Discursus florentinarum rerum
Scritto politico, redatto tra novembre 1520 e febbraio 1521, probabilmente su richiesta del cardinale Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII); presenta un progetto di riforma istituzionale del governo di Firenze dopo la morte di Lorenzo di Piero de’ Medici (→). Il titolo completo è: Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices. In assenza di autografo, il testo ci è giunto grazie a tre copie manoscritte cinquecentesche: una, che ne tramanda l’abbozzo, è un codicetto appartenuto a Oreste Tommasini, oggi rilegato nel composito Vaticano Latino 13654; due, che ne danno la redazione definitiva, derivate dallo stesso antigrafo, sono conservate alla BNCF e compaiono nel manoscritto II, IV, 309 (già Gaddiano), a cc. 68-82, e nel Palatino E.B. 15, 10 (Apografo Ricci), a cc. 227-31.
La morte di Lorenzo di Piero de’ Medici, ai primi del maggio 1519, è seguita da un periodo di crisi istituzionale a Firenze. Mentre il passato governo mediceo viene criticato, o per le sue debolezze o per il suo eccessivo autoritarismo, si affrontano proposte per modificare l’assetto istituzionale della Repubblica. Alcuni propugnano un governo ‘largo’, aperto a un’ampia collaborazione con i ceti borghesi, comunque abbienti, che dovrebbero deliberare in un Consiglio maggiore; altri mirano a un governo ‘stretto’, in mano alla vecchia oligarchia costituita da poche famiglie di tradizione magnatizia. Il cardinale Giulio de’ Medici compie lunghi soggiorni a Firenze per trovare una soluzione e, più che altro, per garantire ai Medici la supremazia in un governo di apparenza repubblicana. Dovendo recarsi a Roma nell’ottobre del 1519, dove rimarrà fino a metà febbraio dell’anno seguente, affida a Goro Gheri la luogotenenza del governo e lo incarica di raccogliere proposte di riforme. Nella sintesi che gli viene consegnata poco dopo, Gheri raccomanda il ritorno al regime vigente sotto Cosimo il Vecchio, quello cioè della supremazia di casa Medici. L’incertezza prosegue anche l’anno seguente e si protraggono le consultazioni, alle quali partecipano anche vari personaggi che frequentano gli Orti Oricellari (→), il cenacolo filosofico-politico di cui M. è uno dei membri più ascoltati. È probabile che dopo la riconciliazione con i Medici, in occasione di un incontro con il cardinale Giulio a Firenze tra febbraio e marzo 1520, anche M. sia stato consultato o che si sia sentito in grado di dare spontaneamente il proprio parere. L’incarico potrebbe pure essere derivato dalla condotta dell’8 novembre 1520, che non gli assegnava soltanto il compito di scrivere le Istorie fiorentine, ma anche «alia faciendum». Un’allusione nel testo all’assenza del cardinale da Firenze al momento della redazione permette comunque di fissarne la datazione fra il 6 novembre 1520 e il 2 febbraio 1521.
Il Discursus è costruito secondo lo schema tripartito dell’orazione: un lungo esordio, un ampio sviluppo argomentativo, una succinta conclusione. L’esordio situa la problematica che verrà trattata in un contesto generale e in prospettiva storica. Firenze non fu mai né vera repubblica, né vero principato (§ 1); dopo il 1393, fu una Repubblica oligarchica molto imperfetta (§§ 2-8); tra il 1434 e il 1494, fu un principato di fatto sotto Cosimo, poi sotto Lorenzo de’ Medici, ma sempre molto fragile (§§ 9-10); dal 1494 tornò a un regime repubblicano, ma l’istituzione del gonfalonierato a vita comportò sia il rischio di uno slittamento verso il principato sia quello di un facile rovesciamento (§§ 11-14); dal 1512, con il ritorno dei Medici, la fragilità delle istituzioni persistette (§§ 15-16). M. si sente perciò in dovere di far seguire, all’esposizione dei vari progetti di riforma, un proprio disegno, che considera risolutivo di numerosi problemi (§§ 17-18). La parte centrale del Discursus comincia con una sintesi dei progetti presentati fino allora da vari ‘savi’: alcuni consigliano un ritorno al governo di Cosimo e di Lorenzo, dimostrando però di non avere coscienza dell’impossibilità di tornare al passato, dopo che sono intervenuti profondi mutamenti tanto a Firenze quanto nel resto d’Italia (§§ 19-40); altri propongono un ritorno al regime repubblicano, senza che se ne conoscano le caratteristiche particolari (§§ 41-42). Occorre perciò orientarsi o verso il principato o verso la repubblica, senza vagheggiare un regime misto (§§ 43-47). A Firenze è impossibile istituire un principato perché la città non vi è avvezza, come potrebbe esserlo Milano, e non esiste una nobiltà che possa sostenere il principe (§§ 48-52). Solo il regime repubblicano potrà garantire ai Medici la salvaguardia del loro potere e dei privilegi dei loro amici. Ed è in questo senso che si orienta la riforma che M. propone al papa in segno di fedeltà; il destinatario dovrà leggerla interamente, convincendosi che alcuni mutamenti istituzionali saranno indispensabili ai Medici e alla città (§§ 53-56).
Il progetto vero e proprio si articola in tre parti, in funzione delle tre «qualità di uomini» o classi che caratterizzano la società fiorentina, ossia i primi, i mezzani e gli ultimi, ognuna di esse dovendo essere rappresentata nelle istituzioni per consentire alla Repubblica di durare e ai Medici di mantenersi al potere con i loro alleati (§ 57). I primi, «d’animo elevato», verranno rappresentati da un consiglio di 65 membri a vita di oltre 45 anni, da cui verranno tratti, secondo una procedura complessa, i signori e il gonfaloniere (a vita o per una durata di alcuni anni); i Medici vi potranno collocare i loro amici e aderenti (§§ 58-63). Per i mezzani andrà creato un Consiglio dei duecento, di età superiore ai quarant’anni, per riprendere con i 65 tutte le funzioni dei vari consigli e organi decisionali ed elettivi esistenti; verranno tutti designati dai Medici, i quali conserveranno comunque i pieni poteri legislativi, giudiziari e militari (§§ 64-72). Per gli ultimi, cioè per tutti gli altri cittadini, viene prevista la creazione del Consiglio dei mille (o almeno seicento), cui spetterà l’incarico di provvedere alle elezioni alle magistrature medie e basse. Anche in questo consiglio, grazie a una procedura segreta, i Medici avranno la possibilità di collocare persone a loro devote (§§ 73-80). Altre modifiche minori alle istituzioni, per tenerle maggiormente sotto controllo, sono previste dopo la scomparsa del pontefice, con la possibilità di bloccare alcune decisioni e di istituire procedure di ricorso (§§ 81-95). Nella conclusione dell’esposizione del progetto, M. dichiara che il regime proposto, sotto forma di repubblica, sarebbe – durante la vita di Leone X e del cardinale Giulio – una monarchia assoluta, che avrebbe il controllo delle armi, della giustizia e delle leggi, pur dando l’illusione a tutte le classi sociali di essere rappresentate. I Medici potrebbero poi allentare la stretta permettendo ad altri cittadini di sostituire progressivamente i membri dei 65, dei 200 e dei 1000 (§§ 96-99).
Nella perorazione, M. considera che se il papa attuasse questa riforma potrebbe assurgere al ruolo di «datore di leggi», che gli antichi ponevano subito dopo gli dei e giungere in questo modo all’immortalità (§§ 100-06). Ricorda infine lo stato di confusione che prevale a Firenze, critica le soluzioni estreme fino allora proposte e ribadisce che solo la riforma da lui illustrata permetterà a Firenze di evitare sia la dittatura sia la guerra civile (§§ 107-13).
Il Discursus è certamente lo scritto politico più importante degli anni posteriori alla redazione del Principe e dei Discorsi, e può essere collocato, non solo cronologicamente, ma anche formalmente, all’incrocio tra riflessione politica teorica e storiografia, e in questo senso preannuncia il grande affresco storico-politico delle Istorie fiorentine; tra teoria e prassi, nel concepire un assetto istituzionale repubblicano per Firenze che fosse compatibile con la volontà di un controllo assoluto del potere da parte dei Medici; e tra esigenze pratiche di potere e alti ideali civili esaltati dagli antichi. In qualche modo, per la varietà delle sue caratteristiche, appare come una rivisitazione di opere anteriori e coeve: se il proemio ci porta alla riflessione storiografico-politica dei Decennali e delle Istorie, la parte centrale si ricollega a vari scritti politici degli anni della cancelleria, come Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, o come le provvisioni per la creazione della milizia (→ Ordinanza, Scritti sull’), o come l’ammonimento Ai Palleschi; mentre la parte finale rievoca sia i capitoli fondamentali del primo libro dei Discorsi sui (ri)fondatori di Stati e sui datori di leggi sia l’esortazione del capitolo conclusivo del Principe.
La prima parte dell’esordio è costruita, infatti, attorno a medaglioni storici simboleggiati ognuno da una personalità o da una funzione: Maso degli Albizzi per il regime repubblicano oligarchico dopo il 1393; Cosimo – poi anche Lorenzo – per il ‘principato’ dei Medici a partire dal 1434; il gonfaloniere a vita, di cui, forse per prudenza o perché venne istituito solo nel 1502, M. non cita il nome, per gli anni successivi al 1494; mentre, sul periodo posteriore al 1512, M. preferisce tacere, anche se l’assenza di una personalità di riferimento sembra indicare la sua poca stima per Lorenzo di Piero.
Nella seconda parte dell’esordio, M. usa una propria tecnica valutativa ricorrente, che consiste nel riportare una problematica a due posizioni estreme contrastanti (governo stretto-governo largo) di cui vengono denunciate le debolezze, per aprire la via a una proposta mediana e moderata: ciò gli permette di eliminare in blocco tutti gli altri progetti di riforma in discussione in quei mesi. Come nelle maggiori opere degli anni precedenti, e come già negli scritti politici del periodo cancelleresco, l’argomentazione di fondo dello scritto si basa su una massima, che serve da punto di riferimento per l’azione politica: «il principato ha solo una via alla sua resoluzione, la quale è scendere verso la republica; e così la republica ha solo una via da resolversi, la quale è salire verso il principato» (§ 44). L’analisi della situazione politica e le proposte sono tuttavia profondamente ancorate nella realtà contemporanea e nel contesto geopolitico della città: ciò spiega l’ampio confronto fra la Firenze di Cosimo e quella del 1520 – che ricorda i paragoni fra antichità ed epoca moderna delle opere politiche maggiori – per spiegare l’impossibilità di tornare al regime di un secolo prima, nonché l’apertura di prospettiva sull’Italia e sull’Europa per mettere in evidenza come ormai le sorti di Firenze siano legate a quelle delle grandi nazioni continentali. Il motivo di fondo dell’esordio è, insomma, la precarietà e la brevità dei regimi che si sono succeduti a Firenze, anche quelli medicei, foriere di drammi e di sofferenze fisiche e morali (esili, uccisioni, guerre civili, rovine economiche), quando lo Stato avrebbe bisogno di continuità e di partecipazione al potere di tutti i ceti. L’altro grande motivo dell’esordio, che viene ribadito quasi a dispetto di quanto auspicherebbero i destinatari del Discursus, è la vocazione repubblicana di Firenze e il suo voler essere retta da un «capo pubblico» anziché da un «capo privato» (§ 33). Imporle un regime di principato sarebbe andare contro la sua natura, come sarebbe contro natura fare del ducato di Milano una repubblica. L’argomentazione si svolge su due piani: quello del sentimento profondo dello Stato e quello, più contingente, della presenza o dell’assenza di una nobiltà che possa sostenere il sovrano. Accanto a queste rievocazioni storiche che attraversano i secoli e i decenni, M. ricorre anche, come nel Principe e nei Discorsi, a illustrazioni di eventi storici puntuali o di azioni di singoli individui che danno all’argomentazione, nel rifarsi alla «cognizione delle azioni delli uomini grandi», il sigillo della «verità effettuale della cosa» (esempi di Ludovico Sforza e di Federico d’Aragona). Ma la stessa ricerca di una proposta realisticamente attuabile lo porta a scartare l’idea di una repubblica troppo ampiamente aperta alla partecipazione, perché «tale larghezza è per farlo rovinare più presto» (§ 41). L’esordio si conclude con la formulazione del paradosso – tipicamente machiavelliano – sul quale reggerà tutto il progetto: il rafforzamento delle istituzioni repubblicane da lui proposto – «questa mia repubblica», recita il testo – permetterà non solo il mantenimento, ma anche il rafforzamento dell’autorità dei Medici (§ 54).
La parte centrale del Discursus è costituita dall’esposizione della riforma costituzionale in tutti i suoi particolari. Il progetto tenta di conciliare due esigenze contraddittorie: dare a Firenze un assetto istituzionale di ‘repubblica perfetta’ destinata a durare nella pace, nella prosperità e nella concordia, e garantire ai Medici il pieno controllo del potere. L’assetto istituzionale repubblicano, per essere adeguato alla realtà locale, dovrà tener conto della tripartizione della società fiorentina in tre classi: gli ottimati, la ricca e potente borghesia, e l’universale, cioè la piccola borghesia; ognuna di queste classi dovrà essere rappresentata in un consiglio e dovrà designare le varie magistrature; il Consiglio dei mille, che ricorda l’antico Consiglio maggiore, sarà l’organo più significativo di questo ordinamento repubblicano. Tuttavia, mano a mano che vengono elencate le nuove istituzioni, tutta l’impalcatura democratica e repubblicana si rivela essere una finzione: i membri del Consiglio dei sessantacinque, che designa la Signoria, fra cui verrà eletto il gonfaloniere a vita o pro tempore, saranno tutti scelti dal papa e dai suoi parenti: «potrebbe la Santità Vostra mettere in questa prima elezione […] tutti gli amici e confidenti sua» (§ 63); e lo stesso viene detto per il Consiglio dei duecento, in cui siederanno i «mezzani», «tutti [...] eletti da Vostra Santità» (§ 68); in quanto al Consiglio dei mille, apparente fulcro dell’apertura democratica della repubblica, otto «accoppiatori» scelti dal papa vi favorirebbero soltanto i candidati graditi ai Medici.
Di fatto, ciò che M. propone di istituire a Firenze è una monarchia travestita da repubblica, almeno per la durata della vita del pontefice: lo dichiara esplicitamente in conclusione: «ella è una monarchia; perché voi comandate all’armi, comandate a’ iudici criminali, avete le leggi in petto: né so quello che più si possa desiderare uno in una città» (§ 97).
La perorazione assume, come nel capitolo finale del Principe, la forma di un’esortazione rivolta a Leone X non a liberare l’Italia e a fondare un nuovo Stato, ma a riformare le istituzioni della propria città: quel «Consideri dunque Vostra Santità» (§ 107) riecheggia in qualche modo il «Non si debbe adunque lasciare passare questa occasione» dell’opera maggiore (xxvi 26); ma qui viene meno il motivo provvidenzialistico. Per il resto, la tematica è più vicina ad alcuni passi del libro I dei Discorsi, e in particolare ai capitoli: iii, sulla creazione dei tribuni della plebe a Roma che fece «la Repubblica più perfetta»; ix: «Come egli è necessario essere solo, a volere ordinare una repubblica di nuovo, o al tutto fuor degli antichi suoi ordini riformarla»; x: «Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o d’uno regno»; lv: «dove è equalità non si può fare principato e, dove la non è, non si può fare repubblica». Più generalmente, esistono una continuità e una sorta di osmosi fra i due testi, per il fatto che le riflessioni di M. in questi capitoli dei Discorsi, seppur espresse a livello teorico, si ispirano alla realtà fiorentina al tempo della composizione dell’opera. Dal canto suo, il progetto di riforma del Discursus si rifà ai modelli e alla filosofia della repubblica bene ordinata dei Discorsi – in particolare per quanto riguarda l’utilità di far combaciare le istituzioni con le caratteristiche proprie dello Stato, nonché le sue dinamiche, in un dato momento storico; l’importanza di trovare, anche con mezzi eccezionali, un assetto istituzionale che consenta allo Stato di durare e di vivere in pace, senza subire le rivalità delle parti; la necessità di dare a tutte le classi sociali e a tutte le istanze della società la possibilità di partecipare o di essere rappresentate nelle istituzioni. A M. importa che lo Stato viva di vita autonoma e che, come scrive nella conclusione «per sé medesimo si amministri» (§ 110), anche se, finché vivrà il pontefice o finché i Medici prevarranno a Firenze, i membri dei vari consigli potranno essere designati da loro.
Bibliografia: N. Machiavelli, Discursus florentinarum rerum, a cura di J.-J. Marchand, in Id., L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 621-41, 697-710.
Per gli studi critici si vedano: G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Napoli 1958, Bologna 19933, pp. 651-94; G. Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, «Il pensiero politico», 1970, 5, pp. 580-96; G. Inglese, Per il testo del Discursus florentinarum rerum e altre note, «La bibliofilia», 1982, 83, pp. 41-50; G. Inglese, Il Discursus florentinarum rerum di N. Machiavelli, «La cultura», 1985, 23, pp. 203-28; G.M. Anselmi, Il Discursus florentinarum rerum tra progetto politico e prospettiva storiografica, in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996, pp. 189-207.