Disastri
Nel linguaggio quotidiano la parola 'emergenza' indica generalmente una situazione subitanea e imprevista che rende necessaria un'azione immediata. Negli ultimi quattro decenni gli studiosi della società, partendo dagli usi comuni della parola, hanno mostrato sempre più spesso la tendenza a concepire l'emergenza come un aspetto della situazione sociale provocata da disastri o catastrofi di origine naturale o tecnologica. In effetti, il lavoro teorico e la ricerca empirica sugli aspetti sociali dei disastri equivalgono in misura considerevole all'indagine e all'analisi delle emergenze proprie delle scienze sociali. In realtà, sembra che la prevalenza nelle varie lingue di uno dei tre termini - 'disastro', 'catastrofe' o 'emergenza' - dipenda solo da una preferenza d'uso: per esempio, gli studiosi italiani di scienze sociali hanno preferito il termine 'emergenza', mentre gli studiosi americani hanno usato generalmente la parola 'disastro', ma i fenomeni presi in esame sono più o meno gli stessi in entrambi i casi. Comunque, poiché nella maggior parte della letteratura scientifica sull'argomento si usa 'disastro' anziché 'emergenza' o 'catastrofe', nel corso di questo articolo useremo principalmente, anche se non esclusivamente, il primo termine. Le ragioni di questa scelta, sulla quale non tutti concordano, sono in parte dovute al fatto che l'indagine scientifica in questo settore non ha più di quarant'anni, e fino a poco tempo fa era condotta prevalentemente negli Stati Uniti.
Pertanto, per prima cosa descriveremo in linea generale lo sviluppo storico-sociale di questo settore di studi. Quindi saranno discusse le diverse definizioni proposte per il termine chiave, 'disastro', a cui farà seguito una rassegna dei principali tentativi di codificazione compiuti nell'indagine teorica fino a oggi. Verranno poi riassunti i principali risultati della ricerca empirica e concluderemo con una breve considerazione sull'applicabilità dei risultati a tutte le società e con una indicazione degli studi necessari per il futuro.
Il primo studio empirico, compiuto negli Stati Uniti come dissertazione di dottorato in sociologia alla Columbia University (v. Prince, 1920), prendeva in esame i cambiamenti sociali che la grande esplosione di una nave nel porto di Halifax, in Canada, aveva prodotto nella comunità. Tuttavia, fino agli anni cinquanta, non venne effettuata quasi nessun'altra ricerca né sul piano teorico né su quello empirico. In quel periodo in America i militari dettero inizio a ricerche sui disastri occorsi in tempo di pace, con l'intento di estrapolare i risultati alle emergenze causate da un eventuale primo attacco militare contro il continente americano e la popolazione civile. Le ricerche furono svolte in molte università, ma la più importante fu realizzata dal National Opinion Research Center (NORC) all'Università di Chicago tra il 1950 e il 1954 (v. Marks e altri, 1954).
Alla fine degli anni cinquanta i militari smisero di finanziare gli studi sui disastri, e furono sostituiti da organismi civili che fornirono all'Accademia Nazionale delle Scienze americana il supporto necessario a intraprendere studi di psicologia sociale sulle emergenze di massa. Tali ricerche documentarono empiricamente che molte credenze ampiamente diffuse intorno al comportamento umano in situazioni di massima emergenza, come l'idea che le vittime si lascino prendere dal panico, si diano al saccheggio o rimangano passive, erano false. Al contrario, si poté mostrare che coloro che sopravvivono generalmente mantengono un notevole autocontrollo, sono altruisti e molto attivi durante l'emergenza. Vi sono problemi, ma essi concernono, per esempio, la tendenza a trascurare i segnali di pericolo assimilandoli alla situazione di normalità, la riluttanza di una famiglia a evacuare se non sono presenti tutti i suoi membri, la convergenza massiccia di gente, equipaggiamento e mezzi di comunicazione sul luogo dell'emergenza.
Molti aspetti del lavoro pionieristico intrapreso in particolare al NORC vennero in gran parte ripresi dalla successiva ricerca condotta negli Stati Uniti. La grande maggioranza dei primi risultati fu realizzata da sociologi, una caratteristica che si perpetua fino ai nostri giorni. Nel periodo iniziale la ricerca fu svolta generalmente inviando sul campo, durante il periodo di emergenza in occasione di disastri, gruppi di operatori addestrati; oggi lo studio dei disastri è ancora al primo posto nelle ricerche 'di prima linea' e a questo scopo vengono tenute pronte squadre addestrate in grado di intervenire immediatamente quando si verifica o è paventata un'emergenza. Nelle prime ricerche, inoltre, i dati erano raccolti principalmente tramite una metodologia di ricerca qualitativa. Attualmente l'uso dell'intervista aperta, l'osservazione partecipante sistematica e la raccolta di documentazione su vasta scala restano le tecniche maggiormente usate da tutti i ricercatori delle emergenze di massa (v. Quarantelli, Research findings..., 1987).
In seguito all'interruzione degli studi dell'Accademia delle Scienze, nel 1961, i sociologi fondarono nel 1963 il Disaster Research Center (DRC), che assunse come punto di riferimento della propria ricerca la preparazione di organizzazioni e comunità così da fronteggiare le situazioni di emergenza di massa. Nell'Università del Delaware, a partire dal 1985, il DRC ha svolto ricerche su più di 520 situazioni di questo tipo (per la maggior parte disastri di origine naturale e tecnologica, ma anche alcuni casi di disordini civili), molte anche al di fuori degli Stati Uniti. Il DRC ha costituito inoltre la prima biblioteca specializzata sul problema dei disastri, che è ora la più grande del mondo, ha creato una rete interattiva mettendo in collegamento mediante computer i ricercatori attivi in questo campo e pubblica una collana che conta ora più di 350 titoli.
Gli anni settanta e i primi anni ottanta portarono negli Stati Uniti un aumento sostanziale degli studi sull'emergenza di massa e i disastri grazie, almeno in parte, all'istituzione di nuovi centri accanto al DRC, quale il Natural Hazards Research and Application Information Center nell'Università del Colorado, formato principalmente da geografi. La sua funzione principale rimane quella di accrescere l'interazione fra i ricercatori delle diverse discipline nel campo delle calamità e gli utenti delle ricerche, funzione realizzata tramite gruppi di lavoro, la pubblicazione di una collana e di un bollettino diffuso in oltre settemila copie nel mondo, e fornendo sostegno finanziario per studi sul campo, di dimensione limitata, condotti durante lo stato di emergenza. Nell'ultimo decennio sono stati istituiti un ufficio per lo studio delle calamità presso la Arizona State University, un laboratorio per la valutazione dei rischi alla Colorado State University, un centro per la riduzione del rischio e la ricostruzione alla Texas A & M University e, visto l'aumento di interesse nei confronti delle emergenze chimiche e nucleari, un istituto per le crisi industriali presso la New York University. Inoltre, lo studio dell'emergenza e dei disastri è stato istituzionalizzato negli istituti di istruzione superiore americani e anche in alcune istituzioni non accademiche. Alcune università offrono programmi di addestramento e regolari corsi di studio con la possibilità di ottenere un diploma o una laurea, mentre il governo federale ha un proprio programma educativo e propri centri per l'insegnamento della pianificazione dell'emergenza. Tali centri e programmi riuniscono non soltanto sociologi, ma anche geografi, esperti di scienza politica, psicologi, antropologi, nonché medici orientati allo studio del comportamento e amministratori pubblici, che espongono regolarmente il loro lavoro ai convegni nazionali e regionali delle loro associazioni professionali.
Mentre l'attività del DRC si è sempre esplicata nell'ambito dei disastri di origine sia naturale che tecnologica, i primi lavori compiuti altrove nel corso degli anni settanta si sono concentrati principalmente sulle calamità naturali, in particolare sul periodo dell'emergenza e, in misura minore, sulla predisposizione dei mezzi per affrontarla. Tra i problemi di comportamento individuale studiati in modo più approfondito vi sono state le reazioni agli allarmi, i luoghi comuni circa il comportamento in caso di disastro, il comportamento nell'evacuazione e le conseguenze dei disastri sulla salute mentale dei sopravvissuti. A livello di gruppo molto lavoro è stato svolto su come le organizzazioni si adattino in modo differenziato alle emergenze, sulle caratteristiche dei gruppi informali che si creano, la relazione tra pianificazione, risposta organizzativa e direzione delle emergenze di massa, i problemi inerenti alla mobilitazione e alle comunicazioni in tali occasioni e il coordinamento della comunità sulla base delle risposte fornite dalle diverse organizzazioni.
Comunque, alla fine degli anni settanta e nel corso degli anni ottanta la ricerca si è ampliata in due direzioni principali: da una parte lo studio dei rischi di natura tecnologica - impatti causati da produzione e trasporto di sostanze chimiche pericolose, incidenti negli impianti nucleari, smaltimento dei rifiuti pericolosi e incendi nei grattacieli; dall'altra sono state prese in considerazione, oltre alla preparazione e alle risposte all'emergenza, anche le misure atte a prevenire e a ridurre il rischio dei possibili danni, e i problemi posti dalla fase successiva all'evento. Per esempio, il DRC ha condotto ampi studi sui problemi sociocomportamentali nella predisposizione degli interventi e nella gestione di gravi emergenze provocate da sostanze chimiche; altri ricercatori si sono dedicati agli aspetti sociali del risanamento dopo l'inquinamento da rifiuti tossici di Love Canal e in situazioni simili, ed è ancora molto forte l'impegno degli scienziati nello studio dell'incidente nucleare di Three Mile Island. In effetti, nell'ultimo decennio, anche i ricercatori interessati alla valutazione e al controllo del rischio sono stati coinvolti nel settore, in seguito alle loro analisi relative al modo in cui insorgono le minacce di origine tecnologica o causate dall'uomo; essi hanno cercato di esaminare criticamente il modo in cui vengono raggiunte le decisioni circa la sicurezza relativa degli impianti nucleari, degli additivi alimentari pericolosi, delle località ove si smaltiscono rifiuti tossici, e situazioni simili che possono generare emergenze gravi e diffuse. Mentre la maggior parte dei ricercatori del settore ritiene che i disastri di origine tecnologica e naturale possano essere studiati nello stesso modo e con gli stessi criteri, altri pensano che vi siano elementi causali specifici che impediscono quel tipo di approccio generico alle emergenze di massa utilizzato di preferenza dal governo degli Stati Uniti e dai più impegnati scienziati sociali.
Negli ultimi due decenni il notevole incremento dei ricercatori e degli studi in America è stato affiancato da un eguale sviluppo nelle altre zone del mondo. Fino alla fine degli anni sessanta solo in Giappone, Canada e Francia erano stati effettuati alcuni studi sistematici, ma nel decennio successivo si diffusero su larga scala. I sociologi hanno avuto un ruolo preminente nello sviluppo degli studi e dei centri di ricerca in Svezia, Germania Occidentale e Italia (soprattutto all'Istituto di sociologia internazionale di Gorizia), e hanno spianato la via in Grecia, Nuova Zelanda e Messico, e più recentemente in Cina e Unione Sovietica. In altri paesi, come Argentina, Belgio, Canada, Francia, Gran Bretagna, India, Giappone e Olanda, anche altri studiosi dei fenomeni sociali, dagli psicologi agli esperti nelle comunicazioni di massa e agli scienziati della politica, si sono dedicati a questo argomento. Una conseguenza della fioritura degli studi è stata la loro diffusione a livello internazionale. Si sono organizzati, per esempio, seminari di ricerca comuni tra Americani e Giapponesi. È stato portato a termine uno studio collettivo nell'ambito dello stesso progetto di ricerca sul campo negli Stati Uniti e in Giappone, e un altro è stato avviato con la partecipazione di ricercatori cinesi e americani. Non è inconsueto oggi che ricerche sul campo vengano condotte fuori del proprio paese; per esempio, Tedeschi e Americani hanno studiato i terremoti in Italia, i Canadesi si sono occupati dei cicloni in Australia; alcuni scienziati francesi hanno compiuto ricerche sulle esplosioni in Messico, e altri giapponesi hanno studiato i terremoti negli Stati Uniti, in Messico e in Cile. Inoltre, la creazione nel 1982 del Research Committee on Disasters nell'ambito della International Sociological Association (anche se per il 40% i membri non sono sociologi) ha istituzionalizzato una rete di ricercatori presenti in tutto il mondo. Tale comitato ha membri in più di trenta paesi, pubblica un suo periodico, l' "International journal of mass emergencies and disasters", e ha un bollettino, "Unscheduled events". Ci sono inoltre altre quattro riviste specializzate che sono punti di riferimento fondamentali per gli scienziati sociali, e cioè "Disaster management" in Inghilterra, "Disasters", "Industrial crisis quarterly" e "Disaster management" in India, e c'è anche, infine, un bollettino mensile specializzato, lo "Hazard monthly".
Sin dall'inizio del lavoro sulle emergenze di massa si è tentato di pervenire a una chiarificazione concettuale e, sebbene non si sia ancora raggiunto un accordo generale, alcune idee hanno ottenuto un più ampio consenso tra gli studiosi. Le prime definizioni proposte da un lato identificavano i disastri con caratteristiche proprie di agenti fisici e dall'altro distinguevano tra ciò che era considerato un 'atto di Dio' e le azioni umane. Così, un movimento della terra di un certo tipo era chiamato 'terremoto', la trasformazione - causata da un errore umano - di un liquido inerte in un gas che si espande 'esplosione chimica'. In altri casi venivano posti in evidenza gli effetti fisici dell'agente, cioè i danni arrecati alla vita e ai beni materiali da eruzioni vulcaniche, inondazioni, incendi o gas velenosi. L'idea implicita era che, in assenza di agenti fisici ed effetti materiali, non vi erano emergenze e disastri.
Ma già le prime teorie avanzate dagli studiosi della società sottolineavano gli aspetti sociali piuttosto che quelli fisici, cioè lo sconvolgimento prodotto dai disastri nella vita sociale. Al tempo stesso fu notato che la percezione della minaccia di un impatto poteva sconvolgere la società tanto quanto un impatto reale. Per esempio, l'evacuazione che segue a un allarme infondato per il crollo di una diga non è molto diversa da quella che si verifica in occasione di un crollo reale. Formulazioni ancora più recenti vedono i disastri come crisi dei sistemi sociali con effetti socialmente disgreganti. Gli approcci di tipo marxista, portati avanti da ricercatori inglesi e tedeschi, assumono talvolta questo punto di vista (v. Schorr, 1987). Anche altri ricercatori identificano i disastri con situazioni in cui la richiesta di azioni di emergenza supera la capacità di risposta delle organizzazioni. Quest'analisi attinge in misura considerevole ai modelli teorici dello stress psicologico e sociale. Infine, alcune delle teorie più recenti interpretano i disastri come rivelazioni di vulnerabilità sociali latenti. Così, secondo diversi autori italiani (v. Pelanda, 1986) e tedeschi (v. Clausen e Dombrowsky, 1983), il disastro mette in evidenza un punto debole nella struttura o nel sistema sociale.
Tutte queste tesi concordano nell'asserire che un disastro è un fenomeno sociale che deve essere identificato in termini sociali. L'impatto di un agente fisico può esserci o non esserci, ma c'è sempre un qualche tipo di risposta sociale fuori della norma all'emergenza, che riflette la percezione di difficoltà relative all'ordine sociale.
Molti degli studiosi che operano attualmente nel settore, anche se non tutti, accetterebbero probabilmente un concetto di disastro di questo tipo: un evento sociale osservabile nello spazio e nel tempo, in cui certe entità sociali subiscono sconvolgimenti delle loro attività sociali ordinarie come conseguenza della minaccia, reale o presunta, prodotta dalla comparsa relativamente improvvisa di agenti pericolosi di origine naturale o tecnologica, i quali non possono essere pienamente e direttamente controllati tramite la conoscenza sociale esistente. Così, un'inondazione o un'esplosione chimica - come potrebbero essere intese comunemente - non sono considerate un disastro ai fini dell'indagine se non presentano tutte le caratteristiche indicate. Generalmente l'entità sociale di livello minimo riconosciuta adeguata perché si possa parlare di disastro è una comunità.
Una questione ampiamente dibattuta a livello teorico è se gli eventi sociali che implicano un'attività umana deliberatamente rivolta a produrre sconvolgimenti sociali, com'è il caso di rivolte, disordini civili, attacchi terroristici, manomissione di prodotti o sabotaggio, guerre, debbano essere considerati come disastri. Coloro che sono contrari ritengono che le situazioni create da un conflitto sociale siano sostanzialmente diverse dalle situazioni che si producono a seguito di disastri causati da agenti di origine naturale e tecnologica e che determinano una maggiore solidarietà; in questo caso, infatti, non v'è alcun tentativo deliberato di produrre effetti negativi, com'è invece vero nel primo caso. La tesi sostenuta è che le condizioni che causano conflitti sociali e le caratteristiche che questi mostrano sono essenzialmente differenti dalle condizioni e dalle caratteristiche presenti in ciò che gli scienziati sociali chiamano disastri (v. Quarantelli, What should we study?..., 1987). C'è comunque un accordo generale sul fatto che sia i conflitti sociali che le emergenze che determinano un certo tipo di solidarietà siano parti della categoria più generale che comprende le situazioni di stress collettivo (v. Barton, 1970).
Sono stati fatti importanti sforzi per raggruppare in modo organico i dati che la ricerca ha reso disponibili. La nostra esposizione dei principali sforzi in tal senso non prenderà peraltro in considerazione i tentativi di codificare le conoscenze acquisite intorno a settori specifici, come i sistemi d'allarme e il comportamento, la prestazione di servizi medici d'emergenza, il ruolo dei gruppi improvvisati, le attività di ricerca e soccorso, il comportamento di panico; molte di queste analisi specializzate sono state compiute al DRC.
Si deve a C. Fritz (v., 1961) il primo tentativo di codificazione descrittiva delle conoscenze relative agli aspetti sociali del comportamento in caso di disastro. A suo parere, gli studi condotti fino a quell'epoca indicavano che molti luoghi comuni intorno al comportamento degli individui nelle emergenze di massa non trovavano riscontro nei risultati della ricerca. A. Barton (v., 1970) ha esaminato una serie di problemi, dalle motivazioni individuali al rapporto tra i comportamenti delle persone e quelli delle organizzazioni, agli elementi che giocano un ruolo nella coordinazione fra le organizzazioni durante i periodi cruciali. Facendo uso di varie fonti, per esempio, egli propose un modello articolato in 71 proposizioni per spiegare e prevedere la nascita della 'comunità terapeutica' o del sistema sociale di supporto capace di offrire un'ampia serie di benefici ai sopravvissuti. Molte delle ipotesi avanzate in questo volume in relazione al comportamento durante le emergenze di massa, dalle possibilità di conflitto di ruoli ai fattori che influenzano la mobilitazione organizzativa, non sono state ancora sottoposte a verifica sperimentale.
Un altro tentativo di codificazione teorica è quello effettuato da R. Dynes (v., 1974), in cui viene presentato soprattutto un panorama sistematico di strutture organizzative, processi e problemi nei periodi di emergenza che precedono e seguono l'impatto. Rifacendosi a idee precedentemente esposte da E. L. Quarantelli (v., 1966), egli suggerisce che i problemi della mobilitazione organizzativa e quelli che nascono quando si ha a che fare con un ambiente sociale incerto, quale può essere quello che si determina in seguito a un disastro, possono essere compresi tenendo presente che i gruppi coinvolti nella risposta all'emergenza sono di fatto quattro, e cioè le organizzazioni consolidate, quelle in espansione, quelle in ampliamento e quelle appena sorte. Vengono avanzate ipotesi su come la percezione della legittimità delle organizzazioni influenzi le loro relazioni reciproche, e su come la risposta complessiva della comunità al disastro risulti dalla creazione e coordinazione di gruppi che affrontino l'emergenza di massa con compiti specifici.
Un'altra codificazione generale fu tentata da D. Mileti, T. Drabek e E. Haas (v., 1975). Valendosi di 191 studi pubblicati, essi riunirono in una 'matrice di conoscenza' un totale di 1.399 risultanze sperimentali, classificandole per livello di analisi e durata dell'emergenza. Questo produsse un compendio molto dettagliato dei dati circa il comportamento rispetto al disastro a livello individuale, di gruppo, di organizzazione, di comunità e della società. Gli autori decisero però di non cercare di trarre da questi dati una teoria, né di unificare concettualmente la molteplicità di dati che presentavano. Questi e altri fra i primi tentativi di codificazione (v. Quarantelli e Dynes, 1977) cercarono di sostituire alcuni luoghi comuni sul comportamento individuale nelle emergenze di massa con risultati sperimentali. Tali tentativi sottolinearono inoltre che, nell'affrontare i disastri, solitamente le organizzazioni incontravano tali difficoltà nel coordinare il flusso delle informazioni da costituire un problema maggiore che non le vittime individuali. Veniva anche rilevato che buona parte della risposta organizzata, al culmine del periodo dell'emergenza, possiede una caratteristica di marcata imprevedibilità. Inoltre, molti di questi tentativi di codificazione si sforzavano di collegare l'area nascente degli studi sui disastri con il lessico e le categorie concettuali della sociologia generale - un dato non sorprendente, visto che i primi teorici erano sociologi; dieci anni dopo Dynes e collaboratori (v., 1987) si dedicarono a questo compito in modo esplicito.
Il tentativo più recente di codificazione generale è stato compiuto nel 1986 da T. Drabek. Egli ha sottoposto ad un esame sistematico non solo la letteratura più significativa in lingua inglese, ma anche parte della ricerca compiuta in Giappone e in Italia. Drabek sintetizza le conoscenze attuali intorno a 153 materie, ricavate dall'esame di circa mille pubblicazioni, in 751 conclusioni principali e 1.250 risultati specifici. Fondamentalmente Drabek mostra che la conoscenza attuale nell'ambito della scienza sociale è molto diseguale, ma che c'è stata una sostanziale crescita, anche rispetto a un decennio fa, delle conoscenze intorno ai disastri e al comportamento nell'emergenza a differenti livelli sociali.
I tentativi di codificare i risultati generali e specifici della ricerca sono stati ostacolati dal fatto che i dati sono di qualità assai variabile e che solo raramente si è cercato di riprodurli. Molti 'risultati' sono spesso ottenuti sulla base di un numero relativamente piccolo di ricerche, rendendo difficili le generalizzazioni. È comunque incoraggiante il fatto che studi compiuti indipendentemente in Giappone, Italia, Australia e altrove hanno confermato in misura considerevole, anche se non sempre, una serie di conclusioni tratte nelle prime ricerche americane e canadesi, quali per esempio: l'assenza di comportamenti patologici e antisociali nelle vittime dei disastri, la convergenza in massa su qualunque luogo di disastro, il fatto che siano quasi sempre intere famiglie o unità abitative a evacuare, piuttosto che individui isolati, e che le prime ricerche e salvataggi siano operati soprattutto dai sopravvissuti, l'assenza di una relazione diretta tra la pianificazione dell'intervento e l'organizzazione di una situazione di emergenza, il fatto che gruppi informali improvvisati giochino quasi sempre un ruolo importante nelle emergenze di massa, infine la probabilità di conflitti tra gruppi operativi nella comunità colpita dal disastro.
Sono stati compiuti studi a vari livelli dell'attività sociale, dagli individui ai gruppi, alle organizzazioni, alle comunità, alle società e anche a livello internazionale. Come nota tuttavia Drabek (v., 1986), c'è una differenza a seconda della fase temporale del disastro presa in considerazione. Così, la ricerca centrata sulla prima fase dell'emergenza o della reazione ha studiato principalmente individui, comunità e organizzazioni. Il lavoro sulla fase della ripresa, sebbene distribuito in maniera più uniforme, si è concentrato soprattutto sulle comunità. Gli studi sul livello di preparazione all'intervento sono stati condotti soprattutto sulle comunità, società, organizzazioni. Infine, le società e gli individui sono stati il principale oggetto di ricerca per quanto riguarda gli aspetti della prevenzione e dell'attenuazione degli effetti dei disastri.
Partendo da questa letteratura ricca ma diseguale discuteremo selettivamente alcuni temi generali, basati su un'ampia messe di dati empirici (in particolare, v. Barton, 1970; v. Dynes e altri, 1981; v. Drabek, 1986; v. Quarantelli, 1988; v. Quarantelli e Pelanda, 1989). A scopo euristico esamineremo quello che è possibile dire sul comportamento degli individui, delle organizzazioni e delle comunità nella fase che precede l'impatto, nel periodo dell'emergenza e nella fase successiva.
È molto difficile ottenere che gli individui siano interessati o preoccupati dal problema dei disastri prima che questi accadano. La grande maggioranza delle persone è orientata verso il 'qui e ora'. Pertanto, l'idea di un possibile disastro futuro in cui si possa risultare direttamente coinvolti è vista come tanto remota, improbabile e incerta, da non essere recepita a livello cosciente o, se lo è, da essere in genere rapidamente respinta. L'uomo comune si preoccupa dei problemi specifici della vita quotidiana, e non di probabilità statistiche remote, astratte e infrequenti. Naturalmente il fatto che i disastri siano effettivamente un'eventualità remota per gli attori individuali rinforza decisamente questo orientamento; in tal senso, il comportamento è correttamente basato su un calcolo di buon senso. Inoltre, anche quando in talune località si riscontra la fondatezza di una potenziale minaccia (per esempio perché si vive vicino a una zona sismica o a un luogo dove si scaricano rifiuti pericolosi), i cittadini considerano la pianificazione relativa ai disastri come un problema che riguarda fondamentalmente il governo, la cui responsabilità tende a essere vista più in termini morali che legali. Il fatto che pochissime persone prendano misure precauzionali di qualsiasi tipo nelle loro abitazioni o nei luoghi di lavoro dà un'indicazione abbastanza chiara del generale atteggiamento passivo e del fatto che la gestione dell'emergenza è considerata compito degli enti pubblici.
Ci sono due notevoli eccezioni a quanto abbiamo appena detto. In primo luogo, in località continuamente sottoposte al rischio di disastri o impatti improvvisi può svilupparsi una cultura relativa a un determinato tipo di disastro (per esempio per le piene dei fiumi, o per gli uragani). In tali condizioni molti residenti non soltanto saranno consapevoli del pericolo, ma avranno preso misure adeguate (per esempio costruendo un rifugio contro il tornado) e/o sapranno in anticipo che cosa bisogna fare e non fare (per esempio, non precipitarsi fuori dalla porta durante un terremoto). Naturalmente, anche in un caso di questo tipo, non tutti gli abitanti saranno in grado di assumere il comportamento appropriato. Ciò che è determinante non è l'esperienza come tale, ma il fatto che gli individui posseggano una cultura relativa a uno specifico disastro che può colpirli è importante quanto conoscere altri aspetti essenziali della propria vita. In realtà esperienze anche ripetute di un certo disastro non generano automaticamente una cultura specifica tra la popolazione della zona interessata; sono necessarie altre condizioni facilitanti, come avere la percezione di ciò che potrebbe essere fatto rispetto alla minaccia.
C'è poi il fenomeno di gruppi locali di cittadini che si organizzano per affrontare la minaccia potenziale o l'impatto effettivo di un disastro, un fenomeno che talvolta riflette interessi più generali, come nel caso dei movimenti ambientalisti e antinucleari. Se alcuni cittadini individuano una minaccia seria, possibile e probabile nelle loro immediate vicinanze, e se giudicano che le autorità locali stiano illegittimamente trascurando le loro responsabilità rispetto al pericolo, è possibile allora che si formino tali gruppi di cittadini, di cui solo una piccola frazione ha pienamente successo. Spesso cercano di fare pressione sulle autorità di governo perché prendano misure contro l'agente specifico del disastro (sia questo una località di smaltimento di rifiuti pericolosi o una pianura alluvionale); talvolta questo implica il tentativo di far approvare leggi, ordinanze o regolamenti per prevenire la minaccia o essere preparati a essa. Questi gruppi informali possono anche cercare di preparare la popolazione locale al possibile disastro causato dal particolare pericolo cui è esposta, sebbene non sia facile coinvolgere le persone, tranne che nel caso di culture specificamente sensibili al disastro. Ma nella misura in cui tali gruppi hanno successo - e taluni a volte vi riescono, in aree ristrette - la consapevolezza e la preparazione rispetto a disastri specifici possono aumentare in modo sostanziale.
Quando si verificano i disastri, gli individui reagiscono molto bene. Una delle caratteristiche più notevoli delle persone coinvolte nei disastri è che esse cercano attivamente informazioni rilevanti e cercano di fare ciò che possono per fronteggiare le esigenze poste dall'emergenza. La minaccia di un disastro incombente o il suo impatto effettivo non paralizzano coloro che ne sono colpiti. Di fatto, quanto più è sentita la minaccia, ovvero quanto maggiori sono i problemi e le minacce alla vita conseguenti a un impatto, tanto più attivamente le persone reagiranno.
Durante un disastro improvviso, e nel periodo immediatamente successivo, gli individui tendono a considerare l'evento come centrato nelle loro immediate vicinanze, sottostimando perciò l'estensione e la forza distruttiva propria di alcuni tipi di disastri. Questo si riflette in una notevole variabilità del comportamento iniziale delle vittime per quanto riguarda lo svolgimento del loro consueto ruolo sociale come lavoratori, membri della famiglia, amici, funzionari, ecc. A livello di individui e di piccoli gruppi il comportamento è organizzato, efficace e diretto verso lo scopo, sebbene agli osservatori esterni appaia erroneamente caotico, confuso e casuale. Per esempio, la maggior parte dell'opera di ricerca e di salvataggio viene iniziata rapidamente dai sopravvissuti. Generalmente questa azione informale cerca di determinare il luogo e la condizione in cui si trova la maggior parte delle persone nelle vicinanze perlustrate, di individuare i feriti e spesso di trasportarli ove possano ricevere assistenza medica. Simultaneamente altri sopravvissuti cercheranno di verificare se i parenti e gli amici in altre località sono salvi, mentre altri ancora andranno verso luoghi dove reputano ci sia bisogno di loro, e altri intraprenderanno volontariamente una serie di compiti d'emergenza, dall'informale ripulitura delle strade dai detriti alla regolamentazione del traffico, alla fornitura di alloggio, cibo e vestiti ai loro vicini che ne abbiano immediato bisogno. I sopravvissuti si mettono così all'opera molto prima e indipendentemente dalle azioni e direttive dei funzionari, così che tale opera talvolta appare confusa e non mirata verso uno scopo preciso al personale delle organizzazioni incaricate di fronteggiare l'emergenza.
Le vittime non solo agiscono concretamente, ma mostrano anche un comportamento scarsamente deviante. La credenza che i disastri determinino in molte persone la comparsa di un comportamento deviante è assai diffusa e profondamente radicata nella gente, nei funzionari della comunità, nei mass-media, e persino nel personale delle organizzazioni per l'emergenza e nelle vittime stesse dei disastri. Così si presume che i disastri generino il panico e suscitino comportamenti antisociali. Racconti e voci su comportamenti di questo tipo sono pressoché universali dopo un disastro, ma gli esempi spesso o mancano del tutto o, quando si verificano, sono relativamente poco frequenti ed emergono solo in presenza di circostanze particolari, rare nei disastri che coinvolgono le comunità. Tuttavia tali luoghi comuni intorno al comportamento individuale nel caso di un disastro sono importanti, perché influenzano ciò che i cittadini e i funzionari spesso si attendono, e di conseguenza hanno effetto su altri comportamenti (quali la riluttanza a evacuare per la preoccupazione di possibili saccheggi, o il non diffondere allarmi ufficiali temendo che la gente si faccia prendere dal panico).
Le persone che si sentono in grave pericolo proveranno una grande paura, ma neppure questa si trasforma automaticamente in paralisi isterica, fuga selvaggia, o altre azioni disfunzionali - tre fenomeni cui ci si riferisce di frequente, quando è usato il termine 'panico'. La fuga in preda al panico, che rappresenta un ulteriore pericolo per se stessi e/o per gli altri, può verificarsi in alcune situazioni di stress collettivo (come nell'incendio di un albergo o di un teatro), ma perfino episodi isolati di comportamenti di tal genere sono rarissimi nei disastri che coinvolgono le comunità, perché nel contesto tipico di un disastro mancano le condizioni specifiche per la fuga causata dal panico, e cioè uno spazio limitato, un immediato ed elevato rischio personale, la sensazione che sfuggire all'intrappolamento sia ancora possibile, e un senso di isolamento sociale. È invece molto più probabile una convergenza nei luoghi ove possono essere affrontati i compiti posti dall'emergenza. Nei disastri che coinvolgono le comunità prevale decisamente la spinta ad aiutare gli altri piuttosto che la gretta autoconservazione. Soprattutto funzionari e giornalisti inesperti ritengono che i disastri offrano il massimo delle opportunità per l'emergere di comportamenti antisociali. Si suppone e si scrive che i sopravvissuti siano il facile bersaglio di azioni di sciacallaggio e altre forme di attività criminale, che nel periodo dell'emergenza crescano i crimini contro la proprietà, aumentino le azioni di violenza e si diffonda lo sfruttamento. Invece i risultati delle ricerche non offrono quasi nessun appoggio a queste convinzioni. Molti racconti di sciacallaggio circolano normalmente, e quasi tutti ne avranno sentito qualcuno. Ma lo sciacallaggio non è un problema autentico, a volte non si verifica neppure un episodio; anche quando si verifica, i casi sono pochi, concernono generalmente articoli di scarso valore e sono probabilmente commessi da persone esterne alla comunità - talvolta addirittura da membri delle forze di sicurezza incaricati di prevenirli! Complessivamente la caratteristica dominante dei periodi di emergenza è il comportamento prosociale, non quello antisociale. La criminalità, se pur si riscontra, sarà a tassi molto più bassi di quanto accadrebbe normalmente nella vita d'ogni giorno. In effetti, se il disastro dà libero sfogo a qualcosa, è più all'altruismo che alla criminalità.
Mentre l'esperienza del disastro è memorabile, e produce effetti diversi a breve termine, non sembrano esserci troppe conseguenze durevoli di tipo comportamentale. È largamente diffusa la convinzione che lo stress traumatico dovuto all'esperienza di un disastro abbia conseguenze negative a breve e a medio termine per la salute mentale dei sopravvissuti. Così si dice che i disastri in una comunità rendano alcune persone 'pazze', ne danneggino psicologicamente altre in modo tale che esse non possano operare normalmente nel periodo successivo al trauma, e lascino molte vittime seriamente disturbate dal punto di vista emotivo. Si ritiene che questi comportamenti psicopatologici siano comuni a quasi tutte o alla maggioranza delle vittime, e possano durare indefinitamente a meno che non siano curati. Tuttavia, questa immagine dei disastri di comunità come inevitabili cause di rilevanti problemi mentali è solo un altro dei più diffusi luoghi comuni. Ammesso e non concesso che i disastri producano nuove psicosi o gravi malattie mentali, si tratta comunque di eventi molto rari, soprattutto se commisurati alle malattie mentali e ai problemi psicologici che possono trovarsi quotidianamente in una comunità media.
È possibile che tali situazioni provochino reazioni superficiali come perdita d'appetito, insonnia, ansietà e irritabilità, ma si tratta in genere di sintomi subclinici, di breve durata e che tendono a scomparire da soli. Anche se in alcuni disastri gran parte delle vittime può presentare tali sintomi, è più facile che il numero dei sopravvissuti che ne soffre sia notevolmente variabile, come è variabile la tipologia delle reazioni psicologiche successive all'impatto. Ancora più importante è che persino coloro che mostrano tali reazioni sono raramente incapaci di comportarsi normalmente nella loro vita di tutti i giorni.
Per quanto riguarda le conseguenze non patologiche, sembrano esserci effetti differenziati almeno nel breve periodo. L'esperienza accresce la percezione del rischio: in alcuni ciò si traduce in una maggiore sensibilità per i segnali di un pericolo futuro, in altri invece sembra creare un senso di invulnerabilità rispetto al futuro. Quest'ultimo fenomeno sembra simile alla situazione riscontrata in individui sopravvissuti 'per miracolo' alle incursioni aeree o agli attacchi missilistici durante la seconda guerra mondiale: anche loro generalmente si sentivano meno vulnerabili a possibili rischi futuri. Inoltre, ricercatori interessati non soltanto agli effetti negativi hanno rilevato casi in cui l'aver reagito bene alla crisi aveva favorito lo sviluppo di un'immagine di sé più positiva. Anche dal punto di vista del comportamento ci sono effetti diversi. È stato notato che i membri di famiglie direttamente colpite da un disastro non solo si sentono più vicini tra loro, ma tendono a interagire più all'interno che all'esterno della famiglia stessa. D'altra parte, sono stati rilevati anche vari effetti negativi, psicologici e comportamentali, nelle conseguenze di lungo periodo di disastri realmente catastrofici, come, per esempio, l'inondazione di Buffalo Creek.
Generalmente le organizzazioni elaborano piani per affrontare i disastri in una misura assai ristretta, anzi nella grande maggioranza dei casi non viene fatta alcuna pianificazione. Eccezioni sono rappresentate da certe istituzioni normalmente preposte alla gestione delle situazioni di crisi, come la polizia, i vigili del fuoco, gli ospedali e i servizi pubblici, ma anche in questi casi si tratta di una pianificazione piuttosto limitata. C'è la tendenza a pianificare la gestione di eventi disastrosi che riguarderanno altri: molti ospedali, per esempio, ignorano normalmente la possibilità che l'ospedale stesso possa essere direttamente colpito da un disastro. Questo è ancor più vero per i gruppi che si occupano di mass-media. Inoltre, in questo tipo di pianificazione si riscontra spesso un vizio 'tecnologico', cioè ci si preoccupa molto più di avere a disposizione un certo equipaggiamento e strumenti come radio multiple o un centro operativo per l'emergenza gestito tramite computer, che di sviluppare un'appropriata organizzazione sociale in grado di utilizzare tali mezzi.
Ancor più importante è che molti dei gruppi che abbiamo menzionato, come pure compagnie ferroviarie e aeree nonché settori delle industrie chimiche e nucleari che in realtà si preoccupano di predisporre dei piani di emergenza, sono riusciti a risolvere in modo adeguato gli incidenti e le emergenze quotidiane e dispongono per tali situazioni di procedure operative standard. Purtroppo, questo spesso produce la convinzione che un incidente possa essere trattato come un piccolo disastro, o che un disastro possa essere visto come un grande incidente. In ragione di ciò si ritiene che le procedure operative ordinarie possano essere usate in tutte le situazioni di crisi. La ricerca ha però ripetutamente mostrato che un disastro è qualcosa di qualitativamente, e non solo quantitativamente, diverso da un incidente o un'emergenza minore. Un disastro implica qualcosa che è qualitativamente diverso dalla situazione quotidiana. La pianificazione dell'intervento d'emergenza deve aver ben chiaro che nei disastri le organizzazioni coinvolte devono: mettersi rapidamente in contatto con gruppi diversi e altre organizzazioni; accettare di perdere parte della propria autonomia; mettere in atto differenti standard di prestazione; agire nell'ambito di un collegamento tra pubblico e privato più stretto del consueto; infine prevedere che i loro stessi strumenti e le loro operazioni possano essere direttamente colpiti dal disastro.
Generalmente le difficoltà che le organizzazioni incontrano nel gestire i disastri sono di natura diversa da quelle che erano state previste. È facile ritenere che, qualora sussista una pianificazione organizzativa, la crisi e l'emergenza verranno governate con successo. Ma, a prescindere dalla possibilità che la pianificazione possa essere stata insufficiente, c'è anche il fatto che pianificare è una cosa e gestire è un'altra, e la prima non si trasforma automaticamente nella seconda. Per molti versi una buona pianificazione significa individuare le strategie generali da seguire nel caso che un disastro improvviso colpisca la comunità. Una buona gestione significa invece mettere in atto particolari tattiche per affrontare le situazioni specifiche che si presentano nel corso di un disastro.
Ci sono almeno tre tipi di problemi di gestione, durante i disastri, che le organizzazioni devono risolvere. Uno concerne il flusso di informazioni nel processo della comunicazione. In quest'ambito vi sono generalmente varie fonti di difficoltà: il flusso di informazioni tra le organizzazioni e al loro interno, lo scambio di informazioni tra le organizzazioni e la gente, il flusso di informazioni all'interno dei sistemi di organizzazioni. I mezzi fisici attraverso i quali avviene la comunicazione raramente pongono seri problemi. Un secondo gruppo di problemi può insorgere nell'esercizio dell'autorità e nel processo decisionale; tali difficoltà sono in genere causate da perdite di personale altamente qualificato dovute a superlavoro, conflitti di autorità riguardo ai nuovi compiti posti dal disastro e contrasti sulle differenze di giurisdizione delle organizzazioni. L'eventualità che in occasione di un disastro vengano meno la gerarchia e l'autorità nei gruppi costituiti parrebbe peraltro molto rara. In terzo luogo ci sono i problemi connessi con la necessità di avere una buona coordinazione pur con una struttura gerarchica meno rigida. Questi problemi possono derivare dalla mancanza di accordo circa ciò che costituisce la 'coordinazione', da rapporti tesi nelle organizzazioni in conseguenza dei nuovi compiti, e dalle dimensioni dell'impatto del disastro.In seguito a un disastro, si verificano tutt'al più soltanto alcuni cambiamenti particolari a livello organizzativo. Nel periodo immediatamente seguente l'impatto vi è generalmente un'intensa discussione su come effettuare miglioramenti nell'organizzazione destinata ad affrontare futuri disastri. Ma a differenza di quanto accade dopo disordini civili (almeno quelli avvenuti nella società americana degli anni sessanta, allorché cambiamenti organizzativi erano spesso la norma), dopo i disastri c'è di solito un cambiamento relativamente piccolo nelle strutture e nelle funzioni dei gruppi. La discussione raramente si traduce in misure concrete.
Ci sono però occasionali eccezioni. Alcune organizzazioni costituite per le crisi sono state talvolta modificate in modo considerevole dopo un disastro. Le condizioni che rendono possibile una situazione di questo tipo sono complesse e alcuni risultati delle ricerche non sono del tutto coerenti tra loro. Ma il comportamento del gruppo durante il periodo d'emergenza sembra costituire un impulso al cambiamento minore della volontà di alcuni funzionari-chiave di esser meglio preparati di fronte ai disastri (soprattutto se l'esser preparati era già negli auspici, data la possibilità per il gruppo di dover affrontare future minacce). In taluni casi il disastro sembra semplicemente accelerare mutamenti organizzativi già pianificati o in corso.
Le comunità generalmente non considerano la preparazione ai disastri un loro compito prioritario, come risulta in molte località sia dall'attenzione prestatale, sia dagli investimenti che le sono destinati, sia infine dalla partecipazione organizzativa. Il problema della pianificazione diventa molto raramente un tema di vasto interesse nella comunità, e infatti riceve scarsa attenzione da parte dei mass-media, nelle discussioni politiche, o da parte dei gruppi di pressione o d'interesse (tranne che in casi isolati di pianificazione circa impianti nucleari). È anche molto rara una comunità in cui le stesse istituzioni rivolte alla gestione dell'emergenza e della crisi abbiano intrapreso una pianificazione per i disastri e, in questo caso, abbiano reso tale attività parte di uno sforzo generale della comunità. In breve, la preparazione per i disastri è scarsamente considerata nell'agenda dei problemi di quasi tutte le comunità.
Anche quando le comunità attuano o tentano di attuare una pianificazione generale, lo sforzo è reso difficile dai conflitti e dalle dispute fra le organizzazioni. Per esempio, ci sono tensioni frequenti tra la polizia locale e i vigili del fuoco, o fra questi e altre istituzioni pubbliche, o tra gruppi pubblici e privati. Tutto ciò rende problematico lo sviluppo di una pianificazione globale, poiché essa implicherebbe la perdita di certe autonomie delle organizzazioni, concedendo ad altri l'accesso ad ambiti o territori tipicamente di pertinenza delle organizzazioni, e fornendo risorse (persone, cose, informazioni) che potrebbero essere usate anche al di fuori di esse. Detto in altri termini, ci sono spesso fattori sociali profondamente radicati che ostacolano il coinvolgimento delle organizzazioni nella pianificazione invece di facilitarlo.
Quanto maggiore è l'entità del disastro, tante di più saranno le nuove strutture e funzioni della comunità. In genere la risposta della comunità è frammentata e differenziata, e implica una grande varietà di enti che rappresentano differenti livelli di settori governativi e non. Per giunta, le risposte delle organizzazioni non sono uniformi nelle differenti fasi temporali: alcuni gruppi cominciano a entrare in azione quando altri hanno già terminato il loro intervento (per esempio, l'attività delle organizzazioni meteorologiche è normalmente superata prima che i gruppi di soccorso inizino a operare), e anche nell'ambito della stessa organizzazione i compiti cambiano spesso nel tempo (per esempio, dopo un'inondazione inizialmente la polizia aiuta a diffondere messaggi di allarme, mentre in un secondo tempo si occupa delle operazioni di ricerca e soccorso). Per ovviare a tali difficoltà, le comunità spesso cercano di imporre un qualche ordine globale alla situazione, tentando di attuare quello che è stato chiamato un modello di 'comando e controllo'. Questo implica essenzialmente la nozione di un'autorità centralizzatrice e operante con una struttura decisionale piramidale. A livello operativo il problema è rispondere al quesito: chi comanda?Comunque, la ricerca indica che è più efficace la coordinazione del controllo, e che per certi versi sono preferibili un allentamento delle strutture gerarchiche di comando e la decentralizzazione del processo decisionale a livelli più bassi. Normalmente il tentativo di affrontare le varie situazioni create dal disastro dà origine a molti nuovi comportamenti e raggruppamenti. Più grande è il disastro, tanto maggiormente l'organizzazione improvvisata di compiti che variano dalle operazioni di ricerca e salvataggio o collaudo ai servizi medici d'emergenza, fino alla coordinazione delle organizzazioni e alla determinazione delle priorità della comunità, è caratterizzata dal pluralismo del processo decisionale. Se per un verso la struttura che ne emerge è in parte radicata nelle strutture e funzioni precedenti l'impatto, c'è anche sempre un elemento nuovo, non tradizionale e non di routine in ciò che si riscontra al culmine di un disastro, tale da suscitare l'apparenza di una temporanea "comunità sintetica" (v. Drabek, 1986).
Nelle comunità colpite da disastri ci sono particolari mutamenti e conseguenze di più lungo periodo. Alcuni studi non rilevano nessun effetto di lungo periodo per quanto riguarda certe caratteristiche delle comunità come popolazione, composizione per età, disponibilità di alloggi e loro prezzo, affitti, reddito familiare, dimensione della forza lavoro, disoccupazione, commercio al dettaglio, volume d'affari, ecc. Tuttavia altre ricerche indicano che possono esserci cambiamenti nelle comunità nonché conseguenze funzionali e disfunzionali. Per quanto riguarda le conseguenze funzionali, alcuni dati indicano che i disastri possono accelerare alcune tendenze in corso (per esempio negli ordinamenti governativi locali e nelle strutture di potere) e produrre nuove strutture parziali (per esempio nei servizi locali per la salute mentale e all'interno di alcune misure per ridurre l'entità di possibili danni, quali le norme contro le inondazioni). Per quanto riguarda gli effetti disfunzionali, ci sono dati che proverebbero, per esempio, una costante discriminazione, spesso pubblicamente deplorata, nell'assegnazione di nuove abitazioni alle vittime e soprattutto un inasprimento dei conflitti preesistenti e la nascita di nuovi conflitti, che talvolta si manifestano nell'attribuzione di responsabilità; bisogna comunque preoccuparsi di evitare che questo distolga l'attenzione dai difetti strutturali della società e la indirizzi verso la ricerca, influenzata dai mass-media, di capri espiatori individuali. Ad ogni modo, tutte le condizioni che producono o non producono cambiamenti sociali a seguito di disastri sono ben lungi dall'esser chiarite.
Un tema di ricerca più generale e sostanziale riguarda il fatto che l'immagine che una società si forma dei disastri è quella fornita principalmente dai resoconti dei mass-media. Ciò che una società pensa dei disastri, ciò che viene a sapere e ciò che spesso ricorda è principalmente, sebbene non esclusivamente, ciò che è riportato dai mass-media. Sono relativamente poche le persone che fanno diretta esperienza di più di un grande disastro nella loro vita. La maggior parte delle organizzazioni, a parte alcune rivolte a gestire le crisi, e la grande maggioranza delle comunità, eccettuate quelle di aree altamente esposte, possono stare decenni senza essere colpite da disastri significativi. Eppure la maggioranza delle persone, nonché delle organizzazioni e dei funzionari della comunità, non esita a esprimere opinioni e punti di vista intorno a ciò che potrà o non potrà accadere nei disastri. Il modello sembra derivare principalmente dai racconti dei mass-media, sebbene un fattore non trascurabile sia costituito da credenze culturali sulla natura della società e della realtà profondamente radicate. Il simbolismo di specifici disastri accettato universalmente (Bophal, Mount St. Helens, Three Mile Island, Pompei, il terremoto di San Francisco, il grande incendio di Chicago, Černobyl) può essere attribuito soprattutto alla rappresentazione datane dai mass-media (v. Nimmo, 1984; v. Wilkins, 1987).
La grande maggioranza degli studi è stata condotta su società altamente urbanizzate e industrializzate, in particolare negli Stati Uniti. È perciò una questione importante sapere in che misura i risultati ottenuti prevalentemente in un tipo di società e in un paese possano essere estrapolati ad altri tipi di sistemi sociali, quali i paesi in via di sviluppo, oppure per esempio dall'America all'Italia.
È stato ipotizzato che le differenze tra società diverse, nelle risposte al disastro durante l'emergenza, varino proporzionalmente al livello di comportamento esaminato. Vale a dire che modelli universali di comportamento sono più plausibili a livello individuale o di comportamento umano, mentre modelli di comportamento sociale specifici sono più probabili quando si passi al livello di famiglia, di organizzazione, di comunità, di società. Le ricerche che sono state intraprese su società diverse sembrano sostenere tale ipotesi. Per esempio, la fuga in preda al panico è rara tra le vittime del disastro in ogni società. Ricerca e soccorso sono svolti in prima istanza dai sopravvissuti, dai vicini e da privati cittadini. Per contro, le misure atte a ridurre l'entità dei possibili danni, organizzate su scala nazionale per prevenire i disastri, e la ricostruzione delle comunità tendono a variare molto da una società all'altra. Sebbene l'ipotesi generale sembri valida, essa deve ancora essere adeguatamente documentata sul piano empirico.
Anche se raggiungessimo il chimerico obiettivo di una conoscenza completa del comportamento nelle situazioni estreme, resterebbe comunque molto da indagare, anche perché le emergenze di massa e quasi certamente i disastri saranno in futuro in numero maggiore e di più grave entità di quelli che il mondo affronta attualmente. Si può cioè prevedere che il futuro, qualitativamente, sarà peggiore del presente. Anche con il verosimile miglioramento che interverrà nell'adozione di misure atte a limitare i danni e nella pianificazione dell'intervento, non possiamo essere ottimisti circa quello che accadrà nei prossimi decenni. La crescita dei rischi e delle minacce che gli uomini e le società dovranno affrontare riguarda almeno cinque settori: 1) i disastri naturali cui siamo abituati - come terremoti, uragani, eruzioni vulcaniche - colpiranno aree più popolate. La normale crescita della popolazione e la maggiore densità di abitanti nelle località esposte al rischio, come le pianure alluvionali, rendono certo che in futuro ci saranno più persone e insediamenti umani che saranno colpiti, anche senza alcun aumento nella frequenza degli agenti naturali in sé; 2) vi sono in misura crescente incidenti tecnologici e disgrazie di tipo nuovo, nel senso che erano quasi inesistenti prima della seconda guerra mondiale; si tratta dei rischi associati con la produzione, il trasporto e l'uso di sostanze chimiche pericolose (Bhopal è solo un drammatico esempio di questo), i rischi a sviluppo più lento che riguardano le aree di smaltimento dei rifiuti pericolosi (come il Love Canal e gli esempi di avvelenamento da asbesto), nonché le minacce rappresentate dalle armi e dagli impianti nucleari, come ha mostrato Černobyl; 3) ci sono progressi che aumentano i rischi e le complicazioni di minacce preesistenti; ad esempio preveniamo gli incendi dei grattacieli utilizzando materiali con basso coefficiente di infiammabilità ma tossici, oppure eliminiamo le sostanze pericolose dalle fognature, generando però prodotti che contengono virus e gas; 4) esistono nuove versioni di antichi tipi di minacce, ad esempio le siccità urbane anziché rurali o il collasso su larga scala delle infrastrutture relative ai sistemi di comunicazione vitali delle aree metropolitane; 5) infine, si presentano sempre nuovi tipi di rischi anche in aree che tradizionalmente non sono state ritenute potenzialmente pericolose, quali gli effetti dell'epidemia di AIDS, le minacce biologiche inerenti all'ingegneria genetica, le crisi che si verificheranno a causa della crescente dipendenza dai computer, che prima o poi potranno guastarsi in qualche punto chiave, con conseguenze drammatiche per la vita umana.
Contrariamente a quanto pensavano persino alcuni dei pionieri della ricerca in quest'ambito, non solo è possibile studiare il comportamento nelle emergenze e nei disastri, ma studi sul campo condotti nell'immediatezza dell'evento sono diventati il modo consueto per farlo. La ricerca scientifica in questo settore delle scienze sociali è stata istituzionalizzata su scala mondiale. Si è imparato molto, sebbene non vi sia ancora accordo completo su una questione centrale: che cos'è un disastro? Le conoscenze acquisite fin qui mostrano che vi sono state molte idee sbagliate, e tuttavia comuni e diffuse, relative al comportamento nelle situazioni di emergenza. In linea generale gli uomini reagiscono bene, mentre le organizzazioni hanno notevoli problemi nelle emergenze di massa. Gli studi condotti su società diverse hanno chiarito come nel comportamento tipico del periodo di emergenza sono di più gli aspetti comuni che le differenze, ma i disastri che si possono prevedere per il futuro continueranno a costituire una sfida per gli studiosi che si occupano di questo settore.
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