discrezione (discretio)
Il vocabolo, che ricorre specialmente (col relativo contorno di aggettivi e avverbi) nel Convivio e nel De vulgari Eloquentia, è impiegato da D. secondo due ordini fondamentali, e tradizionali, di significati: quello originario e concreto (v. radice di cerno) di " distinzione ", " separazione ", " scelta ", e quello, storicamente derivato dal primo e attinente alla sfera intellettuale-morale, di " discernimento ", " equo giudizio ", " capacità razionale di scelta "; quest'ultimo poi può assumere talora in D. un valore più ricco e pregnante, di indicazione di una facoltà e attività razionale complessa, così da costituire, in particolare nel trattato retorico latino, un nodo concettuale importante, come aveva accennato il Marigo e ha poi chiarito, pur con certa esagerazione di prospettiva, il Di Capua. Di fatto, data l'intercomunicabilità (certo presente alla coscienza linguistica di D.) dei due significati-base, non è sempre facile interpretare i casi concreti nell'uno o nell'altro senso, e l'oscillazione è continua (come mostra forse tipicamente il caso di VE II IV 5-6: v. oltre); soprattutto non è sempre possibile stabilire, nell'ambito della seconda accezione, se il termine abbia o no la pregnanza concettuale in questione.
Senz'altro con significati del primo tipo ricorre d. in vari luoghi del De vulg. Eloq.: II I 10 (due volte, e qui è pure l'avverbio discretive, " in modo distinto ", sempre con valore materiale); IV 6, VI 4 (e v. discrevimus, al § 1), XIII 8, XIV 2, cui andrà aggiunto II VI 3 si primordium bene nostrae discretionis recolimus (" se si ricorda l'inizio della mia distinzione-base "), qualora si accetti, in luogo di disgressionis dei tre manoscritti e dell'edizione Marigo (difficile da motivare), la variante discretionis allineata accanto all'altra lezione, con forse felice colpa, nel Trivulziano. In volgare abbiamo parallelamente la lettera discreta [" chiaramente distinta "] ne la vista di Cv III IX 14 e le due discrezioni (" linee divisorie ", Sapegno) di Pd XXXII 41.
Quanto ai significati del secondo tipo, va tenuto presente, col Di Capua, che nella tradizione medievale il senso di d., a partire dal valore-base di " discernimento ", si era andato specificando particolarmente in due direzioni: nell'ambito della riflessione etica, come concetto di " moderazione ", " prudenza ", " giusto mezzo " che governa l'attività morale (così ancora in sostanza in s. Tommaso: v. ad es. Comm. Eth. VI 11 1278), e in quello delle dottrine retoriche, come " buon gusto ", capacità di scegliere e impiegare avvedutamente gli strumenti stilistici (v. ad es. Goffredo di Vinsauf Poetria Nova, ediz. Faral, vv. 870-871): importante per D. soprattutto questo secondo uso, assai frequente nei testi anche se non precisato teoricamente. La novità della posizione dantesca in alcune pagine di Convivio e De vulg. Eloq. sta proprio nella fissazione teorica e nell'allargamento della nozione di d., che viene a indicare una facoltà razionale fondamentale dell'uomo, base sia della d. morale come di quella retorica: s'intende che non mancheranno precedenti di questa concettualizzazione, tra i quali andrà indicato in particolare l'uso di discretion in una consimile accezione più ampia e complessa che si trova nel Tresor di B. Latini, seppure non esplicitato (v. II XVIII 5, XLIV 8, e specialmente II XXX " l'ame raisonable, en qui est intellect et discretion et raison "; III I 7 " la dignité de la raison et de la discretion "; cfr., ma con riserva, P.A. Messelaar, Le vocabulaire des idées dans le ‛ Tresor ' de Brunet Latin, Assen 1963, passim).
La parola d., con valore-chiave, s'incontra subito nel capitolo proemiale di VE 1 I 1, dove si dichiara di volere, trattando della dottrina dell'eloquenza, discretionem aliqualiter lucidare illorum qui tanquam caeci ambulant per plateas, plerunque anteriora posteriora putantes, così da tentare di giovare locutioni vulgarium gentium. E in un passo poco successivo (I III 1) D. ci rende avvertiti della portata di categoria concettuale che attribuisce alla d., precisando come nell'uomo, mosso da ragione e non dall'istinto come gli animali, ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem [vel ha valore congiuntivo, non disgiuntivo] diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere. Cosa precisamente s'intenda con questa categoria spiegano poi con chiarezza due passi del Convivio, il primo dei quali presenta un generale e singolare parallelismo con VE 1 I 1. Tra le cinque abominevoli cagioni del disprezzo del proprio volgare da parte di alcuni malvagi uomini d'Italia, D. pone (Cv I XI 1-2), la cechitade di discrezione, e spiega (§ 3 ss.): Sì come la parte sensitiva de l'anima ha suoi occhi, con li quali apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate, così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è la discrezione. E come il cieco de li occhi sensibili, così colui che è cieco del lume de la discrezione, se mal guidato, finisce per cadere ne la fossa de la falsa oppinione: pericolo cui sono massimamente esposte le populari persone, prive de l'abito di questa luce discretiva, ché l'abito di vertude, sì morale come intellettuale, non si possiede subito ma per usanza s'acquista, e dunque poiché essi la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere (§ 7; cfr. anche § 8 e, per quest'ultimo sviluppo, Ep XIII 7 habet imperitia vulgi sine discretione iudicium).
Nel secondo passo in proposito di Cv IV VIII 1, si ha un'ulteriore precisazione concettuale, appoggiata alla citazione di un'auctoritas, e un'accentuazione ancora più decisa del valore cardinale della d.: Lo più bello ramo che de la radice razionale consurga si è la discretione. Ché, sì come dice Tommaso sopra lo prologo de l'Etica [I I 1 ss.], " conoscere l'ordine d'una cosa ad altra è proprio atto di ragione ", e è questa discrezione (segue un'applicazione della categoria all'ordine morale, riguardo alla reverenza che dee lo minore a lo maggiore). D. battezza dunque con un termine assente dal luogo tomistico in questione (evidentemente ricalcato anche nel primo dei due passi del Convivio) un preciso concetto di s. Tommaso. Afferma il santo all'inizio del commento all'Etica, sulle orme di Aristotele, che proprio del sapiente è " ordinare ", poiché la sapienza è il culmine della ragione, ed è specifico della ragione " cognoscere ordinem ", precisamente " ordinem... unius rei ad aliam " (mentre la parte sensitiva dell'uomo può solo afferrare alcuni fenomeni nella loro irrelata assolutezza): questo rapporto va inteso in duplice senso, come ordo reciproco delle cose in quanto siano parti di un tutto, e in quanto siano tese a un fine.
Possiamo così intendere la d. dantesca come capacità razionale di discernimento (la proposta del Di Capua di tradurre con " intuito " lascia perplessi per il carattere prerazionale di quest'ultimo) che si esplica, dato un fine, nel saper cogliere i rapporti tra gli elementi interessati e nel coordinarli come mezzi in vista di quel fine: nello specifico dominio retorico del De vulgari Eloquentia, come capacità di scegliere e coordinare gli strumenti dell'eloquentia volgare. A tal fine, la d. dev'essere appunto ‛ illuminata ' con l'insegnamento dei presupposti culturali e tecnici, di una doctrina, una scientia e un'ars che ne permettano l'uso corretto. A ciò è destinato, in particolare, il II libro del De vulgari Eloquentia. Ma naturalmente la d., in quanto innata attitudine razionale, può esser solo guidata, non creata in chi non la possieda; e viceversa chi la possiede saprà spontaneamente, una volta orientato, servirsene da sé nel modo migliore: cfr. VE II VII 7 quae iam dicta sunt de fastigiositate vocabulorum ingenuae [cioè appunto, etimologicamente, " innata "] discretioni sufficiant.
Di qui nel De vulgari Eloquentia un uso relativamente frequente e si direbbe tematico del termine d., nel senso specifico di una capacità di scelta avveduta nell'ambito degli strumenti linguistici e retorici. Così in I XV 6 i doctores illustres bolognesi che si sono staccati dal loro linguaggio municipale sono per D. vulgarium discretione repleti (traduzione del Marigo: " pieni di giudizio nella scelta dei volgari "); parallelamente in II VII 2, introducendo alla trattazione del lessico illustre, si dichiara non minimum opus esse rationis discretionem vocabulorum habere (" avere la capacità di scegliere i vocaboli "). In un passo centrale come quello sulla dottrina degli stili (II IV 5-6), D. invita a discretione potiri, utrum tragice, sive comice, sive elegiace sint canenda [scil. quae dicenda occurrunt]; dove la traduzione più appropriata sarà certo " distinguere ", dato anche il valore di d. nel passaggio subito successivo et huius discretionem [la distinzione in questo campo "] in quarto huius reservamus ostendere, ma l'uso del giro perifrastico ‛ d. potiri ' in luogo di un semplice ‛ discernere ' o simili sottintenderà certo il richiamo alla pregnanza che il sostantivo ha altrove. Similmente nello stesso capitolo (§§ 9-10) D. replica un caveat... quilibet et discernat ea quae dicimus (" faccia attenzione e distingua ") con la formula sed cautionem atque discretionem hanc accipere, sicut decet, hoc opus et labor est (" ma apprendere questa cautela e capacità di discernere... "), in cui l'accezione più intensa di d. è chiarita anche dalla precisazione che quel difficile apprendimento non può avvenire sine strenuitate ingenii et artis assiduitate scientiarumque habitu.
In tutti gli altri casi in cui i vocaboli della famiglia di d. ricorrono nelle opere di D. con valore intellettuale-morale, l'uso si aggira tra i significati più generici e tradizionali di " avvedutezza ", " assennatezza ", " discrezione " e simili: Cv III X 10 (due volte), IV II 8, VE II VI 5 (antifrastico), If XXXI 54, Pd XII 144, Ep I 2, II 7, XII 4.
Bibl. - Marigo, De vulg. Eloq., 4 e passim; F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel De vulg. Eloquentia " di D., in Scritti minori, Roma 1959, II 289-314; P.G. Ricci, Appendice all'ediz. Marigo, 369-370; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulg. Eloquentia di D., Roma 1963, 30-33. Per la lezione VE II VI 3 cfr. da ultimo D. Bigongiari, Essays on D. and Medieval Culture, Firenze 1964, 44-45.