il 'potere' (termine con intensa carica sia sociopolitica, sia psicologica) è giuridicamente la possibilità di compiere un atto (spesso normativo o precettivo) che produce effetti (nascita di doveri o obblighi, estinzione di pretese, facoltà o poteri) a carico di altri (al limite di tutti i membri di una comunità statale, sovranazionale, ecc.) senza o contro la loro volontà. Campo privilegiato del potere è il diritto (pubblico) che regola il funzionamento degli organi di grandi enti (Stati, comunità sovranazionali o internazionali, Chiese, ecc.): così i poteri spettano per lo più a tali organi o ai rispettivi enti nei riguardi dei soggetti facenti parte delle corrispondenti comunità, nonché, in minor misura, a questi stessi soggetti nei riguardi di quegli organi o enti di cui essi siano abilitati a promuovere (come talvolta è previsto) l'esercizio dei rispettivi poteri in concreto ed eventualmente in un dato modo (si pensi alle domande, ricorsi, istanze indirizzabili a organi amministrativi o giudiziari di quegli enti). Anche in diritto privato possono spettare poteri, benché su scala ridotta, sia a soggetti privati (per esempio potere di recesso da certe società e di disdetta da certi contratti di durata, potere di riscatto nelle vendite comprendenti il relativo patto, potere di opzione, ecc.), sia a organi di società commerciali, di altre persone giuridiche, di insiemi non personificati di persone o beni per regolare l'attività dei soggetti appartenenti ai rispettivi gruppi.
Deve notarsi che il non raro intreccio di norme e precetti può determinare diverse qualifiche giuridiche dello stesso atto e corrispondentemente diverse situazioni giuridiche in capo allo stesso soggetto in vista di tale atto. In particolare può accadere che il potere spettante a uno dei suddetti organi si combini con un'altra situazione giuridica, per lo più col dovere (stabilito appunto da un'altra norma o precetto) di esercitarlo o di esercitarlo in un dato modo. Si ha così la nota categoria dei poteri-doveri; mentre, se nessuna norma o precetto contiene una simile prescrizione, si hanno poteri semplici o poteri-facoltà, il cui titolare è libero di stabilire se e come esercitarli. Vi è poi un'altra frequente eventualità: il titolare (di regola un organo amministrativo) ha il dovere di esercitare il suo potere e gli è inoltre prescritto non come esercitarlo, bensì di tener conto, nell'esercitarlo, di dati elementi alla luce dell'interesse pubblico e di motivare inoltre il suo provvedimento positivo o negativo. Il potere è detto allora 'discrezionale' e i soggetti interessati sono legittimati a impugnare il provvedimento (sul continente europeo di regola dinanzi a organi della cosiddetta giustizia amministrativa, nei sistemi di common law di regola dinanzi ai giudici ordinari). Fondamento dell'impugnazione, a parte i casi di diretta violazione di norme legislative o equiparate, può essere appunto il cattivo uso della discrezionalità o la mancanza o insufficienza della motivazione. Simmetrica al potere è la 'soggezione', ossia la situazione del soggetto che a prescindere dal suo eventuale obbligo di non impedire l'esercizio del potere, non è in nessun modo in grado di sfuggire agli effetti (sfavorevoli) che automaticamente si producono in suo capo.
Le situazioni giuridiche esaminate sono da considerare elementari. Quelle favorevoli (pretesa, facoltà, ecc.) vengono talvolta indicate col termine 'diritto' (diritto di passare per una data strada, diritto di ricevere una certa prestazione, diritto di disporre di un dato bene, diritto di agire in giudizio, ecc.). Si parla di diritto anche con riferimento a uno status (per esempio diritto di cittadinanza) o senza specifico riferimento a una delle situazioni elementari sopra indicate (per esempio diritto di proprietà, di credito, di eredità). Quest'uso linguistico risale ai Romani, che pur poco inclini ad analisi di teoria generale, conoscevano nondimeno, accanto a ius, termini analitici come facultas, potestas, petitio, e dai Romani esso si è tramandato ai giuristi medievali e ai moderni. La sua ragione di fondo è che in simili casi i soggetti in questione hanno il diritto (norme e precetti) dalla loro parte: ragione per altro insussistente per gli Inglesi, che chiamano law il diritto in senso normativo e right quello individuale (cfr. R. Hyland, in Digesto: discipline privatistiche. Sezione civile, vol. VI, Torino 1990⁴, p. 434), dando però spesso al secondo un senso meno generale. Sulla base di quell'uso linguistico si è costruita dalla fine del Cinquecento ai giorni nostri la figura del 'diritto (in senso) soggettivo' (droit subjectif, subjektives Recht), a cui tra il Sei e il Settecento giusnaturalisti e illuministi diedero valenza politico-ideologica, quale strumento della libertà dell'individuo da essi professata e auspicata.
A parte questo aspetto di strumento di libertà, su cui torneremo, la figura del diritto soggettivo è tutt'altro che pacifica, poiché se ne sono date molte e contrastanti definizioni con conseguente notevole confusione. Una parte di questa dipende dai due contraddittori indirizzi seguiti spesso dagli autori: o identificare il diritto soggettivo con una delle situazioni favorevoli elementari sopra illustrate o considerarlo invece una situazione elementare in più. Un'altra parte della confusione dipende dall'aver conglobato insieme funzione, struttura e valenza politico-ideologica (così anche, nonostante il suo pregio, il saggio di C. Maiorca: v., 1988). Dissipando queste due cause di confusione, si può sperare di meglio capire che cosa sia da intendere per diritto soggettivo. Ed è bene dunque domandarsi anzitutto a che cosa esso serva (funzione) e di che cosa sia costituito (struttura).
Alla prima domanda - a che cosa serva il diritto soggettivo - già R. von Jhering aveva risposto dicendo che i diritti "sono interessi giuridicamente protetti" (cfr. Der Geist des römischen Rechts, vol. III, Leipzig 1906⁵, p. 339). Il diritto soggettivo serve a proteggere interessi (non senza motivo in common law si chiamano interests gli aggregati di più situazioni soggettive elementari): interessi patrimoniali (al godimento, totale o limitato, di un dato bene, alla restituzione di una data somma, ecc.), oppure personali o spirituali (interesse del genitore all'educazione del proprio figlio, dell'autore di una creazione intellettuale a farla riconoscere opera sua, ecc.). Potrebbe trattarsi anche di interessi pubblici (specificati dalla particolare funzione dell'organo), ma lo Stato e gli altri enti pubblici (salvo che in alcuni casi, come quelli attinenti alla materia tributaria) sono considerati titolari verso gli altri soggetti più spesso di poteri (o potestà) che non di diritti. Diritti soggettivi spettano invece spesso agli altri soggetti nei confronti dello Stato o di altri enti pubblici (per esempio diritto del cittadino all'iscrizione nelle liste elettorali, del malato all'assistenza sanitaria, ecc.).
Alla seconda domanda, inerente alla struttura del diritto soggettivo, si può rispondere che esso è costituito dalle situazioni giuridiche elementari che in un dato contesto storico e sociale appaiono necessarie a proteggere giuridicamente l'interesse di cui si tratta. L'idea è presupposta dai common lawyers specie nella configurazione dei property interests (per esempio appunto dai compilatori dell'americano Restatement of the law of property, cit., §§ 1-5), e non è nuova nemmeno in Europa (capostipite essendo forse G. Jellinek, System der subjektiven öffentlichen Rechte, Tübingen 1905², pp. 51 ss; in Italia cfr., per esempio, R. De Ruggiero, Istituzioni di diritto civile, Messina 1934⁷, pp. 192 ss.; G. Pugliese, Usufrutto, uso, abitazione, Torino 1972², pp. 53-68; infine v. Monateri, 1990⁴, pp. 420-421), ma non è stata finora sviluppata in tutti i suoi aspetti. Vi sono diritti (come quelli detti 'potestativi') che paiono constare di una sola situazione giuridica elementare, poiché l'interesse di cui nel caso si tratta viene protetto col potere di promuovere una data modificazione giuridica, potere esercitabile spesso solo tramite un processo e quindi sotto forma di azione: per esempio il diritto di annullare un contratto concluso per errore, il diritto (in Italia di regola chiamato, per ragioni qui troppo lunghe da spiegare, "interesse legittimo") di impugnare un atto amministrativo illegittimo o viziato da 'eccesso di potere'. Più spesso i diritti comprendono più situazioni giuridiche elementari: per esempio, parafrasando l'art. 832 del Codice civile italiano, si può dire che la proprietà comprende una serie di facoltà di uso, impiego produttivo, percezione dei frutti, ecc., il potere di disporre in varia guisa del bene, la pretesa all'esclusione da esso del terzo che vi si sia ingerito o minacci di ingerirvisi, il potere di tutela.
L'analisi potrebbe continuare, ma risulta già abbastanza chiaro che il diritto soggettivo, lungi dall'identificarsi con un'unica situazione soggettiva elementare o dal costituire una situazione elementare ulteriore, è strutturalmente un aggregato, più o meno complesso, di situazioni giuridiche elementari, come quelle sopra individuate: un aggregato la cui composizione dipende anche dalle esigenze e dalle possibilità tecniche del momento ed è, entro dati limiti, storicamente variabile. Alla domanda se tra le situazioni componenti ve ne possano essere di sfavorevoli, come il dovere o l'obbligo, si può rispondere in linea di principio affermativamente, sia per la famosa massima della Costituzione tedesca di Weimar (1919), ribadita da quella vigente, "Eigentum verpflichtet" (la proprietà comporta obblighi di natura sociale), sia pensando, fra tanti, al già visto esempio dei poteri-doveri di molti organi pubblici e a quello dei diritti reali su cosa altrui, la cui struttura-tipo comprende vari obblighi del titolare verso il proprietario della cosa. Naturalmente i doveri o obblighi non possono avere una posizione dominante nell'aggregato di cui si parla, altrimenti esso non potrebbe più chiamarsi diritto soggettivo.
Jhering, definendo il diritto soggettivo un interesse giuridicamente protetto, si opponeva a Windscheid, secondo cui esso è un potere della volontà. In realtà le due definizioni, anziché escludersi a vicenda, sono complementari. Infatti quasi tutte le situazioni giuridiche atte a proteggere un interesse, le quali compongono il diritto soggettivo (in particolare le facoltà e i poteri), si esercitano mediante un atto di volontà del titolare, la quale volontà risulta potenziata. Ciò spiega perché il diritto soggettivo, insieme col negozio giuridico quale atto di autonomia, abbia assunto fra il secolo XVI e il XIX la già menzionata valenza ideologico-politica, divenendo una delle bandiere del giusnaturalismo e del liberalismo. I giusnaturalisti, anzi, sostennero la natura innata di molti diritti, in quanto fondati appunto sul diritto naturale, anziché su quello degli Stati o di altre comunità politiche. Deve però rilevarsi che situazioni giuridiche soggettive esistettero ben prima che i giuristi tentassero definizioni del diritto soggettivo e filosofi e politologi lo considerassero strumento essenziale dell'assetto sociopolitico da loro divisato. Di tale esistenza, che prescinde da concettualizzazioni e ideologie moderne, vi sono prove storiche inconfutabili, ma vi si può aggiungere la riflessione che il diritto soggettivo e le situazioni giuridiche elementari (comunque l'uno e le altre concepiti e denominati) hanno svolto fin dall'antichità, e tuttora svolgono, una funzione che potremmo qualificare tecnico-politica: quella di rafforzare - grazie al concorso, da essi consentito e sollecitato, dell'iniziativa e dell'opera degli interessati - l'osservanza delle norme e dei precetti; gli organi pubblici, ancorché moltiplicati e rafforzati, da soli non ci riuscirebbero, come s'è dimostrato che non riescono a gestire tutte le attività economiche. E infatti anche gli ordinamenti tirannici, dittatoriali o assolutistici del passato o quelli totalitari dei nostri tempi hanno sempre lasciato uno spazio - ristretto, certo, ma tutt'altro che irrilevante - all'opera e all'iniziativa dei soggetti interessati (cfr. U. Cerroni, Diritto soggettivo nei Paesi socialisti, in Digesto: discipline privatistiche. Sezione civile, vol. VI, Torino 1990⁴, pp. 440 ss.).
Si è detto che una situazione giuridica elementare, quasi aspetto attivo della pretesa, che è situazione intrinsecamente inattiva, consiste nel potere del titolare di attuare o promuovere le previste misure di tutela, siano esse o no da qualificarsi 'sanzioni'. Le misure sono diverse secondo il tipo di ordinamento (se statale, sovranazionale, internazionale, ecc.), secondo il tipo di situazioni giuridiche elementari contenute nel diritto soggettivo, secondo la specie di violazione commessa o minacciata dal soggetto passivo. L'ordinamento internazionale comprende senza dubbio sia situazioni soggettive elementari, sia il loro aggregato, che chiamiamo diritto soggettivo, ma le misure di tutela che vi si praticano sono troppo diverse da quelle attuate all'interno degli Stati perché se ne possa trattare nel brevissimo discorso qui consentito. Per ragioni analoghe conviene lasciare da parte gli ordinamenti sovranazionali, in particolare le Comunità Europee, non senza rilevare peraltro che in massima le misure di tutela da esse adottate nei confronti delle imprese e di altri soggetti privati possono, a causa dell'efficacia diretta degli atti normativi e precettivi comunitari all'interno degli Stati, coincidere in pratica con quelle ammesse appunto nei diritti statali.
Riguardo agli stessi diritti statali ci si deve limitare alla mera menzione della peculiarità delle misure previste nel campo amministrativo-tributario, le quali sono attuate (anche, occorrendo, con la forza) dai relativi organi pubblici senza ministero di giudici, chiamati eventualmente a intervenire solo dal soggetto passivo con una tempestiva opposizione. Un po' più d'attenzione può dedicarsi alle misure penali e a quelle attinenti al campo privatistico. Le prime, come già notato, hanno natura (moderatamente) afflittiva e sono attuate o su iniziativa del soggetto vittima dell'illecito (in misura rilevante ormai quasi solo nei sistemi di common law) o su iniziativa di un apposito organo pubblico che esercita il potere statale di tutela (spesso chiamato potestà punitiva). Le misure privatistiche sono di varie specie. La più comune si ha quando il diritto soggettivo comprende una pretesa rimasta insoddisfatta e mira a ristabilire (salvo che nella vecchia Cina, almeno fino al 1930) la situazione materiale del titolare del diritto, sia facendogli dare il bene o prestare il servizio che gli spettava, sia, in mancanza, procurandogli una somma di denaro che lo risarcisca. Misure diverse si hanno qualora la violazione del diritto non si sia verificata, ma sia soltanto temuta, oppure se il diritto comprende essenzialmente uno status o un potere (per esempio di ricomprare un bene venduto con patto di riscatto o di far annullare un negozio giuridico). Altre possono essere ancora le misure di tutela previste o ammesse, fra le quali anche quelle (ora quasi soltanto, come si è detto, preventive) di autotutela, residuo dell'ampio potere di autotutela dei tempi più antichi.
Eccettuata la residua autotutela privata, il potere del titolare di un diritto soggettivo e quello punitivo dello Stato non possono esercitarsi che tramite un processo per il ministero di giudici. Essi dunque assumono la natura di azioni: azione civile esercitata da quel titolare, azione penale esercitata, a seconda degli ordinamenti e delle epoche storiche, da un organo dello Stato, da un qualsiasi cittadino o da un soggetto privato investito di tale funzione dall'organizzazione giudiziaria. I Romani, e poi la tradizione romanistica, ritenevano che l'azione civile fosse un elemento o un aspetto del diritto soggettivo. Ancora all'inizio dell'Ottocento Savigny considerava l'azione un mero 'annesso' del diritto. Ma la dottrina successiva, specie in Germania e in Italia, elaborò una nozione autonoma di azione, nel quadro dell'autonomia del diritto processuale da quello sostanziale. In un primo tempo, concepite due entità distinte, le si immaginò collegate nel senso che l'azione spettasse solo a chi fosse realmente titolare del diritto soggettivo. Successivamente si riconobbe che l'azione, e non solo quella civile, ma anche la penale, poteva sussistere come situazione giuridica pur quando in realtà mancasse o il diritto soggettivo o il potere punitivo statale. Secondo la concezione che sembra più fondata, ed è attualmente più diffusa, l'azione civile spetta a chi si affermi titolare di un diritto soggettivo astrattamente ammissibile (cfr. per tutti E.T. Liebman, Manuale di diritto processuale civile. Principî, Milano 1992⁵, pp. 139 ss.), l'azione penale a chi, debitamente legittimato, accusi la controparte di aver commesso un dato delitto previsto dalle norme penali (cfr. per tutti F. Cordero, Procedura penale, Milano 1993², pp. 381 ss.); entrambe poi rappresentano il potere di promuovere nei modi stabiliti dalle norme processuali una decisione giudiziaria sul merito di tale affermazione o accusa e, in caso di decisione favorevole, di promuovere l'attuazione delle ulteriori misure eventualmente previste e necessarie.
È importante mettere in evidenza il mutamento di prospettiva determinato dal passaggio dal diritto sostanziale al processo. Il diritto sostanziale è il campo delle certezze: si dà per scontato che le situazioni giuridiche elementari, il diritto soggettivo con l'incluso potere di tutela e, rispettivamente, la violazione di una data norma penale con la connessa potestà punitiva statale sussistano realmente. Il processo invece (se veramente si svolge, in quanto il soggetto passivo contesta le affermazioni del soggetto attivo e sussistono i necessari presupposti processuali) è il campo delle incertezze. La sua ragion d'essere sta proprio in queste incertezze e la sua funzione è quella di dissiparle. Quando dunque il titolare di un diritto soggettivo o colui che (organo pubblico, privato cittadino, ecc.) è legittimato a perseguire i colpevoli di delitti adisce il tribunale e chiede al giudice di attuare nei confronti del soggetto passivo le previste misure di tutela o le previste pene, egli esercita il suddetto potere compreso nel diritto o il suddetto potere punitivo dello Stato. Ma questo potere, appena varcate le soglie del tribunale, si riduce per tutta la durata del processo all'azione (civile o penale), mentre chi la esperisce diviene puramente attore o accusatore e chi ne è oggetto diviene convenuto o accusato (o imputato). Compito del giudice così adito viene dunque a essere, una volta accertata la regolarità processuale dell'esercizio dell'azione, quello di giudicare se l'attore è veramente titolare del diritto affermato, e ha quindi il potere di far attuare le misure di tutela previste nei confronti del convenuto, e rispettivamente se l'accusato è veramente colpevole del delitto imputatogli e deve subire le pene comminate dalla legge: solo con la pronunzia della sentenza munita dell'autorità del giudicato (spesso dopo più fasi processuali e il decorso di molti anni) si conoscerà la verità. Naturalmente una verità relativa, formale, qual è quella del giudicato, che del resto in casi particolare può ancora, sia pure eccezionalmente, venire rimessa in discussione. Purtroppo il mondo del diritto non conosce, in definitiva, altra verità. Mi sia consentito di dedicare queste pagine a mia moglie Vittoria Silva, la quale ha visto molto del lavoro e dell'impegno che mi sono costate, e non ne può ora vedere il risultato.
(V. anche Diritti dell'uomo; Diritto dell'economia; Diritto ed economia; Diritto e letteratura; Diritto e politica; Diritto e società; Giurisprudenza; Giustizia).
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