Disegno industriale
di Tomás Maldonado
Disegno industriale
sommario: 1. Introduzione. 2. Per una storia del disegno industriale: a) le utopie scientifiche e tecniche; b) gli automi; c) le rappresentazioni visive delle macchine nei secc. XVI, XVII e XVIII; d) il contributo dei protofunzionalisti; e) la scoperta del carattere sistemico del rapporto bisogno-lavoro-consumo; f) le grandi esposizioni mondiali del sec. XIX; g) le prime leggi per una regolamentazione dell'igiene e della sicurezza del lavoro; h) l'apporto dell'avanguardia storica; i) il dibattito sul rapporto produttività-prodotto; l) l'influenza del Bauhaus. 3. La professione, la didattica, le riviste. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Disegno industriale è la traduzione italiana della voce industrial design dei paesi di lingua inglese, spesso direttamente usata anche in italiano (in tedesco: Produktgestaltung o industrielle Formgebung; in francese: esthétique industrielle; in spagnolo: diseño industrial; in russo: techniéeskaja estetika).
Di norma, per disegno industriale si intende la progettazione di oggetti fabbricati industrialmente, cioè fabbricati tramite macchine, e in serie. Questa definizione, tuttavia, non è del tutto soddisfacente. Esaminandola con maggior rigore se ne rilevano infatti alcune ambiguità. Per esempio, non riesce a puntualizzare nettamente la differenza che esiste fra l'attività del disegnatore industriale e quella svolta tradizionalmente dall'ingegnere, soprattutto dall'ingegnere meccanico. Non dice, in altre parole, dove incomincia e dove finisce il compito progettuale dell'uno e dell'altro nello sviluppo di un prodotto fabbricato industrialmente. Di conseguenza, tralascia altresì di chiarire in quali condizioni un ingegnere può eventualmente svolgere, come spesso accade, l'attività di disegnatore industriale e viceversa. Peraltro, la definizione dà implicitamente per scontato che tutti gli oggetti non fabbricati industrialmente non sono oggetti di disegno industriale. Così si vuole evitare, giustamente, di confondere disegno industriale e artigianato o, peggio ancora, disegno industriale e arte applicata - delimitazione che, come vedremo più avanti, ha avuto un'importanza decisiva nella prima fase di sviluppo del disegno industriale. Ma pure qui sono possibili delle obiezioni. Esiste infatti un'ampia gamma di prodotti che appartengono a un universo di discorso di altissima tecnicità, anche se sono stati eseguiti con mezzi tecnici assai tradizionali, cioè senza avvalersi, o solo saltuariamente, di macchinari per la produzione in serie standardizzata. Alludiamo soprattutto a certe attrezzature che per la loro estrema complessità strutturale, per la particolare natura delle loro prestazioni o semplicemente per l'elevatissimo costo di produzione, sono fabbricate in esemplari unici o in piccola serie. Per esempio, certe macchine utensili, certi grossi elaboratori elettronici, certi strumenti scientifici molto specializzati, certi mezzi di trasporto. In questi oggetti il fatto che i loro componenti siano prodotti in serie non autorizza a considerare il loro complessivo processo lavorativo come industriale. Tutto ciò dimostra quanto sia difficile formulare una definizione di disegno industriale basandosi esclusivamente sulle modalità del processo lavorativo.
Un orientamento formalistico ha voluto eludere questa difficoltà offrendo una definizione che mette l'accento soltanto sulla forma esterna del prodotto. Il compito del disegnatore industriale riguarderebbe la cosiddetta apparenza estetica, senza tener conto delle modalità del processo lavorativo. Tale definizione si è dimostrata relativamente utile quando i prodotti appartenevano all'area dei beni di consumo di tipo suntuario. Per altri beni di consumo, dove l'utente è cointeressato in un comportamento operativo che va oltre la fruizione meramente formale, la definizione si è dimostrata insostenibile. E ancor più nell'area dei beni strumentali.
Qui dovremo soffermarci sulla definizione adottata dall'ICSID (International Council of Societies of Industrial Design), che segue in linea di massima quella presentata da T. Maldonado al Congresso ICSID di Venezia nel 1961. Anche in questa definizione - come nella precedente - si accetta che il compito del disegno industriale consista nel progettare la forma del prodotto. C'è però una differenza fondamentale con l'orientamento prima descritto: il disegno industriale non è qui inteso come un'attività progettuale che prende le mosse esclusivamente da un'idea aprioristica sul valore estetico (o estetico-funzionale) della forma, come un'attività progettuale le cui motivazioni si situano prima, e al di fuori, del processo costitutivo della forma stessa. La definizione accolta dall'ICSID propone un disegno industriale che deve svolgere il suo compito all'interno di questo processo e la cui finalità ultima è la ‟concretizzazione di un individuo tecnico" (v. Simondon, 1958). Secondo tale definizione, progettare la forma significa coordinare, integrare e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell'altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E precisamente si allude tanto ai fattori relativi all'uso, fruizione e consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico- economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico- produttivi e tecnico-distributivi).
La definizione, malgrado la sua genericità, è tuttora valida. Eppure, dopo le controversie di questi ultimi anni sul ruolo del disegno industriale nella società, dobbiamo aggiungere: è valida solo a patto di ammettere che l'attività di coordinare, integrare e articolare i diversi fattori è sempre fortemente condizionata dal modo in cui le forze produttive e i rapporti di produzione si configurano in una data società. In altre parole, ammettere che il disegno industriale, contrariamente a ciò che avevano immaginato i suoi precursori, non è un'attività autonoma. Benché le sue scelte progettuali possano sembrare libere, e forse talvolta lo sono, si tratta però sempre di scelte prese nel contesto di un sistema di priorità assai rigidamente prestabilite. In ultima analisi, è questo sistema di priorità che regola il disegno industriale. Non c'è dunque da meravigliarsi che gli oggetti alla cui progettazione concorre il disegno industriale cambino sostanzialmente la loro fisionomia a seconda che la società abbia deciso di privilegiare certi fattori rispetto ad altri: per esempio, i fattori tecnico-economici o tecnico-produttivi rispetto a quelli funzionali, o i fattori simbolici rispetto a quelli tecnico- costruttivi o tecnico-distributivi.
Perciò la definizione di disegno industriale che abbiamo fin qui esaminato dovrebbe potersi adeguare ai particolari contesti in cui l'attività è svolta. Detto altrimenti, questa definizione generica dovrebbe poter ospitare, senza per questo infirmare la sua validità complessiva, altre definizioni ausiliarie, capaci di riflettere più fedelmente la reale diversità (e persino conflittualità) degli ordinamenti socio- economici esistenti. Secondo questo approccio, sarebbe possibile definire il disegno industriale in termini diversi a seconda che si tratti, per esempio, di un ordinamento socio-economico di tipo capitalistico o socialista. Questa esigenza di una maggiore flessibilità, e fungibilità, della definizione di disegno industriale deriva dalla certezza che in ogni ordinamento socio-economico esiste, o dovrebbe esistere, un modo peculiare di affrontare il problema della ‛forma della merce'. Ricordiamo che, ai nostri giorni, progettare oggetti e progettare merci sono di norma un'unica e stessa attività. Tale identificazione è spesso riscontrabile in un sistema mercantile semplice; caratterizza soprattutto un sistema capitalistico di scambio, sia in fase concorrenziale, sia in fase monopolistica; ma permane anche in un sistema di transizione dal capitalismo al socialismo, cioè in un sistema in cui ancora convivono, se pur non sempre in armonia, forme diverse di proprietà e di controllo sui mezzi e sui processi di produzione. Riassumendo: in ogni sistema in cui, in un modo o nell'altro, vige lo scambio di merci, il disegno industriale è strettamente connesso con il processo di determinazione della ‛forma della merce'.
Ma come si spiega, dal punto di vista di una teoria del valore, il fenomeno della ‛forma della merce'? Ossia, come perviene la merce alla forma? Tra il prodotto del lavoro che assume ‛forma di merce' e la vera e propria ‛forma della merce', tra genesi della ‛forma-merce' e genesi della ‛merce- forma' esiste a nostro parere un reciproco condizionamento. Il tema è già stato trattato in passato (v. Paulsson, 1948; v. Maldonado, 1958) e ripreso ultimamente da molti studiosi (v. Wassiljewa, 1971; v. Haug, 1971; v. Baudrillard, 1972; v. Wolf, 1972; v. Goux, 1973; v. Selle, 1973; v. Kotik, 1974; v. Bonsiepe, 1974 e 1975), senza mai raggiungere tuttavia dei risultati convincenti. Eppure, almeno un punto sembra definitivamente acquisito: l'intervento progettuale sul ‛corpo della merce' - l'intervento del disegno industriale - incide direttamente sul processo che trasforma in merce il prodotto del lavoro, cioè sulla creazione, per dirla con Marx, di un ‟valore d'uso per gli altri che viene trasmesso agli altri mediante lo scambio". Ma così come non sono le stesse, malgrado le apparenze, le modalità di attuazione di tale processo nei diversi ordinamenti socio-economici, pure non dovrebbero essere rispettivamente le stesse, almeno in teoria, le forme conferite alle merci. Diciamo ‛almeno in teoria', perché in pratica le cose si presentano in modo ben più sfumato. Si deve notare, per esempio, che i fattori più caratterizzanti di un particolare ordinamento socio-economico non si fanno sentire allo stesso modo e, per così dire, con la stessa intensità in tutti gli oggetti in quanto merci. E questo per la semplice ragione che non tutti gli oggetti presentano lo stesso grado di complessità. Un cucchiaio, com'è ovvio, è meno complesso di un'automobile, e i fattori che nella progettazione di un cucchiaio o di un'automobile sono privilegiati, anche se sono gli stessi in entrambi i casi, assumeranno rispettivamente un significato ben diverso. Anteporre per esempio il fattore simbolico a quello tecnico-costruttivo può essere irrilevante nel caso di oggetti di bassa complessità come il cucchiaio, ma invece assai rilevante nel caso di un oggetto di elevata complessità come l'automobile. In linea di massima, si può dire che i fattori più caratterizzanti di un ordinamento socio-economico si fanno sentire più pesantemente negli oggetti appartenenti al secondo gruppo che non in quelli appartenenti al primo.
Questa affermazione, si dirà, è discutibile, giacché oggetti di elevata complessità e appartenenti a diversi ordinamenti socio-economici hanno frequentemente la stessa fisionomia. L'esempio più banale è ancora una volta quello dell'automobile: il fatto di essere di fabbricazione capitalistica o socialista non incide affatto sulle sue caratteristiche formali. L'argomento, a prima vista, può sembrare pertinente; meno se lo esaminiamo in un arco storico più vasto. Non si deve dimenticare infatti che la maggior parte delle tipologie di oggetti di media ed elevata complessità (e pertanto la loro fisionomia) sono state fissate durante la rivoluzione industriale, e come esplicita risposta a esigenze molto concrete nello sviluppo dell'economia capitalistica del sec. XIX. È chiaro che il peso di questa tradizione è immenso, e così si spiega perché gli ordinamenti socio-economici diversi dal capitalismo non riescano subito a sviluppare un parco di oggetti formalmente coerente con le loro specifiche esigenze.
Tutto quanto è stato detto fin qui aveva lo scopo di mostrare gli innumerevoli intrecci e accostamenti concettuali che stanno alla base del disegno industriale. È solo così, ammettendo (e non certo negando) la vastità dell'arco di implicanze del disegno industriale, che possiamo afferrare tutta la sua reale importanza. Eppure, per intuire fino in fondo le ragioni della complessità del fenomeno chiamato disegno industriale, occorrono ancora altre precisazioni. Come tutte le attività progettuali che, in un modo o nell'altro, intervengono nel circuito produzione-consumo-produzione, il disegno industriale agisce come una vera e propria forza produttiva. Vi è di più: è una forza produttiva che contribuisce all'organizzazione (e pertanto, alla socializzazione) delle altre forze produttive con le quali entra in contatto. A differenza però di quanto è sempre accaduto con l'artigianato nelle società preindustriali del passato, il disegno industriale non si comporta nelle nostre società industriali come parte integrante del processo lavorativo, ma come un'istanza progettuale che, tramite lo sviluppo di appositi modelli, concorre a finalizzare lo svolgimento del processo lavorativo - come se ideazione ed esecuzione fossero due diverse forze produttive chiamate a svolgere due funzioni diverse.
Dobbiamo ammettere però, a onor del vero, che ciò avviene nelle società industrialmente avanzate a prescindere dal fatto che l'uso delle forze produttive sia capitalistico o socialista. Certamente, l'uso capitalistico ha esasperato la distanza tra ideazione ed esecuzione (v. Bologna, 1972), tra progetto e lavoro, e nulla impedisce oggi d'immaginare un futuro in cui l'uso socialista delle forze produttive potrebbe accorciare drasticamente tale distanza. In altre parole: un futuro in cui il ruolo del progetto possa essere detecnocratizzato, nell'interesse di una maggior partecipazione creativa dei lavoratori. Tale mutamento però lascerebbe intatto il compito del disegno industriale, che continuerà a essere, anche in queste nuove condizioni, sostanzialmente lo stesso: mediare dialetticamente tra bisogni e oggetti, tra produzione e consumo. Di solito il disegnatore, troppo immerso nella routine della sua professione, non riesce a intuire l'effettiva incidenza sociale della sua attività. È ciò che rivela chiaramente la concezione tanto diffusa di un disegno industriale inteso come intervento assolutamente isolato, nient'altro che ‛prestazione', che ‛servizio reso all'industria'.
Non ci sembra pertanto superfluo ricordare qui che in ogni società esiste un punto nevralgico, in cui ha luogo il processo di produzione e riproduzione materiale, cioè un punto in cui, secondo le esigenze dei rapporti di produzione, vengono man mano sancite le corrispondenze tra ‛stato di bisogno' e ‛oggetto di bisogno' (v. Chombart de Lauwe, 1970), tra bisogno (Bedürfnis) e fabbisogno (Bedary). Il disegno industriale, in quanto fenomeno che si situa precisamente in tale punto nevralgico, emerge come un ‛fenomeno sociale totale' (v. Mauss, 1968). Vale a dire, come appartenente a quella categoria di fenomeni che non si devono esaminare isolatamente, ma sempre in relazione ad altri fenomeni con i quali costituiscono un unico tessuto connettivo. A questa stessa categoria appartiene il fenomeno della tecnica, intimamente connesso con quello del disegno industriale. L'idealismo aveva rinchiuso la tecnica nel ghetto della produzione strutturale, ne aveva fatto cioè un fenomeno estraneo, e persino avverso, all'universo della produzione sovrastrutturale. Ma la verità è molto diversa: la tecnica è presente sia nell'esecuzione dei ‛prodotti strutturali' (configurazioni oggettuali di ogni tipo), sia in quella dei ‛prodotti sovrastrutturali' (configurazioni simboliche di ogni tipo). Il ‟pregiudizio corrente" (v. Carandini, 1975), che oppone i prodotti strutturali a quelli sovrastrutturali, i prodotti della mano (e della macchina) a quelli della testa (M. Rossi, Cultura e rivoluzione, Roma 1974), è definitivamente superato nel momento in cui tutti i prodotti del lavoro umano sono intesi come artefatti (v. von Uexküll, 1934; v. White, 1949; v. Gehlen, 1955; v. Maldonado, 1970). Questo è il presupposto che peraltro sta alla base del concetto moderno di cultura materiale, diffuso soprattutto dagli antropologi e dagli archeologi, ma anche dagli storici. In ultima analisi, si tratta della concezione, oggi generalmente accettata, secondo cui i prodotti dell'attività tecnica umana sono sempre da considerare dei fatti di ‛vita materiale', o meglio di cultura (o civiltà) materiale. Idea che Braudel ha così precisato: ‟La vita materiale comprende gli uomini e le cose, le cose e gli uomini" (v. Braudel, 1967). Dobbiamo ammettere però che tale concezione solo da tempo relativamente breve gode del generale consenso. In realtà, i prodotti della tecnica - di qualsiasi tipo di tecnica - sono stati soggetti per secoli alla più tenace discriminazione. E anche - forse in modo ancor più deciso - gli uomini che si occupavano sia della loro invenzione e progettazione, sia della loro effettiva produzione. È già stato dimostrato (v. Schuhl, 1938) come si debba ricercare la radice storica di questa discriminazione già nell'antichità, e più concretamente nella società schiavista greca, con il suo disprezzo assoluto per i lavori manuali e meccanici considerati di natura infamante: compito di schiavi, come di fatto erano.
2. Per una storia del disegno industriale
Domandarsi come si sia arrivati al superamento di questa secolare discriminazione significa in pratica ricercare gli sviluppi storici che hanno reso possibile l'avvento del disegno industriale. E qui bisogna fermarsi un attimo ad analizzare quella che è generalmente considerata la storia del modern design. A rigore, si tratta non di ‛una' storia, bensì di ‛molteplici' storie (v. Platz, 1927; v. Read, 1934; v. Mumford, 1934; v. Pevsner, 1936; v. Behrendt, 1937; v. Richards, 1940; v. Giedion, 1941 e 1948; v. Banham, 1960). Ebbene, lo studio attento di esse ci permette di rilevare un elemento comune a tutte: lo sforzo di dimostrare come in questo ultimo secolo il dibattito sul rapporto arte-tecnica (o arte-industria) abbia inciso sull'evoluzione dell'architettura moderna e come questa evoluzione, dal canto suo, abbia condizionato quel dibattito. Benché la storia del modern design, privilegiando spesso l'architettura, non possa essere considerata una vera e propria storia del disegno industriale, non c'è dubbio che in essa sono state coniate le più ricorrenti matrici interpretative delle origini del disegno industriale. Alludo a quelle matrici secondo cui il disegno industriale non sarebbe che l'emanazione diretta di un rapporto d'influenze reciproche tra certe idee estetiche sostenute da poche personalità di eccezione (la famosa direttrice che, partendo da Ruskin e Morris, passa per van de Velde e arriva a Gropius) e il contributo di certe innovazioni tecnologiche (la non meno famosa direttrice che enfatizza l'importanza di certi nuovi materiali, di certe nuove risorse energetiche e di certi nuovi congegni meccanici).
Si è creduto così di trovare nella storia del modern design, proprio perché intendeva mediare l'arte e la tecnica, una spiegazione del modo in cui si è giunti storicamente a superare la pregiudiziale ideologica contro la tecnica, cioè del modo in cui si è giunti alla ‟meccanizzazione dell'immagine del mondo" (v. Dijksterhuis, 1961). Ciò che è vero solo in parte. La matrice interpretativa che, in questa storia, collega certe idee a certe innovazioni è tuttora lacunosa, e pertanto fuorviante: i fatti raramente sono mostrati nella loro dipendenza da altri fatti, e ancor meno da quelli che esprimono direttamente la processualità concreta della società. Detto altrimenti: in essa non si tiene abbastanza conto della dipendenza delle idee e delle innovazioni da ciò che ne costituisce il principale agente dinamogeno: la contraddizione - per dirla con la formula marxista ormai classica - tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione.
Con questi rilievi non si vuole infirmare in toto la storia del modern design, ma sottolinearne l'incompletezza. E occorre non dimenticare peraltro che questa incompletezza va riferita, oltre che agli aspetti socio-economici, anche alla presentazione stessa delle idee estetiche e delle innovazioni tecnologiche. Una storia che si rifiuta di indagare nel retroscena dei fatti finisce sempre per privilegiarne alcuni, lasciandone altri nella penombra e altri infine del tutto nascosti. Eppure questo non significa - come potrebbe far pensare l'adesione a un rozzo determinismo economico - che il tentativo di colmare la prima incompletezza ci possa automaticamente condurre a colmare anche la seconda. In una storia del disegno industriale, almeno come noi la intendiamo, si dovrà agire ‛allo stesso tempo' sui due versanti, cercando così, da un lato, di approfondire i fatti già noti, dall'altro, di scoprirne di nuovi. Senza dimenticare di verificare con un continuo raffronto la consistenza tanto degli uni quanto degli altri.
Il nostro proposito è di dimostrare, pur in modo necessariamente schematico, come la moderna coscienza sociale e culturale della tecnica e quella del disegno industriale siano il risultato di uno stesso sviluppo, e soprattutto come tale sviluppo sia stato sempre fortemente condizionato dalla processualità concreta della società. In questo caso, dallo sviluppo del modo di produzione capitalistico.
Questo approccio sarà ora illustrato da una rassegna dei diversi fattori, noti e meno noti, che hanno contribuito alla formazione di tale coscienza sociale e culturale, risalendo anche a quelli che, pur molto indietro nel tempo, possono aiutare a meglio comprendere il tema esposto. Alcuni saranno brevemente accennati, altri invece trattati in modo più diffuso e approfondito.
a) Le utopie scientifiche e tecniche
A partire dal Seicento incomincia a proliferare una narrativa in cui le macchine sono presentate come strumenti capaci di assicurare agli uomini la felicità sulla terra, e talvolta anche fuori della terra. Si descrivono società e città ideali esistite nel passato, o previste per il futuro, dove la macchina è fattore di ottimizzazione dei rapporti tra gli uomini e anche spesso tra gli uomini e la natura. Il sogno - retrospettivo o prospettivo - di una vita migliore è qui un sogno di artefatti. La costruzione utopistica appare satura di immaginaria tecnicità. La Nova Atlantis (1626) di Bacone può forse essere considerata il primo grande documento di questo tipo. Nella stessa epoca vanno segnalate pure le opere di J. Wilkins, F. Godwin e C. de Bergerac. Più tardi quelle di L. S. Mercier, N.-E. Rêtif de la Bretonne, Ch.-F.-M. Fourier e E. Cabet. Il ruolo di mediazione di tali opere è stato spesso segnalato dagli storici e studiosi dell'utopia. Naturalmente le utopie scientifiche e tecniche sono espressione diretta o indiretta della grande rivoluzione intellettuale avvenuta nel Quattrocento, proseguita nel Cinquecento e definitivamente consolidatasi nel Seicento. Tra gli esponenti più importanti risultano al primo posto Galileo e Bacone, ma anche prima di essi, uomini come Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci, J. L. Vives, G. Agricola, W. Gilbert. Questo schieramento di pensatori, scienziati, architetti e artisti apre la strada al superamento della tradizionale opposizione tra sapere pratico e sapere teorico, tra sapere tecnico e sapere scientifico. La cultura organicistica che si contenta dell'approssimazione incomincia a essere sostituita dalla cultura strumentale che ha il gusto, e persino il fervore, della precisione.
b) Gli automi
Troviamo esempi di automi in diversi periodi della storia. Basti ricordare quelli ideati da Erone di Alessandria (II secolo d.C.), Alberto Magno (XIII secolo), Villard de Honnecourt (XIII secolo), Johannes Fontana (XVI secolo), Athanasius Kircher e Gaspar Schott (XVIII secolo). Ma quelli che qui particolarmente ci interessano sono stati creati nel XVIII secolo da F. von Knauss, J. de Vaucanson, M. von Kempelen, P. e H-L. Jacquet-Drotz, D. Roentgen e P. Kintzing. Si tratta di automi dalle sembianze antropomorfiche e zoomorfiche altamente meccanizzati, destinati di solito ai festeggiamenti di corte. Queste realizzazioni offrono una versione frivola e divertente della macchina e contribuiscono, senza volerlo, a superare l'immagine allora diffusa della macchina come oggetto terrificante. Qui la tecnica imita il comportamento della natura: l'essere tecnico si camuffa da essere vivente. E così emerge il sospetto, più tardi certezza, che esista una corrispondenza isomorfica tra natura e artificio. Perché se la natura è artificializzabile e l'artificio naturalizzabile, crolla allora il mito di un abisso invalicabile tra ciò che è fatto dalla natura e ciò che è fatto dall'uomo (v. Reuleaux, 1876; v. Moscovici, 1972; v. Rosset, 1973). L'osservazione della natura diventa un fattore fecondante della tecnica, e allo stesso tempo l'osservazione della tecnica aiuta a capire meglio la natura. Ma c'è di più: associando la macchina alla figura umana, come avviene negli automi antropomorfi, si favorisce la tendenza a considerare la macchina come modello degli esseri viventi - tendenza che più tardi La Mettrie porterà fino alle estreme conseguenze con la teoria de L'homme machine (1747). Il tema sarà ripreso, con sfumature diverse, da Helvétius, da d'Holbach e da molti altri esponenti del materialismo meccanicistico. Beninteso, è questa solo una prima battaglia contro il dualismo. Più tardi le cose si dimostreranno più complesse e lo sviluppo del materialismo riconoscerà la necessità di completare l'homme machine con l'homme sensible.
c) Le rappresentazioni visive delle macchine nei secc. XVI, XVII e XVIII
Di solito il loro scopo era essenzialmente didattico; si trattava di spiegare il funzionamento, l'installazione e l'utilizzazione degli impianti tecnici di un'industria ancora agli albori. Non erano dunque altro che ‛istruzioni per l'uso', ma diverse da quelle attuali per il particolare modo di raffigurazione. La macchina non era mostrata astrattamente isolata - come avviene oggi - bensì integrata spesso in un ambiente, cioè in un'apposita ‛scenografia'. Diventava così un personaggio, un attore dell'azione rappresentata; insomma, un soggetto altrettanto meritevole di cura ‛artistica' quanto qualsiasi altro. La macchina entrava così surrettiziamente nell'arte (v. Le Bot, 1973). Dato il loro carattere scenografico, queste raffigurazioni erano chiamate ‛teatri delle macchine'. Tra le opere precorritrici dei ‛teatri delle macchine' dobbiamo citare i primi grandi manuali tecnici, come il De re metallica (1556) di G. Agricola e Le diverse e artificiose macchine (1558) di A. Ramelli. Direttamente nella tradizione figurativa dei ‛teatri delle macchine' e dei manuali tecnici dobbiamo situare anche i dodici volumi del Recueil de planches sur les sciences, les arts libéraux et les arts méchaniques dell'Encyclopédie di d'Alembert e Diderot (1763). Nel testo introduttivo a una recente riedizione italiana, R. Barthes scrive: ‟[...] l'Encyclopédie, in particolare nelle sue tavole, pratica quella che potremmo in qualche modo chiamare una filosofia dell'oggetto; in altre parole, riflette sul suo essere, ne compie una rilevazione, tenta di definirlo; il disegno tecnologico obbligava a descrivere oggetti, certamente; ma, separando le immagini dal testo, l'Encyclopédie si impegnava in un'iconografia autonoma dell'oggetto, di cui noi oggi gustiamo intera la forza, proprio perché [...] non guardiamo quelle illustrazioni a fini esclusivi di apprendimento [...]" (R. Barthes, Introduzione alle tavole dell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, Parma 1970).
d) Il contributo dei protofunzionalisti
L'idea che la bellezza di un oggetto dipenda dalla sua utilità ed efficienza, cioè dalla sua adeguatezza alla funzione cui è destinato, incomincia ad avere i suoi sostenitori più ardenti in Inghilterra. Tra questi Berkeley, Hogarth, Hume, Hutcheson e Alison. In Italia, la presa di posizione più chiara a favore di un approccio funzionalistico è quella di Lodoli; in Francia, sicuramente quella di Ledoux. Importanti contributi al funzionalismo in Germania sono dovuti a Kant, Lessing, Goethe e soprattutto all'architetto e urbanista Weinbrenner. Quest'ultimo, nella terza parte del suo Architektonisches Lehrbuch (1819) scrive: ‟La bellezza sta nella concordanza totale tra forma e funzione". Un altro aspetto importante del manuale di Weinbrenner è il tentativo di esaminare i problemi del rapporto forma-funzione in architettura basandosi su esempi di oggetti d'uso. (Sul contributo dei protofunzionalisti, cfr. R. De Zurko, Origins of functionalist theory, New York 1957).
e) La scoperta del carattere sistemico del rapporto bisogno- lavoro-consumo
In Smith, Ricardo, Hegel e Marx, questa scoperta ha avviato un nuovo modo di vedere e d'interpretare l'universo degli oggetti tecnici. Ci si accorge che i manufatti meccanici non sono, come si era creduto a volte, un'irruzione storica arbitraria, ma il risultato di un complesso tessuto di interazioni socio-economiche. Adam Smith, sulla traccia di Ferguson, lo intuisce con particolare acume quando spiega l'origine delle invenzioni tecniche: ‟Ognuno può rendersi conto di quanto il lavoro sia facilitato dall'uso di apposite macchine [...]. Mi limiterò a osservare che l'invenzione di tutte le macchine che tanto facilitano e abbreviano il lavoro sembra si debba in origine alla divisione del lavoro" (A. Smith, Inquiry into the nature and causes of the wealth of nations, 1776; tr. it.: La ricchezza delle nazioni, Milano 1973, pp. 13-14). Ritroviamo quest'idea anche in Ricardo; riappare più tardi in J. Stuart Mill e sfocia finalmente in Marx. È l'itinerario che va dalla generalità astratta alla specificità concreta: nell'economia politica classica il legame causale tra macchina e rapporti di produzione era ancora appena intuito; in Marx, invece, ci troviamo di fronte a una decisa presa di coscienza di esso.
Tuttavia si dimentica spesso, o perlomeno non si sottolinea abbastanza, che l'incisività della concezione di Marx si spiega attraverso la mediazione di Hegel. Il pensiero di Marx sul rapporto bisogno-lavoro-consumo emerge fortemente condizionato dalla rielaborazione hegeliana del pensiero di Smith e di Ricardo sull'argomento. Secondo Hegel, l'uomo in quanto essere bisognoso è costretto ad avere un rapporto pratico con la natura esteriore, nei confronti della quale deve necessariamente agire per conformarla e dirozzarla. A questo scopo l'uomo fa intervenire degli strumenti, ossia degli oggetti atti a sottomettere altri oggetti che gli sono avversi. ‟Queste invenzioni umane - conclude Hegel - appartengono allo spirito, e perciò lo strumento inventato dall'uomo sta più in alto di un oggetto di natura: è infatti una creazione spirituale" (G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 1822-1830, vol. III, Firenze 1967, p. 22). Marx non poteva certo accettare in blocco tale concezione. Egli ne rifiutava il forte ‛idealismo oggettivo' implicito, che portava ad attribuire allo strumento il valore di categoria spirituale assoluta. E soprattutto rifiutava la tendenza di Hegel a esaminare il rapporto bisogno-strumento al di fuori dei ‛contrasti di classe'.
Bisogna ammettere però che le valutazioni di Marx nei confronti di Hegel - lo sappiamo ora - erano in parte infondate. La pubblicazione postuma delle opere di Hegel, System der Sittlichkeit (1893) e Jenenser Realphilosophie. I (1932) e II (1931), opere quindi sconosciute a Marx, dimostra come le posizioni dei due pensatori sulla tematica bisogno-strumento fossero in realtà ben più vicine. Non s'intende fare qui dello Hegel ignoto a Marx una sorta di ‛Marx avanti lettera', ma si deve riconoscere che nel System Hegel pone in evidenza come il lavoro, in quanto annullamento dell'intuizione, sia anche annullamento del soggetto, e, nella Realphilosophie, come il lavoro - e anche il prodotto del lavoro - diventi merce. Il sistema del lavoro (sistema degli strumenti o degli artefatti) assume un ruolo di mediazione tra il sistema dei bisogni e il sistema del consumo, ma questa mediazione è conflittuale nella società (capitalistica) e determina un avvilente ‛vasto sistema d'interdipendenze e di legami reciproci'. Così l'economico in Hegel, contrariamente a ciò che pensava Marx, non appare più autonomo.
Il punto di vista di Marx sul ruolo delle macchine nella società capitalistica si presenta ampiamente illustrato nel memorabile capitolo Macchine e grande industria del primo volume del Capitale (1867), dove lo sviluppo del macchinario è esaminato come ‟mezzo di sfruttamento della forza-lavoro". Niente sarebbe però più sbagliato che attribuire a Marx una sorta di ‛luddismo', un atteggiamento di condanna globale nei confronti della macchina. Su questa traccia si trovano coloro che, con un'interpretazione abusiva di Marx, vedono in una futura società senza classi l'avvento di una ‟società senza tecnologia, la fine dei tempi tecnologici" (v. Fallot, 1966). Non molto diverso è il punto di vista di coloro che, volendo denunciare la pretesa neutralità ideologica della scienza e della tecnica, arrivano a negare ogni contenuto di emancipazione all'innovazione scientifica e tecnologica (v. Gorz, 1971; v. Weysand, 1974).
Marx, com'è noto, è stato un critico appassionato della funzione alienante della macchina nella società capitalistica, ma niente autorizza a fare di Marx un Rousseau, un nemico a oltranza dell'‛artificio'. Per Marx, il processo di ominazione è inseparabile dal processo di artificializzazione della natura; l'uomo diventa tale tramite la produzione di una natura umanizzata, cioè artificializzata. È la costruzione e l'uso di un equipaggiamento extracorporeo (utensili, armi, alloggi, vestiti) che hanno reso l'uomo ‛la più adattabile di tutte le creature'. Nel pensiero di Marx, tuttavia, la tecnica non ha solo un valore retrospettivo, bensì anche prospettivo. L'avvento della società senza classi non segnerà la ‛fine dei tempi tecnologici', ma l'inizio di tempi tecnologici essenzialmente diversi da quelli attuali. La tecnica perderà la sua funzione alienante e passerà a costituirsi in un fattore di riconciliazione tra l'uomo, la realtà e gli altri uomini.
f) Le grandi esposizioni mondiali del sec. XIX
Nel 1851 il principe Alberto d'Inghilterra, ispiratosi alla Gewerbeausstellung di Berlino del 1844, promuove la Great exhibition di Londra, alla quale partecipano 14.000 espositori e 6 milioni di visitatori. Nel 1855 ha luogo la seconda esposizione internazionale a Parigi, con 20.000 espositori e 5 milioni di visitatori; poi di nuovo a Londra nel 1862 con 29.000 espositori e 6 milioni di visitatori, nel 1867 a Parigi con 9 milioni di visitatori, nel 1873 a Vienna con 7 milioni. Seguono a pochi anni di distanza le esposizioni di Filadelfia (1876), Parigi (1878), Sidney (1879), Melbourne (1881), ancora Parigi (1889), Chicago (1893), Parigi (1900), con grande afflusso di visitatori: per esempio, 28 milioni in quella di Parigi del 1889 e quasi lo stesso numero in quella di Chicago. Alla Great exhibition di Londra del 1851 si è sempre assegnata una posizione rilevante in tutte le storie sul disegno industriale finora scritte. Ma non per il ‛buon disegno' degli oggetti che vi erano esposti, bensì - come denunciava un giornale dell'epoca - per il loro atroce cattivo gusto. In altre parole, la Great exhibition sarebbe importante in quanto avrebbe contribuito a renderci consapevoli della degradazione estetica degli oggetti, nel momento del trapasso dall'artigianato alla produzione industriale (v. Semper, 1852; v. Ruskin, 1904; v. Read, 1934; v. Johnson, 1934; v. Pevsner, 1936; v. Behrendt, 1937; v. Giedion, 1941 e 1948; v. Dorfles, 1963; v. Bologna, 1972). Questa concezione può essere valida se si pensa a certi reparti della Great exhibition, non invece se se ne considerano altri, soprattutto quelli dedicati alle macchine, agli strumenti tecnici e ai mobili standard, dove troviamo degli oggetti che rappresentano un momento molto significativo nello sviluppo del disegno industriale. Per esempio, lo strumento musicale del francese A. Sax, la locomotiva di T. R. Crampton, le macchine agricole, gli strumenti chirurgici, i telescopi, le armi e i mobili per la scuola (v. Semper, 1852; v. Maldonado, 1958 e 1962; v. Crispolti, 1958; v. Lindinger, 1961; v. Frateili, 1969; v. Schaefer, 1970; v. Ferebee, 1970).
g) Le prime leggi per una regolamentazione dell'igiene e della sicurezza del lavoro
Allo scopo soprattutto di evitare degli incidenti sul lavoro, si stabilisce l'obbligo di coprire con una scocca i meccanismi delle macchine utensili. Le norme relative sono precisate in Austria tra il 1883 e il 1885, in Germania nel 1891, in Inghilterra tra il 1891 e il 1895 e in Francia nel 1893 (v. Lindinger, 1961). In questo modo, una configurazione formale viene a nascondere la configurazione tecnica dell'oggetto, e si stabilisce così una dicotomia che non si limiterà al campo delle macchine utensili. Anzi, diventerà la caratteristica dominante di quasi tutte le tipologie di oggetti della civiltà industriale. Nasce così la ‛carrozzeria', cioè un involucro aggiuntivo che sarà spesso trattato come una forma senza nessun o con scarso - rapporto con il contenuto.
h) L'apporto dell'avanguardia storica
Durante il sec. XIX era frequente che scrittori e artisti assumessero una posizione di critica, e talvolta addirittura di netto rifiuto, nei confronti della macchina. I casi più noti sono Poe, Dickens, Ruskin, Melville, Baudelaire, Morris, Butler e Zola. La diffusione della locomotiva, che avviene in Inghilterra tra il 1830 e il 1850, cambia radicalmente il panorama visivo della società vittoriana. E non solo visivo: il linguaggio quotidiano - e pertanto anche la letteratura - si satura di metafore meccaniche di ogni genere cui si ricorre, di solito, per descrizioni di coloritura negativa o dispregiativa. La ‛natura' tanto celebrata dai romantici appare ora minacciata da un congegno - la locomotiva - spesso definito malefico. Per la prima volta, con stupore, l'uomo vittoriano constata l'irruzione - ai suoi occhi oltraggiosa - del meccanico nell'organico (v. Mumford, 1934; v. Klingender, 1968; v. Sussman, 1968). E questa prima reazione si ritrova dovunque la locomotiva fa sentire la sua presenza, sia nel paesaggio della città, sia in quello della campagna. In La béte humaine (1890), per esempio, Zola descrive una locomotiva, la Lison, come la personificazione della violenza autodistruttrice dell'umanità.
Uno dei primi poeti a guardare la locomotiva con occhi diversi è W. Whitman, in To a locomotive in winter. Egli vede in essa il ‟type of modern / emblem of motion and power / pulse of the continent", e dove i poeti vittoriani riscontravano solo bruttezza, egli intravvede un'esaltante, nuova bellezza: ‟Il suo corpo cilindrico, ottoni dorati e acciai argentei, / le sue massicce barre laterali, bielle parallele, turbinanti ritmicamente ai suoi fianchi, / il suo palpito, il suo ruggito, misurato, ora rigoglioso, ora affievolito in lontananza, / la sua luce di testa, sporgente, fissa in fronte, li suoi pennacchi di vapore lunghi e pallidi, fluttuanti, tinti di porpora delicata, / le nuvole dense e oscure eruttanti dal suo fumaiolo, / La sua ossatura saldata, le sue molle e valvole, il tremulo balenio delle sue ruote, / la fila di vetture dietro di lei, obbediente, felice al seguito, / attraverso la tempesta o la calma, ora veloce, ora lenta, ma sempre in cammino" (W. Whitman, To a locomotive in winter, 1876-1881, in Leaves of grass, New York 1973, p. 471).
Il tema della locomotiva sarà ripreso alla fine degli anni dieci negli stessi termini apologetici, benché ora le si affianchino nuovi personaggi: l'automobile, l'aeroplano, il transatlantico. Ciò che si esalta però questa volta non è solo l'oggetto tecnico, ma anche gli uomini che lo inventano, lo costruiscono, lo producono, lo usano; insomma: ‟le peuple habile des machines", come dice Apollinaire.
È precisamente questa l'originalità dei futuristi nei confronti di coloro che, nell'Ottocento, più o meno seguendo le tracce di Whitman, amano le macchine per se stesse; o solo come simbolo - ‟emblema", aveva detto il poeta - di una vaga promessa. Alludiamo per esempio a Kipling e a Verhaeren. I futuristi si propongono un cambiamento globale della quotidianità dell'uomo, non solo del frammento relativo all'arte o alla fruizione dell'arte. Ciò che interessa loro è l'uomo che, a contatto con la macchina, cambia o è in procinto di cambiare, per così dire, fino alla radice. Nel Manifesto futurista del 1909, Marinetti scrive: ‟Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa essa pure sul circuito della sua orbita". Si fa strada dunque un'estetica della velocità. È nello stesso manifesto che si trova inoltre la ditirambica, ormai famosa affermazione: ‟Noi dichiariamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo [...]. Un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia".
Pochi anni più tardi, Duchamp e Picabia avviano contemporaneamente sulla macchina un discorso in parte diverso. Duchamp e Picabia - che seguono in questo le escogitazioni di Villiers de l'Isle-Adam, Huysmans, Jarry e Roussel - si sforzano di dimostrare la carica poetica della fusione tra il meccanico e l'organico. In un certo senso, viene ripresa la tematica degli automi del XVIII secolo: mediare tra natura e artificio. Si cerca un'ibridazione dell'atteggiamento ‛biotopo' e di quello ‛tecnotopo' (v. Celli, 1970). Ma questa volta, la chiave è quella dell'humour noir. Tramite sottili operazioni di sinonimia visiva e verbale si riesce a fantasticare sulla macchina, attribuendole una presunta fisionomia voluttuosa. Di più: una fruibilità voluttuosa. Questo è il tentativo di Duchamp in La mariée mise a nû par ses célibataires, même (1915-1923) e di tutta la serie di tableaux et dessins méchaniques (1915-1920) di Picabia.
Nel manifesto inaugurale della rivista ‟L'esprit nouveau" (1920), diretta da P. Dermé, con la strettissima collaborazione di Ch.-E. Jeanneret (Le Corbusier) e A. Ozenfant, troviamo la tendenza a includere la tematica dell'‛estetica meccanica', com'è chiamata, nel più vasto contesto del rapporto arte-produzione: ‟Nessuno nega oggi l'estetica che scaturisce dall'industria moderna. Sempre più le costruzioni industriali, le macchine, si definiscono nelle proporzioni, nei giochi dei volumi e dei materiali, così che molte di esse sono delle vere opere d'arte, perché implicano il numero, cioè l'ordine [...]. Né gli artisti né gli industriali se ne rendono sufficientemente conto: è nella produzione generale che si trova lo stile di un'epoca e non, come si crede anche troppo, in qualche rara produzione fatta a fini ornamentali, semplice aggiunta superflua a una struttura che, essa sola, ha dato vita agli stili [...]. L'aereo e la limousine sono delle creazioni pure che caratterizzano in modo chiaro lo spirito, lo stile della nostra epoca" (‟L'esprit nouveau", 1920, I; reprint, New York 1969). Per tutta la sua vita Le Corbusier resterà fedele, in linea di massima, al contenuto di questo manifesto. Egli vedrà la macchina e l'industria sempre in funzione del ‛lirismo dei tempi moderni'. Di nuovo ritroviamo l'‛emblema' di Whitman, ma anche una volontà di cambiamento globale della quotidianità', molto simile a quella dei futuristi. Tale volontà però è raggiunta in Le Corbusier tramite una tecnicizzazione dell'opera d'arte, cioè tramite un cambiamento dell'arte. Fino a oggi, egli dice in sostanza, è stato solo dalla natura (o da una natura trasfigurata dall'arte) che abbiamo preso i nostri modelli; è ora che andiamo a cercarli anche, e forse principalmente, nella tecnica. In altre parole, si tratta adesso di ispirarsi alle macchine. Ma ciò va inteso in un senso assai ristretto: ispirarsi alle macchine significa spesso, per Le Corbusier, far diventare certe proprietà formali delle macchine proprietà formali di opere di architettura, di pittura o di scultura. I futuristi italiani che, in teoria, avevano proclamato la possibilità di un cambiamento globale della quotidianità senza ricorrere all'arte, anzi rifiutandola, finiscono in pratica per assumere una posizione molto simile a quella adottata poi da Le Corbusier.
Sarà compito dei futuristi russi portare fino alle ultime conseguenze la tesi del cambiamento globale che i futuristi italiani avevano lasciato sulla carta. In Majakovskij si ritrova ancora l'emblema di Whitman: ‟Con un mazzo bianco / di rose di fiume / corre la locomotiva, / vola [...]" (V. Majakovskij, Locomotiva corre come freccia, in Opere, vol. III, Roma 1958). Ma in lui, come in altri futuristi russi che vedremo in seguito, c'è anche un altro aspetto: la ‛rivoluzione culturale' - il ‛cambiamento globale della quotidianità' dei futuristi italiani - non avviene sostituendo a una mimesi naturalista una mimesi tecnica, bensì facendo confluire la creatività artistica nella produzione socialista. Ciò che, in ultima analisi, significa un dileguamento dell'arte come atto autonomo, ‛puro'. E ancora, volatilizzazione dell'idea borghese di ‛opere d'arte', ossia di quei piccoli o grandi monumenti consacratori dell'egemonia culturale di una classe. ‟A noi - dice Majakovskij - non occorre il morto tempio dell'arte dove languiscono opere inerti, ma la fabbrica vivente dello spirito umano" (V. Majakovskij, Tempio o fabbrica?, in Opere, vol. III, Roma 1958). Negli anni 1921 e 1922 esplode all'interno del Vchutemas - l'equivalente del Bauhaus - e dell'Inchuk - l'Istituto di cultura artistica - un aperto conflitto tra i paladini dell'arte pura (chistoviki), quelli dell'arte applicata (prikladniki) e quelli dell'arte produttivista (proizvodstvenniki). Quest'ultima tendenza che, per la radicalità delle sue proposte, era considerata allora la pietra dello scandalo, aveva incominciato a configurarsi già negli anni 1918 e 1919, soprattutto per opera dei collaboratori della rivista ‟Iskusstvo kommuny" (Arte della comune). Il suo accidentato percorso è stato spesso esaminato dagli studiosi della materia (v. Ripellino, 1959; v. Gray, 1962; v. De Feo, 1963; v. Bojko, 1967 e 1975; v. Semenova, 1967; v. Abramova, 1968; v. Kraiski, 1968; v. Markov, 1968; v. Quilici, 1969; v. Danesi, 1975; v. Conio, 1975). È seguendo questo percorso che si scopre l'effettiva originalità di pensiero degli uomini che propiziavano l'‛arte produttivista'. Majakovskij era fra questi, con O. Brik, A. Gan e B. I. Arvatov. Fu Brik il primo, a nostra conoscenza, a introdurre in questo ambito la nozione - oggi attualissima - di ‛cultura materiale': ‟Fabbriche, stabilimenti, laboratori, attendono la venuta degli artisti, che devono offrire modelli di oggetti nuovi, mai visti prima. Gli operai sono stanchi di rifare sempre gli stessi oggetti, permeati dello spirito borghese. Vogliono oggetti nuovi [...]. Occorre organizzare immediatamente istituti di cultura materiale, per dar modo agli artisti di prepararsi a creare nuovi oggetti di uso quotidiano per il proletariato, a elaborare i tipi di questi oggetti, di queste future opere d'arte" (O. Brik, Il drenaggio dell'arte, 1918, in Le poetiche russe del Novecento, a cura di G. Kraiski, Bari 1968, pp. 174-175). In questo testo, pubblicato originariamente in ‟Iskusstvo kommuny", Brik ha la sorprendente intuizione che la tipologia degli oggetti ereditata dal capitalismo può e deve essere radicalmente mutata. Egli ritiene impensabile la rivoluzione della vita quotidiana senza la rivoluzione della cultura materiale ; anche se, stranamente, continua a parlare dei nuovi prodotti in termini di ‛opere d'arte'. Ancor più radicale, almeno su questo punto, è la posizione di Gan: ‟Morte all'arte. Essa naturalmente è nata / naturalmente si è sviluppata / naturalmente è sul punto di scomparire / I marxisti debbono darsi da fare per spiegare scientificamente la morte dell'arte e formulare i nuovi fenomeni del lavoro artistico nel nuovo ambiente storico del nostro tempo" (A. Gan, Il costruttivismo, 1920-1922 in L'architettura del costruttivismo, a cura di V. Quilici, Bari 1969, p. 225).
Ma l'ambizioso programma (o, meglio, progetto) di ‛rivoluzione culturale', come l'avevano concepita uomini quali Majakovskij, Brik, Gan e Arvatov, non ha avuto riscontro nella realtà. In ultima analisi, questa è stata la più dura e umiliante sconfitta dell'avanguardia storica russa - e non solo russa. Benché gli storici non siano ancora d'accordo sulle cause dell'accaduto, è ovvio che le teorie allora formulate si dimostrano particolarmente utili per i problemi che oggi noi dobbiamo affrontare. Alludiamo soprattutto a quelli connessi con la crisi della cultura materiale nel tardo capitalismo, ultimamente resa più acuta dalla crisi ambientale.
i) Il dibattito sul rapporto produttività-prodotto
Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, e più precisamente dal 1907 al 1914, il problema della produttività industriale è affrontato in Germania in termini di razionalizzazione e tipizzazione degli oggetti destinati alla produzione in serie. Ricordiamo che negli Stati Uniti, in quegli stessi anni, l'impostazione era invece alquanto diversa. La produttività industriale era considerata un problema riguardante la ‛totalità' del processo produttivo, inteso come un sistema di rapporti causali tra l'organizzazione scientifica del lavoro in fabbrica e la configurazione formale del prodotto. H. Ford, per esempio, studia la catena di montaggio in funzione del modello ‛T', e viceversa.
In Germania, dunque, si riscontra in quella prima fase un approccio non sistemico al processo di produzione, caratterizzato soprattutto dalla tendenza a isolare il problema della ‛forma' del prodotto. E ciò spiega perché il dibattito sulla razionalizzazione e tipizzazione si presentasse in Germania soprattutto come un dibattito sull'aspetto esteriore degli oggetti d'uso e in particolare sull'influenza degli stili decorativi allora di moda rispetto alle esigenze della produttività.
Nel 1907 H. Muthesius pronuncia alla Scuola Superiore di Commercio di Berlino la famosa conferenza sul tema Die Bedeutung des Kunstgewerbes (L'importanza dell'arte applicata), che è una durissima presa di posizione al riguardo. In quegli anni infatti il Kunstgewerbe tedesco seguiva ancora le aberranti modalità formali degli stili decorativi ereditati dalla tradizione di gusto dell'era vittoriana: il neoegizio, il neogreco, il neogotico, il neorinascimentale, il neocinese. ‟Surrogati e imitazioni festeggiano il proprio trionfo", constatava Muthesius sarcasticamente.
Ma come mai la società guglielmina restava ostinatamente attaccata a una tale tradizione di gusto? Secondo Muthesius la spiegazione andava ricercata nei ‟pretenziosi atteggiamenti da parvenu" di un particolare ceto sociale, quello dei ‟borghesi meglio situati", ossessionati dal desiderio di ‟apparire di più". Così egli riprendeva, probabilmente senza averne avuto notizia, il tema di The theory of the leisure class (1899) di T. Veblen: la pubblicizzazione della ricchezza tramite l'acquisto ostentato di oggetti costosi - ciò che Veblen aveva chiamato la ‟conspicuous consumption". Notiamo dunque che in Muthesius, come in Veblen, gli oggetti costosi sono visti sotto una nuova luce: come agenti della dinamica classista della società. Ma il vero grande merito di Muthesius è di essere andato oltre un'interpretazione socio-culturale di questi oggetti, cioè di averne esaminato anche le possibili implicazioni economico-produttive. ‟Con il lavoro che essi richiedono - osserva nella stessa conferenza del 1907 - la materia prima non è utilizzata come si dovrebbe, e quindi si spreca innanzitutto un colossale patrimonio nazionale in materia prima, e inoltre si ha un lavoro aggiunto inutile" (v. Muthesius, 1964). Un anno più tardi A. Loos utilizzerà quasi lo stesso argomento per negare legittimità a ogni oggetto provvisto di ornamento: ‟L'ornamento è forza-lavoro sprecata, e quindi salute sprecata. È sempre stato così. Oggi ciò significa però anche materiale sprecato e in definitiva capitale sprecato" (v. Loos, 1964, p. 19).
La conferenza di Muthesius a Berlino provocò, com'era da aspettarsi, una durissima reazione da parte di molti industriali e artisti che difendevano proprio il tipo di Kunstgewerbe denunciato da Muthesius. Ma molti altri presero partito per lui. Per esempio, l'industriale P. Bruckman, il rappresentante delle Dresdner Werkstätten, W. Dohrn, lo scrittore e critico J. A. Lux. Atteggiamenti molto simili a quello di Muthesius adottarono anche gli architetti e artisti P. Behrens, R. Riemerschmid, J. Olbrich, J. Hoffmann, Th. Fischer, F. Schumacher, W. Kreis.
La formazione di tale schieramento contribuirà alla nascita, nell'ottobre del 1907 a Monaco, del Deutscher Werk- bund (v. Bruckmann, 1969; v. Heuss, 1958 e 1959; v. Eck- stein, 1958; v. Müller, 1974), una nuova associazione la cui finalità consiste, secondo quanto è dichiarato dai suoi statuti, nel ‟nobilitare il lavoro industriale (o professionale o artigianale) - gewerbliche Arbeit - in una collaborazione di arte, industria e artigianato tramite l'istruzione, la propaganda e una ferma e compatta presa di posizione di fronte alle questioni relative".
Tuttavia il Werkbund non avrà la compattezza che l'originaria adesione a Muthesius avrebbe potuto far pensare. Non pochi dei suoi membri, infatti, ritenevano errato mettere globalmente in questione l'ornamento. Il problema, dicevano, non è tanto di rifiutare l'ornamento, quanto di sostituire quello ‛immorale' degli stili tradizionali con quello ‛morale' dello ‛stile moderno'. Era il punto di vista già sostenuto da H. van de Velde nel 1901, nel suo libro Die Renaissance im modernen Kunstgewerbe. Nella difesa dell'ornamento - o perlomeno, dell'ornamento giudicato ‛morale' - c'era in forma embrionale la posizione che lo stesso van de Velde, in aperto contrasto con Muthesius, avrebbe adottato al Congresso del Werkbund del 1914 a Colonia. In quell'occasione, in nome della ‟libertà creativa dell'artista", van de Velde rifiuterà la tesi di Muthesius sulla razionalizzazione e tipizzazione, che in ultima analisi veniva a mettere sotto accusa, ancora una volta, ogni forma stilistica superflua, sia di stampo ‛immorale' che ‛morale' (v. Maldonado, 1962). Non si deve dimenticare che, già un anno prima (1913), nel suo articolo Werkbund und Handel, il politico liberale di sinistra F. Naumann aveva sottolineato il pericolo insito nel rifiuto di ogni norma che cerchi di disciplinare la dinamica produttiva: ‟Il cambiamento - scriveva - può avere sempre qualcosa di artistico. Ma si deve avere misura, perché altrimenti, per l'uomo e la donna che hanno pochi mezzi, si produrranno sempre solo merci di scambio. Di fronte a un orientamento che ha dato troppo facilmente spazio alle variazioni, il Werkbund deve favorire una solida durevolezza e deve coinvolgere anche il commerciante, invitandolo a dare il suo aiuto" (v. Naumann, 1913, p. 11). Il conflitto tra permanenza (Konstanz) e mutamento (Veränderung) sarà sempre ricorrente nello sviluppo del Werkbund. Riapparirà, per esempio, ancora quarant'anni dopo nel convegno del Werkbund svizzero (v. Bill, 1954).
Si sbaglierebbe però chi volesse vedere in questo dibattito solo una querelle d'artistes, solo un conflitto tra i seguaci dell'‛ordine' e quelli dell'‛avventura', tra i seguaci della ‛norma' e quelli della ‛libertà'. Insomma, tra classici e romantici. Consapevolmente o meno i suoi protagonisti avevano sfiorato il problema fondamentale del capitalismo moderno: deve la produzione industriale puntare alla disciplina o alla turbolenza del mercato? Deve orientarsi a una strategia di approfondimento controllato o di espansione incontrollata? A una strategia di pochi o di molti modelli di prodotti? (v. Villiger, 1957; v. Tintori, 1964; v. Cacciari, 1973; v. Tafuri, 1973).
Anche se la posizione di Muthesius era più sfumata di quanto comunemente si suppone (v. Posener, 1964 e 1975), essa corrisponde in linea di massima alla prima alternativa. La posizione di van de Velde invece si avvicina più alla seconda e questo, bisogna dirlo, non perché abbia avuto un'esplicita preferenza per una determinata strategia della produzione capitalistica - ciò che invece avveniva per Muthesius - ma perché tenne sempre un atteggiamento di polemico rifiuto nei confronti di ogni proposta d'intervento normativo sulla forma degli oggetti. Certo, questo è vero solo rispetto al van de Velde delle Gegen-Leitsätze del 1914, e non rispetto a quello di Das Neue: weshalb immer Neues del 1929.
Dobbiamo ricordare, a questo punto, che la caratteristica più distintiva del capitalismo tedesco (ed europeo in generale) nei primi venticinque anni di questo secolo è stato il suo avanzamento erratico, oscillante, pendolare, tra un'alternativa e l'altra. Il fenomeno si spiega, almeno in parte, col fatto che, a differenza di quanto è accaduto negli Stati Uniti, nè l'una nè l'altra alternativa è mai stata trattata in termini economici, bensì inserita sempre in un discorso vagamente ‛culturale', di tedesco Wille zur Kultur. Insomma: un discorso in cui i problemi del ‛regno dell'industria' erano sempre affrontati come problemi del ‛regno dello spirito'. Così i contrasti tra le due alternative risultavano ammorbiditi, e i rispettivi ruoli, alfine, diventavano intercambiabili. Ciò risulta evidente quando si esamina, per esempio, l'itinerario percorso dalla corrente di pensiero che, in Europa, ha dato il suo supporto alla prima alternativa e che potrebbe essere considerata, senza dimenticare le riserve già fatte, una variante europea del produttivismo americano.
In Germania un rappresentante di essa è certamente Muthesius. Ma non è l'unico. Accanto a lui dobbiamo riservare un posto preminente a W. Rathenau, dal 1915 presidente della AEG (Aligemeine Elektrizitäts-Gesellschaft) e, dal 1921 fino a quando fu assassinato, ministro della Repubblica di Weimar. Nel suo libro Zur Kritik der Zeit (1911), Rathenau esemplifica meglio di chiunque altro il modo ambiguo in cui l'ideologia del produttivismo si presenta in Europa. Si tratta di un fordismo che, in fondo, non vuole essere tale, che avanza una proposta e subito la ritira, che allo stesso tempo celebra e denuncia il produttivismo. Un fordismo con cattiva coscienza.
In questa stessa linea di Rathenau dobbiamo situare anche P. Behrens, considerato per i suoi lavori per la AEG (1907) il primo disegnatore industriale (v. Kaufmann jr., 1960; v. Muller, 1974). Va ricordata, a questo proposito, la sua conferenza Kunst und Technik (v. Behrens, 1910) al Congresso degli ingegneri elettrotecnici a Braunschweig. Probabilmente in polemica con J. A. Lux, autore del saggio Ingenieur-Ästhetik (1910), Behrens esamina il rapporto spesso conflittuale tra le esigenze estetico-espressive dell'artista e quelle tecnico-funzionali dell'ingegnere. Da un lato critica severamente la pretesa di certi artisti degli anni novanta - forse allude a taluni dei suoi amici della Münchner Secession (1893) e della Wiener Secession (1897) - di creare un ‛nuovo stile' partendo esclusivamente da un'estetica di stampo individualistico, senza tener assolutamente conto dei vincoli della tecnica e della produzione; dall'altro, seguendo la traccia della critica di A. Riegi in Spätrömische Kunstindustrie (1901), Behrens rifiuta esplicitamente la tesi di G. Semper secondo la quale il ‟nuovo stile" - o lo stile tout court - dei ‟prodotti tecnici" potrebbe nascere soltanto dalla funzione e dalla materia (v. Semper, 1860; v. Quitzsch, 1962; v. Bologna, 1972). L'ideale di Behrens è di poter fondere (verschmelzen) arte e tecnica in una sola realtà. E su questa proposta non ci sarebbe nulla da obiettare, se per fusione egli non intendesse una subordinazione della tecnica all'arte: ‟La tecnica - osserva Behrens - non può essere intesa a lungo come finalità in se stessa, bensì acquista valore e significato quando la si riconosce come il mezzo più adeguato di una cultura" (v. Behrens, 1910, p. 553). È difficile però seguirlo ancora nella conclusione: ‟Eppure una cultura matura parla solo con il linguaggio dell'arte" - ciò che, in pratica, significa riproporre l'artista come ultimo (e inappellabile) giudice della produzione della cultura materiale. Ma il testo di Behrens straripa di tali sconcertanti, brusche inversioni di tendenza. Così l'intendimento ora menzionato, che ricorda quello di van de Velde, è subito abbandonato per far posto a un altro, molto simile a quello di Muthesius sulla razionalizzazione e tipizzazione: ‟Si tratta qui di stabilire dei tipi per ogni singolo prodotto, costruiti in modo pulito (sauber) e rispettando il materiale usato (materialgerechtig) e senza la pretesa di voler creare delle stupefacenti forme nuove" (ibid., p. 554). Ciò non impedisce a Behrens, un poco oltre, di riproporre l'ornamento persino negli apparecchi tecnici, a condizione - dice - che siano ornamenti ‟geometrici", ‟impersonali".
Come si vede, i rappresentanti di ciò che, per brevità, abbiamo chiamato fordismo tedesco (o europeo) sono molto lontani dall'essere conseguenti. E ciò è ancora più evidente quando confrontiamo le loro formulazioni teoriche con quelle decisamente più coerenti e articolate di Ford stesso. ‟Se il piano costruttivo di un articolo - scrive Ford - è stato ben studiato, i cambiamenti saranno molto rari e si verificheranno solo nelle grosse parti di giunzione; nel processo di produzione, invece, i cambiamenti saranno assai frequenti e del tutto spontanei [...]. I miei soci non erano convinti che le nostre automobili avrebbero anche potuto essere limitate a un solo modello. L'industria automobilistica aveva scelto come paragone l'industria delle biciclette, in cui ogni produttore si sentiva in dovere di far uscire ogni anno un modello nuovo, diverso da quelli precedenti, in modo che chi possedeva un modello vecchio desiderasse cambiarlo con uno nuovo. Questo era ciò che si riteneva una buona gestione aziendale. È la stessa norma che seguono le donne a proposito di vestiti e cappelli. L'idea non nasce dal desiderio di prestare un servizio, ma dal desiderio di creare qualcosa di nuovo, non qualcosa di meglio [...]. È mio vanto che ogni pezzo, ogni articolo che produco sia lavorato bene, e sia robusto, e che nessuno debba trovarsi nella necessità di sostituirlo. Ogni buona automobile dovrebbe durare quanto un buon orologio [...]. Ogni giorno, in passato, accarezzavo l'idea di un modello universale" (H. Ford, My life and work, Garden City 1922, pp. 49-65).
Non meno esplicito è in To-day and to-morrow sul rapporto utilità-bellezza: ‟La domanda è questa: è meglio sacrificare l'artisticità all'utilità, oppure l'utilità alla bellezza? Quale sarebbe ad esempio la funzione di una teiera, dove il beccuccio, per un intervento artistico, non consentisse di versare il tè? O quella di una vanga, il cui manico riccamente ornato ferisse la mano di chi la usa? [...]. Se volessimo fare un'automobile su un disegno egizio, ciò non avrebbe nulla a che vedere con l'arte. Non sarebbe arte, solo un'idiozia. Un'automobile è un prodotto moderno, e deve essere costruita non per rappresentare qualcosa, ma per poter prestare il servizio per cui è prevista" (H. Ford, To-day and to-morrow, Garden City 1926, p. 87).
Chiunque guardi lo sviluppo della produzione capitalistica dal 1930 in poi, potrà constatare che il fordismo non è stato una carta vincente. Semmai il contrario. Dov'è andata a finire, per esempio, la filosofia fordiana del prodotto, cioè l'idea del prodotto come oggetto così studiato e costruito che ‟nessuno debba trovarsi nella necessità di doverlo sostituire"? Dove il suo rifiuto della caducità annuale dei modelli? Dove l'importanza attribuita ai fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-produttivi? Dove la sua difesa dell'utilità e della funzione, contro l'invadente decorativismo? Dove il suo sogno di un modello universale?
Le ragioni sono molte, ma la più importante va ricercata nella crisi economica che ebbe inizio nel 1929 e che culminò nel 1932 con dodici milioni di disoccupati. Non è necessario ricordare qui come la grande depressione abbia sconvolto lo sviluppo del capitalismo americano - e non solo americano. L'argomento è già stato ampiamente trattato negli ultimi decenni, soprattutto da economisti, storici e sociologi. C'è un aspetto però che è stato finora piuttosto trascurato. A nostro avviso, ben pochi studi hanno dato una risposta convincente a una questione qui fondamentale: come (e per quale motivo) la crisi ha costretto la grande industria ad abbandonare proprio quelle ‛modalità d'azione' che tanta influenza avrebbero esercitato sull'avviamento, e sull'ulteriore consolidamento, del welfare capitalism degli anni trenta. La riteniamo qui fondamentale, perché, tra le tante ‛massime d'azione' ripudiate, si trovano quelle che svolgono un ruolo basilare nella dottrina produttivistica di Ford; in particolare quelle che, lo abbiamo visto, investono direttamente il problema della configurazione formale del prodotto. Indubbiamente il fordismo ha contribuito alla prosperità degli anni venti, ma questa stessa prosperità ha finito per rivoltarglisi contro. Nel 1920 infatti, si registra già una tendenza alla flessione delle vendite del modello ‛T' della Ford, incapace di affermarsi nei confronti dei modelli della General Motors più attraenti, anche se più costosi. La tendenza si consoliderà negli anni successivi e diventerà un fenomeno generalizzato. Tutti coloro che, come Ford, insisteranno nella ricerca di una maggiore produttività, non potranno resistere al ritmo imposto dalla concorrenza, specialmente se i loro prodotti non corrisponderanno più ai gusti del pubblico (J. K. Galbraith, The affluent society, Boston 1958). Solitamente il fenomeno si spiega col fatto che ‟nell'euforia della prosperità si ha meno interesse per il prezzo che per lo stile e il comfort" (W. F. Leuchtenberg, The perils of prosperity, Chicago 1958). Ma allora, se questo è il motivo, perché la crisi del 1929 apre la strada al rafforzamento, invece che all'indebolimento dell'approccio antifordista? Una cosa è certa: mentre prima della crisi l'industria americana, nel settore delle automobili e degli elettrodo- mestici, risulta prevalentemente orientata verso una politica di pochi modelli per una lunga durata, dopo la crisi si orienta verso una politica di molti modelli per una breve durata. E ancora, mentre prima della crisi la forma dei prodotti è concepita rispettando le esigenze della semplicità costruttiva e funzionale, dopo la crisi avviene tutto il contrario. Si tratta, in ultima analisi, della nascita dello styling, cioè di quella modalità di disegno industriale che cerca di rendere il prodotto superficialmente attraente, a scapito spesso della sua qualità e convenienza; che favorisce la sua obsolescenza artificiale invece della sua prolungata fruizione e utilizzazione. Tutto sommato, un programma di spreco per una società che in quel preciso momento nulla aveva (o poco) da sprecare. Ciò che può sembrare paradossale, e di fatto lo è. Questo però non deve trarre in inganno: il capitalismo è capace di far innestare la logica, la sua logica, nelle situazioni più paradossali. Beninteso, lo styling costituisce una bizzarra risposta alla crisi, ma una risposta, si badi bene, molto coerente con i presupposti di una particolare strategia competitiva. Alludiamo a quella strategia che ha consentito di passare dal capitalismo tradizionale concorrenziale all'attuale capitalismo monopolistico; da una strategia che punta alla riduzione del prezzo a quella che si basa sulla promozione del prodotto. In questo contesto lo styling appare come uno dei principali espedienti della promozione delle vendite, e indirettamente assume il ruolo di ‟centro nervoso" di quel ‟gigantesco sistema d'inganno e di speculazione" che è il capitalismo monopolistico. In breve: uno degli agenti più attivi del ‟metabolismo basale" di questo sistema (P. M. Sweezy e P. A. Baran, Monopoly capital. An essay on the American economy and social order, New York 1966). Non è dunque un caso che i tre grandi pionieri dello styling americano abbiano incominciato la loro attività professionale proprio nei primi anni della crisi. Alludiamo a H. Dreyfuss, W. D. Teague e R. Loewy (v. Busch, 1975; v. Arceneaux, 1975). Rammentando questo periodo, Dreyfuss scrive: ‟Erano gli anni della depressione, l'inizio degli anni trenta, quando la paralisi economica afferrò il paese. I prodotti industriali assolvevano il compito per il quale erano stati intesi, ma uscivano dalle catene di produzione con una stagnante monotonia. Quando gli affari andarono a picco, le varie aziende incominciarono la concorrenza dei prezzi. Ma intanto alcuni industriali più avveduti erano riusciti a capire che, per risolvere il loro problema, si doveva perfezionare il servizio dei prodotti, renderli più convenienti per il consumatore e allo stesso tempo migliorarne l'aspetto" (v. Dreyfuss, 1955, p. 18).
Taluni hanno difeso lo styling come espressione di autentica creatività popolare (v. Banham, 1955). Altri hanno preferito creare un collegamento con la problematica del Kitsch. Entrambe queste interpretazioni sono state a loro volta sottoposte a critica. Alla prima si è imputata una certa ingenuità di giudizio nel considerare lo styling - sofisticata elaborazione degli appositi uffici della grande industria - una testimonianza di creatività popolare (v. Maldonado, 1958). Alla seconda, una certa superficialità di esame nello stabilire un legame che ignora la complessità socio-culturale della problematica del Kitsch (v. Dorfies, 1958 e 1968; v. Wahl, 1966; v. Wahl e Moles, 1969; v. kitsch). Ma entrambe hanno la stessa motivazione: lo sprezzante rifiuto del repertorio di forme cui hanno dato origine la razionalizzazione e la tipizzazione, cioè tutte quelle forme caratterizzate da una ‛stagnante monotonia', forme glacialmente ascetiche, spurgate da ogni contaminazione espressiva o decorativa. In realtà, siamo qui di fronte a una rivolta contro il peccato originale dell'ordinamento capitalistico: il rigorismo ascetico dell'etica protestante (M. Weber, Die protestantische Ethik und der ‛Geist' des Kapitalismus, in ‟Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik", 1905, XX, pp. 1-54; 1905, XXI, pp. 1-110).
Il fordismo aveva fatto subentrare il puritanesimo nel lavoro e nella vita del lavoratore (si vedano a questo proposito le osservazioni di Gramsci sul fordismo). Infatti, l'organizzazione scientifica del lavoro e il controllo della vita privata del lavoratore avevano contribuito, per così dire, ad ammaestrare l'operaio, trasformandolo nel famoso ‛gorilla ammaestrato' di Taylor. Ma anche il prodotto del lavoro risente di questa influenza: al ‛gorilla ammaestrato' corrisponde il ‛prodotto ammaestrato'. All'ascetismo nel lavoro e nella vita del lavoratore corrisponde l'ascetismo nella forma dei beni prodotti. Ma se il ‛gorilla ammaestrato', almeno nel lavoro, può sempre essere utile, il ‛prodotto ammaestrato' è divenuto un ostacolo per le nuove esigenze del capitalismo monopolistico. Quest'ultimo ha bisogno ora dell'irrazionalità del mercato e non, come prima, della sua razionalità. La conseguenza della nuova strategia è il ‛prodotto irrazionale', cioè il prodotto capace d'impegnare - tanto nella fase di concezione, quanto in quella di produzione, quanto in quella di distribuzione - la maggior quantità di lavoro improduttivo possibile.
Il tema è in strettissimo rapporto con l'altro, oggi assai dibattuto, relativo al destino del ‛funzionalismo' nel disegno industriale, nell'architettura e nell'urbanistica. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che già W. Benjamin, in Erfahrung und Armut, aveva ravvisato nella razionalizzazione e nella tipizzazione una ‛nuova povertà' (neue Armseligkeit), e l'esempio concreto da lui individuato, accanto alla Glasarchitektur di P. Scheerbart, era il riduzionismo estetico, il proibizionismo formale di A. Loos. E la scelta non era errata, perché Loos è sempre stato considerato l'architetto della tabula rasa (v. Kraus, 1912), persino l'architetto del ‛calvinismo' (v. Zevi, 1955). Sulla traccia di Benjamin, anche Th. W. Adorno riprende in Funktionalismus heute (1966) l'argomento delle radici puritane del pensiero di Loos e del funzionalismo in genere. È partendo da questi rilievi critici, e da altri ancora, che dilaga oggi la tendenza a condannare in blocco il funzionalismo. Tacitamente o dichiaratamente, è il produttivismo che si vuole condannare. La tematica è certo troppo ricca di spunti per poterla discutere esaurientemente in questa sede. Eppure una cosa possiamo dire: l'unica scelta possibile non può essere, come si pretende, tra la ‛nuova povertà' del funzionalismo e la ‛vecchia ricchezza' dello styling, tra il design e l'anti-design, tra l'‛oggetto razionale' e l'‛oggetto irrazionale'.
l) L'influenza del Bauhaus
È doveroso innanzitutto introdurre alcuni dati essenziali riguardanti il Bauhaus, le sue origini, i suoi sviluppi, i suoi protagonisti. Lo Staatliches Bauhaus in Weimar - per brevità, il Bauhaus - nasce nel 1919 dalla fusione di due preesistenti istituti d'insegnamento del Granducato di Sassonia-Weimar-Eisenach: la Grossherzogliche Hochschule für bildende Kunst (Scuola Superiore di Belle Arti) e la Grossherzogliche Kunstgewerbeschule (Scuola di Arte Applicata), ambedue a Weimar. Questa seconda scuola era stata fondata da H. van de Velde nel 1906, ed era a sua volta emanazione diretta del Kunstgewerbliches Seminar (Seminario di Arte Applicata), creato per iniziativa dello stesso van de Velde nel 1903. Su proposta di quest'ultimo, sarà affidata a W. Gropius la carica di direttore del Bauhaus, che egli terrà fino al 1928. H. Meyer sarà direttore dal 1928 al 1930; L. Mies van der Rohe dal 1930 alla chiusura definitiva dell'istituto, nel 1933. Di solito, la storia del Bauhaus è suddivisa in tre periodi, che corrispondono ai tre diversi direttori; oppure secondo le tre diverse città in cui ebbe sede: Weimar (1919-1924), Dessau (1925-1930) e Berlino-Steglitz (1930-1933). Il periodo della direzione di Gropius è spesso suddiviso a sua volta in due fasi: la fase Itten, che va dal 1919 al 1923, e la fase dopo Itten, che va dal 1923 al 1928. J. Itten viene chiamato al Bauhaus come Meister nel 1919. Egli rappresentava la tendenza mistico-espressionistica, che ebbe una forte influenza sullo sviluppo della didattica del Bauhaus, soprattutto nei primi anni. Nel 1923, per le sue divergenze con Gropius, Itten sarà tuttavia costretto a lasciare l'istituto. Lo sostituirà L. Moholy-Nagy, il cui approccio alla didattica, pur restando fedele all'impostazione attivistica di Itten, sarà fortemente influenzato dall'estetica del costruttivismo. A rinforzare ancora questo nuovo orientamento gli si affiancherà J. Albers, allievo del Bauhaus, promosso Meister in quello stesso 1923. Nel 1926 si deciderà di completare il nome dell'istituto con l'aggiunta Hochschule für Gestaltung (Scuola Superiore di Progettazione); per precisarne meglio il compito fondamentale. Fin qui i dati essenziali (v. Gropius, 1919; v. Hoffmann, 1953; v. Zevi, 1953; v. Curjel, 1955; v. Wingler, 1962; v. Pazitnov, 1963; v. Adler, 1963; v. Delevoy, 1963; v. Lang, 1965; v. Benevolo, 1966; v. Scheidig, 1966; v. Grote, 1968; v. Neumann, 1970; v. Franciscono, 1971; v. Rotzler, 1972).
Il contributo del Bauhaus al disegno industriale non può essere trattato, come si fa solitamente, senza tener conto delle particolari condizioni socio-economiche e culturali della Germania ‛prima' e ‛durante' la Repubblica di Weimar. Non a caso la Repubblica di Weimar e il Bauhaus hanno la stessa data (e luogo) di nascita, e la stessa data di sparizione (1933). Anche la loro periodizzazione presenta un parallelismo sorprendente e a mala pena si resiste alla tentazione di stabilire un rapporto causale tra i due sviluppi. Le tre fasi del Bauhaus: 1919-1924, Weimar: tardo-espressionismo e il suo conflitto con il nascente razionalismo; 1925-1930, Dessau: la speranza razionalistica e il suo conflitto con i residui della fase precedente; 1930-1932, Dessau-Berlino: il razionalismo e il suo conflitto con un nuovo irrazionalismo. Le tre fasi della Germania: 1919-1924: il caos, la disoccupazione, l'assassinio politico; 1925-1929/1930: la prosperità ingannevole del piano Dawes, dei crediti internazionali e della razionalizzazione industriale; 1930-1933: di nuovo il caos, la disoccupazione e l'assassinio politico. Ma il Bauhaus non si limitò a riflettere gli alti e bassi della realtà: cercò anche di mutarla. Quando si voleva eternare il caos, il Bauhaus rivendicò, con Gropius, l'ordine. Quando più tardi si cercò di eternare l'ordine vacillante e oppressivo della razionalizzazione industriale, il Bauhaus, con Meyer, si adoperò per dare a questa razionalizzazione un contenuto sociale (v. Maldonado, 1963; v. Brenner, 1963; v. Schnaidt, 1965; v. Borsi e Koenig, 1967; v. Miller-Lane, 1968; v. Sabais, 1968; v. Collotti, 1970; v. Kröll, 1974). Ma per una valutazione corretta del contributo del Bauhaus al disegno industriale lo abbiamo già segnalato - è indispensabile esaminare anche quanto è accaduto ‛prima' dell'avvento della Repubblica di Weimar. Ciò che, in pratica, ci riporta al tema attorno al quale ruota tutta la problematica del rapporto arte-industria, cultura-produzione, nei due decenni che precedono la Repubblica di Weimar. E cioè il tema poc'anzi discusso del fordismo, della produttività, della razionalizzazione e tipizzazione. La prima domanda che si pone è in quale misura il dibattito di allora abbia condizionato, più o meno direttamente, l'ulteriore itinerario percorso dal Bauhaus. La risposta va ricercata soprattutto nella posizione che lo stesso Gropius, il principale protagonista del Bauhaus, aveva adottato nel dibattito di quegli anni. Non si deve dimenticare che, sin dall'inizio, egli risultava molto legato a Behrens, e pertanto alla corrente che, con le contraddizioni che abbiamo riscontrato, era alla ricerca di una mediazione ‛culturale' nei confronti dell'industria. Dal 1907 al 1910 Gropius collaborò come assistente-capo nell'ufficio di Behrens, proprio nel periodo in cui vi si realizzarono i primi lavori per la AEG ‟Fu Behrens - ricorda Gropius - che m'introdusse per primo alla trattazione sistematica dei problemi architettonici. Durante il periodo in cui collaborai ai suoi importanti lavori e nel corso di numerosi colloqui con lui e con altre importanti personalità del Deutscher Werkbund, mi formai la mia propria opinione sull'edilizia e sui compiti fondamentali dell'architettura" (v. Gropius, 1965, p. 20). Non è difficile immaginare che, in un certo senso, il giovane Gropius avesse una ‛propria opinione' molto più rigida, più esplicita, insomma più polemica di quella sostenuta dal suo maestro. A questo riguardo risulta interessante analizzare il Programm zur Gründung einer allgemeinen Hausbaugesellschaft auf künstlerisch einheitlkher Grundlage (Programma per la fondazione di una società generale di costruzioni su una base artistica unitaria), reso noto solo nel 1962, che Gropius presenta nel 1910, forse con la mediazione di Behrens stesso, al presidente della AEG, E. Rathenau, padre di Walther. In questo testo Gropius espone quasi con gioioso ottimismo imprenditoriale le sue idee per una società di progettazione integrale per l'edilizia. Le sue riflessioni appaiono sprovviste di qualsiasi retorica ‛culturale': è il linguaggio volutamente crudo, sferzante, molto business-like, di chi vuole persuadere un grande capitano d'industria. E per questa ragione il documento è di eccezionale interesse: ‟La nuova impresa prospettata - dice Gropius - unificherà, attraverso l'idea dell'industrializzazione, il lavoro artistico dell'architetto e quello economico dell'imprenditore [...]. Anche il nostro tempo, dopo un triste interregno, ritorna verso un proprio stile, che rispetta la tradizione e si oppone al falso romanticismo. Funzionalità e solidità guadagnano nuovamente terreno" (v. Gropius, Programm zur..., 1962, p. 27). La sua è dunque un'esplicita adesione alla corrente della razionalizzazione e tipizzazione, e non meno chiaro emerge il suo modo d'intendere il rapporto tra cultura e produzione. Eppure Gropius non tarderà ad adeguarsi a una dizione evanescente, fumosa, satura di equivoci idealistici di ogni genere. Non bisogna dimenticare che erano quelli gli anni in cui il contemporaneo espressionismo tedesco trovava il suo riscontro nel vitalismo filosofico. E per vitalismo filosofico intendiamo non solo la ‛filosofia della vita' di W. Dilthey, ma anche le forme più deteriori di questa corrente, come quella rappresentata dal proto-nazista H. S. Chamberlain e da L. Klages. L'idea che la Zivilisation soffoca la Kultur la si deve a Chamberlain; quella che il Geist (spirito, intelletto) soffoca la Seele (anima), la si deve a Klages. Questa tematica è ripresa da tutti gli esponenti della tendenza ‛produttivistica': da Muthesius, Rathenau, Behrens (che addirittura cita spesso Chamberlain), e infine anche da Gropius.
In Die Entwicklung moderner Industriebaukunst (Lo sviluppo della moderna architettura industriale) del 1913, Gropius scrive: ‟L'artista possiede la capacità di insufflare un'anima nel prodotto inanimato della macchina; la sua forza creatrice continua a vivere come fenomeno vitale. La sua partecipazione non è dunque un lusso, o un'aggiunta benevola, ma deve diventare parte fondamentale, essenziale, del processo generale dell'industria moderna" (v. Gropius, 1913, p. 18). La componente vitalistico-espressionista prenderà sempre più forza nello stile espositivo di Gropius. La verità è che nella Germania di allora era difficile per un intellettuale resistere all'influsso di una corrente che, come l'espressionismo, veniva a riproporre uno dei temi più cari del vecchio romanticismo tedesco: il ‛sentimento della vita' (das Lebensgefühl). Neppure coloro che militavano nelle correnti opposte all'espressionismo, come era il caso di Gropius, volevano sentirsi esclusi dalla ‛rivoluzione espressionista'. Non sapevano ancora che si trattava solo di una ‛piccola rivoluzione tedesca'. Negli scritti di Gropius che precedono la prima guerra mondiale, a eccezione del Programm, troviamo la stessa ambiguità già rilevata nel testo di Behrens Kunst und Technik: l'ambiguità di difendere la razionalizzazione e la tipizzazione valendosi di categorie prese a prestito dall'estetica vitalistico-espressionistica. Un esempio ne è l'articolo Der stilbildende Wert industrieller Bauformen (Il valore stilistico-formativo della costruzione industriale), dove si legge: ‟Il problema fondamentale della forma era diventato un concetto sconosciuto. Al crasso materialismo corrispondeva in pieno la sopravvalutazione del materiale e della funzione nell'opera d'arte. Per la buccia si trascurava il nocciolo. Ma anche se oggi si continua ad avere una visione materialistica della vita, sono però già riconoscibili gli inizi di una decisa e univoca volontà di cultura. Nella misura in cui le idee del nostro tempo incominciano a superare il materialismo, si fa strada anche in arte la nostalgia per una forma univoca, per uno stile da ricreare. Gli uomini hanno capito che la volontà di forma è ciò che dà valore all'opera d'arte" (v. Gropius, 1914, p. 29).
Si è creduto di vedere nel Manifesto inaugurale del Bauhaus (1919) una frattura con gli scritti precedenti di Gropius (v. Banham, 1960; v. Maldonado, 1963 e 1964). Certo, il Manifesto è un testo espressionista, e anche molte altre cose: un testo arts and crafts, un testo corporativistico-medievaleggiante; addirittura, forse, un testo d'ispirazione massonica (v. Pehnt, 1973; v. Fagiolo, 1974). Non tutti gli storici però sono d'accordo che si tratti di una vera e propria frattura (v. Lindahl, 1959; v. Franciscono, 1971; v. Koenig, 1967). A questo proposito, è interessante soprattutto il rilievo di Franciscono sulla conferenza Baugeist oder Krämertum, tenuta da Gropius a Lipsia nel 1919 (v. Gropius, 1919). Con ragione, egli vede in questo contributo, più che in qualsiasi altro della stessa epoca, un tentativo da parte di Gropius di dimostrare la continuità tra le sue vecchie idee e le sue nuove posizioni. Tentativo, a nostro parere, fallimentare, perché ciò che emerge dal testo dimostra il contrario. Eppure, da un'angolazione diversa, dobbiamo ammettere che non mancano gli argomenti a favore della tesi di una relativa continuità.
Abbiamo visto che almeno due dei tre più importanti scritti di Gropius della prima metà degli anni dieci non sono stati immuni, sul piano del linguaggio, dall'influenza di quella particolare cultura tedesca della quale l'espressionismo fu un risultato. Ciò non toglie però che il Manifesto implica un sostanziale salto di qualità. Mentre prima il razionalismo appariva camuffato da irrazionalismo, ora il primo ingrediente è del tutto sparito, mentre il secondo è portato al parossismo. È più tardi che avviene in Gropius la vera e propria frattura, e avrà un senso opposto a quello che di norma è attribuito al Manifesto: nel suo testo Grundsätze der Bauhausproduktion del 1925 - un ulteriore svolgimento di Die Tragfähigkeit der Bauhaus-Idee del 1922 Gropius rompe definitivamente con ogni residuo del proprio passato espressionista, e non solo sul piano del linguaggio: ‟Va rifiutata la ricerca, a qualsiasi costo, di nuove forme, in quanto non derivano dalla cosa stessa. E così pure si rifiuta l'applicazione di ornamenti puramente decorativi - siano essi storici o frutto d'invenzione [...]. La creazione di ‛tipi' per gli oggetti di uso quotidiano è una necessità sociale. Le esigenze della maggior parte degli uomini sono fondamentalmente uguali. Casa e oggetti per la casa sono un problema di bisogno generale, e la loro progettazione riguarda più la ragione che il sentimento. La macchina che produce degli oggetti in serie è un mezzo efficace di liberazione dell'uomo, tramite l'impiego di forze meccaniche come il vapore o l'elettricità, dal lavoro necessario al soddisfacimento dei bisogni vitali; un mezzo per procurargli i vari oggetti, ma più belli e più a buon mercato di quelli fatti a mano. E non si tema che la tipizzazione possa coartare l'individuo; come non si può temere che un ordine sancito dalla moda possa portare alla completa uniformazione dell'abbigliamento" (v. Gropius, 1925, p. 6).
Le ragioni del mutamento di Gropius sono molte, e non tutte facilmente afferrabili. Ma su due in particolare c'è l'accordo generale degli storici. Una è la discrepanza tra Gropius e Itten, che incomincia a insinuarsi verso la fine del 1921, prende forma di aperto conflitto nel 1922 e culmina nella definitiva rottura nel 1923. L'altra è l'impatto, su Gropius e sul Bauhaus, dell'azione didattica e propagandistica svolta a Weimar, nel 1921-1923, da Th. van Doesburg.
Sulla natura delle idee professate da Itten siamo oggi in possesso di molte testimonianze dirette (v. von Erffa, 1957; v. Muche, 1964; v. Citroen, 1964; v. Adams, 1968), ma le più determinanti sono quelle di Itten stesso (v. Itten, 1972). Egli racconta, tra l'altro, come la lettura di Untergang des Abendlandes (1918) di O. Spengler lo avesse portato a un atteggiamento di globale rifiuto della civiltà tecnico-scientifica e a un interesse sempre maggiore per le dottrine e le pratiche mistiche orientali. Risultato di questo interesse è la sua fanatica adesione al mazdaismo ‛persiano' - movimento fondato dal tipografo polacco-americano O. Hanish - che si proponeva di accomunare in una vasta operazione sincretica zoroastrismo, cristianesimo primitivo e buddhismo, imponendo ai suoi adepti precise pratiche igieniche, principalmente esercizi respiratori e severe norme di alimentazione e di abbigliamento. Evidentemente quando Gropius decide, su proposta di A. Loos, di chiamare Itten a Weimar nel 1919, non ignorava le sue inclinazioni mistiche. Tanto più che gli era già stato presentato un anno prima da A. Mahler, allora moglie di Gropius, anch'essa interessata all'orientalismo e attiva partecipante alle sedute teosofiche di Vienna. C'è il sospetto - anzi, la certezza - che il Gropius del 1919 simpatizzasse con l'atteggiamento misticheggiante di Itten. Non vogliamo dire che fosse a sua volta sostenitore del mazdaismo, ma una cosa è certa: in quel momento Gropius era convinto, con Itten, che la liberazione delle risorse espressive dell'individuo potesse aiutare, di per sé, a trascendere il disordine contingente del mondo. In altre parole, ciò che allora legava Gropius a Itten era la medesima fiducia nel volontarismo spiritualista, nel potere demiurgico del Geist - o meglio, della Seele, nel senso di Klages. Non c'erano dunque tra Gropius e Itten differenze sostanziali, tutt'altro. ‟Itten è Gropius", annotava O. Schlemmer nel suo Tagebuch (v. Schlemmer, 1958). Ma solo due anni più tardi, nella primavera del 1923, dopo un periodo di turbolenti contrasti personali con Gropius, Itten lascerà definitivamente il Bauhaus. Che cosa era dunque successo? Come si spiega che Gropius si sia sentito costretto all'improvviso a ritirare il proprio appoggio a Itten? All'interno del Bauhaus il primo scontro ‛pubblico' tra le due personalità viene registrato agli inizi del 1922. I relativi documenti (lettere, pro-memoria, ecc.) sono stati resi noti di recente (v. Franciscono, 1971). Il motivo era apparentemente banale: una noiosa questione di competenze a proposito dell'acquisto di materiale per l'officina di falegnameria. Ma è evidente che il vero motivo va ricercato in un altro ambito: nel progressivo deterioramento di quella identità di vedute sopraccennata. A infirmarla, bisogna ammetterlo, non è stato Itten. Le sue vedute rimangono le stesse. Semmai c'è da parte sua un cambiamento d'intensità, non di contenuto: la sua posizione misticheggiante si fa decisamente mistica. In Gropius, invece, avviene un cambiamento sostanziale. La sua insofferenza nei confronti di Itten è motivata dalla sua diserzione da quell'universo ideologico che fino a poco prima gli era proprio e di cui lo spiritualismo di Itten faceva parte. Nel 1922 si conclude una fase per Gropius: quella delle scorrerie bizzarre nella palude dell'espressionismo del dopoguerra. Già Worringer (v., 1921) aveva denunciato la crisi dell'espressionismo. E anche Gropius ne era consapevole. Oltre a esso, entrava in crisi un'altra corrente d'idee cui Gropius aveva aderito fin dal 1918: il movimento organizzatosi intorno all'ambizioso programma del Novembergruppe. Un programma che voleva far convergere in un solo fronte di azione tutte le correnti del dissenso riscontrabili allora nella cultura tedesca: espressionismo, vitalismo, nietzschismo, utopismo, attivismo, anarchismo, volontarismo, misticismo, socialismo, intuizionismo. La miscela però non fu tanto esplosiva quanto M. Peckstein in Was wollen Wir (1919) e Gropius nella risposta all'inchiesta Ja! Stimmen des Arbeitsrats für Kunst in Berlin (1919) avevano immaginato, non senza candore. La Revolution des Geistes non ebbe luogo. Né nessun'altra.
Fu così che Gropius, senza rimorsi, si approntò a rivedere drasticamente la sua posizione, e insieme quella del Bauhaus. Itten era predestinato a diventare l'emblema della carta perdente: egli non era certo un ‛novembrista', ma rappresentava la tendenza più rozza e più provinciale dell'irrazionalismo. E per questo la più difficile da assimilare in un tessuto che aspirava a un radicale rinnovamento. Per V. Kandinskij, più urbano e più cosmopolita, arrivato a Weimar in mezzo alla crisi (1922), non ci saranno invece difficoltà, anche se la sua concezione non era dissimile dallo spiritualismo a oltranza di Itten. Non sarebbe tuttavia giusto spiegare la volontà di mutamento di Gropius solo dal punto di vista della dialettica delle idee, interna o esterna al Bauhaus. Alludiamo al fatto che, in Gropius, la volontà di mutamento era rinforzata dalla sua sagace percezione di un eventuale sviluppo futuro dell'economia tedesca. Era nell'aria in quegli anni che un cambiamento nella politica economica degli alleati nei confronti della Germania fosse imminente. Già si svolgevano infatti segrete trattative per una politica di riparazioni meno severa, sostenuta inoltre da una politica di crediti meno restrittiva. Ciò che effettivamente sarà avviato più tardi, nel 1924, con il Piano Dawes, che per un breve arco di tempo offrirà alla grande industria tedesca la possibilità di riproporre il produttivismo, cioè di rilanciare una gestione razionale della produzione capitalistica. In tale prospettiva, Gropius si trovava di fronte a un dilemma: o affrontare un radicale rinnovamento del Bauhaus, o rischiarne l'emarginazione dall'ultimo grande tentativo di salvataggio della Repubblica di Weimar. Gropius opta per la prima alternativa. Ciò che significherà per lui ritornare alle sue posizioni di prima della guerra, ma questa volta con un approccio più rigoroso, più intransigente. In altre parole, riprendere il vecchio posto ‟in quella schiera di intellettuali che si sono adoperati a risolvere razionalmente i conflitti di classe" (v. Argan, 1951). Il processo di chiarificazione che portò Gropius a questa scelta non fu tanto semplice quanto qui, per brevità, abbiamo indicato. Benché le spinte che ne sono all'origine non fossero sempre dovute alla sola iniziativa di Gropius, come vedremo in seguito, dobbiamo però riconoscergli il merito di aver saputo guidarle nel senso che riteneva giusto. Quando ciò non fu più possibile - come nel 1928 - preferirà abbandonare la partita.
Tra coloro che, oltre a Gropius, hanno contribuito a questo processo di chiarificazione e pertanto al radicale rinnovamento del Bauhaus, c'è una personalità chiave: Th. van Doesburg, direttore della rivista olandese ‟De Stijl", pittore, architetto, scultore, grafico, scrittore e poeta. Si può dire che van Doesburg, presente a Weimar dall'aprile 1921 fino agli inizi del 1923, sia stato l'uomo giusto, nel posto giusto, al momento giusto. Ma prima di entrare in argomento merita qualche accenno il modo insolito in cui egli esercitò la propria influenza sul Bauhaus. Per ragioni finora non del tutto chiarite, van Doesburg lascia l'Olanda e viene a installarsi a Weimar, senza però riuscire a insegnare al Bauhaus. C'è una copiosa letteratura sul tema, e le versioni che ci fornisce sono molteplici e contraddittorie (v. Feininger, 1974; v. van Doesburg, 1927; v. Röhl, 1927; v. Zevi, 1953; v. Schreyer, 1956; v. Graeff, 1964; v. Leering, 1969; v. Forbat, 1968; v. Baijeu, 1974). Secondo alcuni, Gropius avrebbe agito con leggerezza, in quanto nel suo primo incontro con van Doesburg a Berlino (1921) - presenti B. Taut, A. Behne, A. Meyer, F. Forbat - avrebbe dato all'artista olandese eccessive speranze di essere assunto come Meister al Bauhaus. Secondo altri, invece, Gropius non avrebbe dato speranze di nessun tipo, ma solo formulato un gentile invito a recarsi a Weimar per vedere i lavori della scuola. Comunque, un fatto resta: van Doesburg, un protagonista di primo piano dell'avanguardia europea, risiede per quasi due anni a Weimar senza insegnare al Bauhaus, bensì fuori del Bauhaus e, in un certo senso, in polemica col Bauhaus. Le sue conferenze e lezioni sul movimento De Stijl hanno luogo nell'atelier del suo amico K. P. Röhl, frequentato in massima parte dagli studenti del Bauhaus. Denuncia l'anacronismo dell'ideologia espressionista dominante nel Bauhaus. Attacca aspramente il Vorkurs di Itten, ed è molto esplicito anche nei confronti di Gropius: definisce assurdo e inconcepibile - sono le sue parole - che l'architetto di una delle prime opere di architettura razionalista - le Fagus Werke (1911) - sia a capo di una corporazione espressionista come il Bauhaus. Richiama l'attenzione sull'importanza dell'‛estetica meccanica', cioè dell'estetica che le nuove possibilità della macchina hanno reso possibile nel nostro tempo. E in corrispondenza con questa estetica propone uno ‟stile elementare, con mezzi elementari" (v. van Doesburg, 1921 e 1922). All'estetica dominante nel Bauhaus di allora, che esaltava l'artigianato e l'espressionismo irrazionale, van Doesburg contrappone l'estetica Stijl, che celebra la macchina e il controllo razionale del processo creativo. Egli prospetta un repertorio di forme ‛pure', cioè di forme nate da un drastico riduzionismo: un limitato numero di figure (solo quadrati e rettangoli), di corpi (solo parallelepipedi) e di colori (solo quelli fondamentali). Insomma: la nota morfologia Stijl. E benché van Doesburg sia combattuto (e, si dice, addirittura minacciato), l'influenza delle sue idee sul Bauhaus non tarda a farsi sentire. Di colpo all'interno del Bauhaus la morfologia Stijl diventa un tema costante. Da molti è ufficialmente rifiutata, ma da molti anche - sovente gli stessi - segretamente ammirata. È l'atteggiamento di Gropius. In fondo, la morfologia Stijl veniva a facilitare la svolta voluta da Gropius verso il razionalismo. La morfologia Stijl doveva trasformarsi in una morfologia Bauhaus. Dopo la partenza di Itten, la responsabilità di questa svolta non sarà affidata a van Doesburg, ma a L. Moholy-Nagy, il giovane ungherese costruttivista. Più tardi Gropius riconoscerà in pratica quest'influenza pubblicando nella serie dei ‟Bauhausbücher" il libro di van Doesburg, Grundbegriffe der neuen gestaltenden Kunst (1925), quello di P. Mondrian, Neue Gestaltung (1925) e quello di J. J. P. Oud, Holländische Architektur (1926). Non diverso, malgrado l'interpretazione contraria di van Doesburg, è il senso del gesto di Gropius d'invitare a partecipare alla prima esposizione del Bauhaus a Weimar (luglio-settembre 1923) due rappresentanti dello Stijl: J. J. P. Oud e G. Th. Rietveld.
L'influenza dello Stijl non si fa sentire solo sul piano delle scelte formali in astratto, ma anche su quello molto concreto della progettazione di oggetti. Persino il principale storico del Bauhaus, H. M. Wingler, noto per la sua valutazione negativa del ruolo storico di van Doesburg, è costretto ad ammettere che i mobili (e la grafica) Bauhaus sono direttamente ispirati ai precedenti archetipi dello Stijl (v. Wingler, 1966). Non ci sono più dubbi che la sedia di M. Breuer (1992), sviluppata nel Bauhaus nel 1922, sia direttamente ispirata a quella di Rietveld del 1919, pubblicata nella rivista ‟De Stijl" degli anni 1920-1922. Lo stesso si può affermare della scrivania di E. Dieckmann del 1924, che imita quella di Rietveld del 1919, così come la ‛Lampada appesa' di Gropius del 1923 segue lo stesso principio di quella di Rietveld del 1920 (v. Brown, 1958). Anche nel rifacimento a opera di Gropius e di H. Meyer dello Stadttheater di Jena (1922-1923) ‟la forma e il colore [dell'interno] tradiscono l'influenza del movimento Stijl" (v. Lindahl, 1959). Non meno certa è l'influenza dello Stijl sulla grafica e sui progetti di attrezzature espositive: basti ricordare le copertine dei ‟Bauhausbücher" (1925-1930) di Moholy-Nagy e gli stands e chioschi (1924) di H. Bayer. Naturalmente la grafica del Bauhaus è il risultato di un processo complesso, e accanto a quella dello Stijl vi sono altre influenze, come quelle provenienti dal costruttivismo russo e ungherese, soprattutto tramite Moholy-Nagy. Abbiamo visto che, subito dopo la partenza di Itten, la morfologia Bauhaus tende a identificarsi con la morfologia Stijl e questo si esprime in termini d'influenza diretta ed esplicita di determinati oggetti Stijl su determinati oggetti Bauhaus. Per esempio, il caso già citato Rietveld-Breuer, Rietveld-Dieckmann, Rietveld-Gropius. Ma più tardi le cose cambieranno: il percorso delle assimilazioni formali si farà sempre più sottile. Peraltro il Bauhaus già a partire dal 1923 incomincia a sviluppare degli oggetti - soprattutto gli apparecchi d'illuminazione elettrica usciti dall'officina dei metalli, sotto la responsabilità didattica di Moholy-Nagy e tecnica di Ch. Dell - che dimostrano una maggior autonomia formale di quelli sviluppati nello stesso tempo nell'officina di falegnameria, di tessitura, di pittura su vetro e di ceramica. Dalla prima lampada disegnata da K. Jucker nel 1923, ‟più simile a un dinosauro commenta Moholy-Nagy - che a un oggetto funzionale" (v. Moholy-Nagy, 1938), lo sviluppo porta dopo pochi mesi a risultati sorprendenti. Lo stesso Jucker insieme a A. Wagenfeld crea una delle tipologie più felici del disegno industriale del Bauhaus: la ‛lampada da tavolo' con la campana di vetro opalescente (1923-1924). Più tardi M. Brandt gioca un ruolo fondamentale nella creazione di altre nuove tipologie di lampade. Infatti, dal 1926 al 1933 la Brandt avviava alla produzione diversi modelli che diventano archetipi del cosiddetto stile Bauhaus: la ‛lampada da comodino Kamden' (1927) e le ‛lampade a globo' (1926 e 1927-1928). Nel campo dei mobili, un primo importante e originale contributo del Bauhaus è costituito dalla sedia ‛Wassily', in acciaio tubolare curvato e nichelato (1925), sviluppata privatamente - cioè non nelle officine del Bauhaus - da M. Breuer. A partire da questo modello emerge nel Bauhaus - e non solo nel Bauhaus - l'ossessione di trovare per le sedie sempre nuove soluzioni costruttive di tipo lineare. È in questo spirito che Breuer disegna altre sedie in acciaio tubolare curvato. M. Stam e Mies van der Rohe apportano pure esemplari soluzioni. Gran parte di questi modelli saranno prodotti a partire dal 1927 dalla ditta Thonet. E non è un caso: tra la linearità in legno curvato e la linearità in acciaio tubolare curvato il rapporto è ovvio. In realtà, la questione di un'influenza, diretta o indiretta, da parte dei mobili di Michael Thonet e di suo figlio August sullo sviluppo della sedia negli anni venti e trenta è stata talvolta già accennata (v. Portoghesi, 1964; v. Santoro, 1966; v. Mang, 1971; v. Rubino, 1973; v. Guenzi, 1974; v. Massobrio e Portoghesi, 1975).
Nel febbraio 1928 Gropius rassegna le sue dimissioni dal Bauhaus. Con lui partono Moholy-Nagy, Bayer e Breuer. Su proposta di Gropius viene nominato direttore H. Meyer, che un anno prima aveva assunto la responsabilità della nuova sezione di architettura. Così si chiude una fase e se ne apre una nuova.
Nel 1923 Gropius aveva coniato lo slogan ‟Arte e tecnica, una nuova unità". Era, in fondo, una nuova versione della tesi di Behrens presente nel testo già discusso Kunst und Technik del 1910. Con un ingrediente però che mancava in Behrens: l'ammissione dell'esteticità autonoma della macchina. Gropius, dopo molti tentennamenti e rinvii, si decide infatti ad accettare l'‛estetica meccanica' di van Doesburg. Benché consapevole dei pericoli, che egli peraltro denunciava spesso, Gropius si appropria del formalismo neoplasticista. O meglio: di un formalismo neoplasticista rielaborato da quello costruttivista. In questo modo un nuovo criterio di composizione della forma ispirato alla tecnica veniva a sostituire quello precedente ispirato all'artigianato. Riappariva dunque, sotto nuova veste, la vecchia idea accademica di composizione. Dopo la sua furtiva traversia ‛novembrista', Gropius ritorna alla sua precedente tradizione culturale, che era in sostanza ‛non-politica'. E se il nuovo formalismo, a dire il vero, non lo entusiasma, contribuisce almeno a legittimare culturalmente il suo disimpegno: la composizione tecnico-estetica funge da surrogato alla ricomposizione sociale e politica del mondo. ‟Il tecnicismo di Gropius può, a rigore, interpretarsi come una non-politica' - nota Argan - nel senso che mira a risolvere o addirittura evitare nella lucida funzionalità sociale ogni contrasto ideologico: altro motivo che ci richiama all'atteggiamento di Mann e di quegli intellettuali tedeschi che pongono il distacco dalla competizione politica come una condizione del loro impegno sul piano della cultura" (v. Argan, 1951, p. 19).
Meyer porta al Bauhaus lo spirito della rivista svizzera ‟ABC - Beiträge zum Bauen" (1924-1928) diretta da H. Schmidt, E. Roth e M. Stam, della cui redazione era membro dal 1925. ‟ABC" rappresentava il funzionalismo tecnico-produttivistico, in contrasto con il funzionalismo tecnico-formalistico imperante nel Bauhaus dopo il 1923. La concezione di Meyer, prima del suo arrivo a Weimar, appare chiaramente testimoniata in due documenti: nel numero monografico di ‟ABC" (1926, 2) sull'arte astratta, che egli curò, e nell'articolo Die neue Welt apparso sulla rivista ‟Das Werk" (1926). Soprattutto in quest'ultimo si constata l'influenza delle idee sostenute in quegli anni da Schmidt e da Stam: un funzionalismo basato fondamentalmente sull'esaltazione del produttivismo, dell'antiesteticismo, del realismo, del collettivismo e del materialismo. ‟L'isterica irrisolutezza dell'arte applicata - afferma Meyer - è proverbiale. Non gravate invece da pretese classiche, nè dalla confusione dei concetti artistici, nè da infiltrazioni dell'arte applicata, sorgono al suo posto le testimonianze di una nuova epoca: fiere campionarie, silos, musichalls, aeroporti, sedie per ufficio, merci standard. Tutte queste cose sono prodotto della formula: funzione X economia. Non sono opere d'arte. L'arte è composizione, lo scopo è funzione. L'idea della composizione di uno scalo marittimo ci sembra assurda, e che dire della composizione di un piano urbanistico, di un appartamento? Costruire è un processo tecnico, non estetico e l'idea di funzionalità di una casa è in contrasto con la composizione artistica" (v. Meyer, Die neue..., 1965, p. 92).
È una posizione anti-arte, la cui impronta non è dadaista, ma sicuramente costruttivista russa. Indubbiamente Meyer segue in questo la traccia di Stam, che per i suoi contatti con El Lissitzky aveva assunto una posizione molto simile a quella dei sostenitori russi della ‛morte dell'arte' (v. Gray, 1962; v. Kraiski, 1968; v. Quilici, 1969). Per Meyer, come per Stam, l'arte in genere - inclusa l'arte che postula un'estetica macchinistica - intralcia l'avvento di una cultura sociale libera dai vincoli borghesi del passato. ‟Ogni arte - scrive Meyer nel periodico del Bauhaus, riprendendo gli argomenti di Die neue Welt - è composizione e perciò inadeguata. Ogni vita è funzione e perciò non artistica [...]. Costruire non è un processo estetico" (v. Meyer, Bauen, 1965, p. 94). Appena assunta la funzione di direttore, l'atteggiamento di Meyer è dunque di chiaro contrasto con le tesi sostenute dal suo predecessore, principalmente con quella relativa all'unità tra arte e tecnica. Ma altrettanto chiaro è il suo ripudio del cosiddetto stile Bauhaus. Per Meyer lo stile Bauhaus, la cui esistenza, a dire il vero, Gropius ha sempre negato (v. Gropius, 1955), non era altro che formalismo. Nella sua amara e mordace lettera al sindaco Hesse di Dessau, a motivo della sua espulsione come direttore, Meyer descrive nei seguenti termini lo spirito regnante allora nel Bauhaus: ‟Teorie incestuose impedivano ogni accesso alla figurazione orientata sui bisogni della vita; il cubo era l'asso di briscola, e le sue facce erano gialla, rossa, blu, bianca, grigia, nera. Questo cubo del Bauhaus veniva dato ai bambini per giocarci e agli snob del Bauhaus per trastullarvisi nelle loro sperimentazioni. Il quadrato era rosso. Il cerchio era blu. Il triangolo era giallo. Ci si sedeva e si dormiva sulla geometria colorata dei mobili [...]. Così mi trovai in una situazione tragicomica: nella mia qualità di direttore del Bauhaus combattevo lo stile del Bauhaus" (v. Meyer, Mein Hinauswurf..., 1965, p. 102).
Non c'è dubbio che l'allontanamento di Meyer fu il risultato di un torbido intrigo di destra, tendente a neutralizzare la presunta politicizzazione - a sinistra - del Bauhaus a opera del suo direttore. Ma la spiegazione ‛politica' non basta. Per arrivare a un chiarimento più completo occorre risalire a motivazioni meno contingenti, ma non per questo meno decisive. Alludiamo allo zigzagante percorso del capitalismo, soprattutto europeo, di fronte alle esigenze di razionalizzazione e di tipizzazione del programma produttivistico di Ford. Chiaramente lo stile Bauhaus è stato uno dei più seri tentativi di dare una risposta progettuale a queste esigenze. Il guaio è però che questa risposta veniva in ritardo. Certamente Gropius aveva ragione, nella sua svolta del 1923, quando aveva immaginato in Germania una ripresa del programma produttivistico, ma non aveva potuto prevedere che la ripresa sarebbe stata di così breve durata. Quando lo stile Bauhaus assume le sue caratteristiche definitive, intorno al 1927, il programma produttivistico ha già incominciato a mostrare la propria vulnerabilità e il capitalismo tedesco è ormai orientato verso una nuova strategia. Di fronte a questa inquietante prospettiva, i rappresentanti del razionalismo reagiscono in due modi: o continuano a difendere ostinatamente gli stilemi formali elaborati nel Bauhaus da Gropius, oppure li rinnegano in toto, avanzando come alternativa un produttivismo a oltranza. È questa la posizione di Meyer: una fuga in avanti. Il produttivismo, fino a quel momento solo strategia della produzione, è riproposto da Meyer come strategia di mutamento radicale della vita quotidiana. Insomma, strategia della rivoluzione culturale. Ma anche Meyer arriva in ritardo: il tentativo era già stato fatto in Unione Sovietica, subito dopo la Rivoluzione, cioè in condizioni molto più favorevoli di quelle della Germania del 1928, e si era dimostrato fallimentare. Meyer, come i costruttivisti russi, cadeva così vittima dell'‟antico sogno dell'intellettuale europeo: porsi come guida ‛morale' dell'organizzazione di classe" (v. Tafuri, 1971, p. 72; v. costruttivismo).
Dal 1930 al 1933 Mies van der Rohe assumerà la direzione del Bauhaus in sostituzione di Meyer: dal punto di vista del disegno industriale un periodo particolarmente scarso di contributi sia teorici, sia pratici. A partire dal 1933, data di chiusura definitiva dell'istituto, e di avvento del nazismo, i principali protagonisti del Bauhaus lasciano la Germania: Albers (S.U.A., 1933), Kandinskij (Francia, 1933), Klee (Svizzera, 1933), Gropius (Inghilterra, 1934 e S.U.A., 1937), Moholy-Nagy (Inghilterra, 1934 e S.U.A., 1937), Breuer (Inghilterra, 1935 e S.U.A., 1937), Feininger (S.U.A., 1936), Bayer (S.U.A., 1938), Hilbersheimer (S.U.A., 1938), Mies van der Rohe (S.U.A., 1938), Peterhans (S.U.A., 1939). Insieme alla diaspora, si avvia anche il processo di mitizzazione del Bauhaus. Nasce la leggenda di un Bauhaus identificato esclusivamente con il periodo 1923- 1928 dell'era di Gropius: il Bauhaus dello stile Bauhaus. Il resto non esiste, o quasi. Il periodo vitalistico-espressionista di Itten è presentato nelle nebbie più fitte; il periodo del funzionalismo produttivistico di Meyer è assolutamente cancellato.
È così che, negli anni trenta, incomincia a profilarsi un panorama del disegno industriale secondo due poli contrapposti: da un lato, quello dello styling sostenuto dal capitalismo monopolistico americano; dall'altro, quello leggendario dello stile Bauhaus, sostenuto dai protagonisti del Bauhaus emigrati negli Stati Uniti e da un gruppo di architetti, critici e storici americani.
La contrapposizione si acuirà col passar del tempo, in particolare dopo la prima esposizione del Bauhaus, del 1938, al Museum of Modern Art di New York. Il Bauhaus, che molti credevano un'esperienza conclusa e addirittura fallimentare, diventa di nuovo attuale. A. H. Barr, nell'introduzione al libro-catalogo a cura di H. Bayer, W. e I. Gropius, scrive a questo proposito: ‟Il Bauhaus non è morto, vive e si sviluppa attraverso gli uomini che lo hanno fatto, docenti e studenti, attraverso le loro realizzazioni, i loro scritti, i loro principi, la loro filosofia dell'arte e dell'educazione" (v. Barr, 1938).
Dobbiamo dire però che la mostra di New York, in quanto dedicata esclusivamente a illustrare l'era Gropius (1919-1928), offriva una presentazione parziale del Bauhaus. In altre parole, non si faceva vedere ‛tutto' il Bauhaus ‟che vive e si sviluppa", come dice Barr, ma solo una parte di esso. Da questa presentazione parziale risultava un'immagine idealizzata del Bauhaus: una comunità di artisti-insegnanti che, in armonia assoluta, elabora, oltre a una nuova didattica, anche un nuovo modo - l'‛unico giusto' - di progettare oggetti d'uso. Tale versione del Bauhaus ebbe un profondo impatto su quella corrente della cultura americana che negli anni trenta era alla ricerca di un'alternativa allo styling, che fosse più consistente dell'art déco di origine francese, allora tanto diffusa. È in questo ambito che incomincia a farsi strada negli Stati Uniti l'idea che certi oggetti prodotti dall'industria possano essere considerati di good design, cioè oggetti che per la loro particolare qualità formale meritano di essere giudicati esemplari.
Certo, l'idea non prendeva spunto soltanto dalla mostra del Bauhaus. C'era stata negli Stati Uniti un'altra manifestazione che, alcuni anni prima, aveva contribuito fortemente all'idea del good design: la mostra Machine art (1934), organizzata da Ph. Johnson nello stesso Museum of Modem Art di New York. Nel libro-catalogo, alludendo agli oggetti esposti, Johnson parla di ‟oggetti utili [...] scelti per la loro qualità estetica". E anche di un conscious design, in opposizione allo styling (e allo streamhning). Nella mostra erano presentate macchine utensili, parti e componenti di macchine, strumenti scientifici, oggetti d'uso domestico, mobili (tra questi, la sedia e lo sgabello di Breuer). Barr, nella prefazione allo stesso libro-catalogo, descrive ciò che secondo lui è la ‟bellezza dell'arte della macchina". Si tratta di un testo in cui abbondano le citazioni da Platone e da Tommaso d'Aquino, ma che esprime molto bene in quali termini era intesa l'alternativa allo styling. ‟La bellezza dell'arte della macchina - dice Barr - è in parte la bellezza astratta delle linee rette e dei cerchi trasformata in superfici e corpi attuali e tangibili con l'aiuto di strumenti come torni, regoli e squadre [...]. Le macchine sono, dal punto di vista visuale, un'applicazione pratica della geometria" (v. Barr, 1938). Ovviamente questa estetica della macchina ha molto in comune con l'‛estetica meccanica' che era stata proposta nel 1921 da van Doesburg e che, lo abbiamo già visto, ha avuto un'influenza determinante nella nascita del cosiddetto stile Bauhaus. Insomma: good design e stile Bauhaus hanno la stessa matrice.
Negli anni quaranta si sviluppa la concezione della gute Form (v. Bill, 1949), che è l'equivalente europeo - e in particolare svizzero, anche se nei paesi scandinavi si trovano delle varianti molto simili - del good design americano. Il principale esponente è M. Bill. Benché allievo del Bauhaus dal 1927 al 1929, cioè in un periodo a cavallo tra la direzione di Gropius e quella di Meyer, Bill risente fortemente dell'influenza dell'orientamento estetico-formale, più che di quello produttivista-funzionalistico. Tra tutti gli allievi del Bauhaus infatti Bill è stato la personalità che ha saputo portare questo orientamento fino alle estreme conseguenze, sia dal punto di vista teorico che pratico. ‟Forma - scrive Bill - è ciò che incontriamo nello spazio. Forma è tutto ciò che possiamo vedere. Ma quando sentiamo la parola forma o riflettiamo sul concetto di forma, esso significa per noi più di qualcosa che esiste per caso. Sin dall'inizio associamo al concetto di forma una qualità [...]. Quando parliamo delle forme della natura pensiamo a quelle particolarmente ben riuscite. Quando parliamo delle forme della tecnica non ci riferiamo a delle forme qualsiasi, ma a quelle considerate particolarmente valide" (v. Bill, Form und..., 1952, p. 7). La posizione di Bill sullo styling è chiara: ‟A paragone dei beni di produzione, i beni di consumo sono oggi assai più soggetti alla moda di una volta. È questo un ambito che si è allargato fino a comprendere i mobili e le automobili. Il consumo è più rapido. E così, automaticamente, si abusa della forma, facendone un fattore di incremento delle vendite. Questo pericoloso sviluppo si manifesta chiaramente nello stile streamlining che oggi prende il posto una volta tenuto dall'ornamento. E se dunque oggi, per motivi estetici, reclamiamo nuovamente delle belle forme, non vorremmo essere fraintesi: si tratta sempre di forme vincolate alla qualità e alla funzione dell'oggetto. Si tratta di forme oneste, non d'invenzioni per incrementare la vendita di prodotti dalla foggia instabile, soggetta alla moda" (v. Bill, Vom Werkzeug..., 1952, p. 46). Spesso si è denunciato il formalismo implicito nella gute Form di Bill - e la critica, per molti versi, è giusta. Bisogna tuttavia riconoscere che la questione del formalismo non può essere impostata oggi negli stessi termini in cui lo faceva Meyer negli anni 1928-1929. L'avvento dello styling cambia infatti radicalmente la problematica del disegno industriale e anche, di conseguenza, la valutazione del formalismo. Non c'è dubbio che la gute Form si presenta, dopo la seconda guerra mondiale, come l'unico atteggiamento di dissenso nei confronti del dominio quasi assoluto dello styling. E questo è un merito che va riconosciuto a Bill.
Eppure, la concezione di Bill deve essere esaminata anche in rapporto agli sviluppi europei del disegno industriale negli anni cinquanta e sessanta, soprattutto in rapporto alla Hochschule für Gestaltung (HfG) di Ulm (Repubblica Federale Tedesca), della quale Bill è stato fondatore insieme a I. Scholl e a O. Aicher, e primo rettore. Questo istituto, ufficialmente inaugurato nel 1955 con un discorso di Gropius, si proponeva di riprendere la tradizione Bauhaus interrotta nel 1933 dal nazismo. ‟La scuola - affermava Bill - è la continuazione del Bauhaus (Weimar-Dessau-Berlino). E nuovi compiti si aggiungono, che venti, trenta anni fa, nell'ambito della progettazione, non erano ancora considerati tanto importanti quanto oggi" (v. Bill, Erziehung und..., 1952, p. 166).
Ma che cosa significava realmente per Bill una Hochschule für Gestaltung destinata a essere la continuazione del Bauhaus? E ancora, quali erano i ‛nuovi compiti' che avrebbero dovuto, per così dire, legittimare storicamente la continuazione del Bauhaus? Anche se Bill non è stato tanto esplicito nei suoi scritti a questo riguardo, è noto che auspicava una Hochschule für Gestaltung capace di sviluppare, con tutti gli arricchimenti del caso, l'orientamento estetico-formale del Bauhaus. Abbiamo già visto però che questo orientamento presentava degli aspetti troppo vulnerabili per costituire, di per sé, la forza trainante del nuovo istituto. Lo stesso si può dire della didattica del Bauhaus, e della struttura organizzativa risultante. Nella Hochschule für Gestaltung di quegli anni si ammette, in principio, la tesi della continuazione, ma si rifiuta d'intenderla in termini di mera restaurazione. D'accordo cioè sul Bauhaus, ma solo dopo una severa verifica dell'attualità o meno dei suoi presupposti didattici, culturali e organizzativi. Questa esigenza però viene a mettere a nudo una situazione assai anomala, e certamente paradossale: c'è già in funzione un eccellente edificio con aule, laboratori e officine perfettamente attrezzati, c'è già un primo gruppo di docenti e studenti, e si scopre ora che la validità del modello scelto - il Bauhaus - è ancora tutta da accertare. L'ambiguità di tale situazione determina un clima d'impazienza e anche di reciproca insofferenza tra i suoi protagonisti. Nascono così i primi contrasti tra Bill e i colleghi più giovani: O. Aicher, H. Ougelot, T. Maldonado e W. Zeischegg. E per diverse ragioni, tra cui non ultime differenze caratteriali, questi contrasti si fanno in breve insanabili, finché nel 1956 Bill dovrà lasciare la carica di rettore.
Quali sono stati gli effetti della partenza di Bill sullo sviluppo della Hochschule für Gestaltung, nei dodici anni seguenti? Una cosa almeno è chiara: la partenza di Bill non ha determinato un mutamento ‛in blocco' dell'impostazione che egli aveva dato in origine alla Hochschule für Gestaitung. Mutamento c'è stato, e importante, ma in un campo specifico: quello attinente alla dottrina educativa e al suo corrispondente espletamento didattico e organizzativo. Cambia sostanzialmente il piano di studio, che riflette l'importanza attribuita, nel nuovo concetto, alle discipline scientifiche e tecniche. Cambia l'impostazione didattica del ‛corso fondamentale', che cerca di ridurre al minimo la presenza di quegli elementi di attivismo, intuizionismo e formalismo ereditati dalla didattica propedeutica del Bauhaus. Cambia infine il programma della sezione di disegno industriale, che si orienta definitivamente allo studio e all'approfondimento della metodologia della progettazione. Quello che, più tardi, sarà conosciuto come il ‛concetto Ulm' e che eserciterà una profonda influenza su tutte le scuole di disegno industriale nel mondo, deriva appunto da questi cambiamenti.
Ma se sul piano pedagogico esiste chiaramente un ‛prima' e un ‛dopo' Bill, non si può dire lo stesso per quanto riguarda i prodotti che i docenti della Hochschule für Gestaltung, talvolta con la collaborazione di studenti e assistenti, progettarono per l'industria. Bisogna riconoscere che questi prodotti, in genere, corrispondono fedelmente a una concezione della forma del prodotto che Bill, con i suoi scritti e con la sua opera, aveva contribuito a precisare e le cui radici, come abbiamo già accennato, vanno ricercate nell'orientamento estetico-formale del Bauhaus. Negli anni cinquanta i docenti della Hochschule für Gestaltung, Gugelot e Aicher, danno un decisivo apporto all'impostazione della linea di prodotti della ditta Braun di Francoforte. Da qui si svilupperà il cosiddetto ‛stile Braun', un fenomeno di grande interesse per il nostro tema. Mentre lo ‛stile Olivetti' ricercava sempre l'unità nella diversità, lo ‛stile Braun' è un esempio della ricerca dell'unità nell'unità. Non esiste, a nostro parere, un caso simile in tutta l'industria contemporanea. Ma appunto per questo lo ‛stile Braun' costituisce un formidabile banco di prova per la concezione della gute Form come alternativa allo styling. È evidente che la gute Form, atto di dissenso, secondo Bill, nei confronti di una certa industria, si fa atto di consenso, tramutandosi in ‛stile Braun'. Il neocapitalismo tedesco ha eseguito in questo caso un'operazione di raffinata astuzia: ha cooptato la gute Form. Sarebbe esagerato, e persino ingiusto, affermare che lo ‛stile Braun', abusivamente chiamato anche ‛stile Ulm', sia qualcosa di simile a uno styling del neocapitalismo tedesco. Ma una cosa è indubbia: esso viene a porre in evidenza il reale limite del dissenso della gute Form.
3. La professione, la didattica, le riviste
In quest'ultimo dopoguerra il disegno industriale è diventato in tutti i paesi, capitalistici e socialisti, egemonici o periferici, una vera e propria professione. Di conseguenza, sono nate dovunque delle associazioni professionali per il disegno industriale, che, oltre a difendere gli interessi dei loro membri, svolgono solitamente una vasta attività promozionale. A partire dal 1957, queste associazioni si sono raggruppate intorno all'ICSID (International Council of Societies of Industrial Design), con sede a Bruxelles, al quale aderiscono attualmente 52 associazioni professionali e 24 Design Councils. In totale questa organizzazione internazionale per il disegno industriale rappresenta a tutt'oggi 33 paesi, con oltre 25.000 persone associate.
Le scuole dedicate alla formazione del disegnatore industriale hanno avuto dovunque uno sviluppo notevole, che si svolge oggi in diversi contesti. A volte il disegno industriale è solo una speciale disciplina (o una sezione) nelle scuole medie e superiori di belle arti e di arte applicata oppure nei corsi universitari di architettura o d'ingegneria (civile o meccanica); altre volte invece è un'attività di formazione svolta in aziende private. La varietà di questa casistica rende assai difficile una valutazione omogenea, e tanto più una quantificazione esatta, dell'attività didattica collegata al disegno industriale. Soprattutto se si aggiunge il fatto che per disegno industriale non s'intende sempre e soltanto il disegno di prodotti, ma spesso anche erroneamente disegno d'interni, grafica, oreficeria o ceramica. Vorremmo tuttavia menzionare, fra tutte le scuole di disegno industriale, l'Institute of Design di Chicago e la sezione Industrial Design-Engineering del Royal College of Art di Londra che, dopo la chiusura della Hochschule für Gestaltung nel 1968, possono essere considerate come quelle di maggior rilievo. Le riviste e i periodici più importanti dedicati al disegno industriale sono i seguenti: in Italia: ‟Abitare", ‟Casabella", ‟Domus", ‟Design" e ‟Ottagono"; in Francia: ‟CRÉE" e ‟Design industrie"; in URSS: ‟Dekorativnoe Iskusstvo" e ‟Techničeskaia Estetika"; negli Stati Uniti: ‟Design quarterly", ‟Industrial design" e ‟Journal of the Industrial Designer Association of America"; in Inghilterra: ‟Design" e ‟The designer"; in Germania: ‟Design International", ‟Form" e ‟Werk und Zeit"; nella Germania Orientale: ‟Farbe und Raum" e ‟Form und Zweck"; in Svezia: ‟Form"; in Giappone: ‟Industrial art news"; in Polonia: ‟Projekt"; in Svizzera: ‟Werk".
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