Disciplina fiscale delle società non operative
L’art. 2 del d.l. 13.8.2011, n. 138 ha introdotto importanti modifiche alla controversa e discussa disciplina fiscale delle “società di comodo”. In particolare, con tali interventi normativi, si è proceduto a un ampliamento dei presupposti per l’applicazione della suddetta disciplina, riferendola a società che non presentano requisiti che, fino a questo momento, erano stati ritenuti sintomatici dell’utilizzo “di comodo” dello schermo societario. Allo stesso tempo si è attuato un inasprimento della disciplina, attraverso un innalzamento generalizzato dell’aliquota applicabile alla tassazione a titolo di imposta sul reddito. Queste modifiche generano numerose questioni interpretative. Si tratta, infatti, di interventi normativi difficilmente giustificabili sia sul piano delle disciplina specifica, sia su quello dei principi generali della materia, che si comprendono soprattutto in funzione di un interesse fiscale dello Stato in una fase difficile di recessione economica.
Con il d.l. n. 13.8.2011, n. 138 (convertito con modificazioni dalla l. 14.9.2011, n. 148)1 sono state introdotte importanti modifiche alla disciplina tributaria delle società non operative di cui all’art. 30 della l. 23.12.1994, n. 724, note a tutti i tecnici della materia come “società di comodo”, espressione idiomatica che vuole indicare, con le precisazioni che di seguito saranno effettuate, società connotate da una scarsa redditività, rispetto all’assetto patrimoniale di cui sono dotate.
Le suddette modifiche introducono due novità, che incidono su aspetti differenti della disciplina.
La prima novità attiene ai presupposti normativi che determinano la qualifica di società di comodo e prevede un’estensione di tale qualifica a società che (alle condizioni che si preciseranno infra, § 2.1) evidenziano una perdita di esercizio.
La seconda novità riguarda, invece, specificamente l’imposta sul reddito (Ires), nell’ambito della quale viene prevista una maggiorazione della aliquota generale di riferimento (infra, § 2.2).
Gli interventi normativi, come si dimostrerà, appaiono difficilmente giustificabili sia sul piano dei principi generali della materia tributaria, sia su quello della disciplina specifica delle società non operative: questa circostanza determina numerose difficoltà legate alla corretta interpretazione delle nuove norme nonché un ingiustificato inasprimento del trattamento fiscale di quelle di comodo rispetto a tutte le altre società.
La disciplina sulle società non operative è stata introdotta negli anni ’90 del secolo scorso, con la finalità espressa di contrastare società costituite al solo scopo di gestire patrimoni, che dovrebbero fisiologicamente essere intestati a persone fisiche. In questo senso, più specificamente, tale disciplina ha basato la propria struttura sulla convinzione di fondo che determinate società non svolgano un’attività di impresa, intesa come produzione o scambio di beni e di servizi sul mercato, ed utilizzino lo schermo societario al solo fine di usufruire del regime di deduzione analitica delle spese e, conseguentemente, di una tassazione meno gravosa rispetto a quella che i loro patrimoni avrebbero scontato ove intestati a persone fisiche.
L’assenza di un’attività di impresa nei termini indicati è attestata, secondo la disciplina della materia, dal mancato superamento del cd. “test di operatività”, finalizzato a mettere in luce la vitalità/non vitalità economica dell’organizzazione sociale, attraverso un raffronto tra elementi attinenti ai risultati economici effettivamente prodotti e quelli (risultati economici) presumibili e stimabili sulla base del patrimonio posseduto dalla società2.
Alla verifica della non operatività della società segue l’applicazione di una disciplina differente da quella ordinaria, e senza dubbio economicamente più svantaggiosa, ai fini Irpef, Ires, Iva e Irap.
Per quel che concerne le imposte sul reddito (Irpef e Ires), le società in esame non possono dichiarare un reddito inferiore a quello minimo presunto; quest’ultimo è determinato applicando definite percentuali con riferimento al valore dei beni posseduti (azioni e quote, immobili, altre immobilizzazioni). La tassazione utilizza così una base imponibile costituita essenzialmente dagli elementi patrimoniali detenuti dalla società.
La medesima logica si applica per la determinazione della base imponibile Irap3.
Per quanto riguarda l’Iva, invece, sono previste preclusioni generalizzate in merito all’utilizzo dell’eccedenza risultante dalla dichiarazione4.
La disciplina generale stabilisce cause automatiche di esclusione dal regime delle società non operative ovvero cause di esclusione valutabili in sede di interpello.
Le cause automatiche di esclusione sono previste dalla legge e da provvedimenti amministrativi di carattere generale5; tali cause individuano ipotesi in cui, secondo la valutazione legislativa o amministrativa, non esiste un impiego “di comodo” della struttura societaria e la scarsa redditività non dipende dall’assenza di un’attività, ma da altri fattori.
La sussistenza di una causa automatica di esclusione determina l’obbligo in capo al contribuente di applicare la normativa ordinaria, senza dover effettuare alcun tipo di richiesta, adempimento o comunicazione all’Amministrazione finanziaria.
Le cause valutabili in sede di interpello non sono tassativamente definite; si prevede infatti, in via generale, che in presenza di “situazioni oggettive” che hanno reso impossibile il superamento del test di operatività ovvero l’effettuazione di operazioni rilevanti ai fini Iva, la società possa chiedere la disapplicazione della disciplina ai sensi dell’art. 37 bis, co. 8, del d.P.R. 29.9.1973, n. 6006.
La disciplina sulle società di comodo ha destato accese critiche, sin dalla sua entrata in vigore, che non si sono sopite con l’evoluzione normativa7.
In prima battuta non sono apparse chiare la giustificazione e la finalità della disciplina stessa; sul punto si sono registrate posizioni che non ne hanno rinvenuto alcuna spiegazione in chiave fiscale se non quella di punire un utilizzo abnorme dello strumento societario ovvero impostazioni che ne hanno dato una lettura in chiave antielusiva o antievasiva.
Diverse critiche sono state espresse anche su singoli aspetti della disciplina ed in relazione alla compatibilità con i principi costituzionali della materia tributaria di riserva di legge (ex art. 23 Cost.)8 e di capacità contributiva (ex art. 53 Cost.)9.
In tale quadro si inserisce l’ultimo intervento normativo, recante le modifiche poste in luce in premessa.
2.1 Le perdite sistematiche quale presupposto per l’applicazione della disciplina delle società di comodo
Con la prima modifica normativa si incrementano i presupposti per l’applicazione della disciplina delle società di comodo, ammettendo a tale regime anche tutte le società che presentino dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi consecutivi ovvero per due periodi, se nel terzo è dichiarato un reddito inferiore al minimo.
Si introducono, in questo modo, due presupposti autonomi per l’accesso alla disciplina delle società di comodo, in quanto il primo prescinde totalmente dal superamento del “test di operatività” – condizione generale ed ufficiale alla quale, fino a questo momento, era subordinata l’applicazione del regime in esame – ed il secondo valuta il superamento del test con riferimento ad un solo periodo di imposta (il terzo).
I requisiti indicati, invece, condizionano l’ammissione alla disciplina in esame alla circostanza che le società registrino, nei termini suddetti, una perdita di esercizio, evidenziando in questo modo un totale disallineamento rispetto agli elementi generali di accesso al regime delle società di comodo e alle logiche che fino a questo momento, seppure con molte critiche, si riconoscevano alla disciplina in oggetto.
La perdita di esercizio, di per sè, non rivela un utilizzo improprio del modello societario e non attesta in alcun modo l’inattività di una società, ma dimostra soltanto l’esistenza di risultati economici (di esercizio) di segno negativo riferibili a quest’ultima10.
Il riscontato disallineamento, rispetto ai requisiti generali di ammissione al regime delle società di comodo, è fonte di numerosi problemi, relativi soprattutto all’individuazione delle cause di giustificazione automatiche ovvero accertabili in sede di interpello che possono verificarsi.
Per quanto attiene alle cause di applicazione automatiche, seppure la disciplina introdotta abbia effettuato un rinvio espresso al co. 4 dell’art. 30 della l. n. 724/199411, affermando che restano ferme le cause di non applicazione stabilite in materia di società non operative, l’Amministrazione finanziaria è intervenuta con un provvedimento ad hoc del Direttore dell’Agenzia delle entrate, individuando le cause specifiche di disapplicazione automatica per le società in perdita sistematica.
L’estensione generalizzata delle cause di esclusione relative alle società inattive alle società in perdita è risultata, infatti, operazione difficile da attuare, data l’evidente differenza (di condizione) tra le due società (inattive ed in perdita); per questo motivo, con il suddetto provvedimento, si è proceduto a rivedere l’elenco delle cause automatiche riferibili alle società in perdita. L’intervento in esame crea ulteriori problemi interpretativi in ordine, in particolare, alle cause di esclusione previste dalla legge e non ripetute dal suddetto provvedimento12.
Allo stesso modo non è chiaro quali cause di giustificazione oggettiva possano essere proposte in sede di interpello dalle società in perdita ovvero, in altre parole, se si debba giustificare la perdita “in quanto tale” (specificando le circostanze che la hanno determinata) o si debbano, invece, rilevare delle situazioni per cui la perdita è solo apparente e non effettiva.
Le questioni interpretative esposte sono espressione delle incertezze in merito alla ratio sottesa all’assoggettamento delle società in perdita alla disciplina prevista per quelle non operative ed, in particolare, del dubbio di fondo relativo alla volontà del legislatore di assorbire, nell’ambito di tale regime, le società che effettivamente versano in condizioni economiche difficili ovvero (differentemente) quelle che non evidenziano tale ultima situazione, in quanto le perdite sono soltanto apparenti.
A tale proposito, l’esame delle disposizioni normative e delle cause di esclusione automatiche individuate a livello amministrativo sembrerebbe lasciar intendere che il sistema abbia voluto modificare il regime di tassazione delle società in perdita.
Per meglio dire, si sarebbe aggiunto un altro tassello alla articolata disciplina delle società che versano in condizioni di difficoltà economica, decidendosi in tali ipotesi, in assenza di un reddito effettivo da tassare, di dirigere l’imposizione verso gli elementi patrimoniali posseduti dalla società.
L’accoglimento di tale impostazione condurrebbe ad ammettere che soltanto le cause di esclusione che rivelano l’assenza di perdite effettive consentano la disapplicazione della disciplina in esame a favore di quella ordinaria.
2.2 L’innalzamento dell’aliquota Ires
La seconda novità introdotta nella disciplina delle società non operative consiste in un innalzamento generalizzato dell’aliquota Ires, in relazione alla quale viene prevista una maggiorazione di 10,5 punti percentuali.
L’aliquota in esame, a seguito di tale modifica, passa quindi dal 27,5% al 38%13.
Il fine di questo intervento è presumibilmente quello di tassare il reddito minimo presunto di tali società in modo analogo a quello delle persone fisiche appartenenti agli scaglioni di reddito più elevati ai fini Irpef; quest’ultima infatti è un imposta personale progressiva per scaglioni di reddito e l’aliquota del 38% è quella riferibile sostanzialmente al secondo scaglione di reddito fra i più elevati.
La modifica in esame appare ingiustificata rispetto alla disciplina generale, in quanto discrimina irragionevolmente quelle non operative rispetto a tutte le altre società, che continuano ad utilizzare ai fini Ires un’aliquota generale del 27,5%.
La discriminazione si acuisce nell’ipotesi di distribuzione degli utili della società ai soci persone fisiche ove si determina un ulteriore aggravamento impositivo. In tale ultimo caso, infatti, non sono stati previsti aggiustamenti all’interno della disciplina generale ed il contribuente (socio della società di comodo) sconta un’imposizione sul reddito, che non tiene conto della maggiore imposta assolta dalla società, in contrasto ai principi di doppia imposizione soci/società che informano il sistema tributario nazionale ed internazionale.
La focalizzazione delle novità normative apportate alla disciplina delle società di comodo rileva come tale materia abbia incrementato i suoi profili problematici e sia divenuta progressivamente sempre più incoerente sul piano della logica e dei principi impositivi.
L’ammissione al regime “di comodo” delle società in perdita mal si coniuga con l’intera disciplina della materia, tanto da determinare una difficoltà generale a riferire le disposizioni previste per le società non operative a quelle che versano in difficili condizioni economiche.
Da diverso punto di vista, tali ultime società dovrebbero essere aiutate attraverso norme fiscali che ne agevolino un processo di ripresa economica14; in senso opposto, invece, il sistema tributario riferisce alle società in perdita un’imposizione particolarmente gravosa che in assenza di elementi positivi di reddito colpisce il patrimonio detenuto nell’assetto societario.
L’inasprimento dell’aliquota, allo stesso modo, risulta non giustificabile nel contesto della disciplina delle società non operative e comprensibile esclusivamente al fine di aggravare la pressione impositiva in un momento di pesante crisi economica.
1 In particolare con l’art. 2, co. da 36-quinquies a 36-duodecies, d.l. n. 138/2011.
2 La prova della “non operatività” dell’ente si ha, infatti, quando l’ammontare relativo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi ordinari imputati al conto economico è inferiore a quello dei cd. ricavi figurativi; questi ultimi sono determinati applicando coefficienti stabiliti normativamente ad alcuni valori dell’attivo patrimoniale appartenenti a tre comparti predefiniti (quali: azioni e quote, beni immobili, altre immobilizzazioni).
3 Per quel che concerne l’Irap, infatti, conformemente alla disciplina generale di tale imposta, le società non operative devono dichiarare un valore della produzione netta non inferiore al reddito minimo presunto ai fini delle imposte dirette, aumentato delle retribuzioni sostenute per il personale dipendente (e dei compensi spettanti ai collaboratori coordinati e continuativi e a quelli occasionali) e degli interessi passivi.
4 In particolare, sono posti i seguenti divieti, relativi all’eccedenza Iva risultante dalla dichiarazione: di chiederla a rimborso, di cederla a terzi, di utilizzarla in compensazione orizzontale ai sensi dell’art. 17 della l. 9.7.1997, n. 241.
5 Le cause di esclusione automatica sono individuate dall’art. 30, co. 2, l. 23.12.1994, n. 724; dal provv. dir. Agenzia delle entrate 23681/E/2008.
6 Alcune cause che possono legittimare la disapplicazione della disciplina delle società di comodo sono state individuate da provvedimenti amministrativi generali In particolare, cfr. circ. 14/E/1997; circ. 25/E/2007; circ. 44/E/2007; circ. 48/E/2007.
7 Su tali aspetti, in particolare, Falsitta, G., Le società di comodo e il paese degli acchiappacitrulli. Per un fisco civile, Milano, 1995, 12; Tesauro, F., Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento anticipato, Roma, 1995, 5; Tosi, L., Relazione introduttiva, 2, Schiavolin, R., Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, 59, Beghin, M., Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), 78, Trivellin, M., L’uscita dal regime delle società di comodo. L’analisi di un’agevolazione fortemente discutibile sul piano della ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, 17, tutti in, Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008.
8 In relazione a tale principio si evidenzia che fondamentali elementi della disciplina in esame (es. test di operatività, determinazione della base imponibile, cause di esclusione) siano stati regolati da fonti amministrative e non da atti aventi forza di legge, contravvenendo a quanto contenuto nell’art. 23 della Cost., secondo il quale tutti gli elementi essenziali del tributo devono essere stabiliti in base alla legge.
9 In relazione a tale principio si è posto in rilievo come il presupposto tassato con la presente disciplina ai fini delle imposte sul reddito sia essenzialmente il patrimonio e non il reddito delle società; in questo modo si determina una disparità di trattamento rispetto agli altri soggetti economici e profili di doppia imposizione in ordine agli elementi patrimoniali.
10 Sulle rationes della disciplina delle perdite nella materia tributaria, Nussi, M., L’imputazione del reddito nel diritto tributario, Padova, 1996, 297; Stevanato, D., Riporto delle perdite ed elusione tributaria, in Riv. dir. trib., 2000, I, 1140; Zizzo, G., Considerazioni sistematiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. trib., 2008, 929; Fransoni, G., Finanziaria 2008 e modifica alla disciplina delle perdite, in Riv. dir. trib., 2008, I, 651.
11 Cfr. art. 2, co. 36-decies, d.l. n. 138/2001.
12 A livello generale e nonostante le contraddizioni prima evidenziate, la legge dovrebbe comunque avere una prevalenza rispetto ai provvedimenti amministrativi e conseguentemente le cause di esclusione specifica previste dall’art. 30, co. 2, dovrebbero essere integralmente riferite anche alle società in perdita sistematica.
13 Tale aliquota sarà, quindi, riferibile sia alle società che non superano il test di operatività, sia a quelle che integrano il presupposto della perdita sistematica, a partire dal periodo di entrata in vigore della disciplina.
14 Cfr., in questo senso, le osservazioni di Della Valle, E., Perdite fiscali e recessione, in Corr. trib., 2009, 987.