Abstract
Il codice penale prevede una pluralità di ipotesi di disastro dalla cui lettura sistematica si ricava una nozione unitaria del “disastro” penalmente rilevante. Il riferimento è alle disposizioni codicistiche in materia di delitti contro la pubblica incolumità, che sanzionano un’ampia gamma di disastri naturali e non naturali, cagionati dall’uomo.
Tra la varietà di ipotesi contemplate, particolare rilievo ha assunto nel tempo la distinzione tra i “disastri nominati”, o tipici, e i “disastri innominati”, o atipici, che ha dato spazio ad interpretazioni talora troppo estensive della figura del disastro innominato (art. 434 c.p.). L’ambito applicativo di tale fattispecie è stato infatti ampliato in giurisprudenza in funzione incriminatrice di disastri nuovi – causati dall’azione umana –, del tutto eterogenei rispetto a quelli espressamente sanzionati dal codice penale. Ciò è accaduto soprattutto con riguardo al “disastro ambientale”. In tal caso però, la lacuna normativa alla base della suddetta prassi è di recente venuta meno per effetto dell’introduzione nel codice di un’apposita fattispecie incriminatrice (art. 452 quater c.p. – Disastro ambientale).
La nozione di “disastro” ricorre al capo I e III, titolo VI, libro II c.p. nell’ambito dei delitti contro la pubblica incolumità – delitti di comune pericolo – realizzati mediante violenza. Essa costituisce una peculiare modalità di tipizzazione del pericolo comune, il quale, a sua volta, rappresenta la forma tipica di offesa alla pubblica incolumità.
Poiché si riferisce ad una specifica manifestazione o realizzazione dell’offesa alla pubblica incolumità, il termine “disastro” assume in diritto penale un significato tecnico, in nulla coincidente con quello proprio del linguaggio o del senso comune.
Nel sentire e nell’esperienza collettivi, infatti, la nozione di disastro evoca genericamente una sciagura, una calamità – anche naturale –, una catastrofe che provoca danni di grandi proporzioni a persone o cose. Nel campo del diritto penale, invece, per disastro si intende un particolare modo di essere dell’offesa alla pubblica incolumità, i cui tratti essenziali non vengono direttamente descritti dal legislatore – il quale per vero non fornisce una definizione generale di “disastro” –, ma si ricavano indirettamente dall’interpretazione sistematica delle singole fattispecie incriminatrici in cui per l’appunto tale concetto è rinvenibile (fra gli altri, Gargani, A., Reati contro l’incolumità pubblica, t. I, Reati di comune pericolo mediante violenza, in Grosso, C.F.-Padovani, T.-Pagliaro, A., diretto da, Trattato di diritto penale, pt. spec., IX, Milano, 2008, 161 ss.; Corbetta, S., Delitti contro la pubblica incolumità, t. I, Delitti di comune pericolo mediante violenza, in Marinucci, G.-Dolcini, E., diretto da, Trattato di diritto penale, pt. spec., Padova, 2003, 13 ss.).
Sotto il profilo sistematico, nella disciplina del codice penale, la nozione di “disastro” viene in rilievo in termini di accadimento lesivo di vaste proporzioni, astrattamente idoneo a porre in pericolo la pubblica incolumità. Esso consiste cioè in un macro-evento di modificazione o danneggiamento di cose, che si estende in senso dinamico verso l’offesa all’integrità fisica o alla vita di un numero indeterminato di persone (Ardizzone, S., Comune pericolo (delitti colposi di), in Dig. pen., II, Torino, 1988, 393) e che deve essere innescato da una condotta violenta.
Nelle fattispecie incriminatrici che concorrono a delineare tale nozione giuridica è infatti costante il configurarsi del disastro come avvenimento grave, complesso, di vaste proporzioni e proiettato in direzione dell’offesa all’incolumità pubblica. Ciò, tanto allorché esso rilevi come evento costitutivo del reato (frana, inondazione, disastro aviatorio etc.), quanto ove esso rappresenti un evento possibile, conseguenza di forme di danneggiamento particolarmente gravi, vuoi per la tipologia della condotta che le hanno cagionate, vuoi per la natura delle cose su cui è ricaduta la condotta stessa (artt. 424, 427, 429, 431 c.p.) (Riondato, S., Commento all’art. 422 c.p., in Ronco, M.-Romano, B., a cura di, Codice penale commentato, Milano, 2012, 2148 ss.).
In senso sostanzialmente conforme, anche la giurisprudenza pressoché costante definisce in genere il disastro come «accadimento macroscopico, dirompente e quindi caratterizzato, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all'incolumità di numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile» (Cass. pen., 13.3.2015, n. 14859, in senso conforme, tra le altre, Cass. pen., 25.1.2016, n. 12675; Cass. pen., 1.4.2014, n. 18432; Cass. pen., 7.11.2013, n. 14524; App. Trento, 26.3.2014, n. 27, in Guida al diritto, 2014, 34-35, 62).
Nondimeno, se vi è un diffuso accordo sia in dottrina sia in giurisprudenza circa il fatto che la nozione unitaria di disastro ricavabile delle disposizioni codicistiche implichi il verificarsi di un avvenimento materiale di straordinaria gravità, complessità ed estensione, dal quale discenda la messa in pericolo della pubblica incolumità, altrettanta concordanza di opinioni non vi è riguardo la necessità che tale situazione di pericolo nei confronti della vita e della incolumità delle persone debba verificarsi in concreto.
Cosicché, taluni ritengono che i concetti di disastro e di pericolo per la pubblica incolumità siano inscindibili, nel senso che sarebbe disastro soltanto l’evento distruttivo che assuma dimensioni gravi ed estese e che metta concretamente in pericolo la vita di un numero indeterminato di persone.
Secondo tale impostazione, il disastro necessiterebbe della contemporanea presenza sia dell’elemento quantitativo del fatto lesivo, sia di un requisito di tipo qualitativo. Il primo – l’elemento quantitativo – è un contrassegno oggettivo del fatto lesivo che si individua nella particolare gravità dell’evento distruttivo (o dello stato di modificazione delle cose) dovuta all’estensione e alla serietà dei danni cagionati (Corbetta, S., Delitti, cit., 630).
Il requisito di tipo qualitativo discende invece dal fatto che il disastro costituisce una modalità del pericolo comune nei confronti della incolumità pubblica, la quale può realizzarsi soltanto quando il danneggiamento o la distruzione di proporzioni non comuni (elemento oggettivo) abbiano provocato una condizione di pericolo concreto per la vita o l’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che peraltro sia richiesto anche l’effettivo verificarsi della morte o delle lesioni (Corbetta, S., op. ult. cit, 630 – 633; Ardizzone, S., La fattispecie obiettiva del crollo colposo di costruzioni, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1970, 794; Gizzi, L., Crollo di costruzioni ed altri disastri dolosi, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., diretto da, Trattato di diritto penale, Parte speciale. I delitti contro l’incolumità pubblica e in materia di stupefacenti, IV, Torino, 1992, 239; Corbetta S., Commento all’art. 434 c.p., in Dolcini, E.-Gatta, G.L., a cura di, Codice penale commentato, Milano, 2015, 1893 e 1894; Palavera, R., Disastro e pericolo di disastro, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 814).
Di opposto avviso, è invero altra dottrina la quale considera il pericolo ai beni della vita e dell’incolumità dei singoli individui come una situazione lesiva che non è necessario si verifichi in concreto, essendo sufficiente la proiezione teleologica dell’evento disastroso verso l’offesa ai beni dell’incolumità o della vita di un numero indeterminato di soggetti (Gargani, A., Reati, cit., 171 ss.; 428).
Il delitto di disastro si distinguerebbe pertanto dagli altri delitti di comune pericolo contro l’incolumità pubblica proprio in ragione del duplice “volto” (o del doppio “calibro”) dell’elemento normativo “disastro”, che opererebbe sia come referente materiale della fattispecie – vale a dire come evento naturalistico (danno) –, sia come elemento che proietta la situazione lesiva verso la messa in pericolo di beni primari degli individui, i quali vengono peraltro in rilievo in senso indeterminato.
In altri termini, il disastro sarebbe una nozione sintetica descrittiva di una situazione di danno grave, macroscopico ed esteso, inequivocabilmente diretto verso l’offesa ai beni della vita o dell’incolumità di un numero indeterminato di consociati. Esso conterrebbe dunque i contrassegni tipici del “danno qualificato dal pericolo”, ossia di quella particolare tipologia di illecito in cui all’evento di danno nei confronti di un bene si connette la condizione di pericolo nei confronti di un bene ulteriore e differente.
Nel caso del disastro, tale pericolo qualificante il danno consisterebbe per l’appunto nella probabilità della ricaduta offensiva del fatto sui beni personali di una pluralità di consociati («… tra disastro e pericolo per l’interesse tutelato intercorre un rapporto di corrispondenza (soltanto) univoca: ogni disastro implica un pericolo per la pubblica incolumità», Gargani, A., Reati, cit., 174; ma non viceversa, nel senso che non ogni pericolo per la pubblica incolumità implica un evento di disastro).
Pur nella diversità di accenti sul modo di intendere i rapporti tra disastro e pericolo per la pubblica incolumità, in dottrina rimane costante il richiamo alla necessità che i singoli eventi a danno dei beni individuali della vita e dell’incolumità delle persone vengano presi in considerazione come elementi estranei alla struttura dei reati di disastro, i quali invero tutelano non l’incolumità dei singoli, ma l’incolumità pubblica, in quanto bene riferibile alla generalità dei consociati.
In questo quadro, i singoli decessi o i singoli fatti lesivi dell’incolumità di soggetti determinati, scaturenti da un disastro, debbono rilevare ai sensi di altre fattispecie incriminatrici, autonome e distinte da quelle che incriminano i delitti di disastro. Nel medesimo ordine di idee, l’eventuale accertamento della verificazione di una pluralità di eventi lesivi della vita o dell’incolumità delle persone – anche laddove il numero di tali eventi sia significativamente alto – non è requisito di per sé sufficiente a ritenere integrato un reato di comune pericolo contro la pubblica incolumità, né – tanto meno – di un disastro, la cui portata offensiva è connotata da una tale diffusività, gravità, complessità e difficoltà di contenimento da non poter essere ristretta alla mera sommatoria di specifici eventi di danno a carico di singoli individui.
Il codice penale descrive due distinte tipologie di disastri: a) i disastri cd. “nominati”, o tipici; b) i disastri cd. “innominati”, o atipici.
Al tipo sub a) – disastri nominati – appartengono i disastri le cui caratteristiche tipologiche sono direttamente descritte dal legislatore nella norma incriminatrice.
Si tratta di un numero chiuso di fattispecie che si distinguono per la particolare natura dell’oggetto o della fonte del danno e per il contesto fenomenico di riferimento (frana, inondazione, valanga, disastro aviatorio, disastro ferroviario, disastro ambientale etc.); e rispetto alle quali la portata offensiva, intesa in termini di messa in pericolo dell’incolumità pubblica, è implicata dalla significatività dei risultati lesivi che statisticamente e tipicamente discendono dal tipo di danni descritti.
Al tipo sub b) – disastri innominati – afferiscono invece i delitti di disastro non espressamente tipizzati dal legislatore nei loro tratti qualificanti, ma genericamente descritti in termini di disastri “diversi” da quelli nominati o tipici.
Essi costituiscono ipotesi residuali e indeterminate di disastro, i cui connotati tipici – in assenza di una precisa formulazione normativa – possono venire ricostruiti esclusivamente attraverso un’interpretazione di tipo sistematico, ossia soltanto per relationem, mediante il rinvio alle caratteristiche e al significato che la nozione di disastro in genere assume nei disastri cd. “nominati” (per tutti, Riondato, S., Commento all’art. 434 c.p., in Ronco, M.-Romano, B., a cura di, Codice penale commentato, cit., 2189, il quale evidenzia come il senso di “altro” disastro debba ricavarsi dalle “species” dei disastri tipici previsti nel codice, tutte riferentisi ad una nozione unitaria di disastro inteso come evento distruttivo di proporzioni straordinarie, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi ed idoneo a determinare un pericolo per la vita o l’incolumità delle singole persone).
A tale seconda categoria di disastri appartiene certamente la figura del disastro innominato o generico prevista all’art. 434 c.p. che punisce fatti diretti a cagionare “altri disastri”. Si tratta di una norma a carattere residuale e a chiusura del sistema, il cui ambito applicativo tendenzialmente copre ogni nuova fenomenologia di disastro emergente nella prassi, differente da quelle già conosciute ed espressamente tipizzate dalle altre disposizioni codicistiche in materia.
Oltre alla fattispecie appena richiamata, alla nozione di disastro innominato possono altresì ricondursi tutte le ulteriori ipotesi in cui il legislatore utilizza la generica locuzione “un disastro” o “altro disastro”, senza specificarne i connotati tipici (come avviene agli artt. 432, co. 3, 433, co. 3, 434, co. 2 e 437, co. 2, c.p.). Anche nei riguardi di queste ultime forme atipiche, parimenti che per l’ipotesi prevista all’art. 434 c.p., vale quanto affermato in generale a proposito dei disastri “innominati”, e cioè l’esigenza di interpretarne il contenuto in termini di “analogia” con i delitti di disastro espressamente tipizzati dal codice, con cui esse condividerebbero significato e ratio.
In base alla fenomenologia empirica e alle concrete modalità di verificazione dell’evento disastroso è altresì possibile individuare un’ulteriore classe di disastri: i disastri cd. “dinamici” ed i disastri cd. “statici” (la distinzione è presa in considerazione da Corbetta, S., Delitti, cit., 47 – 50, il quale la propone, al fine di mettere in rilievo il diverso ruolo assunto in ciascuna categoria dalla presenza di persone nel raggio di azione della fonte di pericolo.
Per i disastri dinamici, tale presenza andrebbe sempre accertata ex ante – ossia, con riferimento al tempo in cui si è innescata la catena causale – ed in concreto – valorizzando cioè anche le circostanze che hanno effettivamente caratterizzato la verificazione degli eventi. Se in effetti nessuna persona era presente nei tempi e nei luoghi in cui ebbe inizio il fenomeno, la minaccia in concreto della pubblica incolumità si rivela a posteriori impossibile.
Nel caso di disastro statico, invece, data la natura istantanea degli eventi, sarebbe sufficiente un riscontro della presenza di persone esposte al pericolo, eseguito ex post. Nessun pericolo per la pubblica incolumità può dirsi realizzato, ove sin dall’inizio un numero indeterminato di persone non sia stato interessato dal raggio di incidenza del disastro; come accade nell’ipotesi di deragliamento del vagone di un treno che trasporti merci e non passeggeri.
La suddetta distinzione, ad opera dell’Autore, sarebbe resa opportuna dalla necessità di adeguare alla diversa tipologia – statica o dinamica – del disastro, il requisito della presenza di potenziali vittime nel raggio di azione del pericolo, che rappresenterebbe elemento costitutivo costante della base di giudizio nell’accertamento del pericolo, per tutti i reati contro la pubblica incolumità.
Un’esegesi conforme al principio di offensività impone, infatti, che l’accertamento del pericolo passi attraverso una verifica della concreta presenza di un numero indeterminato di persone nel campo di azione della situazione pericolosa; senza che ciò comporti un travisamento della natura autenticamente “prognostica” del giudizio, il quale invero dovrà sempre prescindere dalla verifica in concreto dei singoli eventi lesivi eventualmente derivati ex post dal successivo sviluppo degli accadimenti.
Alla stregua di tale impostazione, pertanto, ove risulti l’assenza in concreto di potenziali vittime al momento della diffusione del fenomeno disastroso, il disastro stesso non si configura, perché non si realizza l’offesa tipica al bene della pubblica incolumità).
Sono disastri cd. “dinamici” quelli che per ragioni naturalistiche si propagano gradualmente, in quanto necessitano di un certo intervallo temporale per diffondersi e svilupparsi sino al raggiungimento del livello di gravità tipico degli eventi disastrosi. Si pensi alla frana o alla valanga che si sviluppano in modo dinamico dal momento del distacco delle rocce o delle masse nevose, fino al punto in cui a causa della portata del materiale in movimento e in ragione della prossimità con i luoghi abitati dall’uomo, i fatti assumono le proporzioni di accadimenti lesivi gravi ed estesi, in grado di mettere in pericolo l’incolumità pubblica (le medesime caratteristiche di progressione dinamica sono rinvenibili nell’incendio, che in genere si diffonde in crescendo dal momento in cui vengono appiccate le fiamme, sino al momento di massima diffusione delle stesse, agevolata dall’ambiente circostante favorevole).
I disastri cd. “statici” invece consistono in accadimenti distruttivi che si realizzano in un unico contesto di tempo e di spazio. Il disastro aviatorio, il disastro ferroviario, il crollo di costruzioni ecc. sono invero fenomeni lesivi di grosse proporzioni che si verificano in maniera circoscritta e che in genere raggiungono istantaneamente il massimo livello di gravità.
Quanto alle modalità di tipizzazione delle condotte, talora si prevedono fattispecie commissive in forma libera (artt. 423, 426, 428, 430, 434 c.p.); altre incriminazioni sanzionano invece condotte commissive a forma vincolata (artt. 427, 429, 431 c.p.).
Un’ulteriore importante distinzione che viene in rilievo in materia di disastri penalmente rilevanti è infine quella tra disastri cd. “naturali” e disastri cd. “non naturali”.
I primi – disastri cd. “naturali” – risultano dall’innesco di forze naturali distruttive (frana, incendio, inondazione, valanga ecc.); mentre i disastri cd. “non naturali” (disastro ferroviario, nautico, aviatorio ecc.) sono tali in ragione del fatto che l’oggetto materiale dell’accadimento distruttivo da cui trae origine la situazione di pericolo grave e diffuso per l’incolumità pubblica non è un elemento di tipo naturalistico.
Alla categoria dei disastri nominati di tipo naturalistico e a carattere dinamico appartengono l’incendio (art. 423 c.p.) l’incendio boschivo (art. 423 bis c.p.), il danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.), l’inondazione, la frana e la valanga (art. 426 c.p.), il danneggiamento seguito da inondazione frana o valanga (art. 427 c.p.).
Si tratta – come segnalato – di fatti distruttivi di vaste proporzioni generati dall’innesco di forze naturali la cui potenza offensiva si diffonde progressivamente (carattere dinamico).
L’incendio – figura tradizionalmente paradigmatica dei disastri naturali (Ardizzone, S., Incendio, in Dig. pen., VI, Torino, 1992, 320; Corbetta, S., Commento all’art. 423 c.p., in Dolcini, E.-Gatta, G.L., a cura di, Codice penale commentato, cit., 1818) – è punito sia quando ha ad oggetto una cosa altrui (art. 423, co.1, c.p.), sia se l’appiccamento delle fiamme avvenga su una cosa propria; in tal ultimo caso è però necessario che dal fatto derivi il pericolo per la pubblica incolumità (art. 423 cpv. c.p.).
Il primo comma dell’art. 423 c.p. – incendio di cosa altrui – prevede dunque un reato di pericolo astratto; al secondo comma della medesima disposizione – incendio di cosa propria –, si punisce invece un illecito di pericolo concreto che richiede l’accertamento dell’avvenuta verificazione dell’evento di pericolo a carico dell’incolumità o della vita di un numero indeterminato di persone.
Nell’incendio di cosa altrui, la configurazione in termini di pericolo astratto renderebbe in apparenza superflua la verifica dell’insorgenza a posteriori della situazione di pericolo per la pubblica incolumità. Tuttavia, la dottrina maggioritaria, in accordo con quanto a tal proposito affermato dalla Corte costituzionale proprio in materia di incendio (C. cost., 27.12.1974, n. 286; C. cost., 30.3.1977, n. 58), ritiene che la natura astratta del pericolo non esoneri il giudice dal dovere di valutare l’effettiva conformità del fatto realizzato in concreto con i contrassegni di pericolosità tipizzati dal legislatore nella norma incriminatrice, i quali – nel caso del disastro in esame – risultano per l’appunto implicitamente contenuti nella locuzione “incendio”. Tale lemma, infatti, si riferisce non già a qualunque appiccamento di fiamme su cose altrui, bensì esclusivamente al fuoco di vaste proporzioni avente la tendenza ad espandersi progressivamente, sino a mettere in pericolo la pubblica incolumità (Tassinari, D., I delitti di incendio, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro l’incolumità pubblica e in materia di stupefacenti, VI, Milano, 2010, 446 ss.; Marinucci, G.-Dolcini, E., Corso di diritto penale, III ed., Milano, 2001, 565; Canestrari, S., Reato di pericolo, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1991, 8; Panagia, S., Considerazioni sul delitto di incendio, in Giur. mer., 1972, 13; Spiezia, V., Rilievi sulla nozione giuridica d’incendio e danneggiamento seguito da incendio, in Riv. it., 1938, 551; Gargani, A., Reati, cit., 221 ss.).
Alla stregua dell’interpretazione adeguatrice richiamata, tra l’ipotesi prevista al primo comma dell’art. 423 c.p. e l’incendio di cosa propria di cui al cpv. dello stesso articolo vi sarebbe pertanto una sostanziale identità. In entrambi i casi, infatti, deve trattarsi di un incendio che per le sue caratteristiche fenomeniche comporti in concreto la messa in pericolo per la vita o l’incolumità di un numero indeterminato di individui (Marinucci, G.-Dolcini, E., Corso, cit., 565; Dean, F., L’incolumità pubblica nel diritto penale, Milano, 1971, 70).
Alla classe dei disastri cd. “naturali” appartengono, oltre all’incendio, altresì la frana, l’inondazione e la valanga, previsti all’art. 426 c.p.
La norma incriminatrice punisce chiunque cagioni (con qualunque modalità) tali accadimenti, i cui connotati lesivi, come nel caso dell’incendio, non sono esplicitamente tipizzati dal legislatore ma discendono per interpretazione dalla pregnanza semantica delle locuzioni impiegate.
Così, la frana costituisce la precipitazione dall’alto di masse di materia solida di portata disastrosa; la valanga è rappresentata dal distacco di masse di neve o di ghiaccio e dalla loro precipitazione a valle; l’inondazione è l’allagamento provocato dallo spostamento di masse di acqua che deviano dal loro corso naturale o artificiale.
Analogamente a quanto suggerito in materia di incendio dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale, anche con riguardo alle suddette incriminazioni, occorre preferire un’interpretazione restrittiva della portata applicativa, che va dunque riferita esclusivamente ai fatti realmente pericolosi per la pubblica incolumità (Summerr, K., I reati di disastro naturale, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., diretto da,Trattato di diritto penale. Parte Speciale. I delitti contro l’incolumità pubblica e in materia di stupefacenti, VI, cit., 75).
Il fenomeno franoso preso in considerazione dal legislatore deve dunque presentare le dimensioni di un evento che per gravità e diffusività mette concretamente in pericolo la pubblica incolumità (Cass. pen., 12.12.1989, in Giust. pen., II, 210). Le medesime considerazioni valgono per l’inondazione e la valanga, le quali appunto devono consistere in fenomeni distruttivi di vaste e gravi proporzioni, in grado di offendere la vita e l’incolumità di un numero indefinito di individui.
Alla categoria dei disastri che non discendono dallo scatenamento di fenomeni naturali appartengono quelli che si verificano nell’ambito dei trasporti (naufragio, sommersione o disastro aviatorio – art. 428 c.p.; disastro ferroviario – art. 430 c.p.; danneggiamento seguito da naufragio – art. 429 c.p.; pericolo di disastro ferroviario causato da danneggiamento – art. 431 c.p.) ed il crollo di costruzioni (art. 434, co. 1, c.p.).
È di tutta evidenza come, in ragione delle particolari caratteristiche delle cose danneggiate o deteriorate, tali tipologie di accadimenti siano intrinsecamente corrispondenti ai connotati di diffusività lesiva e di indeterminatezza delle vittime richiesti per la configurazione di un disastro penalmente rilevante. Gli incidenti significativi che coinvolgono mezzi di trasporto a più passeggeri si prestano infatti ontologicamente a offendere un numero elevatissimo di individui (Ardizzone, S., Naufragio, disastro aviatorio, disastro ferroviario, in Dig. disc. pen., VIII, Torino, 1994, 223).
La struttura del fatto tipico di naufragio, sommersione e disastro aviatorio (art. 428 c.p.) varia a seconda che il natante o l’aeromobile siano propri o di proprietà altrui.
Nel caso di aeromobile o mezzo navale di proprietà altrui (art. 428, co. 2, c.p.), si incrimina un pericolo meramente astratto; nel secondo caso invece – cosa di proprietà del soggetto attivo (art. 428, co. 1, c.p.) –, ai fini della configurazione dell’illecito, occorre che si verifichi l’evento di pericolo nei confronti della pubblica incolumità.
Nondimeno, come con riguardo alla fattispecie di incendio, pure in tali ipotesi, dovranno applicarsi i suggerimenti esegetici forniti dalla giurisprudenza costituzionale in materia di pericolo astratto. In specie, bisognerà ex post effettuare un’operazione di concretizzazione del pericolo utile a ricomprendere nello spettro applicativo della norma incriminatrice esclusivamente i fatti che abbiano realmente messo in pericolo la pubblica incolumità (Marinucci G.-Dolcini E., Corso, cit., 416; Parodi Giusino, M., I reati di pericolo tra dogmatica e politica criminale, Milano, 1990, 412; Erra, C., Disastro ferroviario, marittimo, aviatorio, in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, 4; in senso conforme anche, Gargani, A., Reati, cit., 319, 320, il quale evidenzia però come la pregnanza semantica delle nozione impiegata sia tale da ritenere in qualche modo incorporato nella descrizione del fatto tipico il requisito della probabilità della presenza di potenziali vittime nel raggio di azione del pericolo. Negli stessi termini, Zincani, M., I delitti di disastro tecnologico, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., diretto da, Trattato, cit., 108 e 109. Contra, Parodi Giusino, M., I reati di pericolo, cit., 412, che invece considera non punibile il fatto, qualora risulti ex post l’assenza di potenziali vittime in prossimità dell’evento; come nel caso di chi affondi una nave al largo, dopo averla fatta evacuare).
L’art. 430 c.p. punisce chiunque cagioni (con qualunque modalità) un disastro ferroviario.
Il dovere di interpretazione conforme al principio di offensività impone di considerare rientranti nell’ambito dell’incriminazione soltanto gli incidenti ferroviari di non comune gravità, caratterizzati da danni tali da porre in pericolo la pubblica incolumità (Riondato, S., Commento all’art. 430 c.p., in Ronco, M.-Romano, B., a cura di, Codice, cit., 2180; Battaglini, E.-Bruno, B., Incolumità pubblica (delitti contro la), in NSS. D. I., VIII, Torino, 1962, 550; Erra, C., op. ult. cit., 7; Corbetta, S., Commento all’art. 430 c.p., in Dolcini, E.-Gatta, G.L., a cura di, Codice, cit.,1865).
Quanto al livello necessario di concretizzazione del pericolo, alla tesi di chi ritiene indispensabile l’effettiva presenza di persone nel campo di azione dell’incidente ferroviario (Corbetta, S., Delitti, cit., 474 ss.) si contrappone l’opinione che considera invece sufficiente la semplice probabilità di tale presenza (Gargani, A., Reati, cit., 375).
Un’ulteriore ipotesi di disastro nominato prevista dal codice è il crollo di costruzione o di parte di essa (art. 434, co.1, c.p.).
Si tratta di un reato causalmente orientato e in forma libera che punisce ogni fatto diretto a cagionare l’evento distruttivo. Come per le altre forme di disastro, anche per il crollo di costruzioni, la portata applicativa dell’incriminazione va ristretta ai soli casi di disfacimenti e dissesti di edifici o di parti di essi che assumano proporzioni notevoli, ossia ai crolli che per gravità e complessità rivestano i caratteri tipici del “disastro” e siano pertanto in grado di porre in pericolo la vita o l’incolumità di un numero indeterminato di soggetti (Cass. pen., 9.12.2015, n. 4480; Cass. pen., 1.4.2014, n. 18432; Cass. pen., 11.10.2012, n. 46475).
L’art. 434, co.1, c.p. incrimina – accanto al crollo di costruzioni – anche il fatto diretto a cagionare «un altro disastro», ossia un evento diverso da quelli espressamente tipizzati nelle fattispecie precedenti che abbia però i requisiti tipici del disastro, così come ricavabili dalle disposizioni del codice.
Si tratta del cd. “disastro innominato”; fattispecie di chiusura del sistema dei reati contro la pubblica incolumità, destinata ad abbracciare ulteriori ipotesi di disastro che non rientrino nel novero dei disastri cd. “nominati o tipici”, ma che presentino caratteristiche strutturali omogenee rispetto a questi ultimi: accadimenti lesivi di grande e immediata evidenza, connotati da diffusività delle capacità offensive e dall’idoneità concreta a porre in pericolo la vita o l’incolumità di un numero indeterminato di individui (vedi sopra § 2, nonché di recente, Corbetta, S., Il “disastro innominato”: una fattispecie “liquida” in bilico tra vincoli costituzionali ed esigenze repressive, in Criminalia, 2014, 276 e 277).
La nozione di disastro innominato è stata dunque pensata dal legislatore come una fattispecie aperta, a contenuto “elastico”, che si proietta prospetticamente verso il futuro e che è strutturalmente in grado di adattarsi alla molteplicità di fenomeni disastrosi eventualmente disvelati dalla modernità e in alcun modo conosciuti o conoscibili all’epoca della compilazione del codice Rocco (tra gli altri, Brunelli, D., Il disastro populistico, in Criminalia, 2014, 261, 262).
La funzione sussidiaria assegnata a tale clausola dal legislatore del 1930 ha però subito nel tempo pesanti stravolgimenti in sede giudiziaria, ove è prevalsa la prassi di estenderne l’ambito applicativo anche a fenomeni affatto affini a quelli inquadrabili nella locuzione di “altri disastri” di cui all’art. 434, co.1, c.p.
In giurisprudenza, si è infatti assistito ad una progressiva e indiscriminata dilatazione dei contorni della fattispecie di disastro innominato, che è stata strumentalmente attuata al fine di punire ipotesi di disastri moderni, del tutto estranee – per carattere e forme di manifestazione – dalla nozione penalistica di “disastro” (sul tema, tra i molti, Brunelli, D., op. ult. cit., 262 ss.; Corbetta, S., op. ult. cit., 276 ss.; Piergallini, C., Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004, 279 ss.).
L’434, co.1, c.p., pertanto, è via via divenuto una disposizione onnivora e di “trincea”, capace di sbarrare la strada a fatti gravemente lesivi, generati dall’evoluzione dei mezzi tecnologici o dal progresso industriale, ma totalmente sprovvisti dei requisiti tipologici costitutivi del “disastro”.
Basti pensare al largo uso che in un recente passato si è fatto del disastro innominato per sanzionare i cd. “disastri ambientali/sanitari”; accadimenti le cui peculiarità sono in genere ben distanti da quelle proprie della figura tecnica di disastro, così come ricavabile dalla lettura sistematica delle disposizioni del codice penale. Tali fenomeni, infatti, sovente consistono nell’accumulazione di una serie di micro-eventi lesivi di una pluralità di beni giuridici (vita, salute, incolumità individuale, ambiente ecc.), che si susseguono nel tempo e che soltanto in casi eccezionali sfociano nella produzione di quell’unico macro-evento di grave portata e a carattere tendenzialmente istantaneo, il quale è invece requisito indispensabile per la configurazione di un disastro punibile (ex multis, Gargani, A., I reati, cit., 457 ss., 468 ss.; Gargani, A., I molti volti del disastro. Nota introduttiva, in Criminalia, 2014, 251, Gargani, A., Le plurime figure di disastro: modelli e involuzioni, in Cass. pen., 2016, 2705 ss.).
L’operazione esegetica appena segnalata di allargamento dei confini applicativi del disastro innominato ha comportato una manipolazione della norma in commento, che si è spinta ben oltre le meritevoli intenzioni del legislatore di farne una clausola di chiusura del sistema di tutela sino al limite della violazione del divieto di analogia in malam partem.
Al fine di porre un argine a tali derive applicative, è apparso dunque inevitabile che la Corte costituzionale si pronunciasse in merito al sospettato vulnus dei principi penalistici che in esse si annidava. Ne è così derivato un quesito di costituzionalità sull’art. 434 c.p. nella parte in cui prevede la fattispecie di disastro innominato, per contrasto con il principio di determinatezza (sent. 1.8.2008, n. 327, in Giur. cost., 2008, 3529 con nota di F. Giunta).
Pur respingendo la questione di legittimità, i giudici di Palazzo della Consulta non hanno tuttavia deluso le aspettative di quanti speravano in una decisione che censurasse la prassi di applicare la norma “incriminata” ai fatti di disastro ambientale. Nelle motivazioni infatti, la sentenza ha stigmatizzato come illegittima l’interpretazione giurisprudenziale estensiva della disposizione impugnata, evidenziandone l’inadeguatezza a sanzionare le più gravi forme di offesa all’ambiente; sia quando queste non risultino offensive della pubblica incolumità, sia quando ciò accada – perché all’offesa al bene ambiente si affianca la messa in pericolo della vita o dell’incolumità di un numero indeterminato di individui –, ma senza che si siano in concreto configurati i caratteri tipologici del disastro penalmente rilevante (tendenziale istantaneità, diffusività del pericolo, vaste proporzioni).
Con la l. 22.5.2015, n. 68, il legislatore penale ha introdotto un’apposita fattispecie incriminatrice del disastro ambientale (art. 452 quater c.p.), ponendo così fine alla deprecabile prassi di ricorrere al disastro innominato per colpire le più gravi forme di inquinamento.
La nuova disposizione codicistica punisce un reato causalmente orientato, la cui condotta deve realizzarsi in assenza di provvedimento autorizzativo o, più in generale, in violazione di disposizioni normative del settore ambientale o di altri settori (in tal senso Ruga Riva, C., I nuovi ecoreati, Torino, 2015, 29 ss.; Siracusa, L., La legge 22 maggio 2015, n. 68 sugli “ecodelitti”. Una svolta “quasi epocale” per il diritto penale dell’ambiente, in Dir. pen. cont., 2015, 208-209; contra, tra gli altri, Ramacci, L., Prime osservazioni sull’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel codice penale e le altre disposizioni della legge 22 maggio 2015 n. 68, in www.lexambiente.it , 8.6.2015; Santoloci, M.-Vattani, V., Il termine “abusivamente” nel nuovo delitto di disastro ambientale, in www.dirittoambiente.it , 1.6.2015; Miriello, A., Disastro ambientale, in Cadoppi, A.-Canestrari, S.-Manna, A.-Papa, M., diretto da, Trattato di diritto penale. Parte generale e speciale. Riforma 2008-2015, Milano, 2015, 1034 ss. che invece intendono l’avverbio “abusivamente” come riferito soltanto all’assenza di provvedimento autorizzativo o alla violazione delle prescrizioni in esso contenute).
L’evento lesivo cagionato assume alternativamente un triplice volto: 1) alterazione irreversibile di un ecosistema; 2) alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile soltanto con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Senza dubbio la descrizione dei primi due tipi di evento (alterazione irreversibile di un ecosistema; alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti troppo onerosa e bisognosa di interventi eccezionali) si mostra viziata da censurabile vaghezza, considerato che è evidente la difficoltà di attribuire un significato esatto alle nozioni in essa impiegate (alterazione, ecosistema, equilibrio dell’ecosistema ecc.).
Nondimeno, i primi commentatori della disposizione hanno suggerito interpretazioni adeguatrici, in grado di controbilanciarne la potenziale indeterminatezza (Siracusa, L., La legge, cit., 209 ss.; Ruga Riva, C., I nuovi, cit. 31 ss.; Ruga Riva, C., Commento all’art. 452 quater c.p., in Dolcini, E.-Gatta, G.L., a cura di, Codice penale commentato, cit., 2122 ss.).
Si è cosi proposto di leggere il concetto di alterazione alla luce del tipo evento punito dalla meno grave fattispecie di inquinamento ambientale (art. 452 bis c.p.), e cioè di considerare l’alterazione del disastro ambientale come una compromissione o un deterioramento dell’ambiente analoghi a quelli di cui all’art. 452 bis c.p., ma con caratteristiche di irreversibilità.
In tale ottica di compensazione del contenuto indefinito di alcuni elementi costitutivi della fattispecie, si è inoltre suggerito di intendere il termine “ecosistema” come “microecosistema” direttamente afferente (ossia, prossimo) alla sfera di incidenza della condotta punita, escludendo il riferimento al troppo vasto concetto di ecosistema globale.
Maggiori difficoltà si sono invece incontrate con riguardo alla descrizione del terzo tipo di evento del disastro ambientale, vale a dire l’offesa alla pubblica incolumità. Qui, la cifra di vaghezza sarebbe ad opinione di alcuni del tutto insuperabile, tenuto conto che la locuzione “offesa” alla pubblica incolumità appare: a) da un lato, tecnicamente errata, considerato che la pubblica incolumità è offendibile soltanto attraverso il pericolo; b) dall’altro lato, del tutto sganciata da una precedente offesa all’ambiente (per tutti, Masera, L., La riforma del diritto penale dell’ambiente, in Costituzionalismo.it, fasc. 3, 2015, 220; Bell, A.-Valsecchi, A., Il nuovo delitto di disastro ambientale: una norma difficilmente avrebbe potuto essere scritta peggio, in Dir. pen. cont., fasc. 2, 2015, 14.).
Come con riguardo alle altre due tipologie di evento, anche nei confronti dell’evento in questione, vi è tuttavia chi propone aggiustamenti interpretativi.
Cosicché, viene considerato implicito il dato che l’offesa alla pubblica incolumità rilevi esclusivamente come progressione lesiva di una precedente offesa all’ambiente e che la locuzione “offesa” alla pubblica incolumità” sia sinonimo di “messa in pericolo” (Ruga Riva, C., Commento, cit., 2123, 2124; Siracusa, L., La legge, cit., 210, 211). Inoltre, l’espressione qualificante l’offesa stessa «in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione», a sua volta andrebbe intesa come esclusivamente riferita alle dimensioni lesive della compromissione ambientale da cui è scaturita anche la messa in pericolo della pubblica incolumità.
Di gran lunga più complesso risulta invece il tentativo di attribuire una certa coerenza sistematica all’ulteriore elemento qualificante dell’evento – «il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Si tratta di un requisito senza dubbio fuorviante, che sembra rinviare a singoli accadimenti di morte o lesione dell’incolumità individuale, accertati in concreto; accadimenti i quali però sono in genere ontologicamente incompatibili (vedi retro) con la struttura del pericolo alla pubblica incolumità (v. infra, § 1).
Infine, alla suddetta discordanza logico/strutturale, si aggiunge il fatto che il richiamo alla portata numerica delle vittime rischia di oscurare il connotato di indeterminatezza (quantitativa e qualitativa) delle persone esposte al pericolo, nonostante tale requisito sia indefettibilmente caratterizzante la stessa nozione di “pubblica incolumità” (su questi temi, Siracusa, L., La legge, cit., 211-212).
Artt. 423, 423 bis, 424, 425, 426, 427, 428, 429, 430, 431, 434, 452 quater c.p.; l. 22.5.2015, n. 68 (Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente).
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