Diritto
Il principio del terzo millennio non vede nuove concezioni, o teorie generali, del diritto. Appartengono ai due secoli precedenti le grandi visioni, le dottrine complessive capaci di segnare una svolta e di imprimere un indirizzo a tutte le discipline giuridiche. Ancora oggi si dibatte di giurisprudenza dei concetti e giurisprudenza degli interessi, di formalismo e realismo, di normativismo e decisionismo. Le nette antitesi, le rigide dicotomie, ci provengono dal passato e spesso si chiudono nel passato. Se diritto designa la scienza giuridica, allora è da dire che siamo per intero debitori dell'Ottocento e Novecento, che ogni presa di posizione si riferisce a teorie enunciate o svolte prima di noi. E deve pur aggiungersi che il problema del metodo - il problema, cioè, che attesta la consapevolezza del lavoro giuridico - o è affidato a vecchie controversie o si risolve nell'esercizio di empirismo divulgativo o viene addirittura contestato nella sua legittimità teoretica. Il giurista si trova dinanzi - come fra poco vedremo - a un fluire ossessivo di norme, le quali non mostrano, nel loro nascere e perire, alcuna forza di durata. Le fonti di produzione, disperse al di sopra e al di sotto dello Stato, sono incessanti generatrici di norme: emanate, modificate, abrogate. Il giurista avverte la temporalità della propria materia, la contingente precarietà di un oggetto che poteva o potrà essere altro. L'ombra del nulla accompagna tutte le norme.
Le garanzie di unità e stabilità sono ormai cadute. E non soltanto quelle d'indole religiosa e metafisica, donde sorgeva il dualismo fra d. positivo e d. 'naturale', ma anche le altre di carattere storico e secolare. Erosa e impoverita la sovranità degli Stati; declinato il vincolo unificante della nazionalità; degradate le democrazie parlamentari a meccanismi procedurali; il d. appare come nudo prodotto della volontà, della volontà che ha potere di emanare norme e di realizzarle nell'effettuale corso delle cose.
Il giurista non può trarsi fuori da questo mondo; il suo lavoro non può nascondere o nobilitare il mutevole destino del proprio oggetto. E perciò si fa empirico, esegetico, divulgativo: pronto a fornire un 'prodotto' altrettanto labile e precario, in cui sopravvivono stancamente antiche categorie o risuona la pallida eco di dispute remote. E se pure si accendono polemiche e controversie, esse si restringono, per chi ben noti, al vedere o non vedere i cambiamenti del mondo, al conservatorismo pietoso del passato o alla disincantata sincerità dell'analisi.
In questa cornice, il problema del d. sembra coincidere (e in effetti coincide) con il problema delle fonti, cioè - per usare vecchio e rigoroso linguaggio - dei fatti a cui si ricollega il nascere o perire delle norme. Tali fatti solevano ricondursi e racchiudersi all'interno della sovranità statale: essa sola, siccome originaria e inderivata, capace di produrre norme o di accoglierle dal di fuori. Il 'dentro' e il 'fuori' erano nettamente separati, al modo in cui i confini distinguevano cittadini e stranieri. La sovranità statale serviva a includere e a escludere: a includere le norme, generate secondo il proprio ordine e le proprie procedure; a escludere ogni altra norma, gettata al di fuori e condannata all'irrilevanza giuridica. Ben per questo le trattazioni dottrinarie delle fonti gravitavano intorno al criterio della rilevanza, cioè del valere entro l'unità giuridica dello Stato, e del come norme straniere - puri dati di fatto - potessero penetrarvi e così guadagnare qualità di vere e proprie norme.
Non si negava di certo l'esistenza di una società degli Stati, né che questi, in quanto membri di tale comunità, fossero in grado di produrre regole della loro condotta (il d. internazionale); ma si innalzava un rigido diaframma logico fra d. interno e d. esterno. Poteva sì un accordo internazionale prescrivere un dato contenuto del d. interno, ma l'esecuzione di codesto obbligo rimaneva affidata alla volontà del singolo Stato, gestore del suo proprio ordinamento. Scriveva un grande studioso: "Il diritto internazionale, in quanto si dirige ad uno Stato con norme che creano obblighi di questo tipo, considera l'ordinamento interno di uno Stato come una formazione, che dipende dallo Stato, il quale, per conseguenza, è suscettibile di essere destinatario di obblighi, il cui oggetto riguarda il modo di essere ed il funzionamento del suo diritto interno" (Perassi 1961, pp. 41-42). L'esecuzione dell'obbligo - posto dalla norma internazionale a carico dello Stato, e volto a riempire di un dato contenuto il d. interno - fungeva da tramite fra esterno e interno, fra il dentro e il fuori di un ordinamento sovrano. Il cittadino non era in rapporto con il d. internazionale, ma soltanto con il d. interno.
Sopra si è adoperato un imperfetto narrativo, non già perché quei modi di rapporto fra d. interno e d. esterno appartengano al passato, ma perché essi non sono più tali da esaurire le connessioni dei due ordinamenti. Attraverso accordi internazionali - in cui, come è ovvio, si esprime la sovranità delle parti - vengono istituite fonti sovranazionali, capaci di produrre norme direttamente vincolanti all'interno dei singoli Stati. Il giurista ne trova il fondamento nell'art. 11 della Costituzione , dove si enuncia che l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".
L'art. 11 autorizza lo Stato italiano a manifestare un consenso autolimitativo di sovranità: non già un consenso abdicativo, ma 'traslativo' di funzioni statali. Fino a quando, per scendere in concreto, i trattati europei saranno osservati dallo Stato italiano, esso non potrà regolare date materie o dovrà regolarle nel modo stabilito dagli organi dell'Unione. Si muove, dunque, dalla sovranità nazionale; si passa attraverso trattati internazionali; e si giunge a fonti sovranazionali, produttrici anche di norme immediatamente e direttamente applicabili nell'ambito interno.
Chi ben veda, la sovranità statale è il fondamento dell'intera costruzione, la quale tiene e dura fino a quando si appoggi al consenso degli Stati membri. Nulla impedisce al singolo Stato di regolare in modo autonomo le materie deferite a organi sovranazionali, o di discostarsi dalla disciplina dettata da essi: si avrà violazione di obblighi, derivanti dai trattati istitutivi dell'Unione, ma certo non invalidità delle norme statali. Come l'efficacia interna delle norme sovranazionali dipende dalla volontà dei singoli Stati - portatori di ordinamenti sovrani e originari - così alla medesima volontà si ricollega la durata dell'Unione (Morelli 1922, 19585, p. 263).
Questa rappresentazione non toglie che, in costanza delle volontà istitutive, gli organi sovranazionali producano norme; e che il giurista si trovi dinanzi a un materiale, in cui confluiscono norme nazionali e norme sovranazionali.
Il profilo, ora tratteggiato nelle linee d'insieme, presenta una molteplicità di spazi giuridici, cioè di ambiti di efficacia di singole norme o gruppi di norme. La tradizione conosceva soltanto lo spazio statuale, individuato dai confini e così distinto da altri spazi statuali. Il vincolo di territorialità, stringendo insieme politica e d., delimitava anche la sfera d'efficacia normativa.
Ma, poiché la sovranità di taluni Stati si è autolimitata, e date materie sono state deferite a fonti di comune d., ecco slargarsi uno spazio giuridico sovranazionale. Insieme con le frontiere, che ostacolavano o controllavano la circolazione di merci e lavoro, cadono i confini dell'efficacia normativa. Norme, deliberate dagli organi dell'Unione Europea, entrano, immediatamente e direttamente, nel d. interno degli Stati membri. Così sono le cose, ancorché possa e debba notarsi che codesta efficacia di fonti sovranazionali sempre si riconduce alla decisione sovrana di singoli Stati, e dura e cade con essa.
Gli spazi giuridici vanno ben oltre l'ambito sovranazionale (che pur nasce da accordi fra Stati), e, sostenuti dall'apparato telematico, si fanno planetari e globali. Il processo di dilatazione, muovendo dai territori statali, e allargatosi già a livello sovranazionale, giunge fino allo spazio globale. La globalizzazione - riguardata soprattutto come spazio planetario degli scambi economici - solleva un problema, che può così enunciarsi: poiché i negozi di scambio si svolgono, fuori da territori statali, nel non luogo della rete telematica, sotto quale d. essi ricadono? quale è il d. applicabile alle controversie da essi derivanti? È la questione, già sollevata da F.K. von Savigny, circa la sede del singolo rapporto giuridico.
Orbene, codesta sede, che per l'innanzi coincideva con il territorio di uno o altro Stato, e dunque era un luogo stretto tra confini geografici, si disperde nella pura spazialità della rete telematica. È una sede a cui non corrisponde alcun punto della superficie terrestre. È, questa, l'intuizione, poco e male svolta, che lascia immaginare un d. volontario, stabilito o dalle parti dei singoli negozi o da spontanea regola dei traffici (lex mercatoria). Le due soluzioni, le quali pur muovono dal medesimo presupposto (la capacità del mercato planetario di darsi, esso stesso e in sé stesso, il proprio d.), pervengono a risultati assai diversi. La prima, a una sorta di solipsismo negoziale, onde le parti sarebbero in grado di istituire, di volta in volta, la disciplina del singolo rapporto. La seconda, più meditata e cauta, perviene a un ordine consuetudinario, munito di organi arbitrali e accompagnato da sanzioni non coercitive. Le due soluzioni non resistono a un'analisi critica che faccia valere questi argomenti:
a) l'una e l'altra presuppongono già un d. che determini la spettanza di beni, cioè l'assegnazione del 'mio' e del 'tuo'. La regola dello scambio presuppone la regola dei beni scambiati; ma tale regola si trova soltanto nel d. dei singoli Stati;
b) l'una e l'altra non garantiscono la realizzazione dei d. e l'adempimento degli obblighi. Né il singolo accordo né la lex mercatoria sono provvisti di capacità coercitiva, la quale rimane in monopolio degli Stati;
c) l'una e l'altra hanno bisogno di un 'ancoraggio' terrestre, ossia di un ritorno ai luoghi. Non sembra concepibile rapporto economico, che, prima o poi, nella fase genetica o nell'esecutiva, non si annodi a una sede terrestre; e questa rientrerà nell'ambito dell'uno o dell'altro Stato.
Quale che sia la fondatezza teorica delle soluzioni avanzate, è comunque certo che il materiale normativo si dilata e si accresce; e che, a lato oppure al di sotto delle norme nazionali e sovranazionali, si collocano norme negoziali e mercatorie (le quali ultime - giova di ripetere - pretendono di stare e svolgersi da sole). Nel lavoro quotidiano, il giurista si trova di fronte a un flusso di norme, che non sono governate da alcun criterio d'insieme né raccolte in un vincolo unificante. Egli rinuncia a ogni ambizione sistematica, abbandona ogni disegno d'unità, restringendosi - come già si notò - al frammentismo della semplice esegesi.
Gli Stati ben avvertono che gli affari economici, negoziandosi e concludendosi nello spazio globale, sfuggono alla disciplina del d. (nazionale o sovranazionale che si voglia), e concordano e mettono in opera meccanismi di cattura e di riconduzione alle sedi terrestri. Si assiste così a un fenomeno, di cui sono segnalabili soltanto taluni indici sintomatici: che, mentre le imprese economiche si affidano alla 'puntualità' di singoli accordi o alla lex mercatoria, ovvero scelgono, esse, il d. statale più conveniente e vantaggioso, gli Stati si provano a inseguire e catturare gli affari e a sottoporli alla loro disciplina. Insomma: o il mercato degli ordini giuridici, i quali si offrano, come in competizione, alla scelta delle imprese; o l'ordine giuridico del mercato, istituito da d. nazionali e sovranazionali.
È appena da notare che il paesaggio normativo, di cui si sono colti i tratti essenziali, è intriso di politicità, ossia di scelte e decisioni delle classi dirigenti dei singoli Stati. Non c'è, per così dire, nulla di 'naturale' e d'inevitabile nel passare dal d. nazionale al sovranazionale; non c'è nulla di necessario e di costrittivo nel giungere, infine, al mercato globale. Dietro codesti schemi e figure ci sono sempre decisioni della volontà politica, scelte compiute in un senso o nell'altro, soddisfacimento o sacrificio di interessi in conflitto. Quando 'liberisti della cattedra', o servili tecnocrati, oppongono alla politica le leggi 'naturali' dell'economia, e invocano la neutralità del mercato e degli scambi, costoro in realtà fanno vera e schietta politica. Anche l'antipolitica è esercizio di politica: da questa, in ogni caso, non possiamo uscire. Garantire le condizioni di mercato, difendere l'illimitata volontà di profitto, indebolire la sovranità degli Stati, permettere alle imprese di scegliere, esse, la disciplina giuridica: tutto ciò - e l'elenco sarebbe da allargare ad altri profili - non è né destino inesorabile né obbedienza a leggi 'naturali', ma, sempre e soltanto, risultato di decisioni politiche. Il resto è pura dissimulazione.
La dilatazione degli spazi giuridici incontra e, a un tempo, suscita dure resistenze. Le quali provengono dall'identità storica, dal fedele legame con le terre native, dal sentimento di appartenere - per costumi e lingua e d. - a una o altra comunità. Di contro all'artificialità tecnica del mercato si leva, non la bruta 'naturalità' di stirpi o razze, ma la concreta storicità dei luoghi. Si spiega così che la sovranità statale sia erosa insieme verso l'alto e verso il basso, cioè a vantaggio sia dell'Unione Europea sia degli enti locali. Le due potenze - dello spazio mercantile e dei luoghi storici - si fronteggiano e combattono, desiderose, l'una e l'altra, di colmare il vuoto lasciato dalla sovranità statale. Nessuno è in grado di prevedere l'intensità e l'esito di questo conflitto; nessuno, di pronosticare se la sovranità dei singoli Stati rinascerà con più energico vigore, se il mercato planetario dissolverà ogni resistenza nella propria opaca uniformità, o se le potenze della Terra riacquisteranno il perduto dominio. Intanto, assistiamo all'indebolimento o declino del 'diaframma' statale, del punto di mediazione e d'equilibrio, e al teso rapporto fra d. europeo e d. regionali.
Altre, ma più fragili e vaghe, resistenze vengono opposte in sede dottrinaria: da studiosi e scuole di d., sempre o quasi sempre intonati a nobile sentire, che, con venature religiose e anticapitalistiche, si stringono in difesa della 'persona umana' e della 'giustizia' degli accordi negoziali. L'economia capitalistica non dà aria di intimorirsene. Il fenomeno merita di esser segnalato con attenzione descrittiva e storiografica, subito rilevando che la tutela di persona e giustizia negoziale o dà vita a forze reali, capaci di dirigere le scelte legislative - che poi significa indossare la rude veste della politica - o è superstite e impotente anticapitalismo.
Che ne è delle antiche partizioni del d. in pubblico e privato, e di quest'ultimo in civile e commerciale? Se assumiamo il punto di vista del mercato - cioè del fenomeno, che orienta, o sembra orientare, la vita del nostro tempo - qualche non inutile considerazione può qui enunciarsi. Il d. pubblico - o, meglio, l'interesse pubblico - non è scomparso, ma cerca altri luoghi di emersione: si è ritratto da proprietà e gestione delle imprese, da attore fra gli attori dell'economia, e si fa regolatore del mercato. Sotto specie di autorità indipendente (il carattere di 'indipendenza' è tributo pagato all'antipoliticità degli affari!), la voce dell'interesse pubblico risuona nell'economia. Si badi: non già un interesse pubblico, che sia sorretto da scelte statali di politica economica, ma piuttosto un controllo procedurale, una disciplina di forme estrinseche e anodine. Si raggiunge bensì talun risultato di chiarezza, ma attraverso un d. arbitrario, che non obbedisce a principi generali (i quali richiederebbero una presa di posizione politica) né a criteri di una logica organica. In un'epoca radicalmente 'privatistica', l'interesse pubblico deve come nascondersi, percorrere vie oblique, rivelarsi in modi e istituti che siano, o sembrino, compatibili con la neutralità politica del mercato. Soltanto la vigorosa rinascita della politica, l'energia di posizioni in conflitto, la capacità di decidere potranno restituire rilievo all'interesse pubblico, e netta autonomia alle norme volte a tutelarlo e realizzarlo.
La partizione del d. privato nei rami del civile e del commerciale non si lascia trattare con semplice criterio logico. È piuttosto di indole storica, e si definisce in ragione della cornice complessiva. L'antitesi fra cittadino e commerciante, tra uomo politico e uomo economico - che poi rispecchiava quella, più intima e profonda, di Stato e società civile - già netta e ferma nei codici ottocenteschi, è parsa declinare nel corso del 20° secolo. Il legislatore italiano del 1942 unificò i codici (civile e di commercio); l'istituto dell'impresa, forma organizzata e professionale di attività economica, irruppe nel codice civile e vi occupò un luogo dominante. Lo Stato totalitario, nel proposito di stringere e regolare la vita intera dei sudditi, non tollerava alcuna distinzione di ambiti. Unico e unificante lo spazio giuridico dello Stato.
La dilatazione degli spazi giuridici, il passaggio dai territori statali al mercato planetario, l'uso della tecnologia telematica: questi i fattori che restituiscono importanza e significato al vecchio binomio di d. civile e d. commerciale. La concreta e quotidiana vita del singolo si è di nuovo spezzata: da un lato, apparteniamo ai luoghi, e ci stringiamo negli antichi rapporti di famiglia, e, mercé il dialogo orale o scritto, negoziamo e stipuliamo accordi; dall'altro, ci disperdiamo nel non luogo della rete telematica, 'navighiamo' in mari senza confini, scambiamo, con muto gesto, cose e danaro. Si riapre così la distinzione tra due ambiti giuridici, che corrispondono, storicamente e socialmente, a due modi del nostro vivere.
Il d. civile torna ad apparire come d. della società civile, della particolarità quotidiana, delle relazioni concrete e determinate. E, di contro o di fronte, si slarga il d. commerciale come d. del commercio, non più chiuso nei confini territoriali degli Stati, ma dilatantesi negli spazi sovranazionali e planetari. Non c'è più un vincolo unificante, quel vincolo, ideologico o storico, capace di ricomporre l'individuo nella sua complessa e varia integrità. Ci sono potenze, talora oscure e misteriose, che lo traggono da un lato o dall'altro, verso spazi interminabili o luoghi storicamente conchiusi, e perciò lo rompono nella sua unità e lo dividono in zone opposte della vita.
Nell'alba del terzo millennio il d., che un tempo era presidiato dalla forza degli Stati nazionali, e sembrava capace di dominare le diverse potenze della società, si trova dinanzi alle straordinarie e ossessive invenzioni della tecnica. Nessuno scopo appare irraggiungibile; nessun limite insuperabile. Già la dilatazione degli spazi è un risultato della tecnica: il mercato planetario si fonda sulla rete telematica. Si delinea così l'inatteso problema del geodiritto, del rapporto fra norma giuridica e sede degli scambi, e del come quella sia in grado di inseguire e assoggettare questi. Il giurista, solito a ragionare in linguaggio di confini e territori, è quasi smarrito di fronte al non luogo della rete; e fatica a trovare modi e istituti, adeguati alle nuove dimensioni.
Ma la tecnica, non sazia di allearsi con l'economia e di aprire strade non terrestri, investe la stessa fisicità dell'uomo. Se questi è parte della natura, e la tecnica è la suprema potenza che manipola e conforma la natura, allora neppure il nostro corpo sfugge al suo dominio. Il corpo umano, che nella sfera economica già appare come merce negoziabile, si atteggia qui a prodotto fra i prodotti. La logica della produzione - del poter essere o non essere, dell'essere in uno o in un altro modo - si estende al corpo umano, lo sottrae alle incognite del caso e alla volontà imperscrutabile degli Dei, e lo pone sul proprio tavolo di lavoro. Il nascere e il morire, il discendere da questa o da quella madre, il conoscere questo o quel padre, tutto è messo in discussione.
L'acume di E. Jünger ha colto il fenomeno con illuminante chiarezza: "Già solo la registrazione e la gestione dei certificati anagrafici negli uffici di stato civile costituisce un problema che forse per qualche decennio ancora potrà essere mascherato e minimizzato, ma che prima o poi si presenterà come una questione di potere. Essa travalica ampiamente le differenze fra nascite legittime e illegittime, o fra le razze - differenze certo non prive di tragicità" (Jünger 1959; trad. it. 2000, p. 233). Il biodiritto, una diversa considerazione del nascere e morire, un distinguere fra il semplice esistere e il vivere, sono ormai problemi indifferibili. E il d., sciolto da presupposti religiosi e metafisici, sarà soltanto il risultato, precario e variabile, di altre forze: non dirà la propria parola (e donde giungerebbe o si rivelerebbe a esso?), ma ascolterà la parola della forza vincitrice.
Geodiritto e biodiritto costituiscono i temi del mondo normativo; e, nel dire 'temi', sembra di ridurli ad argomenti qualsiasi, trattabili nel modo usato e con categorie antiche, mentre essi toccano sfere che sembravano incontestabili o intangibili. C'è, in questo 'progredire' incessante della tecnica, in questo suo spingersi sempre più dentro la natura e nel fondo dell'essere, come un ritorno all'originarietà degli elementi, come il senso ansioso di un inizio o di una fine.
Non possiamo più appoggiarci a nulla; direbbe F. Nietzsche: abbiamo bruciato i vascelli dietro di noi. Tramontati i presupposti religiosi e metafisici, declinate o erose tutte le unità mondane (dai codici agli Stati nazionali), spenta ogni tradizione, non rimane che la solitaria volontà dell'uomo. Il d. non ha altra scelta che l'attesa. Non c'è, o non si vede, uscita di sicurezza.
bibliografia
G. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, Padova 1922, 19585; E. Jünger, An der Zeitmauer, Stuttgart 1959 (trad. it. Milano 2000); T. Perassi, Lezioni di diritto internazionale. Parte 1, Roma 1961.