DISCIPLINA (dal lat. disciplina, da disco "apprendo, imparo")
È in origine l'atto dell'apprendere, e di riflesso anche l'atto dell'insegnare; ma il termine "disciplina" passò a significare a un tempo l'oggetto stesso dell'apprendere e dell'insegnare, quella che fu detta anche la materia dell'insegnamento, onde si ebbero le varie discipline: letterarie, scientifiche, storiche, ecc. Inoltre è pure accaduto che la medesima voce si sia estesa dalla sua applicazione originariamente intellettualistica e scolastica, ad altra più lata e morale, intendendosi per essa ora l'atto per il quale si ottiene la disposizione spirituale dell'apprendere e del perfezionarsi, che è poi la concentrazione dello spirito, e ora, infine, la concentrazione medesima. Onde si ebbero due fondamentali accezioni del termine: una riferentesi all'atto per cui si apprende il sapere, e al sapere stesso, l'altra riferentesi all'atto per cui si domina e guida lo spirito, e al dominio spirituale medesimo. In questo senso la disciplina trova la sua più importante e difficile applicazione in rapporto all'educazione e alla scuola; ma, specie quando il momento eteronomico di essa prevale, se ne può trattare anche in rapporto alla vita militare, ecclesiastica, professionale, ecc.
Già Terenzio Varrone (116-27 a. C.), usa la parola disciplina per indicare la materia di un insegnamento; egli scrisse infatti un'opera dal titolo Disciplinarum libri novem, in cui trattava della grammatica, logica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia, musica, medicina; le prime sette delle quali costituirono le arti o discipline liberali e furono accolte in tutto il Medioevo come costituenti l'ossatura del sapere, divise nei due gruppi del trivio (grammatica, retorica, dialettica, a cui corrispondono le artes sermocinales che conducono ad eloquentiam) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia, a cui corrispondono le artes reales che conducono ad sapientiam). L'opera di Ludovico Vives (1492-1540) intitolata De disciplinis (1531), la cui seconda parte è costituita dai cinque libri De tradendis disciplinis, rappresenta il passaggio dalla concezione medievale della disciplina a quella della nuova scienza, in cui la cognitio rerum acquistava una fondamentale importanza, e le discipline da trasmettere non erano più quelle del trivio e quadrivio, ma tutte quelle createsi e da crearsi secondo i nuovi metodi.
Disciplina scolastica.
Intesa nella sua accezione morale, la disciplina può riferirsi sia alla concentrazione e quindi al dominio che si ha delle forze spirituali per progredire nel sapere e in genere in tutta la propria educazione, sia ai mezzi e procedimenti onde tale effetto si può conseguire dal maestro nella scuola. I due sensi indicati sono, com'è naturale, intimamente legati fra loro. Si può dire che due principali concezioni si presentano a questo riguardo. Una è la concezione che si può dire essenzialmente autoritaria o anche eteronoma, secondo la quale la disciplina interna si ottiene con mezzi e procedimenti fondati sull'autorità del maestro, passivamente subita dall'alunno, e quindi con mezzi e procedimenti che vanno dall'intimazione imperativa, la quale può essere anche intimidazione, fino all'uso dei premî e dei castighi anche più gravi, come la punizione corporale nei suoi varî gradi e modi. L'altra è la concezione di una disciplina liberale o autonoma, la quale si viene creando dall'alunno e in genere dal soggetto educando per una libera sottomissione all'autorità del maestro, nel qual caso l'azione disciplinatrice del maestro si compie nell'atto medesimo della sua opera educativa e insegnativa, nell'espressione dei suoi sentimenti e dei suoi giudizî di approvazione e disapprovazione, e nella direzione generale della sua volontà.
La disciplina autoritaria o eteronoma ha avuto indubbiamente una gran parte nella storia dell'educazione, e ne ha tuttora in molti casi della pratica educativa. In genere può dirsi che essa prevalse presso i popoli dell'antichità nelle forme di disciplina coattiva, repressiva e punitiva emanante da una dura e inesorabile autorità, sussidiata da mezzi aspri e talvolta anche violenti. "Non, risparmiare le correzioni al fanciullo; se anche tu lo batti con la verga, non però morrà. Tu lo batterai con la verga, e libererai l'anima sua dall'inferno" è detto nei Proverbi (XXIII, 13-14); e a proposito dell'educazione romana è nota una pittura murale trovata a Pompei che rappresenta una scena scolastica di un maestro che usa la sferza sul fanciullo denudato e sostenuto da un compagno. Orazio (Epist., II,1, 70-71) ricorda il plagosum Orbilium suo maestro; anche S. Agostino fanciullo pregava Dio ne in schola vapularem (Confessiomi, I, 9), e il poeta cristiano Prudenzio ricorda nella Proefatio alle sue opere poetiche il crepitio della sferza, sotto cui passò la fanciullezza. Ma anche nell'età medievale, non ostante la predicazione della dottrina cristiana, accadeva che l'ignoranza, la superstizione e altre circostanze concorressero a mantenere nelle povere scuole parrocchiali e abbaziali, e anche fuori di esse, la pratica di una disciplina ottenuta per mezzo di oscure minacce e di gravi punizioni corporali: caratteristico, fra l'altro, è il titolo di una grammatica composta da Raterio, vescovo di Verona (m. 974), e intitolata con pietoso pensiero Sparadorsum, "Scansasferzate". Soltanto con l'Umanesimo e col Rinascimento si fanno frequenti le voci che chiedono una disciplina educativa più mite e rispettosa della personalità del fanciullo, se non propriamente autonomica. Degl'Italiani, il Filelfo, il Vergerio, il Vegio sono concordi nel fare appello per conseguire la disciplina più ai motivi della vergogna, del desiderio di lode, dell'emulazione, che a quelli della paura, del dolore e della mortificazione provocata dalle punizioni corporali; e il grande Vittorino realizzava nella Casa giocosa una disciplina educativa più coi mezzi dell'amore, della gara, della riprensione e della lode che con quelli estremi e assolutamente eccezionali del castigo deprimente e mortificante. Degli stranieri Erasmo, Rabelais, Montaigne protestano del pari energicamente contro la disciplina, più che severa, inumana in uso nelle scuole e nei collegi del loro tempo; e di Montaigne è celebre, fra i suoi saggi, quello sull'educazione dei giovani (libro I, cap. 25), dove si contrappone alla disciplina della scuola "gehenna", la disciplina severa bensì, ma dolce e a un tempo previdente e provvida (une severe doulceur). Anche G. A. Comenius nella sua Didattica magna (1628-1632) esprimeva come la disciplina 'concetti informati a un tempo a severità e a umanità, ritenendo che le sanzioni disciplinari debbano più applicarsi alle infrazioni della morale che alle deficienze nel campo degli studî, perché, diceva, (cap. XXV. I), "le frustate e le percosse non hanno nessuna forza d'ispirare negl'ingegni amore per le cose di scuola, ma ne hanno davvero molta per insegnare nell'animo avversione e odio contro di esse".
Ma un tal coro di proteste e di richiami, se poté qua e là mitigare, non valse a far mutare radicalmente il modo di concepire la disciplina scolastica, che continuò, per i secoli XVI, XVII, XVIII, a essere informata ai principî dell'autorità magistrale imposta, sostenuta e all'occorrenza restituita con l'assolutezza del comando, con le minacce e le punizioni sottilmente escogitate, graduate e applicate, e, d'altro lato, con una sapiente organizzazione di mezzi sollecitanti l'emulazione. Famoso è il sistema disciplinale che era in uso nelle scuole dei gesuiti, introdottovi dallo stesso Ignazio di Loyola, il quale non tanto l'escogitò egli stesso, quanto lo prese di sana pianta, introducendovi solo lievi variazioni, dalle scuole di Parigi dove egli aveva studiato. Questo metodo, che lo stesso Loyola chiamava modo o metodo "parigino", faceva principale assegnamento sulla religiosità, coltivata con la frequenza dei sacramenti, con le congregazioni mariane e altre pie pratiche. La divisione della scolaresca in sezioni tra loro gareggianti, le funzioni di sorveglianza attribuite ad alcuni scolari, le premiazioni solenni, le varie specie di punizioni ora mortificanti l'amor proprio, ora infliggenti un lieve castigo corporale, costituivano nel loro insieme un complesso di misure non prive di efficacia, almeno immediata, per il conseguimento di un certo ordine esteriore nella scuola, e anche stimolavano le attività dell'intelletto e della volontà. D'altra parte i Portorealisti cercavano nelle loro piccole scuole (1646-1656) di fondare la disciplina piuttosto sull'esercizio della ragione dell'alunno che sulla nuda autorità del maestro; e il fondatore dei Fratelli delle scuole cristiane, G.B. De La Salle (1651-1719) nella Condotta delle scuole (Avignone 1717), pur concependo sempre la disciplina come l'ordine esteriore della scuola, la faceva essenzialmente derivare dall'unione "della fermezza con la dolcezza", onde per un lato "i fanciulli rispettino e temano il maestro", per un altro "amino il maestro, la scuola e gli esercizî che vi si fanno".
Ma il concetto della disciplina autonoma, già accennato, se non svolto, dal Locke nei suoi Pensieri sull'educazione (1693), ebbe il suo grande banditore nel Rousseau, il quale anzi giunse (Émile, 1762) all'estremo di eliminare completamente l'autorità del maestro e dell'educatore, sostenendo che la vera disciplina è quella che l'educando solo dà a sé stesso con l'esercizio libero della sua attività, con l'esperienza viva ch'egli raccoglie della propria condotta, con l'elaborazione personale delle conseguenze naturali dei suoi atti. Nella qual tesi c'era il grande principio che vera educazione non si ha se non nell'attiva esplicazione della vita spirituale, che in sé trova la forza e la legge del proprio svolgimento; ma c'era l'errore fondamentale di concepire la vita dell'educando al di fuori della realtà storica e quindi delle relazioni sociali entro cui essa si svolge. Se il principio della libertà, che è poi quello della dignità umana, deve nel concetto della disciplina essere affermato, d'altro lato il principio dell'autorità, che è poi quello della realtà storica, non deve essere negato; ma i due principî devono essere dialetticamente composti. Una tale esigenza è stata ben vista dal Filangieri, il quale nella seconda parte del libro IV della sua famosa Scienza della legislazione (1780-85) considerava come essenziale alla risoluzione del problema educativo (e insieme anche del problema politico) la conciliazione della libertà con la dipendenza. Sennonché egli, facendo dipendere tale necessità dal bisogno della felicità (egli diceva infatti: "l'uomo non può essere felice senz'essere libero: tutti ne convengono. L'uomo non può essere felice, senza convivere coi suoi simili: tutti lo sentono; l'uomo non può convivere co' suoi simili senza una forma di governo e senza leggi: tutti lo concepiscono. L'uomo dunque per essere felice deve essere libero e dipendente" capo XXXV), subordinava la soluzione del problema alle accidentalità dell'esperienza, non la derivava dalla natura intrinseca dello spirito. Il che invece veniva operato da E. Kant, il quale nelle sue celebrate opere di morale e di pedagogia (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785; Critica della ragion pratica, 1788; Metafisica dei costumi, 1797; Pedagogia, 1803) incentrava la soluzione del problema della disciplina, cioè della conciliazione della libertà con l'autorità, nel concetto dell'autonomia, cioè della volontà che è libera nell'atto medesimo in cui si sceglie una massima capace di essere universalizzata, cioè una legge che detta imperativi categorici. Sennonché, se il problema filosofico della disciplina veniva così da Kant avviato alla soluzione, il problema tecnico della realizzazione di essa disciplina nel campo educativo era lasciato in sospeso. E chi sotto questo riguardo lo affrontò nuovamente fu prima il Pestalozzi nella pratica educativa dei suoi istituti, più che nelle sue opere pedagogiche, e poi, nel campo dottrinale, G. F. Herbart. Il quale nelle due opere: Pedagogia generale dedotta dal fine dell'educazione (1806) e Disegno di lezioni di pedagogia (1835-1841) faceva consistere la disciplina di due elementi o momenti: il governo (Regierung) dei fanciulli, che è rivolto essenzialmente a ottenere e mantenere l'ordine per mezzo dell'attività dei fanciulli e della sorveglianza esercitata su di essi con autorità e amore, e la cultura morale (Zucht), che è l'azione direttamente esercitata su di essi (principalmente col mezzo dell'istruzione) per la formazione del loro carattere morale. Veramente, però, nella terminologia herbartiana (T. Ziller, W. Rein ecc.) accade di trovare il concetto di disciplina ristretto a quello di governo, e i due concetti di governo e di cultura morale subordinati al concetto superiore di odegetica (Hodegetik, dal greco ὁδηγέω, conduco uno per la via), che insieme con la didattica esaurisce il concetto di educazione. Ma anche insigni pensatori italiani, come il Lambruschini e il Rayneri, toccavano nelle loro opere (R. Lambruschini, Della educazione, 1850; G.A. Rayneri, Della pedagogica libri cinque, 1859) il problema della disciplina, vedendone la soluzione nella conciliazione fra l'autorità del maestro e la libertà dell'alunno; l'autorità conduce amorevolmente alla libertà, e la libertà non si consegue che nel sottoporsi volontariamente all'autorità. Nel concetto della disciplina, infine, si concentra, secondo G. Gentile (Sommario di pedagogia, 1913-14), tutta quanta l'opera educativa, poiché essa viene definita come "quell'unità di legge e di volontà, di oggetto e di soggetto, di forza e di amore, di autorità e di libertà, che si realizza nel sapere, e soltanto nel sapere". Il sapere, concepito come atto onde lo spirito si svolge, concilia in sé, in una viva dialettica, i termini opposti della disciplina, e il maestro che sa, e conquista attivamente il suo sapere, realizza in sé la disciplina, e la realizza nell'atto stesso nella sua scolaresca. Tale concetto ha dato origine a varie discussioni; a G. Vidari è parso che il concetto di disciplina esprima soltanto l'aspetto formale dell'opera educativa, ma non elimini la necessità di considerare altri due aspetti di quella, che sono l'istruzione e l'incivilimento, i quali vengono unificati appunto dalla disciplina morale nel processo della cultura.
Bibl.: K. A. Schmid, Geschichte der Erziehung vom Anfang an bis auf unsere Zeit, Stoccarda 1884-1902; K. Schmidt, Geschichte der Pädagogik, Cöthen 1890; O. Willmann, Didaktik als Bildungslehre nach ihren Beziehungen zue Socialforschung u. zur Geschichte der Bildung, Brunswick 1903; Ellwood P. Cubberley, The historu of Education, Boston 1920; G. Gentile, Sommario di pedagogia, Bari 1913-14, 3ª ed., Bari 1924, J. B. Herman, La pédagogie des Jésuites au XVIe siècle, ses sources, ses caractéristiques, Lovanio 1914 (cfr. anche G. M. Pachtler, Ratio Studiorum et Institutiones scholasticae Societatis Iesu, in Mon. Germ. Paedagogica, Berlino 1887-94; I, pp. 37, 39, 64, 335; II, pp. 366-368, 396, 458; III, p. 458; pp 164-168); G. Vidari, Elementi di pedagogia, II: Teoria dell'educazione, 2ª ed., Milano 1924. - Si vedano inoltre: Dizionario illustrato di pedagogia di A. Martinazzoli e L. Credaro, s. v. Disciplina; G. Marchesini, Dizionario delle scienze pedagogiche, Milano 1929, s. v. Disciplina; F. Buisson, Dictionnaire de pédagogieche, Parigi 1911, s. v. Discipline e Discipline scolaire; W. Rein, Encyklopädisches Handbuch d. P., s. v. Regierung e Zucht.
Disciplina giuridica.
Nel campo giuridico la disciplina è la norma di condotta imposta all'uomo da persona o da funzionario che a ciò ha particolare potere. Ma, poiché alla norma di condotta umana si può contravvenire, occorrono all'uopo sanzioni per la violazione dell'obbligo particolare, le quali si denominano pene disciplinari e costituiscono il carattere saliente della disciplina. Finché si tratta della soggezione generale in cui ogni individuo è rispetto allo stato, si parla di potere di polizia che lo stato esercita, e di repressione penale comune che al medesimo compete; per aversi la disciplina bisogna dunque che un individuo si trovi in uno speciale stato di soggezione rispetto ad altri. Questa speciale soggezione può essere tanto coatta quanto volontaria e si ravvisa nel campo così del diritto privato, come del pubblico. Nel diritto privato si ha assoggettamento forzato del figlio alla potestà del padre o di colui che ne fa le veci; assoggettamento volontario di coloro che entrano a far parte di società di cultura, di svago, di sport, all'autorità di coloro che per statuto dirigono l'associazione, oppure di quelli che prestano altrui il proprio lavoro, all'autorità di coloro presso i quali il lavoro è prestato. Per l'ultima parte vediamo che la disciplina si fa precisa e rigorosa specie nelle grandi aziende moderne di produzione o di commercio. Ma è naturale che la disciplina si affermi più propriamente nel diritto pubblico, ove i rapporti speciali di assoggettamento di un individuo all'autorità sono molto più numerosi.
Assoggettamento coatto si ha qui per i militari di leva e per coloro che sono accolti in case di pena. Assoggettamento volontario si ha anzitutto per quelli che entrano nelle associazioni sindacali di datori di lavoro o di lavoratori, le quali secondo l'ordinamento italiano sono evidentemente enti di diritto pubblico, oppure di coloro che per esercitare determinate professioni, come legali o sanitarî, si debbono iscrivere in determinati collegi, i quali hanno pure tradizione e indole pubblica. Si sottopone pure volontariamente a speciale rapporto chi come salariato, impiegato o funzionario entra a prestare i proprî servizî allo stato o agli enti pubblici minori e chi è ammesso a pubblici istituti: p. es. gli studenti delle scuole pubbliche sottoposti all'autorità accademica. Sembra da ricordare anche l'assoggettamento in cui non solo i marinai, ma anche i passeggeri si trovano rispetto al comandante di una nave.
Giova del resto avvertire che i rapporti di disciplina, che abbiamo visto delinearsi nella vita civile, si ritrovano anche nelle istituzioni ecclesiastiche, e anzi si può sicuramente dire che per il concetto di disciplina e per il suo sviluppo, come del resto per il correlativo concetto di gerarchia, le istituzioni della Chiesa hanno da gran tempo precedute quelle dello stato. Là dove è disciplina, per quel che si è premesso, ivi è sempre un capo, che può pretendere da coloro che gli sono sottoposti obbedienza in ogni caso che abbia riflesso al vincolo speciale, e diligenza nel compiere le prestazioni positive che il vincolo stesso richieda; ma oltre a ciò è notevole che l'appartenenza a una determinata cerchia di persone può determinare una particolare condotta morale in ogni atto della vita, su cui il capo stesso è chiamato a vigilare. Esempî chiarissimi di ciò si trovano nell'indagine sui costumi che si fa intorno ai membri di certi clubs, e intorno ai pubblici funzionarî. Segue allora che quel che ordinariamente è regolato soltanto nel campo dell'etica ed è indifferente all'ordinamento giuridico, in via di eccezione diventa rilevante per il diritto.
Le sanzioni per la violata disciplina variano naturalmente secondo il rapporto in cui incidono, ma si riportano tutte al concetto d'infliggere un male al trasgressore, e in ciò senz'altro differiscono dalle sanzioni stabilite dalle leggi civili e consistenti nell'imporre al trasgressore l'obbligo di risarcire pecuniariamente il danneggiato. Queste pene disciplinari in sostanza si riportano ai seguenti gruppi:1. pene d'indole morale, come rimproveri, censura, ammonizione; 2. pene restrittive della libertà personale, o arresti, che in Italia si comminano soltanto contro i militarizzati; 3. pene pecuniarie, multe o sospensioni di assegni, che sogliono comminarsi contro coloro che dal rapporto ritraggono un lucro; 4. sospensione dall'ufficio o dall'istituto a cui taluno è addetto, e talora anche trasloco o retrocessi one in via di pena da uno ad altro ufficio o istituto; 5. licenziamento dall'ufficio o dall'istituto, che prende i nomi più varî a seconda dei casi (p. es. per i funzionarî si denomina revocazione, rimozione, deposizione, interdizione o destituzione), e che talora ha per effetto di far perdere utilità che dall'ufficio sarebbero altrimenti derivate anche dopo averlo lasciato (p. es. perdita del diritto a pensione per taluni impiegati destituiti) o d'impedire che altro ufficio simile si acquisti per un certo tempo o per sempre. Le pene sono state qui elencate secondo la gravità delle mancanze: quelle delle prime categorie si riferiscono alle trasgressioni più lievi, via via fino a quelle dell'ultima per i falli più gravi; ma, come è evidente, le pene dalla terza categoria in su possono applicarsi soltanto ai rapporti in cui si entra volontariamente e che conferiscono all'interessato particolari utilità. In pratica le pene minori sogliono chiamarsi pene di ordine, quelle che producono allontanamento dall'ufficio o dall'istituto, pene epurative.
In dottrina è grande dissenso per qualificare l'indole giuridica delle pene disciplinari in contrapposto alle penali comuni. Non è qui il luogo di discutere sul fondamento del diritto penale in genere; basterà accennare che secondo la scuola che vede nel magistero penale un puro mezzo di restaurazione dell'ordine giuridico leso, le pene disciplinari, a differenza delle altre, avrebbero valore puramente preventivo; ma un'altra scuola, che ha avuto origini e grande seguito in Italia, ha sostenuto che anche lo scopo della pena comune è eminentemente preventivo, in guisa che tutte le pene, di qualunque specie siano, s'infliggono sostanzialmente per distogliere gli uomini dal mal fare. Per chi si accosti a questo ordine di idee, cade ogni diversità sostanziale fra le pene comuni e le disciplinari. Ma se pure lo scopo di tutte le pene è uguale, ciò non significa che scompaia ogni differenza fra pene comuni e disciplinari. Le prime riguardano la violazione dell'ordine giuridico statale generale e le seconde il turbamento di ordinamenti giuridici diversi e, se così può dirsi, minori; inoltre le maggiori pene disciplinari, laddove è possibile, consistono nel privare l'individuo dei vantaggi che dallo speciale rapporto gli derivano, onde anche nel contenuto materiale esse differiscono dalle comuni: occorre anche aggiungere che il modo di dettare a priori le pene disciplinari e quello di applicarle poi al caso pratico differisce da ciò che si vede accadere per le pene comuni.
Nel diritto penale la moderna civiltà ha anzitutto introdotto il principio nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege: ciò significa che a rimuovere ogni arbitrio il legislatore deve previamente fissare quali atti o omissioni costituiscono reato, e qual sia la pena che a ogni reato si addice: inoltre, almeno come regola, è bandita l'applicazione delle pene comuni in via di polizia, ed essa per salvaguardia delle ragioni individuali è rimessa al giudizio di un potere indipendente, quale è il potere giudiziario. Ora tutto ciò non può ripetersi puramente e semplicemente per le pene disciplinari. Laddove esista un rapporto di soggezione che richieda particolare obbedienza e disciplina, si può senz'altro ritenere che per ogni trasgressione agli obblighi che ne derivino, sia applicabile, anche se non concessa espressamente, la sanzione di una pena che abbia l'indole di quelle sopra indicate. Vero è tuttavia che questa prassi ha poi acquistata tutta l'importanza di una consuetudine giuridica e che da ultimo con appositi statuti o regolamenti si è dovunque tentato di codificare le trasgressioni e le pene disciplinari; ma resta sempre indiscusso, anche quando fonti particolari di diritto non esistono in proposito, che una congrua pena disciplinare si possa infliggere nei singoli casi. Da ciò segue altresì che mentre le leggi penali, come quelle che tendono a diminuire un diritto dell'individuo, non si possono estendere per analogia in virtù dei principî generali della legislazione, il medesimo non può ripetersi per le pene disciplinari, avendo la consuetudine quivi stabilita in genere la potestà di comminare pene secondo la necessità o l'opportunità del caso.
Inoltre per regola generale la pena disciplinare è direttamente applicata, omisso iudice, dal superiore gerarchico o da colui che in genere ha vigilanza sugl'individui soggetti, salvo poi ricorso al giudice competente se esiste, e questa è differenza ancora più rilevante delle altre precedenti rispetto alla pena comune. Si suole anzi a questo proposito soggiungere che il superiore non è neppure obbligato giuridicamente a punire l'inferiore colpevole, a differenza del giudice che è tenuto a condannare il violatore del codice penale, ma quest'ultima affermazione non pare in tutto esatta. Vero è che, finché si tratta di rapporti privati, di essi lo stato si disinteressa e tutto è rimesso alla volontà dei dirigenti: vedrà il capo dell'azienda privata se gli convenga o no punire l'operaio ribelle o negligente; ma allorché entra nel campo del diritto pubblico, la potestà del superiore diventa in pari tempo obbligo di punire, e infatti nella disciplina militare, che è la più rigorosa, è prescritto al superiore di punire quando ne ricorrano gli estremi, e se egli omette di farlo, deve anzi a sua volta essere punito. Il non applicare pene disciplinari in casi di minima importanza o il tener conto delle benemerenze del colpevole per attenuare la pena in casi di media gravità, corrisponde alla legge del perdono nel diritto penale.
Se nella massima parte dei casi spetta al superiore gerarchico di applicare la pena disciplinare, il diritto moderno tuttavia appresta presidî procedurali all'incolpato. A tale uopo ovunque, ma soprattutto in Italia, è stato riconosciuto come un canone di equità, che debba inderogabilmente essere seguito anche nel silenzio delle fonti, quello di contestare per iscritto gli addebiti all'incolpato e di prefiggergli un congruo termine per scolparsi prima di emettere il provvedimento disciplinare, almeno per le trasgressioni di una certa gravità: il principio umano della difesa è in tal modo convenientemente garantito. Vi sono poi leggi o regolamenti che vanno più oltre e che consentono all'imputato, oltre la difesa scritta, anche quella orale, e magari l'assistenza di un difensore (scelto di regola fra i colleghi), ma questo non è il diritto comune disciplinare, in cui, salvo norme speciali, basta la semplice previa comunicazione delle accuse. A garanzia degl'interessati si aggiunge spesso l'obbligo, per chi applica la pena disciplinare, di udire prima il parere di un corpo consultivo, almeno per le pene più gravi: questo sistema negli ultimi decennî ha avuto ovunque una grande tendenza a diffondersi, specie per gl'impiegati pubblici. Più spesso il consiglio disciplinare è composto di alti membri della gerarchia a cui l'imputato appartiene, ma talora vi si chiamano anche i pari grado: quest'ultimo sistema è tradizionalmente adottato in molti stati per i membri dell'insegnamento e per gli ufficiali. Di regola poi il consiglio disciplinare dà un semplice parere, a cui il funzionario chiamato a emettere il provvedimento e responsabile dell'andamento del servizio può o no attenersi a seconda che lo ritenga conforme a giustizia, ma ai funzionarî dell'insegnamento e agli ufficiali è concessa la speciale garanzia che il ministro, a cui spetta di provvedere, non può prendere a loro carico un provvedimento più grave di quello che il consiglio di disciplina ha stabilito.
In via del tutto eccezionale al superiore gerarchico è tolta la potestà disciplinare, che è attribuita direttamente a un collegio avente funzione giurisdizionale; ciò accade negli stati costituzionali moderni rispetto ai magistrati dell'ordine giudiziario (e talora anche rispetto ai funzionarî a essi assimilati), per il principio della divisione dei poteri, che in special modo esclude l'ingerenza del governo nella funzione giurisdizionale e tende ad assicurare l'indipendenza della magistratura. Si creano allora tribunali e corti disciplinari, che assolvono l'imputato o applicano direttamente la pena, e che rappresentano lo stadio più perfetto a cui possa pervenire il relativo giudizio.
Per un medesimo fatto può applicarsi tanto una pena comune dai tribunali ordinarî, come una pena disciplinare dagli uffici a ciò competenti, poiché qui non vale la massima non bis in idem, trattandosi di rapporti e di sanzioni diverse. Né v'è sempre contraddizione che sia condannato in sede disciplinare chi sia assolto in sede penale, perché il fatto, che non costituisce reato comune, può ben costituire una violazione degli obblighi derivanti dalla speciale gerarchia: soltanto se in sede penale l'imputato sia stato assolto perché non sussiste il fatto o egli non l'ha commesso, sembra che per evitare la contraddizione fra i giudicati si debba revocare la condanna disciplinare.
Bibl.: S. Romano, I poteri disciplinari delle pubbl. amministr., in Giurisprudenza italiana, IV, 1898; C. Vitta, Il potere discipl. sugli impiegati pubblici, Milano 1913; H. Nézard, Le princ. fond. du droit discipl., Parigi 1903.
Disciplina ecclesiastica.
In senso lato per disciplina ecclesiastica s'intende il complesso di tutte le norme che regolano l'azione dei fedeli in ordine al conseguimento del fine spirituale e soprannaturale proprio della Chiesa, e di quelle concernenti il governo della Chiesa, le funzioni del potere giurisdizionale e amministrativo, l'esercizio del culto divino, i diritti e doveri delle persone ecclesiastiche. Quindi si hanno i canones fidei et morum, che sono dogmatici, e i canones disciplinae, disciplinari. In senso più ristretto, l'espressione "disciplina" non abbracci a le leggi liturgiche, quelle leggi cioè che riguardano l'amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali e l'esercizio delle sacre funzioni. In questo senso Pio X (Cost. Sapienti consilio, 29 giugno 1908) prende la parola disciplina, quando istituisce la S. Congregazione de disciplina sacramentorum che è uno dei più importanti dicasteri della Curia Romana; e nello stesso senso è presa anche dal Codice di diritto canonico (can. 249). In senso strettissimo "disciplina" si usa nel linguaggio canonico per indicare una forma speciale di procedura nella trattazione delle cause, distinta dalla giudiziale propriamente detta, che si dice anche amministrativa (cfr. canoni 250-251, 257, 1993 § 1).
Il fondamento della disciplina ecclesiastica è dogmatico, e come tale appartiene alla teologia; l'applicazione dei principî dogmatici, alla luce della scienza teologica e sotto la guida e il magistero infallibile della Chiesa, appartiene al diritto canonico. Gesù Cristo ha conferito agli Apostoli e ai loro successori il potere di stabilire ciò che è richiesto dai supremi interessi della religione e del bene spirituale dei fedeli. Questo potere si esplica e attua mediante la disciplina. Le fonti principali di essa sono la tradizione, i canoni dei concilî, le leggi emanate dai sommi pontefici e dagli altri organi legislativi competenti. Oggi la fonte principalissima è costituita dal Codice di diritto canonico, il quale vigentem huc usque disciplinam plerumque retinet, licet opportunas immutationes afferat (can. 6).
La disciplina ecclesiastica, una e immutabile nei principî fondamentali, è varia e contingente nella sua esistenza e attuazione, perché la legge canonica, al pari e anche più della legge civile, considerato il proprio e specifico fine, deve necessariamente adattarsi alle varie circostanze di tempo, luogo e persona. Quindi si ha la diversa disciplina della Chiesa latina e orientale, la disciplina antica e moderna, la penitenziale, la regolare, ecc.
Disciplina militare.
Nella società militare dato il suo fine e la sua costituzione, il grande principio di conservazione e di sviluppo, la disciplina è intesa come identificazione della più compiuta solidarietà. Le basi logiche e operative della disciplina, in virtù delle quali la solidarietà, ragione prima, la concordia e la cooperazione, ragioni conseguenti, attingono il loro fine morale e pratico, sono: la subordinazione, l'obbedienza, lo spirito di corpo, il sentimento dell'onore militare, l'istruzione, l'ordine. Quale principio etico, la disciplina richiama soprattutto la subordinazione, lo spirito di corpo, il sentimento dell'onore militare; quale principio d'azione per il fine pratico, domanda più in particolare l'obbedienza, l'istruzione, l'ordine. La disciplina militare, pur semplice nella sua espressione ideale, risulta nei suoi sviluppi pratici complessa.
È indispensabile distinguere tra forma disciplinare ed essenza disciplinare, per quanto fra l'una e l'altra i nessi siano inscindibili. Forma disciplinare è quel complesso di norme, precetti, regole e atti che costituiscono la pratica esteriore della disciplina. Essa varia da forza armata a forza armata, e, pur nello stesso genere di forza (di terra, di mare, d'aria), da epoca a epoca, da periodo a periodo, per tante ragioni e circostanze mutevoli. Essenza disciplinare è quello stesso principio di solidarietà di cui s'è detto.
La subordinazione. - Subordinazione è logica conformazione esteriore della società, onde ciascuna persona è al prestabilito e coordinato posto per la conveniente possibilità di tutte quelle individuali e collettive azioni proficue, che la ragione sociale, conformemente alle sue stesse leggi, comanda. La cognizione di questa esteriore conformazione e dei suoi motivi è oggi necessaria a rafforzare la direzione e l'impero della coscienza, ed è salutare finché serve a tal fine. In senso soggettivo, la subordinazione è sottomissione sincera, rispettosa e concorde di ciascuna persona alla persona maggiore, e osservanza dei conseguenti doveri.
L'obbedienza. - Disciplina è solidarietà attiva coordinata; pertanto la subordinazione diverrebbe inutile o anche dannosa ove non si collegasse all'obbedienza, che è il consentimento attivo, pronto e assoluto dell'inferiore alla volontà del superiore, per il raggiungimento del fine egualmente voluto e perseguito da inferiori e da superiori. L'obbedienza così determinata in rapporto all'origine e al fine, è obbedienza illuminata, la quale dà adito all'iniziativa, forma anch'essa d'obbedienza, che tenendo stretto conto della volontà del superiore si conforma alle circostanze varie non previste e non prevedibili dell'azione. Il consentimento, fattore di una verace obbedienza, richiama il problema dell'autorità, dacché il consentimento è funzione di una fede, e questa è precisamente funzione dell'autorità. Ne segue che il problema dell'obbedienza è strettamente connesso al problema dell'autorità e che il valore del consentimento che anima l'obbedienza di fronte al comando, è in ragione del valore dell'autorità che regge esso comando.
Lo spirito di corpo. - Da un punto di vista oggettivo, è, si direbbe, l'anima collettiva del corpo stesso, donde l'unità di coscienza, di sentimento e di volere fra tutti i suoi componenti comunque vicini o lontani nel tempo e nello spazio. Considerato invece soggettivamente negl'individui, è quel sentimento di particolare strettissima solidarietà che, vivo e agente in ognuno, si stabilisce fra tutti i membri di un corpo per la comunanza dello scopo e della vita, quindi del lavoro, delle fatiche, dei pericoli, degli eventi prosperi e avversi, per la reciprocità costante e famigliare degli aiuti dati e avuti in ogni circostanza. Lo spirito di corpo, ispirato sempre a quello stesso altissimo scopo per il quale è costituita la forza militare, produce, attiva e mantiene la tradizione, le memorie, i simboli e quant'altro di duraturo si tramanda sotto il nome e l'insegna del corpo. Il carattere precipuo dello spirito di corpo è il cameratismo.
L'onore militare è un vincolo morale di reciproca e mutua obbligatorietà a non commettere azioni biasimevoli e a comportarsi correttamente in ogni circostanza. Sono caratteri dell'onore, l'orgoglio e la dignità. Tra l'uno e l'altro vigila l'emulazione, temperata dall'istinto, dall'abitudine e dalla morale coscienza del dovere.
L'istruzione. - Uno dei problemi fondamentali della disciplina militare è di far sì che ogni militare agisca e faccia agire con retto senso pratico nel quadro del lavoro comune per l'unico fine. Problema, questo, che si traduce nel dovere dell'istruzione, mezzo proprio, naturale, diretto di abilitare le persone ad adempiere nel miglior modo possibile l'incarico che alle medesime è affidato. Il carattere dell'istruzione, base della disciplina, è essenzialmente quello di agente interno che nutre le altre basi.
L'ordine. - È principio di coordinazione per la cooperazione; quindi razionale disposizione, in ogni momento e circostanza, di tutti gli elementi della forza. In virtù dell'ordine la funzione di ciascun elemento riesce formalmente tempestiva ed efficace, coordinata e adeguata alla Situazione. Per le persone singole, vuol essere sentimento e abito di coordinarsi alla vita della collettività (corpo, reparto, ecc.) cui si appartiene, conformandosi alla sua regola di esistenza, di sviluppo e di lavoro. Anche l'ordine richiede l'istruzione: non si può ordinare e mantenere via via ordinato se non ciò che si conosce a fondo in tutte le parti e in tutte le reciproche relazioni di parti. Alla conoscenza degli elementi dell'ordine deve sempre accompagnarsi la volontà dell'ordine.
Disciplina marittima. - I principî e le norme di massima che regolano le relazioni disciplinari fra tutti coloro, ufficiali e bassa forza, che formano lo stato maggiore e l'equipaggio di una nave da guerra (v. equipaggio) s'ispirano, com'è naturale, a concetti in tutto analoghi a quelli che vigono nelle organizzazioni militari terrestri. Le particolari condizioni di vita e di ambiente della nave influiscono però su certe estrinsecazioni materiali dei concetti stessi e su alcune forme esteriori che queste vengono ad assumere.
I principî morali generali che ispirano la disciplina militare marittima e regolano tutte le forme esteriori che essa deve assumere, sia a terra sia a bordo, sono codificati nel Regolamento di disciplina per i corpi militari della regia marina, il quale, com'è detto nell'Avvertenza che v'è premessa, va inteso come il codice morale della marina, le cui disposizioni sono destinate a "creare e rafforzare quella sostanziale disciplina intima che, persuasa la mente, avvince al dovere, profondamente sentito e compreso, il cuore e l'anima". Le norme particolari che regolano il servizio interno, anche nei riguardi disciplinari, sono riportate nel Regolamento per il servizio a bordo delle regie navi.
Il comandante della nave è il supremo regolatore della disciplina nei riguardi di tutte le persone imbarcate, con la sola eccezione di quelle che abbiano un grado più elevato del suo e che si possano trovare a bordo imbarcate in comando di reparti complessi (ammiragli) o occasionalmente di passaggio.
Per tutto quanto si riferisce all'andamento giornaliero del servizio, il comandante usa delegare una parte dei suoi poteri disciplinari al comandante in 2ª, al quale spetta la direzione immediata di tutto il detto andamento e che, a seconda dei casi e delle circostanze, gliene riferisce in forma generica oppure gli domanda ordini e istruzioni particolari. Nei riguardi diretti della bassa forza, gli ufficiali capi reparto (v. equipaggio) regolano e sorvegliano la disciplina (articolo 224 del Regolamento per il servizio a bordo delle regie navi) in base agli ordini che ricevono dal comandante in 2ª, al quale riferiscono giornalmente tutto ciò che avviene in tale campo fra il personale.
Nello svolgimento corrente del servizio di bordo, la sorveglianza disciplinare interna è devoluta al personale di guardia che, a seconda della mole e dell'importanza della nave, comprende uno o più ufficiali, coadiuvati da sott'ufficiali e graduati. Il più elevato in grado o anziano degli ufficiali, denominato ufficiale in comando in guardia, dirige il servizio di tutti e rappresenta il comando della nave in ogni contingenza, anche disciplinare, che richieda un intervento immediato. Ognuno deve rispetto e ubbidienza al personale di guardia, in quanto quest'ultimo, nell'adempimento del suo servizio, dev'essere appunto considerato come una specie di portavoce del comando di bordo.
Anche a bordo delle navi mercantili le relazioni scambievoli fra i varî uomini che ne costituiscono lo stato maggiore e l'equipaggio si ispirano a speciali norme disciplinari che sono regolate dalla parte 2ª del Codice della marina mercantile e dal Regolamento della marina mercantile. Questa disciplina è meno rigida di quella che vige sulle navi da guerra, ma s'ispira ai medesimi concetti fondamentali.
Tutti coloro che sono imbarcati sopra una nave mercantile devono ubbidienza al comandante di essa al quale (art. 451 Cod. mar. merc.) "è affidato il potere disciplinare sopra qualunque persona imbarcata sulla sua nave, compresi i passeggeri". Nell'art. 453 segg. del codice suddetto è specificato di quali pene disciplinari possano essere passibili gli uomini dell'equipaggio e i passeggeri che si rendano colpevoli di mancanze disciplinari, le più comuni delle quali (per distinguerle dai reati marittimi veri e proprî elencati in altra parte del codice) sono ricordate all'art. 452.
Tutte queste disposizioni (art. 1067 del Regol. della mar. merc.) si applicano anche a persone di nazionalità straniera che si trovino a bordo di navi mercantili italiane. Se la nave si trova in un porto italiano il potere disciplinare su tutto il suo personale (comandante compreso) è devoluto ai capitani di porto; se in un porto estero, alle autorità consolari e in loro mancanza ai comandanti di navi da guerra nazionali che vi si trovino presenti (art. 451, comma 1°, 2° e 3° del Cod. mar. merc. e articoli 1068-69 del Regol. mar. merc.).