Giustizia, disciplina e ordine pubblico
In un altro capitolo di questo volume si è trattato il tema dell'amministrazione della giustizia civile nel corso del XVI secolo, del coinvolgimento delle istituzioni di governo in un settore tanto delicato per la vita dei sudditi, e delle istanze che da questi ultimi venivano dirette ai detentori dell'autorità. In questa sede ci si vuole occupare della politica del diritto della Serenissima per quello che riguarda la giustizia penale: attraverso quali strumenti, quali immagini del potere, quali istituzioni, il patriziato veneziano attua la sua politica di controllo e di repressione su crimini, su atteggiamenti e comportamenti ritenuti lesivi del buon ordine della società? Con quali modalità e scansioni e con quale successo? Ma, allo stesso tempo, quali erano in concreto le attese dei governanti? Quale forza di condizionamento possedevano rispetto ai detentori dell'autorità? Attraverso quali modalità potevano essere coinvolti nella gestione dell'ordine pubblico? In quale misura i sudditi possono essere considerati soggetto attivo, e non solo passivo, del dispiegarsi e del progressivo articolarsi di quella complessa realtà che chiamiamo "Stato"?
Risulta quasi impossibile, per la natura di questo contributo e per l'ampiezza della documentazione archivistica conservata, rispondere a tali quesiti in modo esaustivo, soffermandosi su tutti i problemi, analizzando il funzionamento di tutte le istituzioni dotate di un qualche potere di comando. Si è preferito pertanto seguire un'altra via: partendo dalla lettura delle leggi emanate dai consigli politico-giudiziari veneziani nel corso del secolo, dei registri di sentenze emanate dalle varie magistrature, degli sparuti fascicoli processuali, si è voluto focalizzare l'attenzione sui momenti che sono apparsi maggiormente indicativi di tensioni, contrasti, involuzioni e tentativi di rinnovamento.
Nel 1516 durante una tempestosa seduta del maggior consiglio, Marco Priuli, già eletto alla carica di governatore alle entrate, aveva abbandonato l'aula protestando per alcuni riscontri che l'avogadore di comun Francesco Bollavi aveva effettuato sulla sua attività di magistrato. L'avogadore incollerito aveva allora preso parola ("andò in renga" come si usava dire nel linguaggio amministrativo veneziano), denunciando un comportamento diffuso in alcune fasce del patriziato che risultava offensivo nei confronti della maestà della Repubblica: allo scopo di protestare platealmente contro talune nomine a cariche pubbliche che, a loro avviso, li aveva visti ingiustamente soccombere, "alcuni zoveni havea voluto andar zoso per forza, spretiis mandatiis officii sui". Per tenere a freno la pericolosa effervescenza che intorbidiva l'animo di quei componenti del corpo sovrano, questo il giudizio dell'avogadore, si doveva emanare una legge esemplarmente severa (1). A tale scopo il Bollani aveva sottoposto al giudizio dei governanti della Repubblica una parte che ricordava come "li nostri sancti progenitori" avessero "con ogni studio insudà et invigilà che la obedientia" regnasse in "questa ben instituta Republica" e soprattutto nei confronti del "magistrado de li Avogadori de comun": un sentimento di venerazione e di rispetto nei confronti dei rappresentanti dell'autorità che, al tempo presente, risultava completamente incrinato a causa della protervia di "alcuni desubedienti temerari et prosuntuosi zentilhomeni". Per questo, così concludeva la sua arringa il Bollani, quei nobili facinorosi dovevano essere sottoposti al pagamento di una ammenda di venticinque ducati, e privati per un anno di tutti gli uffici conferiti dal maggior consiglio.
Questo non è che uno dei tanti episodi che - con nitidezza di particolari e minore reticenza di quanto si verifichi nei registri prodotti dalle cancellerie dei maggiori
organi politici e giudiziari della Serenissima - i Diarii di Marin Sanudo ci restituiscono con allarmante continuità a partire dagli anni successivi alla sconfitta di Agnadello. Non un caso isolato quindi, o il semplice prodotto di un'attenzione astratta e moralistica verso la cosa pubblica, tendente a rimarcare ogni infrazione delle "sanctissime leze" e del ben ordinato meccanismo costituzionale, bensì il sintomo di una crisi profonda che in quegli anni coinvolse la Repubblica di San Marco a tutti i livelli: all'interno del ceto dirigente veneziano per l'infrazione delle regole della politica e dei comportamenti dei singoli, segno di una spaccatura profonda ed irreversibile di fortune, ricchezze ed opportunità, in un gruppo sociale che la produzione ideologica e, ancora più intimamente, la sensibilità comune pretendevano fondasse la legittimità della sua autorità sul principio interno della assoluta uguaglianza; crisi all'interno della capitale, a causa dell'acuirsi dei conflitti sociali per le recenti "guerre horrende de Italia" (2), della diffusione del pauperismo, della ingente emigrazione a Venezia di "villici" del Dominio che gravissime carestie avevano privato fin dei beni primari di sussistenza. Oltre a questo si andava sempre più pericolosamente ampliando la sfera di atteggiamenti individuali che non potevano non impensierire i componenti della classe dirigente veneziana. Nuovi modi di guardare alla sfera del sacro, nuovi modi di intendere il proprio radicamento nella società, di fondare il rapporto con gli altri, complessivamente un diverso strutturarsi della società nel suo insieme (3).
Nella sensibilità degli uomini di quell'epoca travagliata tutti questi diversi fenomeni di ordine politico, economico, sociale e religioso venivano affiancati sotto un unico denominatore, quello della giustizia, in grado di garantire la correttezza dei rapporti tra gli individui ed i ceti, che costituiva fonte di pace per la collettività, ma, allo stesso tempo, anche possibile testimonianza della protervia, della corruzione, dell'ignoranza di chi la esercitava; giustizia che poteva essere interpretata, infine, quale signum Dei, vendetta divina, monito e risarcimento dell'assoluto nei confronti degli uomini. Una crisi della giustizia che non è certamente fenomeno isolabile alla sola Repubblica di San Marco e che anzi coinvolge in maniera più o meno cruenta anche gli altri potentati italiani ed europei (4).
Cercando di bloccare in una serie di istantanee un processo che, tra tardo Quattrocento e gli anni immediatamente successivi alla rotta di Agnadello, appare estremamente fluido, ci si deve chiedere quali fossero le magistrature, cui l'ordinamento marciano aveva delegato la tutela dell'ordine pubblico. Anche in questo settore - come in numerosi altri della pubblica amministrazione veneziana - il carattere che emerge alla vista con maggior evidenza è quello della molteplicità delle istituzioni dotate di poteri punitivi e di controllo, della frammentazione quindi delle istanze di comando, e della sovrapposizione giurisdizionale, favorita da una legislazione non sempre chiarissima al proposito. Vi erano piccole magistrature, tutte composte da elementi appartenenti al patriziato, che, originate dalla struttura della città-stato medievale, erano dotate di ristrette facoltà di giudizio - limitate alle infrazioni di minor importanza -, ed incaricate soprattutto di compiti ispettivi e di polizia. Di queste istituzioni e delle loro funzioni, nella povertà di una documentazione archivistica, frammentaria se non addirittura inesistente, ci viene data una dettagliata descrizione nell'operetta di Marin Sanudo De origine, situ et magistratibus urbis Venetae (5). I signori di notte si alternavano con i capi di sestier, alla guardia notturna della città; avevano facoltà di inquisire e di "mettere alla corda" assassini ed Ebrei, nonché di formare processi che però dovevano essere espediti dai giudici del proprio (6). Potevano abbattere le porte delle abitazioni, qualora qualche inquisito recusasse di presentarsi all'intimazione di un loro mandato; "sono sopra li schiavi et schiave, sono sopra il zuogo et le biasteme", con potere di irrogare su queste materie pene pecuniarie o afflittive, o di concedere la grazia. Dovevano inoltre controllare che venissero rispettate le licenze concesse dal consiglio dei X sul porto d'armi a Venezia. Di analoghe funzioni erano investiti i capi di sestier: oltre ad essere incaricati della ronda notturna, ad essi veniva pure attribuito il potere arbitrario di entrare nelle abitazioni dei cittadini senza alcun mandato (7): "sono sopra le meretrice et ruffiani", aggiungeva Marin Sanudo, precisando ulteriormente le loro competenze giurisdizionali; gli osti inoltre erano obbligati a comunicare ogni sera a questi magistrati i nominativi dei forestieri che alloggiavano nelle loro locande. Vi erano poi i cinque alla pace, anch'essi dotati di vari poteri di intervento su tutta una serie di microconflittualità: "sono sopra le custion et feride date per le terra" e sul "desnudar arme" (8). Medici e fisici - "soto grandissima pena" - non potevano medicare alcun ferito senza notificare il nominativo ai cinque.
Funzioni giurisdizionali minori erano infine detenute anche da alcune delle cosiddette "corti di palazzo", tribunali civili di prima istanza, di fondamentale importanza in una città in cui la stratificata struttura sociale e la pronunciata vocazione commerciale alimentavano certamente il contenzioso in questo settore, ai quali, quasi come retaggio di un remoto passato, restavano affidati alcuni compiti di natura più strettamente penale (9). Se l'"auttorità sopra le discordie delle mal maridade" detenuta dai giudici del procurator - la cui tradizionale giurisdizione consisteva nel controllo della corretta amministrazione dei testamenti e delle commissarie di cui erano stati nominati tutori i procuratori di San Marco (10), nonché, a quanto scrive Sanudo, sulle differenze tra "patroni et affituali" veneziani delle "proprietà di fuori" poteva anche risolversi attraverso la promozione di una qualche forma di composizione tra le parti e non implicare necessariamente attribuzioni di natura penalistica (11), non si può dire lo stesso a proposito dei giudici del proprio, i quali, ancora a fine '400, detenevano il potere di comminare la pena di morte (12), o di quelli di petizion, la cui ampiezza di giurisdizione portava Sanudo a definirli "Podestà della Terra" (13).
Più difficile delineare le competenze e gli ambiti di intervento di due magistrature ben più importanti di quelle di cui ci siamo sinora occupati, quali l'avogaria di comun e il consiglio dei X, al centro del dibattito costituzionale veneziano nella prima parte del XVI secolo. L'avogaria era composta da tre membri del patriziato che stavano in carica per sedici mesi (14). Era loro facoltà entrare in ogni consiglio o tribunale della Serenissima, le cui deliberazioni e le sentenze emanate senza la presenza di almeno uno di essi dovevano considerarsi, per il dettato legislativo, di nessun valore. Gli avogadori potevano votare e proporre parti negli stessi consigli sovrani, con l'eccezione, non di poco conto, come avremo modo di vedere, del consiglio dei X. Senza attardarci in una minuziosa descrizione delle diverse modalità di intervento degli avogadori, si può dire che il senso del loro operare fosse determinato dall'essere "observadori della lezze", dal rappresentare cioè nel complesso ed articolato sistema istituzionale veneziano la funzione del controllo di legalità sugli atti legislativi, sentenze e provvedimenti emanati sia in città che in Terraferma. Era il momento della giustizia intesa "come conseguenza dell'eguaglianza di poteri in seno al patriziato" (15), incardinata sulla legge - sia su quella scritta, costituita dalle parti dei consigli, come anche e soprattutto su quella non scritta, per cui il patriziato veneziano si doveva ritenere un corpo di eguali, entro il quale nessuno poteva pensare di prevaricare o di assumere un'autorità superiore a quella statuita - che si doveva incarnare nell'operare degli avogadori. Uno dei modi per realizzare questo mandato di tutela della legalità era costituito dall'assoluto rispetto per le formalità procedurali e per la consuetudine. Una magistratura, l'avogaria, che alla fine del XV secolo doveva ancora godere di un notevole lustro, se Marin Sanudo scriveva: "conclusive, hanno grandissima auttorità, et è uno di principal membri over officij di questa Repubblica, et ut plurimum di più savij della Terra".
Dall'altra parte, quale rappresentante di una diversa funzione politica e immagine della sovranità, stava il consiglio dei X. "È uno magistrato di primi severissimo", dice il nostro trattatista (16). Composto di dieci consiglieri ordinari, cui si aggiungevano il doge ed i sei consiglieri ducali, rappresentava al massimo livello il momento dell'autorità: "bandiza et confina zentilhomeni, et altri fanno brusar et impiccar quelli meritano, et hanno auttorità di dismetter il Principe". Le sentenze emanate dal consiglio erano inappellabili. Questo il quadro disegnato da Sanudo nella sua operetta sulle istituzioni veneziane di fine Quattrocento. Componendo un trattato di analogo contenuto attorno al 1515, lo stesso autore notava come il potere detenuto dai X fosse ulteriormente accresciuto: "è Conseio tremebondo [...> questi governano quasi ogni cosa, fanno quello li par et ha grandissima auttorità". Inoltre le cosiddette "zonte" del consiglio - speciali commissioni consultive nominate per legiferare su materie specifiche, come i ribelli, la falsificazione monetaria o su altre questioni in cui si avvertisse con scottante urgenza un delitto di lesa maestà - non venivano più elette straordinariamente e per periodi ben limitati (sei mesi o un anno). Per un decisivo stravolgimento istituzionale ora a Venezia esercitava la sua autorità, pressoché assoluta, un'unica "zonta": "hora si fa una sola che atende ad ogni cossa". Tra principio di legalità e principio di autorità era dunque il secondo che nella Venezia del primo Cinquecento stava per prendere decisamente il sopravvento.
Crisi dell'avogaria, quindi, a tutto vantaggio del consiglio dei X. Una crisi di cui non è possibile in questa sede seguire le tappe salienti e gli ampi dibattiti che attorno ad essa si aprirono (17). Vale la pena comunque soffermarsi su alcuni provvedimenti che possono ben esemplificare la trasformazione che coinvolse le più importanti istituzioni veneziane.
Nel 1515 l'avogadore Francesco Bollani era ben determinato a portare al giudizio del maggior consiglio - l'assemblea plenaria del ceto dirigente veneziano, il consesso in cui tutti i patrizi che avessero compiuto la maggiore età potevano sedere e quindi il simbolo stesso dell'unità e dell'uguaglianza del corpo sovrano - una serie di gravissime irregolarità che, a suo avviso, erano sorte nel mettere ai voti alcune cariche (18). I consiglieri ducali l'avevano messo a tacere, in quanto la Serenissima Signoria era intenzionata a presentare altre proposte. L'avogadore si era richiamato al rispetto delle "leze" che impedivano ai consiglieri di subordinare in quel modo la funzione della magistratura. Invano: Francesco Falier e Francesco Garzoni, capi del consiglio dei X, intenzionati a "sedar il susuro ", gli ordinarono "andasse a sentar e non disordinasse il Consejo". "Con gran sua vergogna [come conclude il diarista> e in questo caso fo denigrà la jurisdition di l'Avogadore di comun".
Problemi analoghi di definizione delle competenze delle magistrature e del loro potere di controllo e di repressione si presentano in un caso di qualche anno successivo rispetto a quello appena analizzato. Il 16 luglio del 1527 i consiglieri ducali avevano sottoposto all'esame del maggior consiglio una proposta di legge tendente a mettere ordine in una materia tanto delicata, quale quella delle modalità di ammissione dei patrizi agli scrutini per le cariche politiche (19). Immediatamente all'interno dell'assemblea sovrana della Serenissima erano sorti gravissimi disordini. La parte è "de grandissima importantia", aveva sottolineato nell'occasione e con notevole apprensione Sanudo, in quanto con essa si tentavano di introdurre correttivi alle procedure elettorali, che, qualora approvati, avrebbero sancito la divisione della "terra in do parte": da una le "caxe picole", ai margini dei processi decisionali e con scarse possibilità di accedere alle cariche di maggior prestigio; dall'altra le "caxe grande", in grado di determinare, attraverso uno stretto controllo sulla struttura istituzionale, i destini della Repubblica. In tal modo si veniva a legittimare definitivamente anche sul piano politico la frattura interna al patriziato, già così pronunciata sul terreno economico e culturale. Il giorno seguente uno dei consiglieri ducali, Francesco Marcello, che significativamente aveva ricoperto in passato la carica di avogadore di comun, aveva espresso l'opinione che su quella difficile materia, proprio per le ragioni di natura politica e costituzionale che le erano connaturate, si sarebbe dovuto esprimere il maggior consiglio, l'assemblea plenaria di tutti i patrizi, l'unica vera espressione della sovranità. Lo aveva aspramente attaccato Francesco Foscari, in veste di capo del consiglio dei X, asserendo che la questione non poteva non rientrare nella giurisdizione del "supremo tribunale" di cui faceva parte, in quanto si trattava di problemi che concernevano "il quieto viver et pacifico di questo Stado". Alla ripresa della discussione, il 24 dello stesso mese, era intervenuto l'avogadore Angelo Gabriel avanzando la pretesa che i consiglieri gli leggessero il dispositivo di legge su cui avevano apportato alcune modifiche, e che ordinassero una immediata riunione del maggior consiglio; gli era stato opposto un netto rifiuto. Il giorno successivo, l'intransigente difensore della legalità repubblicana si era rivolto direttamente alla Serenissima Signoria e al doge, notificando al massimo rappresentante dell'ordinamento la sua intenzione di intromettere (20) l'operato dei consiglieri (21). Qui si fece "gran contrasto", fino a che intervennero i capi del consiglio dei X che lo misero a tacere: "li fe' comandamento si tolese zoso".
Tutti episodi che stanno a testimoniare delle continue erosioni della funzione di controllo e della facoltà di punire proprie dell'avogaria, e della crisi dell'immagine di garante della legalità che rappresentava. Crisi che trova un immediato e più generale riscontro al livello dell'emanazione legislativa. Il 27 settembre 1515 i presidenti del tribunale della quarantia, Sebastiano Querini e Leonardo Zantani, di fronte al consiglio dei pregadi, avevano usato termini estremamente severi per riprovare "una pernitiosa corruptella in gran danno di poveri litiganti et non picola murmuratione" dei sudditi, per cui gli avogadori, interpretando nel termine più estensivo una legge del maggior consiglio del 1493 - con cui si era provveduto a che gli avogadori non potessero sospendere una causa per più di un mese, prima di sottoporla al giudizio di legittimità dei consessi della Serenissima - protraevano indebitamente i termini dei processi (22). "Cadaun de loro [continuava quella parte> suspende per uno mexe e più, adeo che dove de jure la suspension doveria durar uno mexe, con quella nova interpretation la dura tre mesi e più". In realtà, sia sotto il profilo della legalità che sotto quello della tradizione non scritta, la deliberazione, sebbene approvata dai senatori a larghissima maggioranza (175 voti favorevoli contro 20 contrari), avrebbe potuto essere legittimamente impugnata, dal momento che veniva ad incrinare, in modo surrettizio, l'immagine dell'avogaria, limitando la funzione che fino a quel momento l'aveva maggiormente caratterizzata, consistente nel potere di intromettere atti e sentenze, sia collegialmente che individualmente (23).
Se usciamo per un momento dai confini della città lagunare, è possibile vedere come la crisi della giustizia e della legalità che stiamo tratteggiando, investa in notevole misura anche lo Stato da Terra. Il 31 dicembre 1530 per cercare di porre un argine alle violenze che infestavano città e campagne del Dominio, si ordinava la sospensione di una pratica che fino ad allora aveva funzionato come garanzia di legalità, ma che ormai si stava sempre più rivelando come uno strumento di impunità in mano ai delinquenti. Anche in tale occasione l'accoglimento di un provvedimento mirante ad un uso più ampio di facoltà autoritative portava ad un depotenziamento delle prerogative avogaresche: da allora in avanti, si era stabilito, "li Avogadori nostri non debbino né possino per alcun modo et via, né sotto alcun colore impedirse in voler veder, né altramente alterar overo suspender la formation d'alcuno processo, così dentro come fuori, che per li rettori et iusdicenti nostri vengono formati, fin che non si chiameranno li rei a diffesa" (24). La volontà di limitare il potere di controllo esercitato dagli avogadori sulla fase processuale istruttoria e sulle facoltà inquisitive detenute dai rappresentanti veneziani inviati a governare le località soggette all'autorità veneziana, era resa del tutto esplicita da una ulteriore precisazione: "et per evitar ogni inconveniente, li rettori et iusdicenti nostri che saranno ricercati mandar essi processi [...> non debbino mandar li autentici, ma solamente la copia de quelli sottoscritti di mano loro propria et sigillati" (25).
Ancor meglio di queste parti di carattere generale, il senso di questa età di trapasso, di mutazione profonda nel sistema dei valori, di crisi dei tradizionali strumenti di legittimazione del potere e dell'immagine dell'autorità, ci viene reso con grande evidenza - assai più che nella secchezza delle deliberazioni delle magistrature giudiziarie - da una miriade di episodi annotati con acribia da Marin Sanudo nei suoi Diarii. Nulla meglio della disperata vicenda di un crudele omicidio, e della discussione che su di esso si aprì, può restituirci il clima di angoscia e di incertezza che avvolgeva gli uomini di quell'epoca tormentata. Nel settembre del 1520 Si era verificato un caso "molto memorando" (26). È la terribile storia di una giovane donna, "mata" a detta del diarista (dove resta nell'indeterminato se tale definizione alludesse ad una concreta mancanza di capacità di intendere, o rimandasse piuttosto a comportamenti "marginali", percepiti come illegittimi o difformi da quelli che il senso comune valutava come corretti, consoni al decoro della città e alla dignità dei singoli). Tale donna, mentre passava, com'era solita, per una calle nelle vicinanze di S. Trovaso, era stata beffardamente apostrofata - "mata, mata" - da una bambina. Approfittando del fatto che la madre di questa aveva momentaneamente lasciato l'abitazione, l'accusata era riuscita a raggiungerla, a ferirla più volte con un "cortelazo", e a tagliarle la testa. Identica sorte sarebbe toccata alla sorella maggiore di quella disgraziata, se non fosse accorso un vicino che aveva bloccato la donna e l'aveva consegnata alle forze di giustizia. Dopo tre mesi si svolse il solenne processo nel tribunale della quarantia (27). È opportuno notare come questo caso, che tanto scalpore aveva destato in città per la sua efferatezza, non venga sottoposto al giudizio del consiglio dei X. Una testimonianza della sopravvivenza, almeno a tutto il secondo decennio del Cinquecento, di una pluralità di istanze giudiziarie, di pratiche giurisdizionali, di modalità di intervento, che coesistono l'una con l'altra, in via di subordinazione alla superiore autorità dei X, ma non da quella esautorate. A comprovare ulteriormente quanto detto sta il fatto che della formazione del processo erano stati incaricati i signori di notte, ed il ruolo di pubblico accusatore era stato assunto dalla magistratura dei giudici del proprio. E proprio tra i componenti di questa magistratura si era accesa una appassionata discussione, indicativa della pluralità delle concezioni attorno al potere di punire, della varietà di microculture presenti all'interno del patriziato veneziano. Marino Bondulmer e Michele Basadonna avevano proposto per la rea il taglio della testa, allegando, secondo la consuetudine giuridica veneziana, un analogo caso precedente per cui si era sancita la pena capitale. Questa era una argomentazione debole, a detta di Andrea Dandolo, il terzo magistrato: l'esempio allegato dai colleghi non aveva alcuna somiglianza con quello in discussione. La tradizione o la saggezza o l'equità, in questa occasione, non potevano essere di alcun ausilio. Ci si doveva pertanto rivolgere alle "leze civil" con cui "l'Imperador" aveva decretato che "li mati fanno homicidio" non fossero sottoposti all'ultimo supplizio, e che fossero condannati al carcere a vita. Alla fine fu questa seconda opinione che venne votata a maggioranza (20 voti contro 11) dai componenti del tribunale. La vicenda qui brevemente evocata, oltre a risvolti esistenziali ed istituzionali di notevole interesse, costituisce anche un riflesso di una crisi generale del diritto proprio veneziano: nel suo rapporto con gli istituti che dovevano garantirne l'efficacia e la vigenza; nel suo rapporto con il diritto maggiormente diffuso nelle aree soggette della Terraferma: lo ius commune. Si evidenzia con chiarezza la difficoltà di creare strumenti politici ed ideologici in grado di rendere più omogeneo e compatto il tessuto delle relazioni tra governanti e governati, di legittimare l'idea della autorità sovrana. Un sintomo della presa di coscienza di questo problema, presso i settori del patriziato veneziano politicamente più avvertiti, e del fallimento di una soluzione in senso unitario, attraverso la subordinazione del diritto veneto a quello comune, sarà il tentativo di riforma operato dal doge Andrea Gritti nel quarto decennio del XVI secolo (28).
Di fronte ad un altro caso clamoroso, nell'agosto del 1521, il consiglio dei X interveniva con la sua "zonta" per rendere esecutiva una sentenza emanata dalla quarantia criminale nei confronti di una certa Bernardina, moglie di Luca di Andrea da Montenegro, ebreo (29). Già nel 1514 la donna aveva portato il marito di fronte ai giudici del procurator, accusandolo di malversazioni e violenze nei suoi confronti. Il magistrato aveva ritenuto fondate le ragioni della denuncia, e aveva imposto all'uomo un risarcimento di venti ducati annui. Nella questione erano intervenuti anche gli avogadori, riscuotendo dal reo 200 ducati quale garanzia che da allora in avanti avrebbe fatto "bona compagnia" alla sua consorte. Nella documentazione veneziana non è possibile reperire ulteriori notizie delle profonde tensioni che dovevano aver tanto sconvolto quel microcosmo familiare, fino alla cruentissima e fatale conclusione della vicenda. "Questa erine [...> dona maledeta", a detta del pubblico accusatore, l'avogadore di comun Alvise Mocenigo, aveva ucciso nel sonno il consorte. Con l'aiuto di un cugino aveva poi seppellito il cadavere in una fossa scavata nel magazzino della casa. Inoltre, allo scopo di stornare ogni sospetto dalla sua persona, aveva contraffatto una lettera, che figurava come inviata da un parente dell'ucciso abitante fuori Venezia, nella quale si narrava come il Montenegro fosse partito per Roma, da dove sarebbe tornato al più presto. I sospetti dei parenti del defunto si erano immediatamente manifestati alla giustizia; il rinvenimento del cadavere e la cattura dell'omicida non si erano fatti attendere troppo. All'efferatezza, ingiustificata a detta dei giudici - "non se intende la causa" -, anche se i precedenti avrebbero potuto far pensare diversamente, si doveva quindi aggiungere l'aggravante della premeditazione, la proterva volontà di deviare le indagini con il mezzo della falsificazione di documenti.
Anche in questa occasione, come nel caso precedentemente analizzato, "assà persone" si erano raccolte in quarantia per assistere alla celebrazione del rito giudiziario. Dal punto di vista del processo di legittimazione del potere - in cui sembra contare, più ancora che la reale efficacia ed incisività della deliberazione, il rituale, la sacralità delle procedure, la possibilità di imprimere nelle menti dei sudditi una precisa immagine dell'autorità - è questo un aspetto su cui è necessario soffermare brevemente la nostra attenzione. Nei procedimenti che si svolgevano nelle quarantie il ruolo di pubblico accusatore veniva per gran parte recitato dagli avogadori di comun, vigeva il rito accusatorio: l'imputato era difeso da avvocati che potevano esaminare e svolgere le loro argomentazioni vagliando le accuse su capitoli che venivano loro consegnati, in un ampio e dettagliato dibattimento (30). Questi processi erano aperti al pubblico: al di là di ciò che si discuteva, che è certo elemento di grande rilievo, si verificava quindi una sorta di intersezione tra ragioni del Principe e attese dei sudditi. Il giudice non smarriva in questo contesto quella dimensione oracolare che doveva connotare il suo operato, e questa veniva accolta direttamente dalla comunità. L'elemento ludico della disputa processuale - pensiamo alle suggestive pagine del diario goethiano attorno ad un processo svolto in quarantia ad oltre due secoli di distanza dalle vicende di cui ci stiamo qui occupando (31) - si allargava dalla sfera di coloro che vi partecipavano attivamente ad un pubblico eterogeneo. Patrizi e popolani circondavano i giusdicenti, e questa sintesi delineava con sufficiente chiarezza un'idea di gerarchizzata partecipazione e di integrazione tra i gruppi umani che componevano la civitas. Accanto a questa forma di giustizia, ve ne era una seconda: quella rappresentata dalla procedura inquisitoria. Qui emergevano altri caratteri della statualità destinati ad affermarsi con sempre maggior vigore: insondabilità e segretezza, efficacia e rapidità, severità e rigore, tutti elementi che andavano anteposti ad ogni considerazione legalitaria o consuetudinaria. È su questo fertile terreno che crescerà, sia per motivi endogeni al patriziato veneziano che per ragioni esterne, l'autorità del consiglio dei X nella seconda metà del XVI secolo, come avremo presto modo di vedere.
Tornando al processo contro Bernardina, si deve notare la straordinaria severità con cui gli avogadori, senza neppure prendere in considerazione le attenuanti invocate dall'" avochato de presonieri" (che aveva insistito sulla "mala vita" cui la donna era sottoposta a causa della protervia del marito), avevano proposto per la disgraziata la pena capitale, da realizzarsi in una dettagliata e progressiva esplicitazione alla comunità della crudeltà della rea. Questa, una volta posta "in un soler alto" collocato sopra una barca, avrebbe raggiunto, attraversando il Canal Grande, Santa Croce; durante il tragitto un "comandador" avrebbe ripetutamente gridato la colpa di cui si era macchiata. La pena prevedeva in seguito che la donna fosse condotta a S. Antonin, presso l'abitazione in cui viveva, che qui le fosse "tajà la man destra, e con quella apicà al collo" fosse condotta in mezzo alle due colonne, in piazza San Marco, per essere squartata ("descopada"). Le quattro parti del suo corpo dovevano infine essere poste sopra quattro forche, agli angoli estremi della città. Questi della ritualità e della simbologia connesse alla esecuzione capitale rappresentano, certo, momenti centrali della strategia punitiva e di controllo degli Stati di antico regime (32). La minuziosità assoluta, quasi maniacale, nel descrivere le tragiche tappe di un percorso simbolico, dominato dalla sofferenza fisica del reo, è lì a significare la necessità di una catarsi, la cancellazione della colpa, tramite la sua espiazione, nei luoghi in cui il misfatto è stato commesso. Anche in questo caso, nel corso del XVI secolo, la città così sacralizzata ed i suoi abitanti assurgono al ruolo di partecipi-testimoni: il potere, mostrando il suo aspetto più severo, offre al contempo ai sudditi l'idea della reintegrazione, della ricomposizione del corpo sociale ferito dalla colpa dei singoli.
Da quanto si è potuto fin qui analizzare è possibile percepire l'emersione dalla crisi di quelle più antiche di nuove forme d'autorità, di modi di punire e di controllare diversi da quelli tradizionali. Il problema di controllare la violenza e l'illegalità in tutte le loro forme e manifestazioni assumeva una particolare rilevanza, e faceva apparire tutte le contraddizioni di una giustizia che si voleva presentare come esercitata indifferentemente erga omnes, quando si trovavano ad essere imputati ed inquisiti patrizi della Dominante: non semplici membri di una classe dirigente - è opportuno ricordare -, ma parti della stessa sovranità. La difficilissima congiuntura di inizio Cinquecento aveva incrinato la compattezza del patriziato della Serenissima: "Tutti porta arme, né vi è alcuna obedientia" aveva annotato Marin Sanudo il 24 giugno 1514, all'indomani del verificarsi di un gravissimo episodio che mette bene in luce la quasi completa assenza di intervento da parte del potere pubblico ed il permanere di una concezione ancora largamente privatistica della risoluzione dei conflitti intra-familiari (33). Era necessario adire le magistrature statali, ma il vero appianamento delle controversie non poteva realizzarsi se non attraverso un'azione violenta, che sancisse il diritto del più forte. È certo un caso limite, quello che vede coinvolti i Donà, ma non per questo meno indicativo di un modo di rapportarsi all'autorità - e da parte di quest'ultima di concepire il proprio ruolo - che, in maniera latente, è probabile risultasse assai diffuso. Quando alcuni ufficiali avevano arrestato Andrea Donà di Antonio per condurlo in prigione, in quanto insolvente della pena di 250 ducati, che i giudici di petizion avevano stabilito dovesse versare ai figli di suo zio Bortolo, erano immediatamente accorsi i suoi figli "quali veneno con spade", riuscendo a liberarlo. Uno di loro, Nicolò, aveva quindi aggredito e ferito Andrea Donà di Bortolo, in quanto causa del provvedimento giudiziario attuato ai danni del padre. La spirale della vendetta si ampliava sempre più, inesorabilmente, e coinvolgeva altri componenti del ceppo familiare. Francesco Donà, fratello del ferito, proponendo ufficialmente di voler procedere ad una pacificazione tra le parti, non appena incontrò il suddetto Nicolò, "comenzò a snudar le spade", dando inizio ad uno scontro che si concluse con il ferimento di quest'ultimo alla gola. "A questo modo passò le cosse", conclude sconsolatamente Sanudo: una lunga sequela di violenze e di infrazioni della legalità, in luoghi pubblici e sotto gli occhi esterrefatti dei cittadini, in risposta alle quali non verrà adottato alcun provvedimento (34).
Vi era quindi una sorta di impunità favorita dall'appartenere ad una famiglia potente, così come vi era una impunità determinata dal fatto di far parte della struttura ecclesiastica. "La justicia non è fatta", esclamava ancora una volta il nostro diarista, stigmatizzando le modalità di accoglimento da parte del collegio delle rimostrazioni del legato apostolico e del vicario patriarcale, i quali erano riusciti a dimostrare che due ladri, sul punto di essere impiccati - e uno di essi aveva commesso ben sette omicidi -, erano in sacris, ottenendo la sospensione dell'esecuzione (35). Così come non ci si poteva trattenere dall'esclamare "mala cossa e danno soportar" il fatto che oltre cinquanta giovani patrizi si fossero fatti investire dal legato della "prima tonsura", allo scopo di eludere la giustizia (36).
Una crisi profonda, quindi, che investiva il mondo veneziano nella sua totalità. Da vasti settori, sia all'interno della classe dirigente, che da parte dei semplici cittadini, emergeva sempre più netta la richiesta di una maggior tutela, di una maggiore certezza del diritto. Il 9 febbraio 1521 Marino Grimani di Piero, un anziano patrizio che grazie ad un'alacre vita dedicata al commercio, aveva accumulato una grandissima ricchezza, denunciava ai capi del consiglio l'aggressione di cui poco prima era stato fatto oggetto, e che aveva visto quali protagonisti "alcuni zentilhomeni zoveni" (37). "Poltron metti zoso quella vesta, tu non è degno di portarla, tu non è stà mai di Pregadi". Così il patrizio riferiva di essere stato apostrofato, e questo - a suo dire - per la sola ragione che da qualche tempo aveva indebitamente adottato l'uso di portare "manege ducal", privilegio e tratto distintivo che connotava ed identificava i componenti del senato. Ad una lettura meno impressionistica dell'episodio, si può avanzare l'ipotesi che i motivi determinanti la violenza subita dal Grimani oltrepassino il fastidio dettato dall'indebita attribuzione di un prestigio politico inesistente. Un primo elemento su cui vale la pena di soffermarsi è quello del più generale atteggiamento dell'aggredito nei confronti dei valori sociali dominanti: se è pure vero che aveva quel vezzo di apparire nelle vesti di senatore - pur non essendolo mai stato - tuttavia, come tiene a sottolineare lo stesso Sanudo, da qualche tempo "va spendendo e facendo il suo pristino costume da misero". Risulta altresì significativo che a sbeffeggiare il Grimani siano stati dei "zoveni". Sarebbe necessario intraprendere una ricerca sull'uso di tale termine nella documentazione veneziana (38). Si può ipotizzare che di fronte al fenomeno della crescente differenziazione - di fortune e di opportunità - interna al patriziato, una delle forme di opposizione, o di semplice espressione di risentimento, da parte di chi rimaneva escluso, o non aveva ancora l'età sufficiente per ricoprire incarichi pubblici, fosse proprio costituita dall'assunzione di certi marchi, di simboli distintivi, di atteggiamenti comuni in cui riconoscersi.
Che non fosse solo un problema di età biologica, ma che investisse anche una dimensione più profonda, sta a dimostrarlo la vicenda "notanda et ridicolosa e di farne memoria eterna" che vide protagonista Polo Bragadin nel 1532 (39). Questi era stato eletto "per denari" alla carica di provveditore alle biave. Aveva cioè approfittato della difficilissima congiuntura finanziaria in cui versava la Repubblica in quegli anni, per ottenere un incarico assai delicato malgrado non avesse rivestito in precedenza alcuna carica pubblica di una certa importanza (40). Godeva comunque, secondo quanto annotava Sanudo, di una discreta fortuna ("ha buona entrata"); era sposato con una Venier, sorella di Marco Antonio, tra i più influenti uomini politici veneziani dell'epoca e in quel momento oratore presso la Santa Sede; era padre di due figli, che non gli davano alcun problema. Un giorno, durante una solenne riunione del consiglio dei pregadi, il Bragadin aveva messo in mostra una foggia alquanto originale, indossando "una vesta di panno [...>, uno par di calzoni lavoradi da zovene et il zipòn con striche et botoni d'oro". Si era quindi seduto accanto ad alcuni giovani che stavano per essere ballottati ad una carica di minor importanza. Questi, appena notato lo stravagante abbigliamento, avevano cominciato a "rider et a levarsi su de banchi", creando uno "strepito" così forte che non se ne era mai udito uno simile nelle aule del senato, tanto da dover costringere gli avogadori ad intervenire. Uno di questi, Jacopo da Canal, mentre i giovani continuavano a deridere il Bragadin, aveva ordinato, con sua grave umiliazione, che il malcapitato tornasse alla sua abitazione soggiungendo che "feva mal a far quel chel feva".
Al di là degli aspetti psicologici o di costume, episodi simili a questo costituivano anche un motivo di preoccupazione sotto il profilo dell'ordine pubblico, intendendo questo termine in un'accezione ampia, espressione delle norme di comunicazione e di identificazione del corpo sociale.
Era questo il terreno su cui si fondava l'incremento dell'autorità dei X, e si verificavano le reali possibilità di una politica del diritto maggiormente efficace. Era con queste attese che il Grimani, nel primo dei due casi che abbiamo preso in considerazione, si era rivolto ai capi del consiglio. Indicativa di tentennamenti e di ripensamenti ma anche di una linea di tendenza che cominciava a farsi avvertire, la risposta fornita dai severi presidenti del "supremo tribunale". Inizialmente avevano affermato che "non li pareria fusse suo officio" l'accettare la querela loro interposta, ma, dopo lunghe discussioni, avevano accettato di prenderla in considerazione.
Le tensioni e le violenze interne al patriziato, portato di una crisi strutturale, sembrano, dunque, promuovere le possibilità per un intervento sempre più ampio da parte del consiglio dei X. Gli esclusi o gli insoddisfatti appartenenti al microcosmo della classe dirigente veneziana esprimevano il sentimento del loro disagio e la percezione della inadeguatezza e della differenza tra quello che in realtà erano e la funzione o l'immagine che avrebbero dovuto rappresentare, in gesti e atteggiamenti in cui, a quanto si può leggere nei registri del "supremo tribunale" degli ultimi anni del '500, sembra scorgersi una particolare coloritura che non era dato di percepire, nei pur difficilissimi anni di cui ci aveva recato testimonianza Marin Sanudo. L'alterigia, la prepotenza, il sentimento dell'onore offeso del patrizio, sembrano ora trovare uno sfogo, assai più che nel controllato ambiente veneziano, nelle proprietà e nelle terre del Dominio. I1 13 agosto 1590 il consiglio dei X decideva di procedere contro Pietro Malipiero di Sebastiano, che, venuto a conoscenza dei "romori" e delle offese che si erano scambiati suo cugino Girolamo e un coltivatore della comunità di S. Stino di Livenza, tale Bonzuanne Bernabè, aveva minacciato quest'ultimo di morte puntandogli addosso una pistola (41). Quando poi Bonzuanne si era recato a Venezia per denunciare ai capi del consiglio la grave intimidazione, il Malipiero lo aveva denunciato e fatto incarcerare dai signori di notte, con la motivazione che quel tale era giunto nella capitale con lo scopo di ucciderlo. Un supplemento di indagine ordinato dal tribunale veneziano ristabiliva la verità dei fatti, stigmatizzando il comportamento, prima violento e poi calunnioso, del patrizio, che nel frattempo si era comunque reso irreperibile, con la condanna alla pena del bando.
Altrettanto significativo il caso contemporaneo che vede protagonista Agostino Donà, figlio naturale di un prestigioso esponente del patriziato veneziano il cavaliere di S. Marco Zuanne Alvise, il quale, "praticando e quasi di continuo abitando a Piove di Sacco", aveva offeso e minacciato alcuni pubblici ministri inviati dal podestà di quel luogo, e aveva quindi attraversato cavalcando la cittadina, congregato attorno a sé uomini armati di archibugi, usato "modi tiranni [...> volendo esser rispettato alle male sue operationi", bestemmiando il nome di Dio, e compiendo una serie di altre gravi infrazioni (42). I X, in questa occasione, erano riusciti a far incarcerare il facinoroso comminandogli la pena dell'esilio di due anni, da scontarsi a Zara, e del risarcimento pecuniario a tutti gli abitanti di Piove, lesi dalle "sue male operationi".
La suprema tutela dell'immagine e della dignità dello Stato: questo lo scopo che il consiglio dei X si prefiggeva nel decretare le pene, e nel motivarle, contro quei nobili che tenevano un atteggiamento assai poco dignitoso e rispettoso dell'antico prestigio. Valenze quasi esemplari assume a tale proposito il processo intentato, il 13 marzo 1611, dal tribunale dei X nei confronti di Giacomo Barozzi di Girolamo (43). Questi, pochi giorni prima di essere convocato in giudizio, vagava per Mestre, accompagnato da una donna travestita da uomo, da un ebreo e da alcuni altri "socii ", "usando maniere inconvenienti al suo stato". Poco dopo aveva usato "parole arroganti, ingiuriose et di grave offesa" non solo nei confronti del podestà veneziano, "ma anco della pubblica dignità". Il Barozzi alla fine veniva condannato "in absentia", come si usava dire per tutti coloro che non ubbidivano alle intimazioni di presentarsi di fronte ai giudici, e alla pena di venti anni di bando dalla capitale.
Risulta assai difficile avvertire, partendo dalle scarne sentenze contenute nei registri del consiglio, tutte le valenze, di ordine sociale e culturale intessute nelle varie vicende, le sofferenze degli uomini, le incertezze dei giudici, il rapporto che poteva intercorrere tra l'inflessibilità e la determinazione di punire, proprie di alcuni rappresentanti dell'autorità, da una parte, con i legami di protezione e la tutela nei confronti di alcuni degli inquisiti che sembrano caratterizzare l'operato di alcuni altri giudici, dall'altra. Difficile comprendere quali strutture comportamentali, quali atteggiamenti - sia da parte di chi si rivolgeva alla giustizia, sia da parte di chi era chiamato ad applicare le leggi - comincino a mutare, impercettibilmente, e quali altri si conservino. Difficile capire quanto i molti episodi di cui percepiamo spesso solo un'eco lontana, siano interpretabili come momenti di quella generale crisi che attraversa la società europea tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo, nel corso della età del Barocco. José Antonio Maravall ha scritto pagine estremamente penetranti sulla perdita del senso di identità collettiva e individuale, sul venir meno dei tradizionali legami di ceto e di gruppo, sull'accentuazione della mobilità sociale cui si oppongono il riemergere di antiche forme di autorità e la volontà di delimitare, definire, neutralizzare quella fluidità (44). Le fondamenta di una società fortemente gerarchizzata vengono scosse da una miriade di conflitti, da una serie di disordini che coinvolgono ambiente urbano e rurale, ceti emarginati, borghesie cittadine, patriziati. Dalla Catalogna a Napoli, dalle Fiandre al Portogallo, l'impero asburgico deve fare i conti con tumulti popolari e rivolte separatiste (45); l'incremento dei disordini rurali, delle faide nobiliari, la sempre più netta divaricazione tra ricchi e poveri: sono tutti fenomeni che agitano la grande monarchia francese e determinano una nuova configurazione dei rapporti di autorità all'interno dei suoi territori (46). "Per far fronte a questo molteplice e complesso e furioso groviglio di opposizione e di protesta", ha scritto Maravall, "gli stati si trovano di fronte a due esigenze: rafforzare i mezzi materiali di repressione, e dotarsi di mezzi di penetrazione delle coscienze e di controllo psicologico che, favorendo il processo di integrazione e combattendo i disordini e le violenze", assicurino loro il controllo della situazione (47). Al di là delle rivolte e delle turbolenze che mettevano così in discussione la legittimità del potere, il senso di questa età tanto contrastata sembra anche potersi rinvenire in una pluralità di atteggiamenti, di mode, di risentimenti, di una enfatizzazione del senso dell'onore offeso, della ricerca di forme di convivenza più autentiche, sganciate dall'autorità, ora paternalistica, ora tremenda, della famiglia, del ceto, dello Stato.
Cerchiamo di capire se e attraverso quali modalità si configuri, nella città di San Marco, questo nuovo atteggiamento dell'autorità pubblica; attraverso quali magistrature, quale strumentazione istituzionale e ideologica la classe dirigente veneziana avvii, o cerchi di avviare, un processo di controllo e disciplinamento, sia al suo interno che nei confronti degli altri gruppi sociali. Se è probabile che gli episodi su cui ci siamo soffermati risalenti agli anni 1590 e 1591, nella loro tipologia e nel loro sviluppo, sarebbero risultati perfettamente riconoscibili, quotidiani, per gli uomini vissuti due generazioni prima, non altrettanto si può dire di altri casi, di cui i registri del consiglio dei X ci offrono ampia documentazione. Un'enfasi decisamente non comune accompagna la condanna emanata nel 1598 dal massimo tribunale veneziano nei confronti di Zuanne Memmo di Michele (48). Questi, pur essendo già stato condannato più volte per vari delitti, teneva "strettissima pratica con molti uomini di mala vita, vitiosi, sicarij, sanguinarij". Tale compagnia di bravi vagava per la città terrorizzando, il giorno e la notte, i cittadini veneziani, non lasciandosi sfuggire le occasioni che "se li offrivano di far offender". Ma ciò che agli occhi della giustizia suonava ancor più grave era il fatto che il Memmo, grazie all'appoggio della sua violenta compagnia, aveva spinto la sua soperchieria fino al creare una sorta di istanza giudiziaria alternativa a quella pubblica, dotata di una legittimità che, sebbene affondasse le proprie radici nella prepotenza e nella costrizione, non si esauriva completamente in esse, ed era piuttosto determinata dallo stato di malessere e di confusione che regnava nella società, e nelle stesse carenze dell'autorità statale nelle funzioni di controllo e repressione. Zuanne Memmo si era quindi "costituito formidabile determinatore delle differentie di varie persone, così christiane come non, le quali col mezzo del denaro che a lui et a suoi satelliti convenivano contribuire erano indotte ad appoggiarsi a lui che con bravura si intrudeva in molti negotij, da i quali dissegnava di ritrarre abbominevole guadagno". Minacciava chiunque non si voleva sottomettere ai "compromessi" vidimati dalla sua autorità, si arrogava il diritto "nel far e disfar matrimoni", tanto a Venezia che fuori. Non si presenterà ai X che lo condanneranno al bando perpetuo da tutto il Dominio e alla privazione del titolo nobiliare.
L'orgoglioso sentimento di appartenere alla nobiltà veneziana e il senso di onorevolezza e di rispetto che ne poteva derivare, assumevano nel corso di questi anni una pericolosa inclinazione verso comportamenti decisamente violenti e lesivi dell'immagine di quella ben ordinata Repubblica cui i governanti affidavano il compito precipuo di legittimazione del potere e di coesione sociale. Molto significativa a questo proposito, per la delicatezza della questione e per il tipo di intervento operato dai X, appare la vicenda che vede coinvolto nel 1590 Zuanne Giustinian, cavaliere di Malta (49). Mentre i membri del consiglio si erano riuniti nella loro autorità ordinaria, il capitano addetto alle funzioni di polizia all'interno del palazzo Ducale aveva arrestato un servitore dell'influente patrizio, in quanto girava armato, con intenzioni poco rassicuranti, nei pressi della scala dei Giganti. Il Giustinian era immediatamente intervenuto, chiedendo l'immediato rilascio del suo dipendente. Ad un deciso diniego del rappresentante delle forze dell'ordine, si era infuriato lamentando "che fusse stato portato poco rispetto a pari suoi", e aveva percosso ripetutamente sulla faccia il malcapitato.
A leggere le sentenze emanate dai X nei confronti di patrizi veneziani, nel corso di questi anni, non è difficile scorgere la volontà di comminare pene in qualche modo esemplari nella loro severità. In questa occasione, invece, la clamorosa infrazione dell'immagine della giustizia e dell'autorità, proprio all'interno dei luoghi "sacri" in cui queste erano fondate, verrà punita assai più mitemente. Quale cavaliere gerosolimitano il condannato godeva innanzitutto del privilegio ecclesiastico (50), e quindi i X avevano deciso che il costituto di accusa che lo riguardava fosse letto alla presenza di un "accessor ecclesiastico": risulta evidente come tale clausola rappresenti una lampante infrazione di uno dei pilastri su cui si reggeva la procedura inquisitoria, e cioè quello dell'autodifesa dell'accusato, del non intervento degli avvocati (51). Il prestigio ed i legami di protezione e di parentela all'interno della cerchia di potere veneziana di cui godeva l'imputato, ai quali si univa provvidenzialmente un'altra forma di privilegio, porteranno alla risoluzione finale, in cui più che il risentimento per una infrazione dell'ordine pubblico, risuona piuttosto la volontà di imporre un risarcimento di natura religiosa. Il Giustinian, che aveva dovuto subire l'umiliazione del carcere, verrà rilasciato dietro il versamento di 800 ducati, da dividersi tra vari monasteri e luoghi pii e tra le quattro Scuole grandi.
Una severità ancora maggiore caratterizza altre sentenze dello stesso periodo. Nel 1611 i fratelli Giacomo e Gabriele Vallaresso venivano condannati al bando dalla città marciana e da tutte le terre dei Dominii da Terra e da Mar, per aver aggredito uno scudiero del doge, colpevole del solo fatto che una sera durante il carnevale, mentre si festeggiava a palazzo un matrimonio, mancando di rispetto ai due patrizi, aveva rifiutato di "tuorsegli davanti", scostandosi dal luogo che gli era stato destinato "a tener un tozzo per illuminar la sala", come essi avevano preteso (52). Così come durissimi erano risultati il proclama, bando e taglia emanati nei confronti di Piero Valier nel 1597 (53). Questi aveva utilizzato il prestigio del titolo che la nascita gli aveva conferito per fuggire proditoriamente la cattura. Pur essendo già bandito da Venezia, si era recato a casa del fratello Andrea. Di lì aveva raggiunto il palazzo di Andrea Tiepolo, verso il quale aveva concepito nel tempo un "odio mortale". Per tale motivo, incontrandolo, lo aveva colpito cinque volte con la spada. A questo punto, "per timor d'esser fatto prigione dal popolo" - in forza di quel meccanismo di delega di funzioni di polizia che abbiamo già incontrato in un caso narrato da Marin Sanudo - aveva spiegato a chi tanto minacciosamente l'aveva circondato di esser "nobile venetiano" e di essere stato ferito da alcuni incogniti.
Agli occhi dei governanti ancora più grave che un malinteso senso d'onore, che si reggeva sulla credenza degli immutabili rapporti gerarchici tra gli individui e le classi (proprio quando quella credenza veniva messa in discussione, e assumeva sempre più sovente un aspetto decisamente secentesco: il puntiglio d'onore, il rispetto delle precedenze) risultava, in un'epoca tanto inquieta, la lesione di quei legami di tutela, di protezione, di "amicizia", che gli appartenenti ai vari ceti ricercavano con tanta insistenza. Le istituzioni di governo potevano non assolvere alcuni dei compiti punitivi o repressivi che rientravano nella loro competenza, non potevano mancare di tutelare la quiete e la pace dei sudditi. Ancora negli anni iniziali del XVII secolo sembra assai diffuso l'intreccio tra forme di composizione dei conflitti in forma privata o semi-privata e legittimazione di tale sistema di pacificazione tra le parti ad opera dell'autorità pubblica. È opportuno sottolineare come proprio in un settore di fondamentale importanza per l'affermazione di una più piena sovranità, quale quello riguardante il controllo e la tutela di pacificazioni e arbitrati, tenda ad affermarsi, sopra la giurisdizione delle tradizionali magistrature, l'autorità dei X. Nel corso del 1598 era stata condotta un'azione processuale nei confronti di Giacomo Balbi di Marco Antonio, accusato di aver cercato di strappare con la violenza dalle mani del notaio Pietro Figolino uno strumento con cui si era stabilita la pace tra lui stesso ed un altro patrizio (54). Quando il notaio aveva minacciato di denunciarlo ai capi del consiglio, Giacomo Balbi aveva risposto che l'avrebbe fatto "a pezzi", bestemmiando inoltre il nome di Dio. Analogamente, nel 1610, il nobile Roberto Priuli di Francesco veniva condannato a dieci anni di bando da Venezia e distretto, per essersi rifiutato, dopo aver dato il suo assenso in un primo momento, di far "notare la pace", stipulata con tal Lorenzo miniador, "nell'officio dei Provveditori alla Pace". L'accusato aveva inferto a Lorenzo tre stilettate, affermando che i motivi della composizione per via amichevole della lite erano venuti meno, in quanto suo figlio era stato gravemente accusato dalla controparte in un luogo pubblico (55).
In questa età di conflitti violenti all'interno delle famiglie, tra padri e figli, tra parenti ed affini, tra diversi ceti sociali, in questa età di sospetti e di chiusure, di crisi dell'autorità, il sentimento fraterno dell'amicizia assumeva un'importanza centrale. Era questo un modo di sentire che poteva addolcire i rapporti interpersonali, che poteva rendere meno sgradevole la durezza dell'esistenza terrena, era questo che poteva porre freno alla tendenza all'asocialità, alla disubbidienza, alla vita sregolata che coinvolgeva in misura crescente membri del patriziato e degli altri ceti. Vi era anche un indubbio pericolo: quel sentimento era sì funzionale alla neutralizzazione di tendenze ritenute eversive della "quiete" dello Stato, ma poteva anche costituire il momento in cui i valori sui quali si fondava una parte di quella stessa "quiete" - il paternalismo, il senso della continuità e della preminenza della famiglia perdevano quei contorni così rigidi, si scioglievano, creando le possibilità di un modo di vivere più autentico e più libero: nella Venezia di inizio Seicento, questa realtà così aggrovigliata, in cui vecchio e nuovo si mescolano confusamente, emerge con grande evidenza nella barocca, "eroica amicizia" di Marco Trevisan (56). La delicatezza di tale questione a livello di pratica sociale e di immagine dell'autorità, che è ciò che in questa sede interessa mettere in luce, e la percezione della sua urgenza, come veniva avvertita da una parte del patriziato veneziano, sono testimoniate da alcune sentenze del consiglio dei X, nelle quali sembra che la particolare enfasi, assieme alla severità delle deliberazioni, sia proprio determinata dalla infrazione proditoria dei legami di fiducia-protezione o di "amicizia", su cui si doveva fondare la stabilità sociale. Certamente clamorosa in questo senso la vicenda in cui sono coinvolti nel 1597 Giacomo Zorzi e Isabella Pisani (57). Quest'ultima era sposata a Girolamo, fratello di Giacomo, e abusando della fiducia del marito aveva tenuto a lungo "un commercio carnale" con l'accusato; aveva inoltre concepito illegittimamente un figlio, facendo credere al consorte che fosse frutto del loro legame.
Nel 1594 i X avevano deliberato di procedere nei confronti di Francesco Trevisan di Polo, per l'aggressione che questi aveva compiuto nei confronti di tale Filippo Inzegner (58). Il nobile volendo "accompagnar in matrimonio" una donna aveva cercato di convincere l'Inzegner di intercedere per lui. Le cose tuttavia erano andate diversamente da quanto previsto, per cui il nobile, "presa certa mala soddisfatione", aveva invitato l'Inzegner ad un banchetto che si sarebbe tenuto nella sua casa della Giudecca. Qui, presso il luogo che era stato deputato alla celebrazione delle nozze, il Trevisan, dopo aver ricevuto "con dimostrazioni amorevoli" il malcapitato, lo aveva ripetutamente colpito "con un bastone o tizon di remo piombato et pesante", fin quasi a renderlo in fin di vita. Anche in questa occasione la giustizia non era riuscita a mettere le mani sull'inquisito, che pertanto era stato condannato alla pena del bando perpetuo da Venezia e Dogado. Il 5 giugno 1611, i X avevano deciso che fosse pubblicata in maggior consiglio la sentenza che condannava al bando perpetuo Bernardo Balbi di Zuanne, il quale, avendo concepito "odio gravissimo" nei confronti di Francesco Bragadin, aveva deliberato di ucciderlo, "non ostante che havesse detto a terza persona [un mediatore amichevole> di non offenderlo et che poteva camminare sicuramente" (59). Il protagonista della vicenda, accompagnato da due bravi "vestiti alla straniera", aveva atteso il rivale all'uscita di messa, e l'aveva crudelmente trucidato.
Il legame di fiducia e di protezione che univa gli uomini, e che tanti documenti ci traducono con il termine "amicitia", sembra conservare una sostanziale ambiguità: può stare ad indicare il sintomo di una attenuazione delle differenze sociali ed il primitivo emergere di una concezione più egualitaria dei rapporti interpersonali, ma anche indicare il riaffermarsi dell'antico spirito di clan, di una alterigia che sovrappone la comunanza della stirpe o della clientela all'impersonale tutela garantita dalle leggi. Nel 1611, ad esempio, Filippo e Pietro Molin avevano concepito "disgusto" nei confronti di Nicolò Malipiero - e per questo motivo lo avevano ferito, mettendo in pericolo la sua vita - accusandolo di aver offeso un tale chiamato "Conte", "contro la parola di amicitia" che gli avevano dato i due suddetti e che gli era stata confermata dal loro fratello Marc'Antonio (60).
I X cominciano dunque ad esercitare, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, un controllo sempre più stretto ed occhiuto sulle più varie manifestazioni della vita associata, segno di una maggior coscienza ed attenzione con cui il patriziato veneziano intende la propria missione di governo e disciplinamento. A tale proposito può essere utile paragonare un clamoroso episodio di inizio secolo, riportato da Sanudo e rappresentativo del modo di operare delle istituzioni di quel periodo, con un altro caso del tardo Cinquecento, tipico della procedura e della particolare sensibilità proprie dei X. Clima sociale, partecipazione della comunità, uso della scenografia urbana, sembrano differenziare profondamente le due epoche qui prese in considerazione. Il 24 gennaio 1518 era tanta l'attesa per la pubblica festa che doveva tenersi quel giorno a San Polo organizzata dal "bogia publico" Albaneseto, che attorno al grande campo veneziano erano stati fatti costruire "molti soleri", e si era addirittura deciso, dietro richiesta del consigliere ducale Nicolò Bernardo, di non far tenere per quel giorno la riunione del maggior consiglio, onde consentire a tutti i patrizi di partecipare (61). Questa realtà configura l'assenza di una segregazione tra classe dirigente e popolo, e presenta piuttosto una originale commistione in vista di una comune occasione ludica. Erano accorsi numerosissimi uomini mascherati; si era svolta una caccia ai tori, e quindi una corsa tra tori e cani. Un tale, che teneva "uno priapo" dentro una gabbia, si era avvicinato ad una giovane e l'aveva uccisa. La mattina seguente fu fatta "una crida" a San Polo, con cui la Serenissima Signoria ordinava "fosseno fatti disfar li soleri", e non si fece altro, come nota Sanudo con una certa costernazione.
Ben diverso risulta l'atteggiamento e la severità con cui verranno processati e condannati il 24 maggio 1597, Vincenzo Rota, stuer a S. Giovanni Noco, e suo zio Giacomo (62). I due erano risultati i responsabili dei gravissimi disordini accaduti nell'occasione della nomina del nuovo piovano. Mentre si andavano riunendo gli elettori, i Rota cercando di favorire "uno di loro concorrenti, havendo essi a male che fosse cridato dal popolo et da putti a favor di altri", avevano aggredito, minacciato di "sbudellare", ferito, ed infine ucciso uno degli oppositori. Il bando perpetuo veniva comminato nel 1611 anche nei confronti di un sanser, di un herbaruol, di un biavarol, di un mercante di chiodi, e di un capitano delle prigioni (63). Gli accusati, "armati di arme lunghe et curte", avevano occupato il campo S. Maria Formosa, "facendo cantar et sonar da musici" e continuavano ad importunare e minacciare i passanti, tra cui vi erano stati anche alcuni patrizi veneziani, posti in ridicolo "con scandalo grandissimo et contra la libertà et sicurtà della città".
Grande attenzione si doveva prestare anche alle tradizionali occasioni di ritrovo per motivi conviviali o per festeggiamenti di vario tipo: riunioni che potevano dar luogo a disordini, manifestazioni violente, risoluzione di lunghe faide. Significativa in questo senso la premura con cui i X emanavano, nel 1594, un provvedimento punitivo nei confronti del capitano grande - uno dei responsabili del controllo sull'ordine pubblico, alle dirette dipendenze del consiglio -, perché "contra gli ordini espressamente datigli da li Capi di questo Conseio", aveva lasciato "far la guerra" i giorni di Santo Stefano e San Giovanni, pur essendo a conoscenza dei luoghi in cui quei rituali combattimenti venivano rappresentati (64). Si vorrebbero conoscere le ragioni per le quali si erano scatenate "tumulti et sollevationi del populo pericolose et scandolosissime", sempre nel 1594, nel corso della "guerra dei legni" che coronava il tradizionale scontro tra Castellani e Nicolotti (65), in disobbedienza agli ordini dei capi del consiglio che l'avevano proibita (66). Va sottolineata anche in questa occasione la completa assenza delle forze dell'ordine: impunito e con "meraviglia et mormoratione universale", Zulian de Zuliani, uno dei capi delle parti, aveva fatto suonare le campane di S. Agnese. A causa di questo e di altri eccessi, i responsabili dei disordini verranno condannati a pene del bando variabili dai 10 ai 15 anni.
La necessità di controllare e disciplinare comportamenti e attitudini dei membri interni della classe dirigente veneziana, come quella di reprimere, o addirittura anticipare, possibili disordini che potevano scaturire sia da conflitti intercorrenti tra ceti e gruppi istituzionalizzati, così come da quelli che coinvolgevano fasce marginali di popolazione, sembra favorire, in misura sempre crescente, la concentrazione nelle mani dei X della funzione di supremo tutore della pace e della quiete dei sudditi, grazie alla forte enfasi sul momento dell'autorità garantita dalla procedura del tribunale. È necessario chiedersi se e come nella Venezia di fine '500 e inizio '600 muti l'immagine della sovranità. Non solo all'interno del patriziato - lo scontro tra Vecchi e Giovani risulta estremamente significativo a tale proposito -, ma anche presso fasce crescenti di cittadini. Dalle denunce e dalle suppliche rivolte ai X è possibile percepire la tendenza all'incremento della richiesta di un intervento maggiormente diretto ed efficace, in grado di superare le consuete barriere istituzionali e giurisdizionali, incontrando un interlocutore privilegiato, in questo senso, nell'"auttorità suprema" del tribunale. Una linea di tendenza, questa, che è già stata chiaramente evidenziata per quanto riguarda lo Stato da Terra (almeno a partire dai durissimi anni della crisi del 1590-91) (67), ma che è possibile riscontrare, ad una lettura dei fitti registri di sentenze del tribunale, anche per la città capitale. Vi è indubbiamente una spinta interna che porta i detentori dell'autorità a chiarificare l'estensione degli ambiti di intervento, a concentrare la funzione di comando in organi ristretti, più agili e duttili, a mettere a fuoco la nozione di sovranità; ma tutto questo non sarebbe sufficiente a garantire la legittimazione del potere se un'analoga esigenza non fosse avvertita dai sudditi, se di fronte al disordine ed al malessere sociale non sorgesse la richiesta di una giustizia più severa ed incisiva.
Risultano significativi, in tal senso, alcuni interventi dei X diretti a punire non tanto coloro che si erano macchiati di fatti di sangue particolarmente efferati, quanto piuttosto a condannare coloro i quali avevano osato infrangere alcune delle tacite regole su cui si reggeva la struttura della società - pensiamo, ad esempio, alla necessaria deferenza da tenere verso i superiori -, e a reprimere soprattutto quell'insieme di comportamenti che potevano risultare in qualche modo particolarmente lesivi di quell'immagine di ordine e quiete, che doveva promanare dagli atti e dai provvedimenti dell'autorità pubblica. In questo contesto non può stupire che nel 1596 venisse condannato al bando di dodici anni dalla città e distretto di appartenenza tale Antonio detto Corazza da Monselice, "solito servir in casa de diversi in questa città", e ultimamente in quella di Alvise Morosini di Zuanne (68). Questi aveva ordinato al servitore che lo passasse a prendere con la barca, in quanto doveva recarsi ad una certa festa. Il Corazza non aveva ubbidito: anzi era rimasto a casa a giocare alle carte con alcuni compagni. Quando il padrone si era permesso di riprenderlo lo aveva colpito alla testa invero assai leggermente; aveva tuttavia espresso in varie occasioni il dispiacere "di non haverlo amazato". I X motiveranno la condanna con il motivo che il Corazza "sia stato così perfido et arrogante" da aver posto da parte "il rispetto che deve havere il servo al padrone".
Ancora più chiaramente che in questo caso la particolare logica che si sta cercando di mettere in luce emerge dalla vicenda dalle tonalità drammatiche che vede coinvolte nel 1598 le sorelle Lucrezia ed Isabella Zanuchini (69). Queste erano riuscite a far pervenire alcune scritture all'autorità dei X - e sarebbe interessante sapere attraverso quali mediazioni e quali meccanismi -, in cui si narrava come da troppo tempo fossero "malamente et tiranicamente trattate dal padre, il qual abusando la cura et governo di esse", di cui era stato investito per ordine del tribunale della quarantia civile, "va consumando le di loro substantie et va procurando con intacco delle doti di esse povere figliole di collocarle in matrimonio a chi a lui piace". L'intervento dei X era nell'occasione determinato dal motivo che "convenendo alla pietà di predetto Conseio, che ha sempre la protettione di persone oppresse" si rendeva necessario il provvedere "per la libertà et sicurtà di predette figliole". Si ordinava pertanto di sottrarre le due sorelle a quello sciagurato affidamento e di porle in un convento in attesa di una ulteriore deliberazione.
Da quanto fino a questo punto analizzato è possibile percepire come motivazioni di tipo moralistico-tradizionale venissero addotte a giustificazione di provvedimenti che sancivano di fatto un allargamento del potere di intervento del consiglio. È certamente un tema di notevole interesse quello delle modalità e delle interconnessioni che si stabiliscono tra la sfera privata-familiare e il crescente intervento della sfera pubblica. Si è notato come nel corso della prima età moderna si realizzino quelle trasformazioni, nelle mentalità e di riflesso nelle istituzioni, che portano alla confessionalizzazione dello Stato e alla statalizzazione della Chiesa: un complesso processo dialettico che provocherà, da una parte, l'irrobustimento delle facoltà di controllo delle Chiese, riformate e non, su fasce sempre più ampie di individui, e che si compirà con la creazione di una rete sempre più estesa e capillarmente diffusa di "funzionari", ben addestrati per i compiti di evangelizzazione e di acculturazione loro delegati: in tal modo si creavano i presupposti per un massiccio sistema di coinvolgimento, attraverso l'uso dei sacramenti quale momento di controllo e disciplinamento, e attraverso lo svilupparsi di un apparato dottrinario, ideologico e propagandistico sempre più raffinato; dall'altra parte, per motivi di ordine pubblico e a causa di una sempre più pronunciata coscienza della "ragion di Stato", i diversi sovrani mettevano alacremente in atto la loro intenzione di gestire in proprio, senza inframettenze ecclesiastiche, i problemi che potevano sorgere all'interno di quella sfera in cui il momento sacrale e quello più propriamente profano si frammischiavano (70). Uno dei settori in cui queste due spinte quella tendente alla "sacralizzazione" delle strutture di potere civili, e quella tendente alla "statalizzazione" dell'organizzazione ecclesiastica dalle diverse origini ma convergenti verso il medesimo obiettivo, venivano a sovrapporsi, provocando aspri contrasti politici e giurisdizionali, era quello della materia matrimoniale, di difficilissima gestione per la serie di interessi patrimoniali e di ansie individuali che coinvolge (71).
All'interno di questa tematica di estrema rilevanza era il problema della promessa di matrimonio. Qui la normativa tridentina aveva cercato di mettere ordine, superando le attitudini consuetudinarie dei vari Stati, sancendo la centralità di quel sacramento nell'organizzazione della società cristiana, ponendo con chiarezza al vertice del riconoscimento dell'unione indissolubile tra uomo e donna il ministro ecclesiastico. Un processo lento e controverso questo di cui si parla, dalle radicatissime incrostazioni secolari che permangono ancora a Settecento inoltrato, al quale non poteva certo rimanere estranea l'autorità del Principe, in quanto investiva la fama dei sudditi e l'onorevolezza delle famiglie - valori così fortemente avvertiti ai diversi livelli della gerarchia sociale lungo il corso di tutta l'età classica (72), e soprattutto nel periodo barocco. Uno sviluppo che a Venezia assumeva una valenza tutta particolare, essendo nella città di San Marco precocissima l'assunzione da parte del potere di caratteri sacrali, la fusione del momento religioso con quello laico (73). Più che di un conflitto di competenze si potrebbe parlare, per questo periodo, di una sovrapposizione o di una complementarità tra le due funzioni.
Una legge emanata dal consiglio dei X il 27 agosto 1577, in cui si evidenzia bene l'assorbimento da parte dello Stato di un'importante funzione che la Chiesa rivendicava come appartenente alla propria giurisdizione, riguarda il problema gravissimo della promessa di matrimonio e del valore che ad essa si doveva attribuire (74). "Se intende [proclamava l'incipit del provvedimento legislativo> che in questa nostra città di Venetia è stato introdotto da diversi scellerati che, sotto pretesto di matrimonio, pigliano donne con la sola parola de presenti e con l'intervento di qualcuno che chiamano compare, senza osservar le solennità della Ciesia, e che dopo violate e godute per qualche tempo le lassano, ricercando la dissoluzione del matrimonio fatto contra li ordini del Sacro Concilio di Trento". Del rispetto e dell'attuazione della parte venivano incaricati gli esecutori contro la bestemmia, su cui presto ci soffermeremo, "a onor del Signor Dio e per la conservazion dell'onor de simil donne".
In molte occasioni, nonostante quanto disposto nella legge appena citata, la giurisdizione e la facoltà di punire quel tipo di infrazione venivano saldamente mantenute nelle mani dei X, almeno per i casi di maggior gravità. Risulta significativo, a tale proposito, sia per il tipo di istanza che proveniva da una parte della società che per le modalità di intervento del potere sovrano, il processo condotto dai membri del consiglio, nel corso del 1615, nei confronti di Giacomo Ascarelli (75). Questi era accusato di essere stato "così perfido et sfaciato" da rifiutare di condurre all'altare la figlia dell'avvocato Domenico Michiel, "contra la fede data et a lui con tante maniere et con tanti stretti legami obligata". L'inquisito aveva trattato il matrimonio "et concluso parentado" con il suddetto Michiel nella persona di sua figlia Isabella. Alla presenza dei due genitori l'Ascarelli aveva imposto, "per segno della compita sua satisfazione et per caparra del matrimonio concluso", al dito della promessa sposa un anello d'oro "con pietra bianca", sui cui era inscritto "con intagliate lettere, esser dono di lui Giacomo Ascarelli ad Isabella Michiel, sua diletta consorte"; nel lasciare la casa le aveva poi toccata la mano, "per ancor più certo pegno dell'averla accettata per moglie", ed infine l'aveva baciata. Era quindi stato fissato il giorno delle nozze, ma lo sposo non si era presentato, adducendo "falsi pretesti". Al padre che aveva espresso il suo disappunto, si era rivolto minaccioso: avrebbe usato nei confronti della figlia, qualora costretto a prenderla in moglie, "ogni peggior trattamento". Si era però momentaneamente ricreduto: aveva avanzato le sue scuse e stabilito una nuova data per la celebrazione dell'unione. Ma quel giorno, "aggiungendo ingiuria ad ingiuria" non si era presentato, "offendendo [a detta dei X> per questa via una casa honorata et una figliuola di ottimi costumi et bontà, con pregiuditio particolare del suo maritarsi, con notabile affronto et disgusto di tutti li parenti, con brutto et scandaloso essempio et con pessime conseguenze".
Uno dei segnali dell'espansione del potere di comando assunto dai X, nel corso dei primi anni del '500, era costituito dalla creazione di una serie di magistrature, cui il consiglio, sempre più occupato nei pressanti compiti di gestione della politica interna ed estera, aveva iniziato a delegare funzioni di controllo amministrativo o giudiziario su materie di altrettanto urgente necessità. In tal modo si cercava, duttilmente, di non frantumare la concentrazione dell'autorità detenuta dal tribunale "supremo", e per questo motivo si era anche cercato di scegliere i componenti delle nuove magistrature secondo criteri più severi (76). Per alcune di esse si era pensato addirittura di estrarli dalla rosa, assai ristretta e prestigiosa, degli individui che erano già stati, almeno in un'occasione, membri del consiglio dei X. Tutte le istituzioni di nuova nomina avrebbero dovuto inoltre adottare la procedura inquisitoria ed il rito segreto proprio del consiglio.
Si era cominciato con i savi alle acque, nel 1501, che dovevano sovraintendere ad una materia ritenuta di fondamentale importanza per la sopravvivenza della città. Si era quindi proceduto con il nominare un provveditore sopra le artiglierie, a testimonianza della intromissione dei X nel settore bellico e dell'organizzazione militare, e due provveditori sopra i beni comunali, e cioè sul patrimonio fondiario acquisito dalla Repubblica negli anni successivi alla conquista della Terraferma. Per venire a materie che interessano più da vicino questa ricostruzione, nel 1521 erano stati nominati tre provveditori sopra i monasteri, con il compito di controllare il comportamento degli ecclesiastici regolari. È questo un provvedimento di notevole interesse: in un'età in cui si registrava, con sempre maggior preoccupazione, la diffusione di focolai di riforma protestante all'interno del Dominio, ci si preoccupava di arginare la pericolosa tendenza alla messa in discussione dei valori del culto divino e del rispetto per i luoghi sacri, ridando dignità e serietà a quelle istituzioni, come i monasteri, in cui avrebbero dovuto trionfare la devozione e la santità. Nel 1537 sarà la volta degli esecutori contro la bestemmia, e, due anni più tardi, degli inquisitori sopra la propalazione dei segreti. Quest'ultima magistratura, creata inizialmente allo scopo di reprimere lo spionaggio e la fuga di notizie riguardanti la politica estera verso i sovrani stranieri, sarà destinata a divenire, già a partire dagli ultimi anni del secolo, il "più potente organo di governo della Repubblica" (77).
Della crescente sollecitudine da parte del patriziato veneziano per il problema dell'ordine pubblico costituisce un'interessante testimonianza un tentativo di riforma fallito. Nel 1544 i capi dei X propongono di istituire tre provveditori sopra l'onesto vivere e boni costumi, allo scopo di riconciliare Dio con la città, in un momento di particolare difficoltà, determinato dai mille ostacoli interposti al raggiungimento della pace con il Turco e dalla minaccia incombente di una guerra con Imperiali e Francesi (78). I nuovi magistrati avrebbero dovuto provvedere ad estirpare vizi e lascivie, soprattutto a porre argine al problema dilagante del meretricio; solo in questo modo si sarebbe ottenuta la tanto desiderata "clementia" del "Signor Dio". La proposta di legge cadde nel nulla. Difficile cogliere i motivi di tale insuccesso: forse si era ritenuta troppo costosa per le casse dello Stato l'eccessiva proliferazione di istituzioni o magistrature; o forse si erano paventate le resistenze ad un provvedimento che avrebbe ulteriormente sancito la centralizzazione, nelle mani dei X, dell'attività politico-giudiziaria; forse, più semplicemente, si era giudicata pletorica la creazione di una istituzione, i cui compiti rientravano già tra le attribuzioni dei provveditori sopra la sanità.
La magistratura che forse meglio di ogni altra impersonifica il processo per cui diversi aspetti della vita associata vengono sottoposti ad un controllo sempre più occhiuto e capillare, ad un'autorità sempre più severa, è certamente quella degli esecutori contro la bestemmia. Abbiamo già sottolineato lo stretto legame intercorrente nell'orizzonte mentale degli uomini di quell'epoca tra religione, moralità e giustizia. Erano diffusi il sentimento di una divinità presente nella sfera terrestre che osserva e giudica gli uomini, l'intuizione di una dimensione sociale e collettiva propria del peccato, che non si esauriva nella dimensione individuale, ma riverberava i suoi riflessi e coinvolgeva l'intera comunità, richiamando su di essa gli strali della punizione divina. In tale contesto, il reato di bestemmia assume un rilievo straordinario. I giuristi lo collocavano tra i crimini contro natura, al pari della sodomia; più generalmente veniva percepito come proterva infrazione del patto tra uomini e divinità (79). Per questo motivo si doveva punire esemplarmente chi si macchiava del grave peccato, e per questo si dovevano reprimere tutte quelle manifestazioni in cui gli uomini potessero essere indotti a commetterlo.
Fino alla creazione della magistratura (80), la punizione del reato era stata delegata ora agli avogadori di comun, ora al consiglio dei X (81). Le varie leggi che nei primi due decenni del secolo si erano succedute su questa materia, erano risultate scarsamente efficaci. Nel corso dei durissimi anni '30 del secolo la necessità di una maggior capacità di punire i rei, che era alla base dell'istituzione degli esecutori, veniva così esplicitata: "dovendosi aver sempre avanti li occhi il timor di Dio, dal quale dipende il beneficio e pubblico e particolar della Repubblica nostra" (82).
Nel breve volgere di qualche anno gli esecutori vennero investiti del potere di giudicare tutta una serie di altri delitti. Nel 1539, una parte emanata dai X con la "zonta", facendo retoricamente rimarcare come, essendo quasi scomparse le bestemmie, "onde si può sperar protettione et gratia dalla Divina Maestà verso il Stato nostro", restavano ancora da colpire quei luoghi e quelle pratiche la cui stessa esistenza invitava al crimine contro la divinità (83). Si dovevano pertanto porre sotto il controllo degli esecutori "redutti" e "bettole", in cui oltre alle bestemmie si commettevano "altri enormi et detestandi peccati, accompagnati dal gioco, altra manifesta rovina delle facoltà et delle persone". Dopo il gioco, sarà la volta degli scandali commessi in luoghi sacri. Il 21 dicembre 1541, riprendendo il testo di una precedente legge del 1523, i X, stigmatizzando la "tanto estrema insolentia" e la "litentiosa audatia della zoventù di questa Terra", avvertivano la necessità di arginarle: da allora in avanti chiunque avesse osato "desnudar spada, cortello o arma di cadauna sorte [...> senza reverenza del Signor Dio", nelle chiese, nei monasteri, o nelle Scuole grandi, sarebbe stato bandito dagli esecutori alla pena del bando di cinque anni dalla città di Venezia e Dogado, e alla pena pecuniaria di 300 lire di piccoli (84). In seguito ad un increscioso episodio verificatosi nella chiesa di S. Stefano, nel corso del 1547, si estendeva la giurisdizione degli esecutori - con pena "ad arbitrio della conscienzia" dei magistrati nei confronti di coloro "che in chiese et lochi sacri, con diversi modi", si colpivano con "bastonate, pugni et schiafi" (85). Attraverso un altro decreto del 7 settembre 1543 si affidava alla nuova magistratura il controllo sull'applicazione della legge del 1527, che stabiliva che si potessero stampare libri a Venezia solo dopo aver ottenuto, per iscritto, il beneplacito dei X, e questo allo scopo di ovviare "alla licentia che facilmente ciascuno ha de stampar libri in questa nostra città", con il pericolo di immissione sul mercato di opere "dishoneste et de mala natura" (86). In una parte del febbraio 1543 si estendevano le pene anche ai "bottegheri", e a chiunque commerciasse in libri editi senza licenza e agisse pertanto contro "l'honore de Dio", in offesa della fede cristiana, e con "malo exemplo et scandolo universal" (87).
Il timore della diffusione di idee eterodosse, tali da mettere in discussione le fondamenta della vita associata, l'angoscia per il diffondersi dell'eresia a Venezia e nello Stato, portava a provvedimenti sempre più rigorosi, ad una normativa che restringeva sempre di più i margini di elusione: il 28 giugno 1569, i X demandavano agli esecutori il compito di controllare gli stampatori che, dopo aver sottoposto le opere all'approvazione della magistratura, con la scusa di "correger gli errori di ortografia", aggiungevano talvolta alcuni paragrafi, quando non addirittura delle pagine intere (88).
Nel corso del XVI secolo anche quelle competenze di cui si era pensato di investire la poi mai nominata magistratura dei provveditori sopra il quieto vivere, venivano demandate agli esecutori. Erano compiti di tutela della pubblica moralità, della "quiete e dell'onesto vivere dei cittadini". A partire dal 1571 gli esecutori si dovranno tuttavia occupare di un tipo di reato di nuovo conio: l'"offesa a nobili", a tutela della immagine dei membri della classe dirigente. Il 9 marzo 1571 era una legge emanata dallo stesso consiglio dei X a sancire il crisma del potere punitivo del tribunale sopra gli individui che componevano il patriziato: tutti i casi in cui fosse intervenuto un nobile "offendendo o venendo offeso, che sia o pensate o che ne sia seguita la morte", dovevano essere rimessi ad esso, o agli esecutori (89). La mitizzazione dell'ordine patrizio, già tanto diffusa sul piano culturale, proprio nel momento in cui al suo interno si evidenziavano crepe sempre più profonde trova dunque un interessante riscontro anche sotto il profilo dell'ordinamento giudiziario. Non a caso in un trattatello anonimo, databile all'inizio del '600, probabilmente vergato dalla mano di un nobile, si era sostenuta con vigore la tesi che la giustizia penale doveva essere esercitata secondo criteri eminentemente politici, e non secondo le ragioni dell'equità (90). Nessuna tolleranza e nessuna ragione attenuante - questo si asseriva con calda eloquenza - potevano essere ammesse nel caso di offesa di un nobile da parte di un suddito: in questo modo la necessità di salvaguardare l'integrità e l'immagine della classe privilegiata portava alla riemersione, anche se sotto una forma più larvata, di un sentimento che sembrava da molto tempo estraneo al patriziato veneziano, conosciuto solo nella fase iniziale della secolare vicenda della Serenissima e poi sublimato e neutralizzato nell'ideologia che trasmetteva all'esterno l'immagine di un ceto dirigente coeso e concorde: il sentimento della vendetta. Si doveva punire con estrema severità, continuava l'anonimo autore, "ogni eccesso [e qui sono evidenti i margini di discrezionalità e di arbitrio che è possibile ritagliare dietro tale uso terminologico>, acciò non si familiarizzi l'uso di poner mano nell'ordine patrizio, ma si preservi ad ogni potere il concetto che sia sangue sagro e venerando". Uguale severità doveva essere anche adottata nel caso di offesa rivolta ad un nobile di condizione elevata da parte di un nobile di "povero stado", allo scopo di non agitare gli "umori corrotti" degli altri nobili di condizione meno agiata, vittime della crisi economica e della chiusura oligarchica del ceto patrizio.
Nel 1577 si demandavano alla competenza degli esecutori anche i casi di stupro seguiti a falsa promessa di matrimonio (91); e l'anno successivo quelli relativi agli adescamenti usati dalle meretrici (92). Il fatto che l'osservanza di tutte queste leggi venisse affidata ad una magistratura come quella degli esecutori, rivela all'interno del consiglio dei X, come afferma Gaetano Cozzi, "l'orientamento [...> di coniugare, mediante gli esecutori contro la bestemmia, la salvaguardia del culto divino con la tutela del buon ordine sociale, conforme ai doveri spettanti all'autorità secolare" (93).
Dilagare della criminalità, diffusione del vagabondaggio, imperversare del banditismo, problemi che coinvolgevano la classe dirigente veneziana, come quelle degli altri Stati europei, soprattutto a partire dagli anni '90 del XVI secolo (94). Assai differenti risultano, tuttavia, le risposte ed i correttivi attuati dai governanti dei diversi paesi: in Francia, ad esempio, si era puntato ad un sostanziale irrobustimento e ad un ampliamento del potere punitivo detenuto dall'autorità centrale, favorendo l'ascesa di alcuni cospicui servitori dello Stato, i quali, grazie alla possibilità di acquistare le cariche, potevano accedere ai gradi più alti della struttura burocratico-amministrativa. A Venezia la già ricordata correzione del consiglio dei X del 1628 era stata provocata proprio dalla volontà di arginare l'assai avanzato processo di concentrazione dell'autorità nelle mani del tribunale supremo, e dall'emergere, con compiti di sempre maggiore responsabilità e prestigio, del ceto intermedio. La diade innovazione-tradizione, che sembra caratterizzare la secolare vicenda politica della Repubblica di San Marco per gran parte dell'età moderna e che è stata riscontrata per i settori della sensibilità collettiva, degli atteggiamenti religiosi e della architettura (95), è certamente applicabile anche alla sfera della politica del diritto. In tal senso, non è certamente casuale che due delle più importanti leggi riguardanti gli esecutori contro la bestemmia degli ultimi anni del XVI secolo e degli inizi del XVII siano state discusse e votate dal consiglio dei pregadi. Nel dicembre 1628 si decideva di delegare alla magistratura degli esecutori il controllo sul lusso e l'eccessiva ostentazione di ricchezza che i patrizi esibivano nei ridotti e nelle case da gioco, "con perdite gravissime, deviamento, rovina della gioventù e delle fameglie, sconcerti delle case incredibili, della facoltà, de' buoni costumi, con rischio troppo evidente di scandoli, di pessime conseguenze et pregiudiciali et dannose agl'interni et a' riguardi del pubblico bene dell'istessa Repubblica" (96). Un ulteriore incremento della funzione di tutela della pubblica moralità, verso cui si stava sempre più focalizzando il ruolo della nostra magistratura.
Di ancora maggior interesse l'altra legge su cui ci si vuole soffermare, emanata dal senato nel 1595 (97). Con questa parte si volevano definire le rispettive competenze del tribunale ecclesiastico dell'Inquisizione e del tribunale secolare rappresentato dagli esecutori, attorno alla bestemmia cosiddetta "ereticale" (98). Si era deciso di incaricare dell'esame della delicatissima questione quattro giuristi dello Studio padovano, Erasmo Graziani, Bartolomeo Salvadego, Marc'Antonio Pellegrini, Cornelio Frangipani. Erano questi dei tecnici a servizio della Repubblica, i cosiddetti consultori in iure (99), che, all'interno di quel processo di burocratizzazione delle strutture statali e di crescente articolazione dei rapporti tra governanti e governati cui si è già accennato, stavano diventando un imprescindibile strumento di governo e di mediazione. I giuristi avevano in quell'occasione così risposto: all'inquisitore andava demandato il compito di interrogare l'accusato, di contestargli le presunte colpe, di spingerlo ad emendarsi; al giudice secolare restava affidata l'esecuzione della punizione. I senatori condivideranno questa posizione, rendendo esecutiva la legge. In questo modo, elevando formalmente il potere degli esecutori, si riduceva la loro autorità e la si subordinava a quella del tribunale ecclesiastico, cui era demandata per intero la fase istruttoria. Era un segno dei tempi nuovi, di una nuova piega culturale e mentale all'interno del ceto patrizio veneziano, cui reagirà, di lì a qualche anno, Paolo Sarpi, cercando di restituire piena discrezionalità ed autonomia di giudizio agli esecutori (100). Un'altra legge sulla stampa votata nel maggio del 1593, sommando ulteriori modalità di controllo a quelle stabilite in precedenza, invocava i "disordini toccanti alla religione" che potevano derivare da una disattenzione di quelle norme (101). Sembra vi sia come la preoccupazione, in una parte del patriziato veneziano di quegli anni, di compiacere all'Inquisizione e, dietro di essa, alle direttive della Sede Apostolica. Per illuminare questo aspetto della storia della Serenissima, dovrebbe essere condotta un'indagine sulla capacità di suggestione esercitata dalla Chiesa nei confronti dei patrizi, sulla strumentazione ideologica degli ecclesiastici (pensiamo soprattutto ai gesuiti, fino alla loro espulsione dalla città marciana decretata dal senato durante la contesa con Roma per l'Interdetto), sulla partecipazione di Venezia a quell'"Europa dei devoti", narrata in modo così suggestivo da Louis Chatellier (102).
Prima di passare ad esaminare alcuni aspetti delle concrete modalità di intervento degli esecutori, vale la pena di esaminare un altro tema che emerge dalla legislazione degli ultimi anni del '500. Una parte emanata dal consiglio dei X del 29 dicembre 1583, riprova che molti forestieri "di aliena giurisdizione", vale a dire che non erano sudditi dello Stato veneto, vagabondi o cacciati dalle loro patrie perché banditi, si riducano a Venezia, dove commettono numerosi delitti (103). Si era decretato che, da allora in avanti, i nominativi di tutti coloro che avevano l'intenzione di alloggiare in città dovevano essere annotati in appositi registri. Parte dell'osservanza di questa legge era demandata ad osti e locandieri, stabilendo per loro pene pecuniarie assai severe in caso di disattenzione. In seguito a questa decretazione, gli esecutori si troveranno oberati da un lavoro eccessivo. Per tale motivo i X, il 13 gennaio dell'anno successivo, decidevano di aumentare il numero dei componenti la magistratura da tre a quattro: uno di essi veniva incaricato di attendere al controllo della registrazione degli stranieri (104). Nella stessa occasione si stabiliva anche di accrescere il potere di punire degli esecutori: ai forestieri che avrebbero occultato il loro nome e la patria di provenienza poteva essere irrogata la pena della galera o della prigione, per tutto il tempo che sarebbe sembrato opportuno ai magistrati; per quanto riguardava gli osti, si sarebbe potuto bandirli da Venezia, senza limiti di tempo. Una legislazione interessante, questa riguardante i forestieri, che mette in luce una particolare sensibilità non certamente limitata alla sola classe dirigente. Un senso di chiusura e di sospetto nei confronti dell'elemento esterno, di crescente resistenza nei confronti di quella mescolanza di genti ed uomini, di lingue e di culture, di quella feconda confusione di elementi che aveva costituito uno dei caratteri originali della città, uno dei suoi elementi propulsivi.
Un insieme di leggi e di competenze, queste che sono state analizzate a grandi linee e non nella loro completezza, che, pur mettendo in luce meglio di ogni altra legislazione coeva il senso di profonde trasformazioni nel modo di sentire il diritto e il potere di punire e controllare detenuto dalla classe dirigente, non possono restituire nella loro concretezza i comportamenti sociali e gli atteggiamenti degli uomini di quel tempo nei confronti della giustizia. Le pene comminate dagli esecutori nel corso del periodo preso in considerazione sono fittamente annotate nei registri di Raspe e ci offrono un quadro sufficientemente esauriente dell'attività della magistratura. Si è notato come nel periodo che va dall'anno dell'istituzione della magistratura agli ultimi anni del secolo la repressione, inizialmente assai forte, del reato di bestemmia, lasci spazio, conformemente all'ampia legislazione che abbiamo avuto modo di citare, ad interventi di controllo e punizione per reati o infrazioni che riguardano più genericamente la moralità pubblica: l'eccesso di spese nel gioco, la prostituzione, il vagabondaggio (105).
Sembra di poter distinguere una diversa tonalità tra il modo di intervenire e di giudicare degli esecutori negli anni Cinquanta e Sessanta del '500, e la procedura adottata nel periodo successivo. Si è ipotizzato che a partire dagli ultimi due decenni del secolo si realizzi una svolta a questo proposito, per cui ad una "sollecitudine prevalentemente religiosa", da parte dei X e degli esecutori, succederebbe una preoccupazione di carattere "prevalentemente sociale", con l'assunzione di compiti di polizia giudiziaria e di tutela del buon costume (106). Al termine del processo svoltosi il 18 febbraio 1548 nei confronti di Pietro Conturer, "solito esser ministro di giustizia", accusato di aver proferito "parole vituperose e nefande" nei confronti di Dio e della schiera celeste, si deciderà che il reo venga condotto tra le due colonne a S. Marco, "coronato della mitria ignominiosa [...> et poi ad essergli ad essempio de simil scellerati, essa perfida lingua li sia tagliata a traverso sí che una parte si separi dall'altra" (107). Dopo l'esecuzione, il Conturer verrà ricondotto in prigione dove pagherà una pena pecuniaria, prima di iniziare a scontare il bando per sei anni da tutte le terre sottoposte alla Serenissima. Il 4 novembre dello stesso anno, un altro processo sembra sintetizzare, nella figura sociale ed esistenziale del protagonista, nella pena che gli viene comminata, nel clima che avvolge la vicenda, il senso dell'attività degli esecutori nel corso di questi anni. Un certo Hieronimo, "solito contrafar i predicatori et fenzer de zougar al ballon", ha apertamente bestemmiato il nome di Dio e della Vergine (108). In quanto "poverissimo senza speranza" non poteva risolvere la sanzione pecuniaria cui era stato sottoposto, pertanto veniva condannato a stare con una "mitria ignominiosa" per due ore al centro della piazza, e, prima di iniziare a scontare un durissimo periodo di cinque anni al servizio delle pubbliche galere, al taglio della lingua.
Ben diverso appare l'atteggiamento dei giudici e degli stessi protagonisti, accusati e accusatori, di fronte al reato di bestemmia, quale emerge da un processo del 1602 fortunatamente sopravvissuto (109). Un certo Aldiberti era stato denunciato dalla suocera e da una persona rimasta anonima ed accusato di aver proferito ripetute bestemmie, di condurre una vita sregolata, di essere dedito all'ozio, alle cattive amicizie e al gioco. Quello che conta sottolineare è che denunzianti e giudici sembrano concordare, a leggere la sequenza degli interrogatori e delle risposte, nello stigmatizzare maggiormente l'atteggiamento di natura, per così dire, anti-sociale dell'accusato, piuttosto che condannare aspramente il reato di blasfemia (110).
Nessun discorso sulle istituzioni veneziane tra '5 e '600 è comprensibile, se non si intende il senso delle discussioni, con le successive correzioni, attorno al ruolo del consiglio dei X e alle sue attribuzioni. L'accentramento di importanti funzioni da parte dei X nei settori del fisco e della finanza, della giustizia e dell'amministrazione pubblica, della politica ecclesiastica e dei rapporti con le potenze estere, era, fin dagli anni di Agnadello, riflesso ed insieme motivo di aggravamento della profonda frattura che divideva nobiltà povera e nobiltà ricca. Una dicotomia che non si limitava ovviamente al solo settore delle fortune economiche, ma che investiva altresì i rapporti e gli equilibri tra le istituzioni, le più profonde trasformazioni della politica.
La prima delle correzioni risale al 1582-83. All'inizio del 1581 Antonio Milledonne, segretario del consiglio, membro di quella burocrazia di altissimo livello che occupava le stanze della Cancelleria ducale, che aveva stabilito con i X un rapporto privilegiato - non potendo più questi ultimi fare a meno della devota puntualità e capacità dei componenti della prima, la quale, a sua volta, poteva trovare solo nella protezione del consiglio la difesa delle proprie prerogative e dei privilegi acquisiti -, scriveva: "il Consiglio de X ha auttorità suprema nella Repubblica" (111). Era un'affermazione che aveva una sua ragione d'essere profonda. Una considerazione basata su fatti clamorosi - basti pensare alle paci concluse con il Turco ad insaputa del senato, nel 1540 e nel 1578 -, ma anche su una visione più complessa ed articolata dei processi istituzionali in corso.
Al di là delle vicende più appariscenti e clamorose, il potere acquisito dai X è insieme causa, per la capacità di favorirlo, ed effetto, per la duttilità nell'accogliere istanze dalle più diverse provenienze, di quel processo lento, ma continuo, che ha le proprie origini ancora nel XV secolo, e al cui centro sta il problema della legittimazione dell'autorità (112). Un processo assai articolato, di fondamentale importanza per comprendere il processo di costruzione statale in Italia e in Europa. L'autorità acquisita dai X non può quindi essere semplicisticamente letta nei termini di violenza e protervia esercitate da un piccolo numero sopra una struttura politica e sociale totalmente refrattaria e impermeabile. Alcune delle questioni che abbiamo analizzato, ed altre su cui ci soffermeremo, stanno a dimostrare attraverso quale groviglio di istanze, di spinte e resistenze si determini il formarsi di un certo tipo di autorità. La particolare forma stato veneziana, il retaggio del passato, il mito della continuità con le luminose origini, l'orgoglio per l'originalità dello jus proprium, tutto ciò creava una serie di ostacoli ad una maggiore omogeneizzazione tra governanti e governati. Si è già detto del tentativo di riforma operato dal doge Gritti che non sortirà alcun esito.
Il peso della tradizione, su cui si innestava la crisi del ceto patrizio, questa commistione tra elementi psicologico-culturali e situazione di fatto, giocano un ruolo fondamentale anche sulle vicende delle correzioni del consiglio. In quella del 1582-83 Si era cercato di riportare le attribuzioni del tribunale nell'alveo di una ampia definizione di esse che si era realizzata nel lontano 1458 (113). Si doveva abolire l'uso della "zonta", una commissione inizialmente eletta a termine e con specifiche e ben definite competenze e trasformatasi nel corso degli anni in una sorta di allargamento del consiglio dei X, simbolo di una tendenza oligarchica che si cementava nelle aule del tribunale. Bisognava restituire le tradizionali competenze al consiglio dei pregadi. Ai X, quindi, non dovevano che rimanere le competenze su materie precise quali la falsificazione monetaria, per la quale si configurava il crimen lesae maiestatis, il reato di sodomia, il controllo delle Scuole grandi, la repressione dei trattati, vale a dire le congiure contro l'autorità della Serenissima, ed i casi penali di estrema gravità.
Al fondo del conflitto, stava la spaccatura tra nobiltà povera e nobiltà ricca, la divisione del patriziato veneziano in due ordini: il primo degli uomini che occupavano gli scranni del consiglio dei X, il secondo composto da quei patrizi che sedevano nella quarantia criminal, un consiglio che, pur avendo rappresentato nel periodo del tardo medioevo una importante funzione politico-amministrativa, era decaduto, riducendosi ad essere una corte d'appello, anche se di notevole importanza. Erano i componenti di quest'ultimo che secernevano gli umori più velenosi nei confronti dei X, soprattutto del ceto dei segretari di origine borghese, che consentivano al tribunale di operare con tanta efficacia (114). Che il problema fosse strutturale e non risolvibile semplicemente attraverso una riattivazione di norme perente lo dimostra la seconda delle correzioni di cui ci occupiamo, quella del 1628 (115). Tra i protagonisti di uno dei più appassionati dibattiti della storia costituzionale veneziana, vi fu Renier Zeno, capo della fazione che parteggiava per la riduzione delle prerogative dei X, tribunizio e demagogico, dallo spirito fortemente anti-romano. Di fronte a lui, la fazione alla testa della quale stava il doge Zuanne Corner, della più alta nobiltà, membro di una famiglia che deteneva alcuni dei più cospicui benefici ecclesiastici dello Stato, legata alla Santa Sede, dallo spirito fortemente oligarchico. Tra i due, la personalità di Nicolò Contarini, patrizio che aveva conquistato il suo prestigio grazie all'energia e allo spirito di servizio con cui aveva attraversato un cursus honorum tra i più impegnativi, sia per le cariche cittadine che per quelle del Dominio, apprezzato per la levatura intellettuale e per l'integrità dai rappresentanti dei due gruppi in lotta. Nel settembre del 1628 si era dunque deciso di procedere ad una nuova correzione del consiglio. Tra i cinque "correttori" eletti spiccava appunto la personalità del Contarini. Due i problemi su cui si interrogarono i correttori che è opportuno mettere in luce: il primo riguarda la posizione dei segretari (116), il secondo la procedura penale. A proposito dei segretari l'attacco dello Zeno era stato durissimo: "seminatori delle zizzanie, l'origine di ogni tumulto e d'ogni male", li aveva definiti il prestigioso patrizio, disegnando un quadro della classe patrizia completamente asservita all'autorità dell'invadente ceto burocratico.
L'emanazione delle leggi e il controllo dell'illegalità erano ormai realizzate dai rapaci ed invadenti segretari, non più dai membri della nobiltà. Contarini poteva condividere alcuni aspetti di questa diagnosi, ma il suo orgoglio patrizio non poteva tollerare che venisse così radicalmente messa in discussione la legittimità dell'autorità della classe dirigente veneziana, ed aveva quindi duramente respinto le asserzioni dello Zeno. Uno degli aspetti più interessanti di questa parte della discussione è certamente quello relativo alla coscienza della rilevanza europea del problema: lo Zeno che paragonava la figura dei burocrati veneziani a quella dei consiglieri e ministri dei regnanti delle grandi monarchie europee, e il Contarini a ribattere sull'impossibilità di raffrontare le due situazioni: "quelli hanno in mano tutto il governo [asseriva decisamente> [...> questi [i segretari della Repubblica> han parte solamente nel ministerio".
Allo stesso modo, e con toni ancora più accorati, anche il dibattito svoltosi nella città di San Marco attorno alla procedura penale partecipava di una dimensione continentale: già alcune leggi fatte votare dal maggior consiglio, nel 1624, da Nicolò Contarini e dai suoi colleghi correttori alle leggi, riprendevano temi e problemi comuni alla legislazione e alla pubblicistica europea: la farraginosità e la contraddittorietà delle leggi, la giustizia negata dall'eccessiva lunghezza dei procedimenti, la cavillosità degli avvocati, la necessità di rinnovare le procedure e di adeguarle alla difficilissima congiuntura, imprimendo loro quelle caratteristiche di segretezza, di rapidità, di inappellabilità, secondo criteri discrezionali e politici, che era ciò che a Venezia si cercava di fare, per il tramite del consiglio dei X (117). Renier Zeno così definiva il rito inquisitorio che caratterizzava l'operare del tribunale: "grande, terribile, insopportabile odioso". Lo stesso patrizio richiamava poi, con toni ispirati, la necessità di tornare alle tradizionali prassi legalitarie: notorietà del querelante, accettazione di tutti i testi proposti dalla difesa, pubblico dibattimento. L'inquisizione doveva riservarsi solo ai casi più atroci o a quelli in cui la sicurezza dello Stato fosse in pericolo. Assolutamente errato, poi, concedere la procedura con il rito del consiglio ai rettori della Terraferma o a magistrature quali gli esecutori contro la bestemmia. Il rito segreto - così riteneva lo Zeno - si presenta come un'arma a doppio taglio. Se, da una parte, permette di giungere in brevissimo tempo a punizioni esemplari, dall'altra, può costituire uno straordinario mezzo nelle mani dei delinquenti per deviare il corso della giustizia. Per tali motivi si doveva restituire alle languenti quarantie quella centralità che esse avevano smarrita: "dov'è la giustizia dell'Avogador che porta le sue ragioni, e il reo ha lo avocato che lo difende. Si discorre bene il negocio; e vi sono anco li contraditori che non lasciano seguire disordini, et il tutto si tratta con grande equità e considerazione". Accorata la risposta del Contarini, che difendeva la validità del rito inquisitorio ricorrendo, non a considerazioni di tipo ideale o a richiami ad un passato più o meno lontano, ma ad una valutazione empirica e funzionale della procedura, nella certezza di un legame indissolubile tra la politica e il diritto: l'unico rimedio al dilagare dei tanti crimini a Venezia e nello Stato consisteva nella severità che solo il rito del consiglio poteva assicurare. Quello attuato nella quarantia era ottimo dal punto di vista della garanzia degli imputati: ma le formalità lì vigenti facevano sì che soltanto pochissimi casi fossero esperiti ogni anno. I correttori avevano anche proposto di rimediare ad alcuni inconvenienti o difetti propri della procedura con il rito del consiglio: era necessario mettere freno all'eccessiva concessione di grazie, alle sospensive delle condanne, fossero esse di bando, relegazione o detenzione. Bisognava imporre seri limiti agli eccessi della pratica per cui un individuo si poteva liberare dal bando attraverso la cattura o l'uccisione di un bandito, o per accordi con la parte lesa.
Delle dieci parti presentate al giudizio del maggior consiglio, solo queste ultime erano state respinte. Tutte le altre che definivano le competenze dei X vennero approvate: al consiglio rimaneva il potere di giudicare i casi in cui fossero coinvolti nobili, mentre la facoltà di eleggere i segretari veniva demandata al senato. Da questa correzione decisamente ridotto risultava anche il potere dei X di annullare leggi emanate dal maggior consiglio. Provveditori sopra monasteri ed esecutori alla bestemmia non sarebbero più stati eletti dal consiglio dei X, ma dal senato. Tuttavia alla chiarezza di questa parte del dispositivo di legge seguiva una formula ambigua con la quale si stabiliva che il severissimo tribunale avrebbe potuto continuare a deliberare "quanto per la sicurtà pubblica ricercasse il pubblico servicio", e pertanto gli esecutori dovevano obbedire a tutti gli ordini emanati sia dal senato che dal consiglio dei X. In tal modo si pensava, probabilmente, di accontentare quella parte della nobiltà che non poteva sopportare la posizione quasi assolutistica rivestita dai X all'interno del panorama costituzionale veneziano, e che consentiva, tuttavia, ai membri del consiglio notevoli margini di intervento.
Difficile trarre conclusioni troppo nette dal movimento suscitato da Renier Zeno e dalla correzione che abbiamo sinteticamente esposto. La fazione "zenista" era certamente riuscita ad ottenere una riduzione delle prerogative dei X, relegando la loro autorità alla gestione degli affari criminali, ed anche qui con alcuni distinguo. Ciò che nessuna legge poteva evitare era la spaccatura della nobiltà nei due ordini, dei piccoli e dei grandi, dei ricchi e dei poveri. Tutta da seguire e da analizzare, grazie anche ad una maggior ricchezza documentaristica e processuale rispetto al periodo che è stato qui preso in considerazione, la questione del dislocarsi delle divaricazioni interne al patriziato e del problema della forma di autorità nel corso del XVII e XVIII secolo.
1. Marino Sanuto, I diarii, XXI, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1887, col. 537, 24 febbraio 1516.
2. Corrado Vivanti, La storia politica e sociale. Dall'avvento delle Signorie all'Italia spagnola, in AA.VV., Storia d'Italia, II, 1, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 346-375.
3. Su tutto questo cf. le pagine fondamentali di Gaetano Cozzi, La giustizia e la politica nella Repubblica di Venezia, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 81 e ss. (pp. 81-216).
4. Sulla crisi a livello italiano ed europeo, Id., La giustizia e la politica agli albori dell'età moderna, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 3-80.
5. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero la città di Venezia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980.
6. Ibid., pp. 129-130.
7. Ibid., p. 142.
8. Ibid., pp. 137-138.
9. Sulle origini delle corti di palazzo, cf. quanto scrive Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, I, Roma 1937, pp. 158 e ss.
10. Su questo importante aspetto cf. Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: a Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 105-120.
11. M. Sanudo, De origine, p. 122.
12. Ibid., p. 123.
13. Ibid., p. 122.
14. Ibid., pp. 97-98.
15. G. Cozzi, La giustizia e la politica nella Repubblica, p. 114, per la messa a fuoco delle due diverse funzioni rappresentate rispettivamente dal consiglio dei X e dall'avogaria.
16. Ibid., pp. 98-100.
17. Una dettagliata analisi di numerosissimi casi che videro invischiati gli avogadori di comun ed i X è condotto ibid., pp. 115 e ss.
18. Marino Sanuto, I diarii, XX, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1887, coll. 425-426.
19. Ibid., XLV, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1896, coll. 501, 503, 533, 16, 17, 24 luglio 1527.
20. Sul processo di intromissione sono da vedere Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I, Venezia 1778, p. 242; Zeffirino Grecchi, Le formalità del processo criminale nel Dominio veneto, I, Padova 1790, pp. 217-218. Per trattazioni più recenti, Bruno Dudan, Sindacato d'oltremare e di Terraferma, Bologna 1938, pp. 132-133; Ceferino Caro Lopez, Gli Auditori nuovi ed il Dominio di Terraferma, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 271-272 (pp. 259-316), e Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, ibid., pp. 287-288.
21. Marino Sanuto, I diarii, XXXV, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1892, col. 535.
22. Ibid., XXI, coll. 211-212.
23. Ancora nel luglio 1516 un'altra legge, di cui val la pena di riportare il proemio, condannava duramente l'operato di alcuni avogadori: "Così come il magistrato nostro dell'Avogaria de Comun è quello che castiga et corregge li disordini delli altri magistrati, così non da permetter in quello disordine alcuno, che possi esser preiudiciale alla iustitia et all'honor de li". Da qualche tempo si nota che gli avogadori tanto "in exitu ab officio, come altramente intromettono molte cause, non solum criminale, ma etiam civile, non havendo mai aldida, né pur mai citada l'altra parte. Cossa essorbitantissima et aliena d'ogni ordine d'uso, anzi contra ius divinum, cuius dispositione è introdutta la citation. Et contra quello che nell'officio suo è de grosse et patente lettere ab antiquo specialmente instituto, videlicet audi alteram partem si vis recte iudicare, per la qual cosa ne risulta gravissimi dispendij alli litiganti, et quod peius est, che con questo mezo si fanno Avogadori perpetui, contra le intention de le leze nostre". Che non era altro che opporsi ad un altro dei pilastri della consuetudine avogaresca, consistente nella libertà di portare le cause nella sede istituzionale che sembrasse più opportuna ai magistrati e con tutto il tempo necessario per esaminare i testimoni necessari.
24. Marino Sanuto, I diarii, XXIX, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1890, col. 345. Cf. anche quanto scrive Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 509-511.
25. M. Sanuto, I diarii, XXIX, col. 345: il dispositivo della parte proseguiva con misure ulteriormente limitative per l'avogaria: "et li Avogadori che haveranno dimandata copia di essi processi siano tenuti intermine di uno mese, dapoi presentata essa copia di essi processi all'Officio suo, revederli: et se li parerà intrometterli, darne aviso ad essi rettori o iusdicenti nostri, et quando fra detto termine detti Avogadori no haveranno avisato essi [...> [rettori o giusdicenti> possino et debbino [...>, senza aspettar altro novo ordine proceder contra li rei a suo beneplacito".
26. Ibid., coll. 205-206.
27. Ibid., col. 335.
28. G. Cozzi, La politica del diritto.
29. Marino Sanuto, I diarii, XXX, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1891, coll. 163-164.
30. Sul rito accusatorio e su ciò che si dirà attorno a quello inquisitorio, cf. G. Cozzi, La giustizia e la politica nella Repubblica, pp. 100-103.
31. Cf. quanto scrive su questo Johan Huizinga, Homo ludens, Milano 1964, p. 121.
32. Lionello Puppi, Il mito e la trasgressione. Liturgia urbana delle esecuzioni capitali a Venezia tra XIV e XVIII secolo, "Studi Veneziani", n. ser., 15, 1988, pp. 107-130.
33. Marino Sanuto, I diarii, XVIII, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1887, col. 296.
34. Per un altro caso in cui le solidarietà familiari resero assolutamente inefficace l'intervento delle forze di giustizia veneziane, nonostante in questa occasione il consiglio dei X avesse avocato a sé la materia, cf. la vicenda che vede protagonista Marco Michiel, cit. ibid., XXV, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 188g, coll. 230-232, febbraio 1518.
35. Ibid., XXIX, col. 206, 25 settembre 1520. Sui problemi determinati sul piano giuridico dall'immunità ecclesiastica, cf. G. Cozzi, La giustizia e la politica nella Repubblica, pp. 129-130.
36. M. Sanuto, I diarii, XXIX, col. 206, 25 settembre 1520.
37. Ibid., col. 630.
38. Qualche indicazione in questo senso, per il periodo quattrocentesco, è in Stanley Chojnacki, Il raggiungimento della maggior età politica a Venezia nel XV secolo, "Ricerche Venete", i, 1989 (Venezia tardomedievale. Istituzioni e società nella storiografia angloamericana, a cura di Michael Knapton), pp. 59-86, che interpreta in chiave antropologica, in termini di riti di passaggio, il raggiungimento della maggior età e il successivo ingresso in maggior consiglio, da parte dei membri del patriziato.
39. Marino Sanuto, I diarii, LVI, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1901, coll. 774-775, 18 agosto 1532.
4o. Sul problema della vendita delle cariche e sulle sue conseguenze sono da vedere G. Cozzi, La giustizia e la politica nella Repubblica, pp. 109-110, e, più in generale, Roland Mousnier, Le trafic des offices à Venise, nel suo La plume, la faucille et le marteau, Paris 1970, pp. 387 ss. (pp. 387-401).
41. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 16, cc. 23r-24r.
42. Ibid., c. 62r, 21 maggio 1591.
43. Ibid., reg. 28, c. 9v.
44. José Antonio Maravall, La società del barocco, Bologna 1985.
45. Per un inquadramento generale del problema resta fondamentale, andando ben oltre i limiti della specifica area studiata, l'opera di John H. Elliot, The Revolt of the Catalans. A Study in the Decline of Spain, Cambridge 1963.
46. Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa in Francia fra Cinque e Seicento, Torino 1963.
47. J.A. Maravall, La società del barocco, pp. 79-80.
48. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 18, cc. 50r-57v.
49. Ibid., reg. 16, c. 26v, 18 settembre 1590.
50. Sulla fondazione dell'ordine, sul loro costituire una sorta di internazionale del "gentiluomo", sulla disciplina cui i cavalieri erano sottoposti, cf. Claudio Donati, L'idea di nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Bari 1988, pp. 247-265.
51. Sulle continue e crescenti infrazioni del principio di autodifesa nel corso del '700, soprattutto per quello che riguarda la Terraferma veneta, e sulla nuova sensibilità giuridica che da tale fenomeno si può dedurre cf. quanto scrive Gaetano Cozzi, La difesa degli imputati nei processi celebrati col rito del Consiglio dei X, in La "Leopoldina". Criminalità e giustizia criminale nelle riforme del '700 europeo, a cura di Luigi Berlinguer, 9, Crimine, giustizia e società veneta in età moderna, a cura di Luigi Berlinguer-Floriana Colao, Milano 1989, pp. 1-87.
52. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 28, c. 7r, 23 marzo 1611.
53. Ibid., reg. 18, cc. 12r-13v.
54. Ibid., c. 48v, 11 marzo 1598.
55. Ibid., reg. 27, c. 53v, 22 settembre 1610.
56. Gaetano Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua "eroica amicizia", "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 2, 1960, pp. 61-154.
57. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 18, cc. 10v- 11r, 11 giugno 1597.
58. Ibid., reg. 17, c. 18v, 26 agosto 1594.
59. Ibid., reg. 32, c. 33V.
60. Ibid., reg. 28, c. 24r-v, 27 giugno 1611.
61. Marino Sanuto, I diarii, XXV, a cura di Federico Stefani-Guglielmo Berchet-Nicolò Barozzi, Venezia 1889, coll. 215-216.
62. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 18, c. 9r-v. Anche in questa occasione gli imputati si renderanno irreperibili, e verranno quindi condannati al bando da tutte le terre del Dominio. Da sottolineare come la pena del bando, con tutti i benefici concessi a chi catturasse o uccidesse i delinquenti, fu estesa nell'occasione a cinquanta miglia nelle "terre aliene", oltre i confini dello Stato veneto.
63. Ibid., reg. 28, c. 28r, 8 luglio 1611. Oltre a queste accuse provate, sembra che i suddetti fossero anche soliti "caminar insieme et in compagnia d'altri, armati in setta di giorno e di notte, volendo esser rispettati facendosi temere et offendendo diversi".
64. Ibid., reg. 17, c. 35r-v, 29 dicembre 1594. In questa occasione, dopo aver sentito la relazione che l'avogadore di comun Marco Correr aveva tenuto sul caso, i capi del consiglio proporranno di procedere "per questa volta mitemente". Il capitano verrà severamente e ufficialmente "amonito et ripreso della sudetta transgressione et negligentia usata nell'essecutione dell'ordine [...> dalla qual sono causati i disordini seguiti, con poca dignità d'essi Capi, che deve essere da ogn'un riverita, et con universal scandalo de tutta la città". A questo provvedimento si doveva anche aggiungere la privazione del salario per sei mesi.
65. Roberto Zago, I Nicolotti. Storia di una comunità di pescatori a Venezia nell'età moderna, Abano Terme 1982.
66. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, c. 36r, 29 dicembre 1594.
67. Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 155-258.
68. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 17, c. 104v, 23 febbraio 1596.
69. Ibid., reg. 18, c. 81v, 25 settembre 1598.
70. Di notevole interesse quanto dice Paolo Prodi, Introduzione a Strutture ecclesiastiche in Italia e in Germania prima della riforma, a cura di Peter Johanek, Bologna 1984, pp. 7-18.
71. Gaetano Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, "La Cultura", 14, 1976, pp. 170 e ss. (pp. 169-213).
72. Uso questo termine periodizzante nell'accezione di L'age classique, usata da Michel Foucault, in Storia della follia nell'età classica, Milano 1963.
73. Paolo Prodi, Strutture and Organization of the Church in Renaissance Venice, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 409-430.
74. A.S.V., Consiglio dei X, Comuni, reg. 53, cc. 23r-24r; oltre al già citato G. Cozzi, Padri, figli, per un più generale inquadramento giuridico è da vedere Jean Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, Torino 1989.
75. A.S.V., Consiglio dei X, Criminali, reg. 32, cc. 32v-33v, 5 giugno 1615.
76. Per questo punto e per quello che segue a proposito degli esecutori contro la bestemmia si è seguita la fondamentale ricostruzione di Gaetano Cozzi, Religione, moralità e giustizia a Venezia: vicende della magistratura degli Esecutori contro la bestemmia (secoli XVI-XVIII), "Ateneo Veneto", 178, 1991, pp. 7-95. Cf. anche lo studio di Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500 e nel '600. Gli Esecutori contro la bestemmia, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 430-528.
77. G. Cozzi, Religione, moralità, p. 17.
78. A.S.V., Consiglio dei X, Comuni, reg. 16, c. 67r.
79. Su questo punto, G. Cozzi, Religione, moralità, pp. 17-20.
80. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, reg. 54, cc. 3v-4r, 20 dicembre 1537.
81. Ibid., cc. 1v-2r.
82. Cf., a tale proposito, il testo della legge, votata in consiglio dei X, del 15 gennaio 1524, ibid., c. 33r-v.
83. Ibid., c. 15r-v, 26 aprile 1539.
84. Ibid., c. 33v.
85. Ibid., c. 34r, 16 febbraio 1546.
86. Ibid., c. 36r, 29 gennaio 1527, e cc. 37v-38r, 7 settembre 1543.
87. Ibid., cc. 36r-37v, 12 febbraio 1543.
88. Ibid., c. 38r.
89. Ivi, Consiglio dei X, Comuni, reg. 30, c. 65r.
90. Citato in G. Cozzi, Religione, moralità, p. 40.
91. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 54, c.
59r-v.
92. Ibid., c. 60r-v.
93. G. Cozzi, Religione, moralità, p. 31. Di estrema delicatezza la distinzione tra bestemmie ereticali e bestemmie ordinarie: le prime "espressioni di convincimenti contrari alla fede e alla dottrina cattolica" e di competenza del tribunale dell'Inquisizione, le seconde "espressioni di scelleratezza verso Dio", e quindi di competenza dei magistrati secolari, ibid., pp. 26-27.
94. Per un quadro generale del problema cf. Bande armate, banditi, banditismo e repressione di giustizia negli stati europei di antico regime, Atti del Convegno - Venezia 3-5 novembre 1985, a cura di Gherardo Ortalli, Roma 1986.
95. Manfredo Tafuri, Venezia nel Rinascimento. Religione, scienza, architettura, Torino 1985.
96. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, reg. 54, c. 26r-v, 2 dicembre 1628.
97. Ibid., c. 54r.
98. Sulla definizione di questo problema e per una dettagliata ricostruzione della vicenda, cf. G. Cozzi, Religione, moralità, pp. 43 ss.
99. Per la cultura giuridica dei consultori in iure nel corso di questo periodo cf. Antonella Barzazi, Consultori in iure e feudalità nella prima metà del seicento. L'opera di Gasparo Lonigo, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), II, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1985, pp. 221-251.
100. G. Cozzi, Religione, moralità, p. 53.
101. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 54.
102. Cf. il testo suggestivo di Louis Chatellier, L'Europa dei devoti, Milano 1988. Sul problema dei gesuiti a Venezia, cf. quanto dice William J. Bouwsma, Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Contro-riforma, Bologna 1977, e Gaetano Cozzi, L'interdetto di Venezia e i gesuiti, "Archivio Veneto", ser. V, 66, 196o, pp. 163-175.
103. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 54, c. 89r.
104. Ibid., cc. 61v-62v.
105. G. Cozzi, Religione, moralità, pp. 50-53.
106. Ibid., p. 22.
107. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, reg. 61, cc. 8v 9r.
108. Ibid., cc. 16v-17r.
109. Ibid., b. 1.
110. Ulteriori notizie e statistiche su questo atteggiamento negli anni successivi, in G. Cozzi, Religione, moralità, pp. 55-56.
111. La citazione in Id., La giustizia e la politica nella Repubblica, p. 154.
112. Una descrizione di questo processo, con numerosi riferimenti allo Stato da Terra, e con le motivazioni che determinavano i sudditi a rivolgersi ai capi del consiglio, anche in materia civile, cf. ibid., pp. 155-170.
113. Sulla riforma del 1582-83 cf. ibid., pp. 147-148.
114. In., Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958.
115. Per una completa ricostruzione di questa vicenda cf. ibid., cap. VI, Il movimento di Renier Zeno e la correzione del Consiglio dei X, pp. 198-229, da cui sono tratte le citazioni che d'ora in avanti si faranno, se prive di altre indicazioni.
116. Sui segretari cf. Id., Religione, moralità, p. 61.
117. Ibid., pp. 63-68.