Discorso intorno alla nostra lingua
Il Discorso intorno alla nostra lingua (o anche Dialogo intorno alla nostra lingua) – uno scritto contro i teorici della «lingua comune» e a favore dell’identificazione dell’italiano letterario con il fiorentino di Dante, Petrarca e Boccaccio − è fuori linea rispetto alla più tipica produzione di M. e ha avuto fino alla prima edizione (1730) una circolazione modesta. Niente di certo è noto riguardo alla data di composizione o al titolo dell’operetta. I pochi dati esterni risalgono, come per tante opere ‘minori’, a un breve ‘cappello’ premesso al testo nell’Apografo Ricci, cioè la raccolta ms. curata dal «fondatore della filologia machiavelliana» (G. Inglese, in N. Machiavelli, Clizia. Andria. Dialogo intorno alla nostra lingua, 1997, p. 6) Giuliano de’ Ricci (→), nipote di M. per parte di madre (cito dal ms. di Ricci, indicato sotto come R, c. 133r; una riproduzione della carta è offerta dall’ed. Blasucci, Casadei 1989, dopo p. 272):
Giuliano de’ Ricci a chi legge […]. Mi è capitato alle mani un discorso o dialogo intorno alla nostra lingua dicono fatto dal medesimo Niccolò, et se bene lo stile è alquanto diverso dall’altre cose sue, et io in questi fragmenti che ho ritrovati [di autografi machiavelliani] non ho visto né originale né bozza né parte alcuna di detto dialogo, nondimeno credo si possa credere indubitatamente che sia dello stesso Machiavello, atteso che li concepti appariscono suoi, che per molti anni in mano di chi hoggi si truova si tiene suo et quello che più importa è che Bernardo Machiavelli, figlio di detto Niccolò, hoggi di età di anni 74, afferma ricordarsi haverne sentito ragionare a suo padre et vedutogliene fra le mani molte volte. Il dialogo è questo che seguita.
A scanso di equivoci, va avvertito subito, con Inglese 1980, che Ricci – sul quale sono da vedere Procacci 1995, pp. 305-07; Sartorello 2007 e 2013 – è solito presentare in modo altrettanto prudente altri scritti machiavelliani non autografi (così, per es., l’avvertenza al Discursus florentinarum rerum: «Giuliano de’ Ricci a chi legge. Il discorso che seguita, se bene io nollo ho trovato di mano del Machiavello, è da persone pratiche, intendenti et giudiziose havuto per suo»). Inoltre, anche l’espressione, all’apparenza sospetta, «mi è capitato alle mani» è cara a Giuliano e fa parte del gergo editoriale quattro-cinquecentesco (P. Trovato, in N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, 1982, p. LVIII nota 3, poi sempre ed. Trovato 1982). Ciò nonostante, sulla base, soprattutto, del cosiddetto antidantismo del Discorso, la maggior parte della relativa letteratura scientifica è legata a discussioni pro e contro la sua attribuibilità all’autore del Principe. Inoltre, il testo del Discorso è, o almeno è diventato, problematico, tanto che lettori diversi ne hanno proposto interpretazioni radicalmente differenti. Ora, è ovvio che,
quando esaminiamo la storia d’un testo comportante ragioni d’incertezza sia riguardo all’autore sia riguardo alla data […], l’indefinitezza temporale […] moltiplica le insidie, allargando eccessivamente le possibilità di scelta (Castellani Pollidori 1994, p. 323).
Quanto poi alle diverse interpretazioni, secondo Umberto Eco (1990, 19952),
di solito l’interpretazione attendibile è consentita da un ricorso – sempre congetturale – al topic discorsivo […]. Decidere di che cosa si stia parlando è una scommessa interpretativa. Ma i contesti permettono di rendere questa scommessa meno aleatoria di una puntata sul rosso o sul nero (p. 105).
In modo analogo, quanti vogliano occuparsi concretamente di storia letteraria, concorderanno sul fatto che per capire un testo composto in un’età diversa dalla nostra ci si debba sforzare di storicizzarlo, riconducendolo alle nozioni del suo tempo, anziché decontestualizzarne gli enunciati meno facili da comprendere e confrontarli con nozioni e teorie di oggi. Per tali ragioni, sembra opportuno organizzare questa ‘voce’, che mira a fornire appunto un’interpretazione ‘attendibile’ del Discorso, presentando prima i dati meno soggettivi (tradizione manoscritta, ‘genere’, struttura del testo) e ripercorrendo poi, almeno per sommi capi, le discussioni otto-novecentesche sull’attribuzione, che fanno spesso posto a tesi idiosincratiche. La discussione di elementi come la datazione e simili, preliminari quando si studino testi d’autore accertato, è rinviata dunque ai paragrafi finali.
A quanto si sa il Discorso è conservato solo da 4 mss. cinquecenteschi (le descrizioni più dettagliate in Migliorini Fissi 1972, pp. 137-57, ed. Trovato 1982, pp. LVI-LIX):
A = BMLF, Ashburnham 674 (già 605), 2° vol. Composito, secoli 16°-17°. Il Discorso, che si legge adespoto e anepigrafo a cc. 211-21, è di mano tardo-cinquecentesca (ma databile, per i motivi che si diranno, ante 1577). Provenienza: Ashburnham, Libri, Pucci. L’indicazione a lapis di c. 211r, «Machiavelli. Dialogo sulla lingua», è di mano moderna.
B = BNCF, Filza Rinuccini 22 (Miscellanea Borghini, III). La prima metà del Discorso nel fascicolo II (bianche le cc. 5v-6v), di mano di Baccio Valori il Giovane (1535-1606). A c. 1r, di mano del dotto copista: «Discorso di Nic° Machiavelli nel quale si tratta [sic]».
R = BNCF, Palatino E.B. 15.10 (il cit. Apografo Ricci). Si tratta della raccolta machiavelliana portata avanti tra il 1573 e il 1594 dai nipoti di M. Giuliano de’ Ricci e Niccolò Machiavelli il Giovane (m. 1597) con quattro collaboratori in servizio di un’edizione espurgata delle opere del Segretario fiorentino poi non realizzata. Il Discorso (preceduto dalla nota di Giuliano riportata al § 1) fu trascritto a cc. 133-38, di mano dei nipoti, nel 1577.
V = BAV, Barberiniano lat. 5368 (già 2490). Copia di R eseguita da Niccolò Machiavelli il Giovane, dopo il 1594, ma necessariamente ante 1597. In linea con il ‘cappello’ di R, il Discorso («Discorso over Dialogo circa la lingua fiorentina») è attribuito a «Messer Niccolò di messer Bernardo Machiavelli».
Copie più tarde, descriptae (ossia copiate) da R e quindi trascurabili ai fini del restauro testuale, si devono all’erudizione fiorentina primosettecentesca riunita nell’Accademia della Crusca:
R1 = BNCF, Palatino 815 (già 692.21.2). Copia di R esemplata nel 1726 da Marco Martini, con indice di mano di Antonio Rosso Martini e revisioni al testo di monsignor Giovani Bottari.
R2 = BNCF, Palatino (già ii.ii.334). Copia di R1, degli stessi anni.
Per generale consenso, la tradizione nota del Discorso è sfigurata da numerosi errori comuni e (come notava Mario Casella) particolarmente scorretta nelle citazioni, tra le quali per es. «spingeva» per «spingava», «spicca» per «spinga», «omnem» per «et Ennii» ecc. (Tutte le opere storiche e letterarie di Niccolò Machiavelli, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, 1929, p. 728; Migliorini Fissi 1972, pp. 182-88; Castellani Pollidori 1978, p. 206; Trovato 1981, pp. 54-55; ed. Trovato 1982, pp. LXXII-LXXVIII). In altre parole (come è normale in filologia classica, ma non comunissimo nelle tradizioni di testi moderni) tutti i testimoni discendono con chiarezza da un ascendente comune perduto, gravemente alterato in vari luoghi e, per ciò stesso, diverso e distinguibile dall’originale: quello che, anche nella terminologia neolachmanniana, si definisce l’archetipo (della tradizione superstite; la nozione è riesaminata da ultimo in Trovato 2005). Con le cautele del caso si potrà imputare a questo archetipo (dovuto a un copista sprovveduto, che non conosce la Commedia né l’Ars poetica) qualche altro errore comune, fin qui non diagnosticato dagli studiosi (per es., al § 57, «cianciare et zanzare» per «ciancia et zanza», garantito dalla ripetuta citazione dantesca del § 43). Inoltre, secondo Paolo Trovato (ed. 1982), che ha riesaminato la tradizione più antica, R è, a sua volta, copia di A, cosicché solo A e la copia parziale B, reciprocamente indipendenti, sono utili per la costituzione del testo.
L’operetta fu edita per la prima volta nel 1730 in appendice a L’Ercolano dialogo di m. Benedetto Varchi nel quale si ragiona delle lingue... (Firenze, Tartini e Franchi) con il titolo Discorso ovvero Dialogo sopra il nome della lingua volgare. Come ha mostrato Rosetta Migliorini Fissi (1972, pp. 198-205), la princeps − donde le successive edizioni sette-ottocentesche, che ne riproducono l’omissione censoria del passo contro la «corte di Roma» (§ 59) − fu condotta da Bottari sul fondamento di R2. Il ritorno ai mss. del Cinquecento fu inaugurato, sulla scia dei saggi barbiani in cui si allargava l’area di applicazione della «nuova filologia» (raccolti in Barbi 1938), dalla peraltro non impeccabile ed. Mazzoni, Casella 1929, fondata su V e R.
Dopo la scoperta di A, che si deve a Migliorini Fissi, si sono pubblicate tre edizioni critiche, fondate su valutazioni diverse del rapporto tra i testimoni: quella di Bartolo Tommaso Sozzi del 1976 (tradizione bipartita, frammento B in un ramo, R e derivati dall’altro; A ignorato e R assunto come testo base); quella di Ornella Castellani Pollidori del 1978, ritoccata nel 1981, che introduce la paragrafatura oggi in uso (tradizione bipartita, frammento B contro R e derivati; R assunto come testo base; A ritenuto contaminato per giustapposizione); e quella di Trovato del 1982 (tradizione bipartita, frammento B contro A e i suoi derivati R V R1 e R2; A assunto come testo base).
Sul piano testuale l’ed. Trovato del 1982 – da cui provengono le citazioni che seguono − è stata esplicitamente giudicata preferibile alle altre da Fumagalli 1983, Sozzi 1983, Brambilla Ageno 1984, Inglese 1985 (di parere contrario, Castellani Pollidori 1984) e assunta a testo, con qualche ritocco, nelle edizioni di Blasucci, Casadei 1989, Inglese 1997, Vivanti 2005, Baldassarri 2010 e Cosentino 2013, secondo la quale (ma il giudizio sembra contraddittorio) essa risolverebbe, «per certi versi [sic] in maniera definitiva [sic], la questione del testo» (p. 434). Ben inteso, chi scrive ritiene che l’impianto generale e il grosso delle scelte testuali dell’ed. del 1982 siano corretti, ma (convinto come ogni filologo che, assai spesso, la critica testuale si riduca a ‘esecuzione’, interpretazione soggettiva dei dati) è ben lontano − anche al di fuori dei casi conclamati di adiaforia e (come direbbe Giorgio Pasquali) recensione ‘aperta’ − dal considerarla immodificabile; e giudica, anzi, degni di attenta considerazione alcuni tra i ritocchi proposti da Brambilla Ageno 1984 e dall’ed. Blasucci, Casadei 1989 (p. 48), o «segnalati in nota» dall’ed. Inglese 1997.
Anche se la circostanza è a lungo sfuggita agli studiosi, il Discorso, esplicitamente definito «ragionamento» dal suo autore, è modellato sulle orationes dei classici (l’equivalenza semantica tra «orazione» e «ragionamento secondo i precetti della retorica» è garantita, per es., dalla Crusca del 1612); e delle orationes riproduce la struttura canonica: exordium, propositio / partitio, argumentatio / refutatio, conclusio. Altrettanto evidente, dato l’argomento («se la lingua […] sia fiorentina, toscana o italiana»), è la sua pertinenza al genere deliberativo, che habet in se suasionem et dissuasionem, «comprende la persuasione e la dissuasione» (Rhetorica ad Herennium I ii).
L’esordio (§§ 1-4), che assolve alle funzioni consuete (ut attentos, ut dociles, ut benivolos auditores habere possimus, «per rendere gli ascoltatori attenti, tranquilli e ben disposti»), è del tipo ab nostra persona, cioè valorizza il comportamento dell’oratore nei confronti della cosa pubblica (ab nostra persona benivolentiam contrahemus, si nostrum officium sine adrogantia laudabimus, atque in rem publicam quales fuerimus […] aliquid referemus, «trarremo benevolenza dalla nostra persona se loderemo il nostro ufficio senza arroganza e accenneremo alle nostre benemerenze verso la repubblica», Rhetorica ad Herennium I v 8). Come è stato segnalato in Sasso 1988 e precisato in Maconi 2008, l’autore riecheggia pressoché alla lettera alcuni passaggi particolarmente solenni del discorso delle ‘leggi’ (Critone 50a-51c), fruito nella diffusa traduzione ficiniana degli Opera omnia di Platone.
La propositio (§§ 5-19), che ha il fine di «comunicare lo scopo dimostrativo del discorso di parte» (Lausberg 1949, trad. it. 1969, § 43), si conclude con un sommario delle argomentazioni cui l’oratore ricorrerà, la partitio:
è prima necessario vedere donde Dante et gli primi scrittori furono, et se essi scrissono nella lingua patria
o se non vi scrissero; dipoi, arrecarsi innanzi i loro scritti, et appresso qualche scrittura mera fiorentina o lombarda o d’altra provincia d’Italia […] et quella che fia più conforme alli scritti loro, quella si potrà chiamare, credo, quella lingua nella quale essi habbino scritto (§ 19).
Inizia quindi l’ampia argumentatio/refutatio (§§ 2071), che si articola in tre parti. La prima (§§ 20-33), più direttamente collegata alla partitio, insiste sull’indubbia fiorentinità dei primi grandi scrittori italiani e sulle testimonianze da loro rese riguardo alla lingua che hanno impiegato nei loro scritti (§§ 20-21). L’unica testimonianza sfavorevole a Firenze (quella dantesca del De vulgari eloquentia) viene presentata come inattendibile rievocando, secondo i precetti della retorica, la vita e la causa di Dante (i suoi precedenti antifiorentini, il suo risentimento per l’esilio) e cercando di suscitare così l’indignazione degli auditores (§§ 22-26). Una digressione di argomento linguistico (§§ 27-33) permette di approdare a una distinzione tra lingue «comuni» a più province e lingue «proprie» di una sola provincia (§ 33), che verrà ripresa e precisata in seguito (§§ 52-55).
L’inconsistenza delle tesi dantesche viene ribadita ricorrendo al raffinato espediente retorico del dialogo con l’avversario (§§ 34 e segg.), evocato come se fosse presente (percontatio: Lausberg 1949, trad it. 1969, § 433). E il «ragionamento» si converte in pratica in un serrato interrogatorio a Dante, costretto dall’accusator ad ammettere la sua colpevolezza (§ 49 «Egl’è il vero et ho il torto»). Con la battuta che inizia al § 50 («Dante mio, io voglio che tu t’emendi») l’autore, che pure continua a rivolgersi a Dante, riprende definitivamente la parola e applica, come si è accennato, al fiorentino e alle altre lingue d’Italia le definizioni e i criteri linguistici enunciati nei §§ 27-33. Si colloca qui anche la celeberrima digressione, che «vale per sé sol[a] una storia del teatro italiano» (Dionisotti 1967, p. 101), sull’incapacità dei non fiorentini, e in specie del ferrarese Ludovico Ariosto, di produrre commedie davvero divertenti, capaci di attirare gli spettatori alla «delettatione» tipica della commedia, così da cogliervi «l’exemplo utile che vi è sotto» (§§ 65-71).
Attraverso la riproposizione delle prove più valide esposte nell’argumentatio (§§ 72-78), si arriva a concludere, come era facile prevedere, che «non c’è lingua che si possa chiamare o comune d’Italia o curiale, perché tutte quelle che si potessino chiamare così hanno il fondamento loro da gli scrittori fiorentini et da la lingua fiorentina» (§ 78). In cauda venenum. Il Discorso si chiude distinguendo tra l’onestà intellettuale di Dante, che, «udite che […] hebbe queste cose, le confessò vere et si partì» (§ 79) e la pertinacia degli italianisti, «sì poco conoscitori de’ benefici […] havuti da la nostra patria, che e’ vogliono accomunare con essa lei nella lingua Milano, Vinegia, Romagna et tutte le bestemmie di Lombardia» (§ 80).
Discende da quanto si è detto (già nell’ed. Trovato 1982, pp. XXXIX-XLI) che − per restare entro i due poli individuati da Ricci («un discorso o dialogo») − l’operetta senza titolo, a lungo indicata come Discorso o dialogo o anche Dialogo, senz’altro, va riconosciuta come un discorso (come del resto aveva già fatto il dotto Baccio Valori). Di qui, la necessità di ritoccare il titolo convenzionale in Discorso intorno alla nostra lingua.
Nonostante la logica di questa proposta non sia sfuggita agli studiosi («questa […] ricostruzione [del retroterra retorico del Discorso] presenta due vantaggi principali: quello di far veder che il testo non è affatto […] sgangherato […]; e [quello] di risolvere il problema del genere letterario incerto riflesso nel doppio titolo»: Tavoni 1984, p. 566; «Trovato ha buoni motivi per preferire l’intitolazione Discorso» ecc.: ed. Inglese 1997, p. 40; «Trovato […] illustra la struttura dell’opera secondo le partizioni dell’oratoria classica» ecc.: Maconi 2008, p. 175 nota; Baldassarri 2010, pp. 64 nota 3, 67 nota 25), i titoli alternativi, non privi di controindicazioni, riaffiorano spesso, per ossequio alla tradizione, nelle edizioni e nella letteratura scientifica. Castellani Pollidori (1981, p. 9 nota 1) dichiara, per es., «continuo a usare il titolo abbreviato Dialogo anziché quello, in sé preferibile, di Discorso, per ragioni di chiarezza». Cosentino 2013, dopo aver riferito che il ragionamento è «organizzato come una vera e propria orazione latina e quindi scandito in exordium, propositio (e partitio), argumentatio, conclusio» (pp. 428-29) e che assume l’anepigrafo A come testo base
(p. 634), dichiara di aver preferito il titolo «“doppio” vulgato […] in considerazione delle incertezze relative alla sua effettiva natura e attribuzione» (p. 639).
Per motivi legati alla paternità, a suo giudizio non discutibile, dell’operetta, su cui si invitano comunque i lettori a sospendere il giudizio almeno fino alla fine del paragrafo successivo, chi scrive ritiene che
il ritocco del titolo convenzionale sia, oltre che necessario sul piano logico, rilevante anche per le sue implicazioni culturali: negli anni Venti M. si muove in una logica di umanesimo volgare, scrive commedie, vite, storie e, appunto, orazioni deliberative (non c’è più spazio per opere sperimentali né per scritti dallo statuto incerto, per metà trattati e per metà dialoghi) (Trovato 2010, p. 121; ma già Dionisotti 1980, p. 264; ed. Trovato 1982, pp. XLI-XLII).
Con le parole del maggior biografo di M., Roberto Ridolfi, dopo l’inclusione nel canone per opera di Giuliano de’ Ricci,
l’attribuzione [del Discorso] al Machiavelli fu ribadita dal Bottari, che […] glielo assegnò con una perifrasi; negata dal Polidori nella sua edizione; negata prima e poi fortemente messa in dubbio dal Tommasini (I, 100; II, 349-362); confermata invece dal Villari (II4, 399 sgg.), poi, con la dottrina e la sottigliezza che gli erano proprie, dal Rajna […], 1893 […]. Ultimamente C. Grayson […], 1971 […] ha rimesso in discussione non soltanto la data, che vorrebbe posticipare ancor più io non avessi pensato, ma addirittura l’attribuzione al M. (1954, 1978, pp. 539-40 nota 34).
Se le riserve di Filippo Luigi Polidori e di Oreste Tommasini sono di scarsissimo rilievo, l’intervento meglio argomentato di Cecil Grayson cerca di dimostrare che il Discorso, fino ad allora assegnato dai più al 1514 o al 1515-1516 (per adesione alle proposte di Pio Rajna e Hans Baron), «non poté essere scritto prima del 1524-25, anzi fu probabilmente scritto più tardi, sicché l’attribuzione stessa a Machiavelli deve considerarsi dubbia» (come riassume Carlo Dionisotti). La tesi del falso, insinuata, pur con qualche ambiguità, da Grayson (1971, cui replicarono Ridolfi 1971, Sozzi 1972, Pozzi 1973, Pozzi 1975), fu rilanciata da Bertelli 1976 (su cui si veda Castellani Pollidori 1978, pp. 171-87). E una confutazione sistematica dell’attribuzione tradizionale del Discorso (ispirata in parte, senza citarlo, all’articolo di Sergio Bertelli e realizzata decontestualizzando i diversi enunciati dell’operetta e confrontandoli spesso con le dottrine novecentesche) fu tentata nel 1978 da Mario Martelli, secondo il quale l’operetta sarebbe una giarda (cioè una beffa) ai danni degli accademici fiorentini realizzata nel 1577 o poco prima. Ma la tesi della beffa (una beffa «così sofisticata da passare del tutto inavvertita», Grayson 1971) è insostenibile, come Grayson, Ridolfi, Dionisotti e Luigi Iachini Bellisarii subito avvertirono (rinvii ai primi tre in Trovato 1981, p. 56 nota). Di più, tutti gli argomenti contro l’autenticità avanzati da Martelli, tenuti insieme da disinvolte catene di ipotesi (il figlio di M., Bernardo, sarebbe stato affetto da malattie senili, il primo nucleo del discorso sarebbe stato un fantomatico scritto perduto di Vincenzio Borghini ecc.) furono pressoché immediatamente confutati da Dionisotti 1980. Il quale Dionisotti (cui si deve un’illuminante storia della questione nell’Otto e nel Novecento) ha liquidato come segue la tesi della beffa:
Benché il Martelli assicuri di averne «tentate di tutte» (p. 110), e in poche pagine abbia addotto il morfinomane privo della droga (p. 95, nota), Benveniste e gli esempi tratti dall’ilocano [Filippine] e dal tubatulabal (p. 100, nota), Umberto Eco (p. 105, nota), la potta di san Puccio (p. 109, nota) e il buon Dio (p. 110), né da queste pagine né dall’intero suo volume risulta in che mai consista la burla o giarda, perché da chi e contro chi sia stata perpetrata […]. Sul Castravilla e sulle «lotte intestine divampate a Firenze, nell’ultimo quarto del secolo XVI, intorno all’Accademia e dentro di essa», non s’impara dal suo volume nulla, che prima non si sapesse, meno s’impara di quel che comunemente si sa (Dionisotti 1980, p. 269 nota).
Nuovi dati utili per una miglior contestualizzazione del Discorso nei dibattiti del tempo, e contro la tesi del falso, furono prodotti da Iachini Bellisarii 1980, Castellani Pollidori 1981, Trovato 1981, ed. 1982 e 1985 e da alcuni recensori (per es., Tavoni 1984). Da allora, con l’eccezione dello stesso Martelli (1979, 1999), per un trentennio nessuno ha negato la sostanziale machiavellianità dell’operetta. Finalmente, un nuovo, preciso argomento contro l’attribuzione a M. è stato avanzato da Bionda 2009, secondo il quale un passo del Discorso fondato sui concetti aristotelici di ‘nodo’ e ‘scioglimento’ («Vedrai [nei Suppositi in prosa dell’Ariosto] […] un nodo bene accomodato et meglio sciolto», § 69) presupporrebbe la lettura del primo volgarizzamento italiano della Poetica, che spetta a Bernardo Segni (Firenze, Torrentino, 1549). Purtroppo − come è stato dimostrato da Trovato 2011 − il rilievo è infondato perché si tratta di terminologia diffusissima in latino (soprattutto attraverso l’Ars poetica di Orazio e il non meno fortunato commento a Terenzio attribuito a Donato) e attestata in volgare anche nel primissimo Cinquecento (per es., in Jacopo Nardi).
Vari studiosi hanno ricordato tra le indicazioni più condivisibili emerse nel corso del fluviale dibattito il criterio che un’attribuzione univoca della tradizione manoscritta va ritenuta, fino a prova contraria, ineccepibile:
Chi voglia contestarla, deve prima reperire un manoscritto autorevole che attesti una diversa attribuzione, o deve dimostrare che di fatto, per insuperabili contraddizioni, come sarebbero riferimenti posteriori al 1527, Machiavelli non poté scrivere il Dialogo. Nel qual caso, dovrà anche spiegare come e perché la falsa attribuzione abbia messo radici nella tradizione manoscritta (Dionisotti 1980, p. 310).
A differenza di Martelli, ma con analoga indifferenza verso quel criterio di metodo, altri hanno percorso una terza via, ovvero quella di una conciliazione tra la tesi del falso (la linea Grayson-Martelli) e quella dell’autenticità (Dionisotti e gli altri).
Nel tentativo di arrivare a ipotesi «conciliative», Stoppelli (1979) ha attribuito a un poco originale «raffazzonatore» i §§ 23-26, 35-51 e 79-80, cioè appunto quelli che contengono le critiche a Dante; e tuttavia, pur avendo mutilato l’orazione contro gli italianisti di snodi concettuali essenziali e della stessa conclusione, non diversamente da Bertelli e Martelli, «non illumina» sul «falsario» (Grazzini 1985-1986, p. 61). Più prudentemente, Giorgio Inglese (1979, 1980 e 1985) ha segnalato la persistenza (anche dopo l’ingente lavoro di contestualizzazione di Ornella Castellani Pollidori, di Dionisotti e di altri) di sequenze testuali a suo giudizio non attribuibili a M.: «“Anacronistica” appare allo stato dei documenti la polemica contro i “Toscanisti” [...]. Non meno contraddittorio è l’estremismo antidantesco» (Inglese 1985, p. 246).
Se Pasquale Stoppelli si è limitato a ribadire anche di recente le sue perplessità, iscrivendosi di fatto tra i «disputanti saldi a difesa delle loro posizioni» («Alcuni decenni fa sprizzarono scintille sul Dialogo intorno alla nostra lingua, ma senza che si arrivasse ad alcuna conclusione condivisa»: Stoppelli 2007, p. 7), Inglese ha riconosciuto, con una franchezza che gli fa onore, che la maggior parte degli studiosi si appaga dell’attribuzione tradizionale («il risultato del duello è stato, e bisogna onestamente riconoscerlo, favorevole ai difensori della paternità machiavelliana», ed. Inglese 1997, p. 8). Ma non ha cambiato posizione. Al contrario, a giudizio dello studioso, «nonostante gli sforzi ecdotici ed esegetici profusi […], molti paragrafi del Discorso restano poco chiari, alcuni passaggi logici non funzionano, troppe osservazioni linguistiche appaiono non pertinenti» e si deve «immaginare» che M. abbia composto solo dei «frammenti» del Discorso come ora lo leggiamo (ed. Inglese 1997, p. 208).
Ora, le riserve di Inglese vertono (sulla scia di Grayson) sull’antidantismo del Discorso e sull’«incertezza» del trattatello «intorno al motivo della lingua “toscana”», ma il primo è, a ben guardare, circoscritto e funzionale alla tesi fiorentinista (nel § 22 si precisa, per es., che Dante «in ogni parte mostrò d’esser per ingegno, per dottrina et per giuditio huomo eccellente, eccetto che dov’egli hebbe a ragionare della patria sua») e la seconda è condivisa da quasi tutti gli scritti linguistici coevi. Inoltre, i pochi punti del testo dichiarati non «limpidi» nel commento non investono le argomentazioni di M., ma riguardano per lo più teorie degli italianisti confutate con decisione da M. (commento ai §§ 17-19), o sono imputabili alla modesta qualità della tradizione superstite, ovvero del suo archetipo (§§ 9 e 19). E i pochi luoghi residui non sembrano giustificare un giudizio così severo (in particolare, le «obbiezioni» del § 21 si spiegano, se non m’inganno, con il significato classico del latino obiecto «pongo innanzi», «espongo» ecc.; e il senso del § 33 si chiarisce facilmente a riscontro dei §§ 54-55). Infine e soprattutto, la pur sommaria analisi della struttura del Discorso e delle sue robuste linee argomentative riferita qui sopra, e salutata a suo tempo come una novità di rilievo (Mirko Tavoni e altri), rende ancor meno appetibile la macchinosa ipotesi che un Ur-Discorso machiavelliano frammentario e incompleto e, neanche a farlo apposta, perduto abbia ricevuto forma unitaria, con suture maldestre, da un ignoto copista-editore che vi avrebbe introdotto vari errori «da copista» («i frammenti […] capitarono alle mani di qualcuno che, trascrivendoli, dette loro la forma con cui il testo si presenta nei codici; il trascrittore […] commise alcuni errori ‘da copista’, involontari; si fece ‘editore’ e restauratore dei passaggi meno rifiniti»: ed. Inglese 1997, pp. 208-09). Il riconoscimento di una struttura argomentativa ben organizzata e retoricamente impeccabile non è conciliabile nemmeno con l’edulcorazione di quell’ipotesi proposta da Paola Cosentino (2013) nel tentativo – scientificamente inaccettabile – di non scontentare nessuno:
Quel testo […] ebbe la sventura […] di essere probabilmente risistemato da un anonimo ‘raffazzonatore finale’ (Inglese): ciononostante, possiamo […] forse riconoscere, attraverso il procedere serrato delle sue principali argomentazioni organizzate secondo gli schemi della retorica classica, l’impronta originaria di un pensiero che non poco ha in comune con il genio politico machiavelliano (p. 436).
Vari elementi da tempo agli atti confortano invece ad accogliere tranquillamente, e per tutto il Discorso, l’attribuzione a M.: a partire, si capisce, dalle indicazioni della tradizione manoscritta, che è tarda, ma segnata da numerosi errori d’archetipo e dunque incompatibile con la tesi di un falso (nonché di un restauro-rifacimento) a ridosso della ‘scoperta’ di Ricci; e depone a favore della machiavellianità integrale dell’opuscolo, e non della revisione di un’opera machiavelliana non finita (la testimonianza di Ricci, che vale per il ramo A R V della tradizione, collima al riguardo con l’esplicita intitolazione del ms. B). Si ricordi almeno che:
a) la pertinenza del Discorso a una «fase alta della disputa linguistica cinquecentesca appare confermata dalla citazione dei Suppositi in prosa; dalla massiccia utilizzazione dell’Ars poetica (rimpiazzata in seguito, anche se non completamente, dalla Poetica d’Aristotele); dal mancato approfondimento della distinzione tra fiorentino e toscano (netta già nel Cesano) e d’altro canto tra fiorentino del ’300 e fiorentino del ’500 (Bembo); […] dalla cultura volgare dell’autore, in bilico tra Dante e Pulci; dai luoghi paralleli con gli scritti del Landino, la Risposta di L. Martelli e altri documenti fiorentini degli anni ’20» (Trovato 1981, pp. 57-58);
b) come si è appena ribadito, l’impianto retorico del Discorso è perfettamente coerente;
c) nel corso del suo dialogo con un D. autore della Commedia (§§ 35 e segg.) il fiorentino autore del trattatello (§§ 1 e segg.) si autodesigna come N.;
d) snodi sintattici e argomentativi e, quel che più conta, elementi stilistici poco rilevati, ma significativi (come, nelle arti figurative, il trattamento delle mani e delle unghie usato a fini attribuzionistici da Giovanni Morelli) presentano fortissime analogie con la produzione machiavelliana sicura (Ridolfi 1971; Chiappelli 1974; Castellani Pollidori 1978, pp. 52-85; Trovato 1981, pp. 6066 e altri).
Insomma, come in ogni comunità scientifica posta di fronte a problemi complessi (o complicati dagli studiosi), si sono superate, collettivamente, tanto le assunzioni più ingenue degli studi ottocenteschi quanto certe inaccettabili semplificazioni novecentesche; e le soluzioni che si sono acquisite nei primi anni Ottanta risultano di regola meglio documentate e più in sintonia con il testo (si pensi, per es., alla designazione «uno degli Ariosti di Ferrara», considerata a lungo problematica, ma chiarita da Dionisotti 1980, pp. 291-92, o alle perplessità di Ricci, e poi di tanti studiosi, sul ‘genere’ cui il Discorso appartiene, di cui si è già detto, o al «generale accordo» su un deciso abbassamento della datazione, rilevato già da Petrucci 1979). Ed è un fatto che le approfondite analisi delle posizioni pro e contro M. e la rilettura del Discorso nel quadro delle discussioni primocinquecentesche, svolte tra il 1971 e il 1982, hanno portato, almeno nel trentennio appena trascorso, a una più convinta adesione alla ‘teoria standard’: che è condivisa, come si è accennato, dalla maggior parte degli studiosi di M. o della questione della lingua, da Ignazio Baldelli («sull’attribuzione del Dialogo al M. non ho dubbi»: in Baldelli, Vignuzzi 1985, p. 452 nota) a Folena 1991, p. 125 («non mi pare dubbio che sia suo») a Gensini 1992, p. 323 (il «dibattito […] sembra aver solidamente confermato la paternità machiavelliana dell’opera»), da Marazzini 1993, p. 257 («La più interessante reazione fiorentina al De vulgari eloquentia rimane senz’altro quella del Discorso […] di Machiavelli») a Paccagnella 1994, pp. 617-18 («La più radicale esplicitazione della tesi dell’eminenza del toscano e segnatamente del fiorentino vivo […] è rappresentata dal Discorso […] di Machiavelli») a Stussi 1994, 2007, p. 105 («una persuasiva dimostrazione […] è mancata anche per l’ipotesi, sostenuta da Mario Martelli, che il Discorso […] sia una “giarda” allestita ai margini dell’Accademia fiorentina») a Formentin 1996, p. 204 («Un importante documento della reazione fiorentina alle idee di Trissino è rappresentato dal Discorso […] di Machiavelli») a Richardson 19992, p. 184 («Il fiorentino Niccolò Machiavelli reagì nel suo Discorso […] all’aggettivo trissiniano “italiana” e al modo in cui il vicentino si serviva del De vulgari eloquentia di Dante»). Sulla stessa linea si può rinviare, per es., anche a Fornasiero 1979; Petrucci 1979; Padoan 1981, pp. 467-68, 475; Fumagalli 1983; Brambilla Ageno 1984; Bruni 1984, p. 62; Tavoni 1984; Vignali 1984; Castelvecchi 1986, pp. XXXI-XXXII; Perocco 1987, pp. 569-76; Poggi Salani 1992, p. 426 e note; ed. Serianni 1993, p. 489; Trifone 1994, pp. 95, 102-04; Franceschini 1998; Motolese 2001, p. 156; Scavuzzo 2003; Belloni, Drusi 2006, pp. 301-03; ed. Montuori 2012, p. 447: per non menzionare che qualcuno degli specialisti non coinvolti direttamente nel dibattito sull’attribuzione.
Nelle sintesi recenti di alcuni autorevoli studiosi di M. (Bausi 2005, Inglese 2007) si avverte peraltro una tendenza non più e non tanto a negare la paternità del Discorso, quanto a emarginare l’operetta liberandosene alla svelta: quasi si trattasse di un imbarazzante incidente di percorso e non di uno dei testi più acuti e originali della nostra plurisecolare questione della lingua, centrale per la ricostruzione del ruolo di Firenze nella letteratura del primo Cinquecento.
Preso atto della generale fragilità delle argomentazioni finora svolte contro la paternità machiavelliana del Discorso, è, a questo punto, legittimo ricondurlo nel quadro, anche cronologicamente circoscritto, imposto dall’attribuzione tradizionale e provare a rispondere a una domanda ormai ineludibile: quando M. avrebbe potuto scrivere il Discorso? A centovent’anni di distanza da Rajna − che, in una fase ancora pioneristica degli studi, assegnava il Discorso al 1514 sulla base di una tarda e imprecisa testimonianza di Giovambattista Gelli − una risposta di massima è abbastanza facile.
L’autore del Discorso conosce e cita (da un’edizione a stampa?) i Suppositi in prosa dell’Ariosto, datati 1509 e stampati per la prima volta verso il 1510 (§§ 70-71). Sa che al suo tempo ci sono «assai ferraresi, napoletani, vicentini et vinitiani che scrivono bene et hanno ingegni attissimi allo scrivere» (§ 76); e, se per Jacopo Sannazaro, Pietro Bembo e Ariosto possiamo accontentarci di terminus post come il 1504, il 1505, il 1509 (rispettivamente, editiones principes della seconda Arcadia e degli Asolani, composizione e prima diffusione dei Suppositi), per i vicentini, ossia per Giovan Giorgio Trissino, bisogna scendere almeno fino alla Sofonisba (composta a Roma tra il 1514 e il 1515).
M. sa anche (mostrando peraltro di non averlo letto) che gli «inhonestissimi» antifiorentini si fanno forti del semisconosciuto De vulgari eloquentia (§ 21), ignorato persino dai commenti danteschi (fanno eccezione, prima del commento di Cristoforo Landino, la Cronica di Giovanni Villani, il Trattatello di Boccaccio, la Vita di Dante di Leonardo Bruni). Si noti anche che il trattato dantesco, posseduto da Trissino almeno dal 1514 (ed. Rajna 1896, pp. XXXVI-XXXVII), sarebbe stato valorizzato negli scritti trissiniani a stampa con il titolo, significativamente diverso, De vulgari eloquio.
M. appare inoltre consapevole del fatto che gli italianisti (coloro che vogliono che «quelli che hanno scritto per l’adreto [inclusi Dante, Petrarca, Boccaccio] habbino parlato in questa lingua comune italiana», § 11) si fanno forti delle nuove mode grammaticali («arrecati innanzi un libro composto da quelli forestieri che hanno scritto dopo voi et vedrai quanti vocaboli egli usano de’ vostri et come e’ cercano d’imitarvi», § 61); e, a danno di Firenze, distinguono − come avrebbero fatto più tardi Trissino e Pierio Valeriano − tra il fiorentino puro di Luigi Pulci (§ 47) e la lingua «illustre e cortigiana» delle Tre Corone. E sembra aver scorso le Regole di Giovanni Francesco Fortunio, stampate nel 1516 e subito ristampate negli anni successivi (qualche possibile riscontro tra Discorso e Regole si ricava dall’ed. Trovato 1982, ad indicem).
Come è stato osservato, la sicurezza con la quale M. oppone l’impaccio linguistico e il modesto tasso di comicità delle commedie ariostesche alla salda urbanitas dei comici fiorentini (§§ 65-71) sembra posteriore alla composizione e al largo successo della Mandragola (1519 o 1520?). Inoltre − al di là della svelta transizione con la quale il Discorso introduce il dialogato tra N. e Dante («Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire egli disse et io risposi, metterò gl’interlocutori davanti», § 34), prossima a uno snodo dell’Arte della guerra (1521) e modellata su analoghe formule ciceroniane e umanistiche (vari esempi, da ultimo, nell’ed. Trovato 1982, ad locum) −, anche la vivacità di quel ‘dialogo’ presuppone, si direbbe, la composizione, più che la semplice frequentazione, di testi teatrali.
Infine (e la circostanza è taciuta da chi nega la paternità machiavelliana del Discorso: come segnala Stoppelli 1979, p. 601), un’impressionante quantità di luoghi paralleli, elencati da Castellani Pollidori 1978, connette l’operetta a un trattatello ‘linguistico’ stampato entro il dicembre 1524 (Firenze, sine typographo), cioè la Risposta di Lodovico Martelli all’epistola delle lettere novamente aggionte alla lingua volgar fiorentina del Trissino: che, come il coevo Discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana di Angelo Firenzuola (Roma, Lodovico Vicentino e Lautizio Perugino, dic. 1524), stravolge polemicamente il titolo e dunque presuppone la pubblicazione, avvenuta nella stessa prestigiosa tipografia, dell’Epistola delle lettere novamente aggiunte alla lingua italiana di Trissino (gli interventi di Martelli e di Firenzuola sono editi e ben illustrati da Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare, 1984). La sequenza delle opere trissiniane stampate nel 1524 è, a quanto si sa: Canzone a Clemente VII, post maggio; Sophonisba, luglio e, di nuovo, settembre; Oratione al serenissimo principe di Venetia, ottobre; Ritratti, ottobre; lettera a Giovanni Matteo Giberti [ottobre]. In ottobre i tipografi stampano anche due operette di Giovanni Berardino Fuscano. Non datate, ma databili appunto fine ottobre-novembre, l’Epistola de la vita che dee tenere una donna vedova e l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte.
Il nodo che lega tra loro Epistola (ott.-nov. 1524), Risposta (dic. 1524) e Discorso (autunno di un anno da definire) è davvero molto stretto, al punto che, come è stato sottolineato (pur se con esiti differenti) da Castellani Pollidori 1978, pp. 99-141, Dionisotti 1980, pp. 325-27, ed. Trovato 1982, pp. XXIX-XXXIII (oltre che da Rajna 1893 e, poi, da Sorella 1990) la datazione del Discorso non può non ricevere luce da un loro attento confronto. L’ipotesi che l’operetta machiavelliana risalga all’autunno 1525 (Castellani Pollidori 1978 e, prima, Chiappelli 1974) è fondata su una piccola serie di valutazioni non incontrovertibili dei punti di contatto tra i due testi (le formule usate dalla studiosa sono giustamente possibiliste: «è forse legittimo pensare che», «è forse alquanto più naturale che», «l’impressione che si ricava […] è» ecc.) ed esige, come aveva notato già Rajna, che un autore originale e acuto come M. si sia accontentato di costeggiare quasi pedissequamente, circa un anno dopo la pubblicazione a stampa della Risposta, buona parte di quello scritto, anche sintatticamente impacciato.
Così facendo M. avrebbe però rinunciato non solo a tener conto della documentazione prodotta da Martelli (che sembra aver letto almeno per estratti il De vulgari eloquentia e cita più volte il Convivio), ma anche a prendere posizione su quella che, a tutti gli antitrissiniani (Martelli, Firenzuola, Claudio Tolomei), sembrava la più bislacca delle innovazioni del vicentino, vale a dire l’introduzione delle «nuove lettere» (le onerose conseguenze di questa cronologia – sottolineate da Pozzi 1975 e da altri – sono ignorate anche dall’ed. Cosentino 2013). Di più, a meno di non ipotizzare un singolare ‘strabismo’ di M., «tutto concorre a mostrare che il Machiavelli, quando scriveva il Dialogo [il Discorso] non aveva letto le Prose» di Bembo, ancora più urticanti per i fiorentini, che furono discusse a Roma dalla fine del 1524 e finite di stampare nel settembre 1525 (Pozzi 1975, p. 495, e Dionisotti 1980, pp. 319-20: seguiti dai più).
È insomma più economico supporre, con Rajna, Mario Pozzi e Dionisotti, che − mentre, con ogni evidenza, la Risposta di Martelli inaugura, con il Discacciamento di Firenzuola, le polemiche a stampa − il Discorso appartenga a una fase precedente del dibattito, in cui, almeno a Firenze, si mirava non tanto alla confutazione dell’Epistola di Trissino, allora inedita, quanto a respingere quel che delle teorie linguistiche trissiniane, ancora esposte oralmente, era noto a Firenze durante un non meglio precisato «vendemmiale negotio» di Machiavelli. E i documenti romani agli atti, pur risucchiati verso l’inaudita questione degli omeghi e degli epsilonni, indirizzano concordemente verso la seconda metà del 1524. Il 7 maggio una lettera di Alessandro de’ Pazzi a Francesco Vettori, a Firenze, molto citata dagli studiosi, informa per tempo sulle novità che si annunciano e sulle prime reazioni dei fiorentini residenti a Roma:
Qui la Achademia tragica, idest di Castello [Castel Sant’Angelo], in qua principalis est Trixinus ille tragicus, è resoluta, doppo molta consulta circa alla lingua vulgare, di aggiungere litere allo alphabeto vulgare, cio è uno omega et uno epsilon et uno altro u […]. Simile, uno altro z. Et perdio che io non burlo, che si stampa la Tragedia di messer Giangiorgio con queste additioni di litere. Sopra che si è decto molto. Et Philippo [Strozzi] ancora assai sopra questo ha decto la opinione sua; in modo che quel che noi ridicule diciavamo, loro lo fan da vero […]. Ho paura che di tragedia non diventi comedia, idest ridicula (cit. in Trattati sull’ortografia del volgare, 1984, p. XXVI).
Una lettera del 5 gennaio 1525 spedita dal cardinale Niccolò Ridolfi a Trissino fornisce invece un sicuro terminus ante quem per il Discacciamento di Firenzuola e la Risposta di Martelli, noti al letterato vicentino prima del 21 dicembre 1524 (nell’ed. Pozzi 1988, p. 98). Un’altra, spedita dal portoghese Michele de Silva il 24 dicembre al cardinale Giovanni Salviati, informa su interventi censori di Ridolfi in favore di Trissino:
Magnum proventum omegomasticum annus hic attulit; et molti più ne sarebbero se [il cardinale Ridolfi] eos non aperte oppugnaret quest’anno ci ha portato una grande abbondanza di libelli castiga-omeghi; e sarebbero molti di più se il Ridolfi non si fosse schierato in modo netto contro quella produzione (cit. in Trattati sull’ortografia del volgare, 1984, p. XXXI).
Anche alla luce di questi dati e date, si deve pensare che amici di M. che conoscevano le idee di Trissino, discusse a Roma a partire dal maggio 1524 nella cerchia dei Rucellai («doppo molta consulta circa alla lingua vulgare»), abbiano sollecitato il parere di Machiavelli. Il quale, nel pieno di un «vendemmiale negotio» e dunque, verrebbe da credere, nel podere avito di Sant’Andrea in Percussina, avrebbe scritto, più o meno di getto, il Discorso: che in effetti, nonostante la vivacità stilistica e l’originalità di molte asserzioni (ben sottolineata, in anni non sospetti, da un linguista provetto come Baldelli), mostra di non aver richiesto estese ricerche, ma al contrario sfrutta nozioni elementari, presenti nelle grammatiche latine e nei manuali di retorica e normali in ogni discussione linguistica coeva: la puritas e il barbarismo. Se così stanno le cose (e l’assenza nel Discorso di ogni riferimento alle «nuove lettere» grecizzanti introdotte da Trissino è l’elemento che più decisamente orienta verso questa ricostruzione), il Discorso, necessariamente anteriore all’apparizione della Risposta e della stessa Epistola, e pertinente a una fase ancora orale della discussione, è databile, con buona probabilità, autunno 1524.
La scarsa diffusione dell’operetta (nota, forse, a Trissino, che sembra tentare di confutarla in certi passi del Castellano) non si spiega però automaticamente, ma richiede un veloce commento. Anche si deve ammettere infatti che, terminato il «ragionamento» – e avendo imparato a sue spese quanto poteva essere pericoloso passare per oppositore dei Medici (Trissino era un protetto di stretti alleati dei Medici come i Ridolfi e i Rucellai) – Niccolò abbia diffuso solo in una ristretta cerchia amicale il tutto sommato prudente Discorso (gli «inhonestissimi» italianisti non vi vengono mai esplicitamente nominati) e – forse anche perché «spiazzato» dall’apparizione dell’Epistola (Grazzini 1985-1986, p. 62) – ne abbia successivamente autorizzato il recupero da parte di un giovane ambizioso, ma allora e ancora per qualche tempo politicamente inoffensivo, come Martelli. Il quale doveva avere accesso agli scritti tardi di M. se (come ricorda anche Cosentino 2008) qualche anno dopo la morte di Niccolò poté pubblicare nell’ed. a stampa delle sue Rime (Roma, Blado, 1533) «due madrigali, Chi non fa pruova amore e Sì suave è l’inganno, […] in realtà composti da Machiavelli come intermezzi lirici destinati alle rappresentazioni della Clizia (1525) e della Mandragola (1526)».
Come è stato riconosciuto, per merito soprattutto di Dionisotti, il tessuto concettuale del Discorso combacia perfettamente con i ripetuti segnali di disagio (prefazioni o lettere private) apparsi negli ambienti culturali fiorentini del primo Cinquecento di fronte all’offensiva, letteraria e grammaticale ed editoriale, dei barbari (in senso etimologico), che da tutt’Italia e specialmente dalla «Lombardia», cioè l’Italia settentrionale, attentavano al primato culturale e linguistico della città. Quel primato, conquistato sul campo dai grandi fiorentini del Trecento e riaffermato senza difficoltà nell’età laurenziana (basti rileggere le dedicatorie a stampa di un portavoce della ‘politica culturale’ medicea come Landino), era stato messo in crisi nel primo Cinquecento da scrittori come Ariosto, Bembo, Sannazaro e Trissino stesso, che «scriv[evano] bene et ha[vevano] ingegni attissimi allo scrivere» (§ 76), da grammatici come Fortunio e da correttori editoriali come Girolamo Claricio, Cassiodoro Ticinese e tanti altri, che non si peritavano di correggere alla luce delle ‘regole grammaticali della volgar lingua’ opere fiorentine quattrocentesche (sulle reazioni dei fiorentini alle revisioni editoriali perpetrate dai settentrionali, Dionisotti 1980, pp. 338-62; ed. Trovato 1982, pp. XV, XIX-XXI; Richardson 1984, pp. XXXIII-XXXV; Trovato 1991, pp. 177-82; Richardson 1994, pp. 79-86).
Appunto la spregiudicata utilizzazione che Trissino faceva del poco noto De vulgari eloquentia, per mostrare (a vantaggio della sua teoria linguistica) che Dante non aveva «scritto in fiorentino, ma in una lingua curiale» (§ 21) – confermatata dalla Risposta di Martelli, dal Dialogo di Valeriano e dal Castellano – richiedeva una presa di posizione ferma. Tanto più che le pretese dei barbari trovavano favore anche tra i giovani fiorentini, che avevano seguito Trissino e Giovanni Rucellai nell’esperimento grecizzante della tragedia e che modellavano la loro lirica, con scrupoli difficilmente comprensibili dai contemporanei di M., su quella di Petrarca e dei petrarchisti settentrionali (Pozzi 1975; Dionisotti 1980, pp. 261-62). Si capisce insomma che qualche osservatore, allarmato dalle ultime novità, sollecitasse un intervento del più titolato rappresentante, in quel giro d’anni, della letteratura fiorentina, autore di successi a stampa come la Mandragola e l’Arte della guerra, oltre che storico ufficiale della città.
L’analisi della struttura retorica del Discorso consente di distinguere a colpo sicuro tra teorie linguistiche attribuite da M. agli italianisti e teorie linguistiche da lui condivise o propugnate.
Sulla scia delle definizioni classiche della latinitas (quae sermonem purum conservat ab omni vitio remotum, «che conserva la lingua pura, lontana da ogni vizio», incorrupte loquendi observatio secundum romanam linguam, «il rispetto del parlare puramente sul modello della lingua di Roma») M. riprende dalle prefazioni fiorentine dei primi anni Venti e già dalla ‘linguistica’ di età laurenziana, ossia da Landino, la nozione di una «puritas fiorentina, rispetto alla quale le divergenze fonetiche e morfologiche delle altre lingue italiane si configurano come vitia, difetti» (ed. Trovato 1982, p. XLV):
I forestieri o e’ pervertano il c in z […] o eglino aggiungano lettere, come verrà, vegnirà, o e’ ne lievano, come poltrone et poltron, talmente che quelli vocaboli che sono simili a’ nostri gli storpiano in modo che gli fanno diventare un’altra cosa (§ 57).
In altre parole, secondo la terminologia grammaticale allora corrente, i forestieri introducono nelle loro realizzazioni del fiorentino vistosi barbarismi (Fit barbarismus additione detractione immutatione et transmutatione litterae syllabae temporis toni et aspirationis, «il barbarismo avviene per aggiunta o rimozione o sostituzione o inversione di lettera, sillaba, tempo, tono, aspirazione»: come si legge, per es., nei fortunati Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti). E la nozione di barbarismo viene applicata nel prosieguo del Discorso anche per demolire l’assetto linguistico dei Suppositi, nei quali Ariosto non può fare a meno di «pervert[ire] il c in z», scrivendo bigonzoni anziché bigoncioni: «un gusto purgato sa quanto nel leggere e nell’udire dire bigonzoni è offeso» (§ 71).
La tradizione grammaticale e retorica classica, che prevedeva deroghe alla purezza linguistica per ragioni di necessitas o di ornatus,
offriva d’altro canto validissimi argomenti contro le pretese dei ‘cortigiani’ di provare, forestierismi, latinismi e neologismi danteschi alla mano, che Dante non aveva scritto in fiorentino, ma in una lingua mista, ‘cortigiana’ o ‘italiana’ (ed. Trovato 1982, p. XLVI).
Molti manuali condannavano infatti come vizio (mala affectatio) anche l’eccesso di puritas. E l’interrogatorio di N. a Dante presuppone appunto la duplice possibilità della deroga per necessità o per esigenze di ornato:
N. […] Ma dimmi: in questa tua opera, come vi sono di questi vocaboli o forestieri o trovati da te o latini?
D. nelle prime due cantiche ve ne sono pochi, ma nell’ultima assai, massime dedotti da’ Latini, perché le dottrine varie di che io ragiono mi costringono a pigliare vocaboli atti a poterle esprimere. […] Non dissi zanze per non usare un vocabolo barbaro come quello; ma dissi co et vosco si perché non sono vocaboli sì barbari, sì perché in una opera grande è lecito usare qualche vocabolo esterno, come fece Vergilio quando disse “Troica Gaza per undas” (§§ 37, 43).
A fini retorici, puramente strumentali M. si atteggia, anche in seguito, a classicista rigoroso: riprende da Quintiliano (VIII ii 1: Nam et obscena vitabimus et sordida et humilia, «Dovremo evitare le parole oscene, volgari e basse»), dandolo per scontato, lo schifiltoso precetto del rifiuto delle parole humiles, sordidae e obscenae e, per dimostrare la fiorentinità della lingua di Dante, lo usa come grimaldello all’interno di un sillogismo di tipo entimematico:
N. Dante mio, io voglio che tu t’emendi et che tu consideri meglio il parlare fiorentino et la tua opera; et vedrai che, se alcuno s’harà da vergognare, sarà più tosto Firenze che tu: perché, se considererai bene a quel che tu hai detto, tu vedrai come ne’ tuoi versi non hai fuggito il goffo, come è quello: «Poi ci partimmo et n’andavamo in‹trocque›», non hai fuggito il porco, com’è quello: «che merda fa di quel che si trangugia»; non hai fuggito l’osceno, come è: «le mani alzò con ambedue le fiche»; et non havendo fuggito questo, che dishonora tutta l’opera tua, tu non puoi haver fuggito infiniti vocaboli patrii che non s’usano altrove che in quella, perché l’arte non può mai in tutto repugnare a la natura (§§ 50-51).
Tuttavia (anche se Mario Martelli e altri dimenticano la circostanza), nelle battute che seguono M. si affretta a ridimensionare le accuse riconoscendo, forte di un’autorità altrettanto ovvia (Orazio, Ars poetica, vv. 56-57, con minimi aggiustamenti sintattici), che quanti scrivono in fiorentino
debbono fare quello che hai fatto tu [Dante, nella Commedia], ma non dire quello che hai detto tu [nel De vulgari eloquentia]: perché, se tu hai accattato da’ latini et da’ forestieri assai vocaboli, se tu n’hai fatti de’ nuovi, hai fatto molto bene; ma tu hai ben fatto male a dire che per questo ella sia diventata un’altra lingua. Dice Oratio «quod lingua Catonis et Enni sermonem patrium ditavit» et lauda quelli come li primi che cominciorno ad arrichire la lingua latina (§§ 54-55).
Come si è già avvertito (ed. Trovato 1982, pp. XLIX e segg.), le allusioni del Discorso alle teorie linguistiche degli italianisti danno qualche informazione sulla zona «oscura» (Dionisotti) degli anni, o meglio dei mesi, che precedono la pubblicazione delle Prose di Bembo. Vari scampoli di teoria linguistica − per es. l’estensione delle teorie del De vulgari eloquentia alla prassi della Commedia (§ 21), la classificazione delle lingue sulla base della «particula affermativa» (§§ 12-14), l’opposizione tra lingua «propria» e lingua «comune» (§§ 28-33) – sono riconducibili a Trissino (che le riprenderà nel Castellano) o alla ricezione di teorie linguistiche trissiniane che risulta da testimonianze grosso modo coeve (la Risposta di Martelli, il Dialogo di Valeriano, gli scritti di Tolomei).
Tra le nozioni «cortigiane» che non sembrano attribuibili a Trissino è la definizione di lingua curiale-cortigiana fornita da Dante al § 38 («una lingua parlata da gl’huomini di corte del papa, del duca, i quali per essere huomini litterati parlano meglio che non si parla nelle terre particolari d’Italia»), che è prossima, semmai, agli accenni di Mario Equicola alla lingua «cortesiana romana, la quale de tucti boni vocabuli de Italia è piena per essere in quella corte de ciascheuna regione preclarissimi homini» (redazione ms. del Libro de natura de Amore: ed. Ricci 1999, p. 213); ed è appena il caso di ricordare che Trissino stesso avrebbe potuto divulgare qualche passo dell’ancora inedito Libro, che conosceva dal 1521 (pp. 28-29).
Sono decisamente più problematici gli accenni a un criterio alternativo di classificazione linguistica, non altrimenti noto:
Alcuni […] dicano che […] quella [parte del discorso] che si chiama verbo è la catena et il nervo de la lingua […] perché quelli nomi che ci sono incogniti ce li fa intendere il verbo, quale infra loro è collocato. E così per contrario dove li verbi sono diferenti, ancora che vi fussi similitudine ne’ nomi, diventa quella un’altra lingua (§§ 15-17).
Per quanto riguarda, poi, l’accenno all’esistenza, tra gli «inhonestissimi» italianisti e i fiorentinisti, di un gruppo «meno inhonesto», di toscanisti (§ 6), si può ricordare, a titolo esemplificativo, la coeva posizione filotoscanista di un sodale fiorentino del senese Tolomei, Angelo Firenzuola.
L’accordo tra i due, solido negli anni che ci interessano, è confermato a posteriori da una lettera di Tolomei del 1529, che importa qui anche per l’indicazione di un gruppo tosco-fiorentino precocemente attento ai «molti dubij della lingua nostra», costituito − oltre che da Firenzuola e da Tolomei − da Giovanni Guidiccioni e da Luigi Alamanni (ed. Trovato 1982, p. LIV). La lettera fa, almeno in parte, pendant con il citatissimo passo del Castellano sui fiorentini che si riconoscevano nel magistero di Trissino e si erano «più dalla patria lingua partiti ed a quella di Dante e del Petrarca accostati» (ed. Castelvecchi 1986, p. 56), cioè Luigi Alamanni (di nuovo), Zanobi Buondelmonti, Francesco Guidetti, Cosimo Rucellai e un Benivieni. Eccezion fatta (se si tratta di lui e non del nipote) per il patriarca Girolamo Benivieni, erano amici anche di Machiavelli.
Tanto questi elenchi quanto il singolare impasto linguistico settentrionaleggiante esibito da Martelli nella sua Epistola (ed. Trovato 1982, pp. XXIII-XXIV) ci restituiscono qualcosa della pluralità di orientamenti linguistici e letterari coesistente a Firenze e, più ancora, tra i tosco-fiorentini della «corte di Roma», negli anni Venti e ci spiegano, come meglio non si potrebbe, le ragioni del richiamo all’ordine dell’anziano, ma ancor lucido, Segretario ai giovani esterofili cresciuti durante il papato di Leone X.
Bibliografia: Edizioni, commenti e studi sulla tradizione e sul testo del Discorso: F.L. Polidori, Opere minori di Niccolò Machiavelli, Firenze 1852; Tutte le opere storiche e letterarie di Niccolò Machiavelli, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, Firenze 1929; R. Migliorini Fissi, Per la fortuna del De vulgari eloquentia. Un nuovo codice del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: approcci per una edizione critica, «Studi danteschi», 1972, 49, pp. 135-214; N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, ed. critica con introd., note e appendice a cura di B.T. Sozzi, Torino 1976; O. Castellani Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla nostra lingua, con una ed. critica del testo, Firenze 1978; M. Martelli, Una giarda fiorentina. Il Dialogo della lingua attribuito a Niccolò Machiavelli, Roma 1978; G. Inglese, Nota su alcune recenti edizioni machiavelliane, «Cultura neolatina», 1979, 39, pp. 171-90; N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982; F. Brambilla Ageno, Due note testuali sul Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli, «Studi di filologia italiana», 1984, 42, pp. 161-64; N. Machiavelli, Scritti letterari, a cura di L. Blasucci, con la collab. di A. Casadei, Torino 1989, pp. 44, 47-48, 257-60; M. Bellina, Machiavelli, Dialogo 61, «Studi linguistici italiani», 1992, 18, pp. 150-54; N. Machiavelli, Clizia. Andria. Dialogo intorno alla nostra lingua, introduzione e note di G. Inglese, Milano 1997, pp. 8-9, 40, 206-09; N. Machiavelli, Opere, a cura di C. Vivanti, 3° vol., Torino 2005, pp. 846-54; O. Castellani Pollidori, Dal carteggio Borghini-Valori un possibile spiraglio sulla tradizione testuale del Dialogo di Niccolò Machiavelli, «Studi linguistici italiani», 2008, 34, pp. 161-74; S.U. Baldassarri, Capolavoro o ‘spamming’ cinquecentesco? Il Discorso intorno alla nostra lingua attribuito a Machiavelli, «Testo a fronte», 2010, 21, 43, pp. 59-86; P. Trovato, Trent’anni dopo. Sul titolo e sulla tradizione testuale del Discorso intorno alla nostra lingua di Machiavelli, «Studi linguistici italiani», 2010, 36, pp. 119-25; N. Machiavelli, Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, a cura di P. Cosentino, in Opere letterarie, 2° vol., Scritti in poesia e in prosa, a cura di F. Bausi, Roma 2013, pp. 417-65, 629-39.
Recensioni: a R. Migliorini Fissi 1972: B.T. Sozzi, «Italianistica», 1974, 3, pp. 435-37; all’ed. critica di B.T. Sozzi 1976: G. Belloni, «Lettere italiane», 1977, 29, pp. 389-92 e L. Vignali, «Lingua nostra», 1979, 40, pp. 26-29; a Castellani Pollidori 1978: S. Bertelli, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1979, 41, pp. 388-90, L. Petrucci, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», III s., 1979, 9, 4, pp. 2003-09, P. Stoppelli, «Belfagor», 1979, 34, pp. 599-604 ed E. Fumagalli, «Aevum», 1980, 54, pp. 518-23; a M. Martelli 1978: S. Bertelli, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1979, 41, pp. 388-90, S. Fornasiero, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1973, 3, 9, 4, pp. 1999-2003, P. Stoppelli, «Belfagor», 1979, 34, pp. 599604 e G. Ulysse, «Cahiers d’études romanes. Université de Provence, Aix», 1980, 5, pp. 170-73; a P. Trovato 1982: E. Fumagalli, «Aevum», 1983, 57, pp. 571-72, B.T. Sozzi, «Giornale storico della letteratura italiana», 1983, 160, pp. 599-606, O. Castellani Pollidori, «Studi linguistici italiani», 1984, 10, pp. 131-41, poi in Id., In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004, M. Tavoni, «Rivista di letteratura italiana», 1984, 2, pp. 563-86, L. Vignali, «Lingua nostra», 1984, 45, pp. 92-93 e G. Inglese, «La cultura», 1985, 23, pp. 244-46.
Studi sull’attribuzione, la datazione, le teorie linguistiche e retoriche del Discorso: O. Tommasini, P. Rajna, La data del dialogo intorno alla lingua di Niccolò Machiavelli, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», 1893, 5, 2, pp. 203-22; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; H. Baron, Machiavelli on the eve of the Discourses: the date and place of his Dialogo intorno alla nostra lingua, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1961, 22, pp. 449-76; I. Baldelli, Il dialogo sulla lingua, «Cultura e scuola», 1970, 33-34, pp. 255-59; G.M. Anselmi, Dubbi sull’attribuzione del Dialogo della lingua al Machiavelli, «Studi e problemi di critica testuale», 1971, 9, pp. 133-40; C. Grayson, Machiavelli e Dante. Per la data e l’attribuzione del Dialogo intorno alla lingua, «Studi e problemi di critica testuale», 1971, 2, pp. 5-28, poi in Id., Cinque saggi su Dante, Bologna 1972, pp. 11748; R. Ridolfi, Nota sull’attribuzione del Dialogo intorno alla nostra lingua, «La bibliofilia», 1971, 73, pp. 235-41; B.T. Sozzi, Nota su un disconoscimento di paternità letteraria, «Giornale storico della letteratura italiana», 1972, 149, pp. 394-99; M. Pozzi, Machiavelli e Guicciardini, «Giornale storico della letteratura italiana», 1973, 150, pp. 424-42 (poi in Id., Lingua e cultura del Cinquecento, Padova 1975, pp. 49-72); F. Chiappelli, Machiavelli e la ‘Lingua fiorentina’, Bologna 1974 (rec. C. Dionisotti, «Lingua nostra», 1975, 36, pp. 32-34, poi in Id., Machiavellerie, Torino 1980, pp. 267-363); G. Sasso, Su un passo del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, «La cultura», 1974, 12, pp. 259-73; M. Pozzi, Ancora sul Discorso o dialogo, «Giornale storico della letteratura italiana», 1975, 152, pp. 485-516; R. Ridolfi, Ultime postille machiavelliane, «La bibliofilia», 1975, 77, pp. 65-76; S. Bertelli, Egemonia linguistica come egemonia culturale e politica nella Firenze cosiminiana, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», 1976, 38, pp. 249-83; L. Iachini Bellisarii, Niccolò Machiavelli e la questione della lingua, «Trimestre», 1977, 10, pp. 153-87; R. Ridolfi, Una giarda del Machiavelli, «La bibliofilia», 1978, 80, pp. 241-45; D. De Robertis, Cronologia del canone delle rime antiche nel Cinquecento (per il Dialogo intorno alla nostra lingua), «Rinascimento», 1979, 30, pp. 265-67; C. Grayson, Questione aperta. Ancora sul Dialogo intorno alla nostra lingua, «Studi e problemi di critica testuale», 1979, 19, pp. 113-24; M. Martelli, Paralipomeni alla Giarda: venti tesi sul Dialogo della lingua, «Filologia e critica», 1979, 4, pp. 219-79; C. Dionisotti, Machiavellerie, Torino 1980, in partic. pp. 267-363; L. Iachini Bellisarii, Alla ricerca di un autunno: per la datazione del Discorso o dialogo di Niccolò Machiavelli, Pescara 1980; G. Inglese, Machiavelli nel Dialogo, «La cultura», 1980, 18, pp. 283-97; O. Castellani Pollidori, Nuove riflessioni sul Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua di Niccolò Machiavelli, Roma 1981; G. Padoan, Il tramonto di Machiavelli: la Clizia, «Lettere italiane», 1981, 33, pp. 457-81, poi in Id., Rinascimento in controluce: poeti, pittori, cortigiane e teatranti sul palcoscenico rinascimentale, Ravenna 1994, pp. 65-87; P. Trovato, Appunti sul Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli, «La bibliofilia», 1981, 73, pp. 25-69; M. Martelli, Questioni di filologia attributiva, «Lettere italiane», 1982, 34, pp. 232-44; O. Castellani Pollidori, Ancora a proposito del Dialogo intorno alla nostra lingua di Niccolò Machiavelli, «Studi linguistici italiani», 1983, 9, pp. 89-104; P. Trovato, «Pagare di doppioni» e simili, «Lingua nostra», 1985, 46, pp. 1-6; F. Grazzini, Discorsi e dialoghi sul Discorso o dialogo. Rassegna critica di studi su Machiavelli e la lingua fiorentina, «Carte italiane. A journal of Italian studies», 1985-1986, 7, pp. 57-67; D. Perocco, Rassegna di studi sulle opere letterarie di Machiavelli (1969-1986), «Lettere italiane», 1987, 39, pp. 544-79; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 2° e 3° vol., Milano-Napoli 1988; O. Castellani Pollidori, Doppio binario nella questione attributiva: un caso illustre del primo Cinquecento, in L’attribuzione: teoria e pratica. Storia dell’arte, musicologia, letteratura, Atti del Seminario, Ascona 30 settembre - 5 ottobre 1992, a cura di O. Besomi, C. Caruso, Basel-Boston-Berlin 1994, pp. 323-44, poi in Id., In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004, pp. 292-308; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; M. Simonetta, La lingua esiliata. Buoni propositi e cattivi ‘suppositi’ in un testo machiavelliano, «Rivista di studi italiani», 1997, 15, pp. 41-54; F. Franceschini, Lingua e stile nelle opere in prosa di Niccolò Machiavelli: appunti, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 367-92; O. Castellani Pollidori, In margine al Dialogo intorno alla nostra lingua del Machiavelli, «Studi linguistici italiani», 1999, 25, pp. 97-102, poi in Id., In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004, pp. 309-14; M. Martelli, Dante e Machiavelli, «Schede umanistiche», n.s., 1999, 1, pp. 5-23; C. Scavuzzo, Machiavelli, Roma 2003, pp. 127-36; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005; W.J. Landon, Politics, patriotism, and language: Niccolò Machiavelli’s ‘Secular Patria’ and the creation of an Italian national identity, New York 2005; G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2007, ad vocem; S. Gensini, Note sul Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua e sulla nozione di ‘naturalismo linguistico’, «Bollettino di italianistica», 2008, 2, pp. 45-61; L. Maconi, L’esordio platonico e l’interpretazione del Discorso intorno alla nostra lingua di Machiavelli, «Lingua e stile», 2008, 2, pp. 165-81; S. Bionda, Il ‘nodo’ del Dialogo della lingua attribuito a Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2009, 28, pp. 275-97; The Cambridge companion to Machiavelli, ed. J.M. Najemy, Cambridge 2010; P. Trovato, Sul nodo ‘bene accomodato’ di Machiavelli (Discorso intorno alla nostra lingua, 69), «Interpres», 2011, 30, pp. 272-83.
Testi e studi utilizzati in questa voce sulla questione della lingua o su altri temi: D. Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di P. Rajna, Firenze 1896; M. Barbi, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori. Da Dante al Manzoni, Firenze 1938 (poi in rist. anast. con la bibl. degli scritti di Barbi a cura di S.A. Barbi e con introd. di V. Branca, Firenze 1994); H. Lausberg, Elemente der literarischen Rhetorik, München 1949 (trad. it. Elementi di retorica, Bologna 1969); G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1952; C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967; F. Bruni, L’italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, Torino 1984; Trattati sull’ortografia del volgare. 1524-1526, a cura di B. Richardson, Exeter 1984; I. Baldelli, U. Vignuzzi, Filologia, linguistica, stilistica, in Letteratura italiana, 4° vol., L’interpretazione, Torino 1985, pp. 451-93; G.G. Trissino, Scritti linguistici, a cura di A. Castelvecchi, Roma 1986; Discussioni linguistiche del Cinquecento, a cura di M. Pozzi, Torino 1988; U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano 1990, 19952; A. Sorella, Magia, lingua e commedia nel Machiavelli, Firenze 1990; G. Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino 1991; P. Trovato, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991 (poi in rist. anast. Ferrara 2009); S. Gensini, Storia del pensiero linguistico italiano, in La linguistica italiana degli anni 1976-1986, Roma 1992, pp. 31940; T. Poggi Salani, La Toscana, in L’italiano nelle regioni, a cura di F. Bruni, Torino 1992, pp. 402-61; C. Marazzini, La speculazione linguistica nella tradizione italiana, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni, P. Trifone, 1° vol., I luoghi della codificazione, Torino 1993, pp. 231-329; L. Serianni, La prosa, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni, P. Trifone, 1° vol., I luoghi della codificazione, Torino 1993, pp. 451-577; I. Paccagnella, La questione della lingua, in Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi, C. Di Girolamo, 2° vol., Torino 1994, pp. 589-626; B. Richardson, Print culture in Renaissance Italy. The editor and the vernacular text. 1470-1600, Cambridge 1994; A. Stussi, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna 1994, 20072; P. Trifone, L’italiano a teatro, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni, P. Trifone, 2° vol., Scritto e parlato, Torino 1994, pp. 81-159 (poi ampliato in Id., L’italiano a teatro. Dalla commedia rinascimentale a Dario Fo, Pisa-Roma 2000, pp. 9-104); V. Formentin, Dal volgare toscano all’italiano, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, 4° vol., Il primo Cinquecento, Roma 1996, pp. 177-250; B. Richardson, The Cinquecento. Prose, in The Cambridge history of Italian literature, ed. P. Brand, L. Pertile, Cambridge 19992, pp. 181-232; La redazione manoscritta del Libro de natura de amore di Mario Equicola, a cura di L. Ricci, Roma 1999; M. Motolese, Il dibattito linguistico italiano, in La lingua nella storia d’Italia, a cura di L. Serianni, Roma 2001, pp. 151-75; O. Castellani Pollidori, In riva al fiume della lingua. Studi di linguistica e filologia (1961-2002), Roma 2004; P. Trovato, Archetipo, stemma codicum e albero reale, «Filologia italiana», 2005, 2, pp. 9-18; G. Belloni, R. Drusi, Editoria e filologia del volgare. Questione della lingua, in Storia letteraria d’Italia. Il Cinquecento, a cura di G. Da Pozzo, Padova 2006, pp. 253-333; G. Inglese, Machiavelli Niccolò, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 67° vol., Roma 2007, ad vocem; L. Sartorello, L’autobiografia inedita di Giuliano de’ Ricci nipote di Machiavelli, «Bruniana & Campanelliana», 2007, 13, 1, pp. 131-45; P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma 2007; P. Cosentino, Martelli Lodovico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 71° vol., Roma 2008, ad vocem; De la volgare eloquenzia di Dante, volgarizzamento di G.G. Trissino, a cura di F. Montuori, in D. Alighieri, Le opere, 3° vol., De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, con la collab. di L. Formisano e F. Montuori, Roma 2012, pp. 441-596; L. Sartorello, In biasimo delle stampe. Censura e modernità in una inedita orazione di Giuliano de’ Ricci (1543-1606), «Giornale storico della letteratura italiana», 2013, 190, pp. 67-70.