INDUSTRIALE, DISEGNO
. Nella definizione d. i. il termine "disegno" (traduzione del vocabolo anglosassone design) sta per "progettazione" (per es. la disciplina che si occupa di d. i., nelle facoltà di architettura, si chiama "progettazione artistica per l'industria"); mentre il termine "industriale" indica tutto ciò che può essere prodotto in serie cioè, appunto, industrialmente.
Per cui il d. i. individua quell'attività o, meglio, quel processo progettuale che ha per scopo la definizione dei caratteri di un oggetto riproducibile in serie: caratteri funzionali (fruibilità dell'oggetto da parte del consumatore); economici (commerciabilità da parte del produttore); tecnologici (riproducibilità industriale); formali. Questi ultimi non vanno intesi come sovrapposti successivamente agli altri, come cioè un semplice abbellimento, ma anzi ne sono la sintesi e con essi sono strutturalmente connessi. Pertanto l'attività del progettista industriale (designer) deve porsi come obiettivo la definizione di ciascuno dei vari caratteri dell'oggetto nella loro sintesi formale.
Quando, diversamente, la formalizzazione avviene a posteriori si hanno fenomeni come lo styling design (nato negli anni Venti soprattutto nell'industria automobilistica americana e determinato dalla volontà d'incrementare le vendite) che s'identificano con il formalismo.
Ma se, da un lato, possiamo definire lo styling design come l'aspetto del d. i. che lo caratterizza come formalismo puro, dall'altro una mentalità schematicamente tecnologica (che della tecnologia fa un mito, il fine anziché un mezzo) può portare alla definizione di oggetti in cui la forma è meccanica conseguenza dei dati tecnico-economico-funzionali. Simili posizioni, come opposti poli, rappresentano entrambe due equivoci rispetto alla possibile definizione dell'attività del designer. Definizione che comporta non solo la messa a punto dei problemi che afferiscono a questa attività, ma anche il chiarimento del problema relativo alle sue origini.
Infatti taluni, erroneamente, hanno voluto scorgerle in epoche lontane ricollegando il d. i. con l'attività artigianale. Ma d. i. e artigianato hanno caratteri assai diversi in quanto diversi i rapporti che si stabiliscono tra ideatore e oggetto: nell'industria il lavoro è organizzato secondo catene successive di lavorazioni e, quindi, con la specializzazione settoriale delle varie operazioni che si susseguono nelle catene stesse; mentre nell'artigianato l'uomo controlla il definirsi del prodotto dall'inizio alla fine, attraverso tutti i diversi tipi di lavorazione.
Quindi vi è una differenza sostanziale nel tipo di organizzazione del lavoro, cosicché un laboratorio artigiano potrebbe anche possedere, al limite, le stesse macchine dell'industria ma, proprio per la sua particolare organizzazione del lavoro, conserverebbe pur sempre il carattere artigianale. Ciò è evidente, soprattutto, nel campo della produzione di mobili (e in particolare in Italia), dove molti laboratori vanno considerati artigianali nonostante siano forniti di macchinari assai moderni e del tutto simili a quelli dell'industria.
In effetti, quindi, l'esigenza di un d. i. nasce proprio nel momento in cui si sviluppa l'industria moderna, con i problemi di riproduzione in serie del prodotto, con la suddivisione del lavoro per operazioni successive e differenziate e quando l'industria pone la necessità della specializzazione: in altri termini la necessità di progettisti per l'industria si crea sulla scia di quel grande fenomeno sociale che va sotto il nome di rivoluzione industriale e che s'iniziò in Gran Bretagna a partire dal 1760.
L'esposizione universale di Londra del 1851 costituì il primo confronto mondiale (circa 14.000 espositori presentarono al pubblico 100.000 oggetti) fra le produzioni industriali nei più diversi campi: dalle macchine agricole alle locomotive, dai mobili agli oggetti di arredo (stoffe, ceramiche, vetri, metalli, ecc.), a quelli di uso. L'esposizione londinese fu patrocinata dal principe consorte, Alberto, ma colui che la organizzò e ne fu l'animatore fu H. Cole, suo principale collaboratore anche nell'opera di riorganizzazione dell'insegnamento delle arti che promosse fin dal 1830. Cole può essere considerato il primo propugnatore, in Europa, della necessità di creare dei progettisti specializzati per l'industria: quelli, cioè, che oggi si chiamano industrial designers. La sua analisi della situazione e la necessità, che sentì fortissima, di creare una scuola pubblica di progettisti, anche alla luce dei risultati dell'esposizione londinese, furono esatte. Da una parte, infatti, lo sviluppo velocissimo dell'industria non consentiva la preparazione di tecnici qualificati presso le stesse industrie, con la stessa rapidità con cui si producevano gli oggetti; dall'altra ci fu una netta scissione fra arte e industria. Gli artisti, infatti, erano estranei alle macchine e non vedevano la possibilità di considerarle come un nuovo e diverso mezzo espressivo rispetto alla lavorazione artigiana: il ruolo di massimo oppositore dell'industrializzazione, in questo senso, fu assunto soprattutto da W. Morris (che abbe notevolissima influenza sugli artisti inglesi, da Crane ad Ashbee a Voysey) e che propugnò l'integrazione delle arti e la riqualificazione delle arti applicate individuando nell'artigianato il sistema capace di attuarla.
Tuttavia all'esposizione londinese emersero anche aspetti assai interessanti della produzione di serie: quella, assai qualificata, americana, con prototipi da riprodurre su vasta scala nel settore dei mobili scolastici. Vale la pena riportare cosa dice, al proposito, S. Giedion: "Gli americani esposero banchi da scuola con sostegni in ghisa nei quali tutto era studiato accuratamente per l'età, l'occupazione e la conformazione anatomica degli allievi". Questo arredamento - la maggior parte del quale era prodotto nella zona del New England intorno a Boston - era il risultato di una ventennale campagna per una migliore attrezzatura scolastica che era cominciata nel 1830 con la conferenza di W. J. Adam "Scuole ed attrezzatura scolastica" tenuta all'American institute of instruction. Nel 1838 H. Barnard portò a termine una delle opere d'avanguardia in questo campo: il suo saggio sull'architettura scolastica per la commissione permanente del senato per l'Educazione.
Barnard aveva delle idee assolutamente chiare sulle esigenze funzionali cui tale arredamento doveva soddisfare: "ogni allievo, vecchio o giovane, dovrebbe essere provvisto di un sedile di altezza giusta per permettergli, quando è convenientemente occupato, di posare i piedi sul pavimento senza che i muscoli dell'anca siano fortemente premuti contro l'orlo frontale del sedile... i sedili dovrebbero avere un sostegno per i muscoli della schiena; e come regola generale questo sostegno dovrebbe sopravanzare le scapole, e dovrebbe in ogni caso essere inclinato, per quanto è alto, di un pollice per ogni piede". E non c'è dubbio che questi sedili standard americani del 1849 possono essere considerati, sia per la perfetta aderenza della forma alla funzione, sia per l'uso avanzato della tecnologia, i precursori delle poltrocine in metallo e plastica che E. Saarinen progetterà più di un secolo dopo. Inoltre, a Londra, espose i suoi prodotti anche M. Thonet che già da alcuni anni aveva iniziato una notevole produzione di mobili basati sull'applicazione della curvatura del legno. L'industria Thonet diffonderà i suoi modelli (prodotti oltre che in Germania anche in Polonia e Cecoslovacchia) in tutto il mondo e costituirà un fenomeno importantissimo oltre che sul piano industriale e commerciale (si calcola che a tutt'oggi il numero di oggetti di serie prodotti superi largamente i 70 milioni di pezzi) anche sotto il profilo dell'influenza che ha avuto e che in parte continua ad avere sul gusto contemporaneo.
Le istanze di realismo di H. Cole e quelle sociali ed estetiche di W. Morris sembrarono fondersi in H. van De Velde. Quando, nel 1900, fu chiamato a dirigere la scuola d'arte di Weimar egli aveva già fatti propri alcuni degl'ideali estetici di Morris con la convinzione, però, che un giorno essi avrebbero trovato il loro naturale luogo di diffusione nell'industria. Tutti gli oggetti progettati da Van De Velde, dai mobili ai servizi di posaterie o da tè, sono pensati anche in funzione di una loro possibile riproduzione in serie attraverso l'uso essenziale della linea-forza il cui concetto egli espresse in un famoso articolo del 1923 intitolato, appunto, La ligne est une force.
Nel 1919 W. Gropius, dalla fusione della scuola d'arte di Weimar con la Sachsiche Hochschule für bildende Kunst, creerà la Staatliche Bauhaus, scuola che ha avuto un'influenza fondamentale sulla cultura artistica contemporanea. Essa nacque per preparare gli allievi alla conoscenza delle diverse forme d'arte applicata e d'arte industriale e divenne il centro del dibattito architettonico e figurativo europeo degli anni Venti. Alla Bauhaus fecero capo grandi personalità di pittori, teorici, architetti e progettisti industriali come Klee, Kandinsky, Malevic, Van Doesburg, Moholy-Nagy, Breuer. Quando, nel 1925, la scuola si trasferì a Dessau (dove Gropius ne realizzò la sede, uno degli edifici più significativi dell'architettura moderna) diede luogo anche a una propria produzione di oggetti progettati per l'industria che sono, ancora oggi, esemplari.
Anche altri maestri dell'architettura moderna come Le Corbusier e Mies Van Der Rohe hanno progettato oggetti d'uso (soprattutto mobili) che le industrie continuano a produrre e a immettere sul mercato.
Dalla metà degli anni Quaranta in poi e per un periodo abbastanza lungo la produzione industriale dei paesi scandinavi ha esercitato una notevole influenza nel resto dell'Europa attraverso una vasta diffusione di oggetti ad alto livello qualitativo promossa anche da istituzioni pubbliche; come, per es., in Svezia la Società di arti applicate che ha lo scopo di collaborare con le forze industriali e con i progettisti per il miglioramento della qualità degli oggetti di uso. Si ricordano, tra i prodotti più interessanti dei paesi scandinavi (soprattutto vasi, posaterie, mobili, ecc.), quelli di A. Aalto e T. Wirkkala in Finlandia, F. Juhll e A. Jacobsen in Danimarca, B. Mathssonn in Svezia. In Germania, intanto, nasceva la Hochschule für Gestaltung, di Ulm, il più importante centro didattico e di ricerche dell'Europa del secondo dopoguerra e, nel 1957, veniva fondato l'International Council of Societies of Industrial Design (ICSID), l'organizzazione internazionale dei disegnatori industriali che tenne il suo primo congresso a Stoccolma nel 1959.
Non si può non fare menzione della qualità sempre maggiore che il d. i. è andato assumendo anche in Italia dal secondo dopoguerra a oggi. Operano, nel nostro paese, designers di notevole valore: da M. Zanuso (autore di pregevolissimi oggetti come radio e televisori e anche mobili componibili in plastica) a M. Nizzoli (autore di molti modelli per le società Olivetti e Necchi), a F. Albini, ai fratelli Castiglioni. Anzi, gli oggetti prodotti dall'industria italiana che sono ormai noti in tutto il mondo peccano, semmai, per essere eccessivamente sofisticati: il che li rende quasi pezzi esclusivi facendo loro perdere quel carattere di forte diffusione che è legato anche a un alto grado di economicità.
In questo senso è assai interessante l'esperienza svolta in Chile sotto il governo di Unidad Popular negli anni 1971-73, che si propone come un vero e proprio esempio di politica progettuale legata alla pianificazione e allo sviluppo economico del paese. Tale esperienza descritta da G. Bonsiepe, che ne fu uno dei protagonisti, nel volume Teoria e pratica del disegno industriale, del 1975, fu svolta da un gruppo di disegnatori industriali presso l'Istituto statale di ricerca tecnologica di Santiago del Chile e produsse vari progetti riguardanti mobili standard per il consumo di base, mobili per asili, stoviglie di vario tipo e apparecchi per la produzione agricola.
Con il continuo sviluppo tecnologico si è andato dilatando, sempre di più, anche il campo nel quale interviene il disegnatore industriale. Già l'automobile costituì campo di ricerche dell'industrial design fin da quando Gropius, nel 1923, progettò il modello dell'Adler e, successivamente, Pinin Farina e Bertone disegnarono splendidi esempi di carrozzerie; attualmente assai interessanti sono i vari modelli della case francese Citroen. Ma, oggi, il numero degli oggetti prodotti industrialmente diventa sempre maggiore: basti pensare, riguardo agli oggetti d'uso per la casa, alla radio, al televisore, al telefono, alle attrezzature per la cucina (dai mobili alle macchine da cucina) o agli elettrodomestici in genere (aspirapolvere, lavatrici, frigoriferi, ecc.) oppure, per ciò che attiene i mezzi di trasporto, alle imbarcazioni, agli aerei, ai treni, ecc. E non solo aumenta il numero degli oggetti da produrre industrialmente ma si modificano con enorme rapidità le caratteristiche tecnologiche e, quindi, formali degli oggetti esistenti i quali hanno vita sempre più breve. Così la legge del consumo, dettata dal sistema di produzione capitalistico, ha un sempre più stretto rapporto con le qualità degli oggetti e, quindi, con il lavoro del designer.
L'architettura stessa, molto spesso, è un prodotto industriale. Sistemi costruttivi di vario tipo (a pannelli portanti, a travi e pilastri prefabbricati, a tunnels strutturali, ecc.) consentono una prefabbricazione di pezzi (elementi) che sono prodotti industrialmente in serie negli stabilimenti per essere poi montati sul luogo dove si realizza l'edificio. Il tradizionale cantiere edile si trasforma così da luogo di costruzione dell'edificio in luogo di solo montaggio dei vari elementi che compongono la fabbrica. Si vanno delineando addirittura in questo modo tipi diversi di designers corrispondenti ciascuno ai vari campi di applicazione del d. i.: la progettazione degli elementi componenti l'oggetto edilizio (cioè l'edificio) configura un tipo di designer che è, in fondo, un architetto specializzato in una particolare tecnica di edificazione; il designer di oggetti d'uso (dal televisore al mobile, dal cucchiaio al telefono) è un progettista ancora diverso che opera a una scala dimensionale ridotta; il designer di automobili costituisce un ulteriore ambito di specializzazione che a sua volta, dato il sempre più alto livello tecnologico, tende a suddividersi in ulteriori settori; così come il progettista di aerei, d'imbarcazioni, ecc. Attività, quindi, quella del designer, in continua evoluzione e precisazione ma, anche, in continua scoperta di nuovi ambiti di applicazione, tanto che ne vengono date varie definizioni ciascuna delle quali, evidentemente, esprime un modo diverso di concepire il significato del disegno industriale.
Tra queste sembra pertinente al tema qui trattato la definizione di carattere generale data da T. Maldonado e riportata da G. Bonsiepe nel già citato volume: "Il d. i. è un'attività progettuale che consiste nel determinare le proprietà formali degli oggetti prodotti industrialmente. Per proprietà formali non si devono intendere solo le caratteristiche esteriori, ma soprattutto le relazioni funzionali e strutturali che fanno di un oggetto un'unità coerente sia dal punto di vista del produttore che dell'utente. Poiché, mentre la preoccupazione esclusiva per le caratteristiche esteriori di un oggetto spesso nasconde il desiderio di farlo apparire più attraente o anche di mascherarne le debolezze costitutive, le proprietà formali di un oggetto - per lo meno come chi scrive le intende qui - sono sempre il risultato dell'integrazione di diversi fattori, siano essi di tipo funzionale, culturale, tecnologico o economico. Detto altrimenti, mentre le caratteristiche esteriori riguardano qualcosa come una realtà estranea, cioè non legata all'oggetto e che non si è sviluppata con esso, al contrario le sue proprietà formali costituiscono una realtà che corrisponde alla sua organizzazione interna, ad esso vincolata e che con esso si è sviluppata". Vedi tav. f. t.
Bibl.: La presente bibliografia indica solo gli scritti principali di carattere generale, che si riferiscono specificamente al d. i. tralasciando i testi sull'arte e sull'architettura nonché quelli sui singoli autori. Per questi si rimanda, quindi, alle bibliografie delle relative voci.
Inoltre, nella presente bibliografia si è preferito, per i testi stranieri, citare, ove esista, la traduzione italiana.
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