Diseguaglianze economiche e minacce alla biodiversità
Nelle regioni più povere del mondo le comunità locali mettono a repentaglio la biodiversità distruggendo in modo indiscriminato tratti sempre più vasti dell'ecosistema allo scopo di sostentarsi. I paesi poveri consumano le risorse naturali più rapidamente di quanto esse si rigenerino, creando così una spirale negativa che porta all'impoverimento progressivo sia della comunità umana sia dell'ambiente. Dal canto loro, i paesi industrializzati consumano una percentuale di risorse naturali eccessiva rispetto alla dimensione delle loro popolazioni. Per tutelare gli ecosistemi e la biodiversità è perciò necessario attuare programmi di conservazione e sviluppo, miranti da un lato a incentivare i paesi industrializzati alla ricerca di fonti di energia alternative e al riciclaggio, dall'altro ad avviare i paesi poveri verso modelli di sviluppo economico compatibili con l'ecosistema. Un esempio di quest'ultimo tipo di iniziative è costituito dai programmi che finanziano direttamente le comunità locali in cambio del loro contributo alla conservazione della biodiversità.
Introduzione
I motivi che causano il rapido declino della biodiversità a livello globale sono tutt'altro che misteriosi. Gli ecosistemi vengono distrutti e le specie condotte all'estinzione perché in questo modo qualcuno si arricchisce oppure, più semplicemente, perché le persone sono costrette a servirsi delle risorse che hanno a disposizione per sopravvivere. Tuttavia, questa visione delle cose rischia di semplificare in modo eccessivo un problema terribilmente complicato: il pericolo più insidioso per la biodiversità risiede non tanto nei motivi che spingono ad appropriarsi delle risorse naturali, quanto nel modo in cui l'appropriazione e il consumo di queste risorse vengono effettuati, nella quantità e rapidità dell'appropriazione delle risorse naturali e nel grado di efficienza del loro impiego. Come è ormai ampiamente riconosciuto, le popolazioni agiate delle nazioni industrializzate consumano una quantità eccessiva delle risorse naturali mondiali e, in particolare, delle fonti di energia non rinnovabili come il petrolio, e producono gran parte dell'inquinamento globale (WRI/UNEPIUNDP, 1994; Lacayo, 1997). Allo stesso tempo, i paesi in via di sviluppo, nei quali gran parte della popolazione vive al di sotto dellivello di povertà o lo raggiunge a malapena, aspirano alla stessa prosperità delle nazioni industrializzate e il mezzo impiegato per raggiungere questo obiettivo è quasi sempre lo sfruttamento delle risorse biologiche, come le foreste tropicali e le zone di pesca, che vengono destinate ai bisogni del consumo di massa o dell'apparato industriale. Purtroppo, in molte regioni del mondo l'appropriazione delle risorse su scala industriale avviene in modo eccessivamente rapido, indiscriminato e distruttivo, e in genere le risorse vengono usate in modo poco efficiente o perfino sfacciatamente sprecate. Inoltre, i benefici economici dello sfruttamento industriale delle risorse ricadono quasi sempre su una percentuale molto piccola della popolazione, mentre la parte restante è costretta a ricorrere a lavori sottopagati e all'utilizzo diretto delle risorse naturali per soddisfare le necessità della propria sopravvivenza quotidiana. Tali attività su piccola scala, quali la caccia di sostentamento, la raccolta di piante selvatiche e perfino la cosiddetta coltura mobile, non danneggiano di solito la diversità biologica, fino a quando le popolazioni che le praticano sono sufficientemente disperse sul territorio. Tuttavia, poiché l'appropriazione industriale intensiva riduce le zone naturali a disposizione delle comunità locali, una popolazione umana in costante aumento viene a gravare su un'area territoriale in rapida contrazione. Gli ecosistemi si degradano velocemente, dato che i poveri consumano le risorse più rapidamente di quanto queste riescano a rigenerarsi, creando una spirale negativa di impoverimento che investe sia le comunità umane sia quelle biologiche.
Come bisogna affrontare questo problema su scala globale? Prima di tutto, occorre riconoscere che le risorse biologiche sono limitate e che gli ecosistemi non possono resistere a lungo, se sottoposti a uno sfruttamento continuo. In secondo luogo, è necessario adottare un uso più razionale delle risorse che limiti gli sprechi e l'inquinamento. In terzo luogo, occorre contenere i tassi di crescita della popolazione umana, un fattore che sta iniziando a logorare anche le risorse più abbondanti. Infine, è fondamentale riuscire a controllare i fattori sociali ed economici che sono alla base dello sfruttamento incondizionato degli ecosistemi: in altre parole, bisogna ridurre il divario che separa i poveri e i ricchi del mondo, eliminando l'eccessiva ricchezza degli uni e la disperazione degli altri. Il raggiungimento di questi obiettivi, di cui è evidente la difficoltà, richiede un impegno a tutti i livelli (personale, istituzionale e internazionale) per insegnare agli individui come ridurre gli sprechi domestici e imporre alle industrie del Primo e del Terzo Mondo l'adozione di metodi di produzione più razionali e meno inquinanti.
I limiti delle risorse biologiche
I tassi di distruzione dell'habitat
Se esiste una minaccia particolarmente temibile per la sopravvivenza della diversità biologica, questa è senza dubbio la distruzione dell 'habitat. In molti paesi del mondo, e in particolare in quelli più densamente popolati, la maggior parte dell 'habitat naturale è andata distrutta. A livello globale, oltre il 50% delle aree coperte dalla vegetazione è stato deteriorato o distrutto dalle attività umane; perfino dove sono state istituite delle aree protette allo scopo di salvaguardare la biodiversità, quasi metà del territorio protetto è stata danneggiata, anche in modo grave, dall'intervento dell'uomo (WRIIUNEPIUNDP, 1994). Nell'Asia tropicale, circa il 62% dell 'habitat naturale è andato perduto per la conversione delle foreste in terreno agricolo, con livelli di distruzione particolarmente alti nel caso della Cina (99%), del Bangla Desh (96%), dello SrI Lanka (86%), dell'India (78%) e del Vietnam (76%). L'Africa a sud del Sahara ha perso circa 1'84% delle sue foreste, e in alcuni paesi di quest'area il tasso di distruzione dell'habitat supera il 75% (Mali, 78%; Uganda, 79%; Ruanda, 80%; Nigeria, 80%; Senegal 82%). Alcune nazioni più piccole, come il Burundi e la Sierra Leone, hanno perso addirittura il 90% delle loro foreste (WRI/UNEPIUNDP, 1994). Negli anni Ottanta e Novanta i tassi di deforestazione più alti si sono avuti nelle foreste tropicali in Asia, in Africa e in America Latina, dove molte nazioni hanno perso tra il 10% e il 33% delle loro foreste (Brown et al., 1997).
La distruzione della foresta pluviale tropicale è divenuta così sinonimo di perdita della biodiversità. La foresta pluviale tropicale occupa circa il 7% della superficie terrestre in gran parte localizzato nei paesi in via di sviluppo - ma si stima che contenga oltre il 50% delle specie del pianeta (Myers, 1986). L'estensione originale della foresta pluviale tropicale e delle foreste umide a essa collegate è stata calcolata in 16 milioni di chilometri, sulla base dei livelli attuali delle precipitazioni e delle temperature (Myers, 1984; 1986; 1991; Sayer e Whitmore, 1991). Tuttavia, i tassi di deforestazione hanno raggiunto proprio nei paesi tropicali livelli particolarmente elevati e allarmanti, e sono tuttora in crescita (fig. 1). Grazie a una combinazione di ispezioni a terra, fotografie aeree e rilevazioni via satellite, si è stabilito che nel 1982 restavano solo 9,2 milioni di chilometri di foresta pluviale, ossia una superficie più o meno uguale a quella degli Stati Uniti. Nel 1991, altri 2,8 milioni di chilometri erano andati distrutti, mentre nei sei anni successivi si è assistito alla scomparsa di quasi il 12,6% delle foreste esistenti nel 1991, con una perdita complessiva di 3,65 milioni di chilometri in soli 15 anni (Brown et al., 1997). Anche quando le foreste non sono state completamente distrutte, ciò che ne è rimasto è in molti casi così degradato da alterare profondamente la composizione delle specie e i processi interni all'ecosistema. La distruzione dell'habitat si estende anche agli ecosistemi acquatici. I laghi, i fiumi, le paludi, le mangrovie e le barriere coralline sono state seriamente danneggiate dalle attività umane, sia direttamente con lo sfruttamento delle specie acquatiche o la deviazione dei corsi d'acqua, sia indirettamente attraverso l'inquinamento. Nelle regioni in cui le precipitazioni sono scarse o irregolari, la disponibilità di riserve di acqua non inquinata è particolarmente importante per la vita animale e vegetale. Quando la poca acqua disponibile è destinata alle attività umane (o inquinata da queste), le conseguenze per la diversità biologica possono essere molto gravi.
Popolazione, povertà e diversità biologica
Le minacce più gravi alla diversità biologica - la distruzione, la frammentazione e il degrado (compreso l'inquinamento) dell 'habitat, lo sfruttamento eccessivo delle specie naturali da parte dell'uomo, l'introduzione di specie esotiche e la diffusione delle malattie - sono tutte collegate, in modo più o meno diretto, al costante incremento dell'uso delle risorse naturali mondiali da parte di una popolazione umana in continua espansione. Le distruzioni più estese degli ecosistemi si sono verificate a partire dalla metà del 19° secolo, in corrispondenza di un enorme incremento demografico: la popolazione umana è passata da l miliardo di individui nel 1850 a 5,6 miliardi nel 1996 (Brown et al., 1997), e quasi un quarto di questo incremento si è verificato in questo secolo, a partire dalla metà degli anni Ottanta (fig. 2). Benché in anni più recenti il tasso di crescita della popolazione mondiale sia leggermente diminuito, esso è tuttora molto elevato nelle regioni tropicali dell'Africa, dell'America Latina e dell'Asia, che ospitano anche la maggiore diversità biologica.
A parità di condizioni, maggiore popolazione umana equivale a minore biodiversità. Gli esseri umani utilizzano per i loro bisogni le risorse naturali, come la fauna e la flora selvatiche, e trasformano vaste aree dell'ambiente naturale in aziende agricole e complessi residenziali. Dato che non è possibile eliminare del tutto l'uso delle risorse naturali, la crescita demografica è parzialmente responsabile della perdita della diversità biologica, tanto che secondo alcuni studiosi i tentativi di proteggere la diversità biologica avranno successo solo se si riuscirà a frenare tale crescita (Hardin, 1993). Detto questo, occorre anche sottolineare che le risorse globali sarebbero ancora sufficienti a sostenere l'attuale popolazione umana, se solo fossero distribuite più equamente. Le attività umane non sono in sé e per sé incompatibili con la diversità biologica; gli esseri umani sono vissuti in quasi tutti gli ecosistemi terrestri del mondo per migliaia di anni come cacciatori, pescatori, coltivatori e raccoglitori. Grazie a innovativi sistemi di irrigazione e all 'uso di sementi diverse, le società tradizionali riuscivano in alcuni casi a so stentare una popolazione relativamente elevata senza distruggere l'ambiente o le comunità biologiche circostanti. Per esempio, all'apice della civiltà maya, circa 1200 anni fa, nelle foreste tropicali del Messico, del Belize, del Guatemala e dell'Honduras la popolazione raggiungeva una densità di 500 abitanti/km², apparentemente senza alcun danno per la diversità biologica (Gomez-Pompa e Kaus, 1992). Oggi in questi stessi territori si registra una densità di popolazione dieci volte inferiore, a causa della povertà, della schiavitù, delle malattie e delle guerre prodotte dall'arrivo degli europei. Tuttavia, malgrado la scarsa densità di popolazione, molte aree di questa regione hanno subito una diminuzione senza precedenti delle specie animali e vegetali, la scomparsa del manto forestale, la distruzione e il degrado dell'habitat naturale. Anche se ciò può essere attribuito in parte alle maggiori capacità tecnologiche delle popolazioni moderne - gli antichi Maya non disponevano di motoseghe, trattori e neppure di animali da traino, tutti strumenti oggi utilizzati per abbattere ampi tratti di foresta - è probabile che questo stato di cose sia anche il risultato di una profonda differenza di mentalità tra gli attuali abitanti dell'America Centrale e quelli di un tempo. Le antiche civiltà nacquero e si svilupparono in queste foreste, da cui ricavarono per secoli il loro sostentamento. Di conseguenza, esse elaborarono diverse tecniche per preservare la vivibilità a lungo termine del territorio in cui vivevano e difendere gli ecosistemi della foresta. Gli abitanti moderni, al contrario, ricercano rapidi e immediati profitti, e le aziende agricole e gli allevamenti impiantati nelle aree disboscate hanno in genere avuto breve durata, a causa del rapido declino della fertilità del terreno. L'eliminazione di questi fattori di distruzione del territorio non salverebbe forse automaticamente dall'estinzione tutte le specie minacciate - neppure le popolose città degli antichi Maya lasciavano la foresta vergine e intatta - ma aumenterebbe senza alcun dubbio la sopravvivenza di molte di esse. Il punto che ci preme sottolineare è che la crescita demografica non può essere considerata la causa principale dell'estinzione delle specie e della distruzione dell 'habitat. Le comunità biologiche possono sopravvivere accanto ad aree densamente popolate, purché le comunità umane si impegnino coscientemente per minimizzare il proprio impatto sull'ambiente. In genere le comunità che dipendono dalla foresta per la propria sopravvivenza adottano abitudini, consuetudini o norme per regolare l'uso delle risorse naturali. Le guerre e le situazioni di instabilità politica o sociale possono far cadere a volte queste restrizioni. In questi casi, l'insicurezza o la paura possono spingere la popolazione a consumare indiscriminatamente quelle risorse di cui le generazioni precedenti avevano fatto un uso più oculato. Quanto più alta è la densità di una popolazione, tanto più rigidamente se ne dovranno regolare i comportamenti, e tanto più gravi saranno le conseguenze di una caduta della legalità. L'ascesa del capitalismo industriale e delle moderne società consumistiche ha aumentato enormemente la domanda di risorse naturali, soprattutto da parte dei paesi industrializzati. Gli sprechi e l'uso inefficiente delle risorse naturali sono tra le cause principali del declino della biodiversità. Una volta che abbia attecchito in una comunità o in una nazione, la mentalità responsabile dello sfruttamento a breve termine delle risorse naturali è quasi impossibile da estirpare, sia essa basata sul bisogno di sussistenza o sull'avidità individuale o sulla ricerca del profitto. Le devastazioni verificatesi in Cina durante la rivoluzione culturale rappresentano in questo senso un esempio particolarmente significativo: le rigide norme che impedivano l'abbattimento delle piante non furono più applicate e i contadini cominciarono a tagliare quanti più alberi potevano e ad accumulare scorte di legna per usi domestici e per la costruzione di case e di mobili (Primack, 1988).
L'impatto delle attività di sussistenza
Gran parte della distruzione della diversità biologica globale è causata dalle attività di persone disperatamente povere che cercano semplicemente di sopravvivere. In molti casi, le leggi create con l'intento di alleviare la povertà incoraggiano i nullatenenti a stabilirsi in territori selvaggi e non ancora sfruttati e a rivendicarne il possesso in base alle presunte 'migliorie' che consistono, nella maggior parte dei casi, nell'abbattimento della vegetazione per far posto a un'azienda agricola o a un allevamento anche laddove il tipo di terreno non lo consentirebbe. A volte la conversione dei terreni acquista un carattere permanente, ma la maggior parte delle aree convertite è utilizzata per colture mobili e nel periodo di abbandono torna a coprirsi di vegetazione, trasformandosi in foresta secondaria. Su scala mondiale, circa 86.000 km² di foresta pluviale (il 61% del totale delle foreste distrutte) vengono distrutti ogni anno dagli agricoltori poveri, spinti dalla disperazione e dalla miseria a trasferirsi sulla frontiera agricola per praticare questo tipo di colture mobili (Myers, 1991). Questa cifra comprende anche i tratti di foresta degradati dalla raccolta di legna da ardere, destinata per lo più a rifornire le cucine dei villaggi locali. Le persone che cucinano i loro pasti con la legna sono oltre 2 miliardi, e l'impatto ambientale che ne deriva è notevole. Altri 29.000 km² (il 21% delle perdite annuali) vengono distrutti ogni anno dalle operazioni legate al commercio del legname su piccola scala. Circa 15.000 km² di foreste (l'11%), infine, sono convertiti annualmente in terreni da pascolo. L'importanza relativa di queste attività varia a seconda della regione geografica: il commercio del legname gioca un ruolo più rilevante nelle zone tropicali dell'Asia e dell'America, l'allevamento del bestiame è più diffuso in America Latina e la coltivazione e la raccolta di legna da ardere ha maggior rilievo nell'Africa tropicale, a causa della rapida espansione della popolazione (Kummer e Turner, 1994; WRl/UNEP/UNDP, 1994; Rudel e Roper, 1996). Proiettando nel futuro le tendenze attuali risulta che, a parte le aree protette le cui dimensioni sono peraltro più piccole, se verrà mantenuto il ritmo di distruzione attuale, nel 2040 le foreste tropicali saranno completamente scomparse. In realtà la situazione è ancora più drammatica di quanto indichino le proiezioni, dato che la popolazione mondiale continua a crescere e la povertà ad aumentare, esercitando una pressione sempre più forte sulle già scarse risorse della foresta pluviale.
Società tradizionali e biodiversità. - ln tutte le società rurali gli uomini hanno da sempre cacciato e raccolto per procurarsi le risorse necessarie alla loro sopravvivenza. Finché queste società avevano una popolazione limitata e i metodi di raccolta erano abbastanza semplici, era possibile cacciare gli animali e raccogliere le piante in modo compatibile con l'ambiente, senza causare l'estinzione di nessuna specie. Tuttavia, perfino nelle società preindustriali uno sfruttamento troppo intensivo delle risorse ha causato a volte il declino e l'estinzione di alcune specie locali. La caccia eccessiva da parte dell'uomo potrebbe aver causato l'estinzione di alcune specie di grandi mammiferi, avvenuta 40.000 anni fa in Australia e 12.000 anni fa nel Nuovo Mondo, in coincidenza con le prime migrazioni umane in queste aree geografiche (Eldredge, 1997).
All'aumento della popolazione occorre aggiungere tuttavia l'uso sempre più intensivo delle risorse ambientali. l metodi di caccia e di raccolta sono divenuti enormemente più sofisticati ed efficienti. Nelle foreste tropicali e nelle savane i fucili da caccia hanno sostituito le cerbottane, le lance e le frecce. Potenti pescherecci a motore ed efficientissime 'fabbriche galleggianti', equipaggiate a volte con sofisticate apparecchiature radar e sonar per la localizzazione dei banchi di pesci, percorrono gli oceani di tutto il mondo. Perfino i pescatori locali hanno dotato le loro barche e canoe di motori fuoribordo, che permettono di pescare più rapidamente e su un'area più vasta. Pratiche distruttive come la pesca con gli esplosivi (che uccide tutti gli organismi presenti in una data area di circa 5 metri di diametro) non solo uccidono più pesci di quanti ne siano necessari, ma danneggiano in modo gravissimo il fragile habitat delle scogliere (Jennings e Polunin, 1996). Circa un terzo delle specie più cacciate, vulnerabili e rare di vertebrati (WCMC, 1992) corre il rischio di estinguersi a causa dell'eccessivo sfruttamento da parte dell'uomo.
Le società tradizionali adottavano in genere particolari misure restrittive per prevenire lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali. Per esempio, i diritti di accesso a specifici territori di raccolta erano rigidamente controllati; in alcune zone era vietato cacciare; spesso, nel caso di determinate specie, vigeva il divieto di uccidere le femmine, i cuccioli o gli esemplari di piccole dimensioni; in determinati periodi dell'anno e in certi momenti della giornata era vietato raccogliere; non erano consentiti alcuni metodi di raccolta particolarmente efficienti. Queste restrizioni, che consentivano alle società tradizionali di impiegare le risorse comuni in un modo sostenibile nel lungo periodo, sono quasi identiche alle rigide norme elaborate e proposte per regolamentare la pesca di diverse specie ittiche nei paesi industrializzati (McGoodwin, 1990). Un sistema di norme particolarmente complesso fu sviluppato nelle società tradizionali o 'artigianali' delle isole della Micronesia e della Polinesia (Johannes, 1978), dove i limiti delle risorse offerte dalla scogliera e dalla laguna erano chiaramente definiti e la possibilità e i rischi di uno sfruttamento eccessivo pienamente evidenti.
Più che rappresentare una minaccia per l'integrità dell'ambiente primigenio delle foreste tropicali, le popolazioni umane tradizionali sono state parte integrante di queste foreste per migliaia di anni. L'attuale mescolanza di specie e le densità relative di piante e animali in un dato ecosistema riflettono in parte i comportamenti delle popolazioni che per lunghi periodi hanno vissuto in quell'area, come la caccia selettiva di alcuni tipi di selvaggina, la pesca e la coltivazione delle piante utili. Anche il metodo di coltivazione più comunemente praticato dalle società tradizionali, quello noto come coltivazione 'taglia e brucia', o coltura mobile, modifica la struttura della foresta e la composizione delle specie, creando un mosaico composto da particelle di foresta di età diverse. Questo metodo consiste nel tagliare gli alberi in una determinata zona, nell'incendiare il materiale vegetale abbattuto e nel seminare nel terreno misto a cenere, quindi ricco di sostanze nutritive. Dopo uno o più raccolti, tuttavia, il terreno è dilavato dalla pioggia; il contadino allora lo abbandona e si trasferisce in un'altra zona della foresta, dove ripete da capo tutta l'operazione. Questo metodo è molto efficace e non danneggia eccessivamente l'ambiente, a patto che vi sia una bassa densità di popolazione e la foresta risulti sufficientemente estesa.
Iniziative locali a favore della diversità biologica. - In molti casi le popolazioni locali stabiliscono spontaneamente norme per la protezione dei biotopi posti nelle vicinanze, quali le foreste, i fiumi e le acque costiere. Per giustificare queste restrizioni, gli anziani della comunità fanno spesso riferimento a credenze religiose e tradizionali. I governi e le associazioni ambientaliste possono rafforzare questo genere di iniziative locali a favore dell'ambiente, riconoscendo legalmente i diritti di una comunità sul territorio da essa tradizionalmente controllato e mettendo le a disposizione una valida consulenza scientifica e l'assistenza finanziaria necessaria allo sviluppo delle infrastrutture. Il caso del Baboon Sanctuary, nel Belize orientale, creato grazie a un accordo collettivo stipulato da un gruppo di villaggi allo scopo di preservare l'habitat forestale necessario alla sopravvivenza della popolazione locale di aluatte (Alouatta pigra), costituisce un interessante esempio di questa forma di collaborazione (Horwich e Lyon, 1997). Gli ecoturisti che visitano il parco naturale devono pagare un biglietto di ingresso all'organizzazione del villaggio e una tariffa stabilita se decidono di alloggiare presso una famiglia locale. I biologi delle organizzazioni per la salvaguardia ambientale che lavorano sul posto hanno provveduto alla formazione di guide naturali locali, a trasmettere alla popolazione una serie di informazioni scientifiche concernenti l'ambiente naturale, a raccogliere i fondi per la costruzione del museo di storia naturale locale e a fornire agli anziani del villaggio le indispensabili nozioni di carattere commerciale.
Nei paesi in via di sviluppo, in molti casi non è possibile stabilire una distinzione netta tra i territori da cui la popolazione locale trae le risorse necessarie alla sua sopravvivenza e le aree naturali sottoposte a protezione (McNeely, 1993a; 1993b). Spesso, infatti, la popolazione locale risiede all'interno delle aree protette o ne sfrutta tradizionalmente le risorse. Inoltre, anche i terreni privati costituiscono a volte importanti riserve di diversità biologica. Esistono molti esempi di aree protette in cui la popolazione locale ha il permesso di penetrare periodicamente per la raccolta di prodotti naturali. Nelle riserve promosse e gestite dall'UNESCO, gli abitanti del posto possono utilizzare le risorse presenti in zone cuscinetto destinate a questo scopo (fig. 6). In molte riserve africane è consentita la caccia a scopi alimentari della selvaggina di grandi dimensioni (Lewis et al., 1990). Questo genere di compromessi consente di armonizzare i piani di conservazione ambientale con i bisogni economici della popolazione locale, a vantaggio sia della popolazione stessa sia della riserva.
Gli accordi di questo tipo, noti come progetti integrati di conservazione e sviluppo, sono considerati attualmente una delle più efficaci strategie di conservazione ambientale (Wells e Brandon, 1992). La mancanza di un accordo preventivo può causare infatti una grave conflittualità tra i responsabili del parco e la popolazione locale, solitamente a danno dello stesso parco; anche quando gli abitanti del luogo sono favorevoli all'adozione di misure conservative, infatti, il divieto di accesso alle risorse necessarie alla sopravvivenza quotidiana può creare aspri risentimenti tra la popolazione e provocare comportamenti illegali e violenti. Episodi di bracconaggio e di sabotaggio, e perfino di violenza fisica nei confronti di funzionari pubblici, si sono verificati per esempio nel Chitwan National Park in Nepal (Nepal e Weber, 1995) e nella Maya Biosphere Reserve (Ponciano, 1997). Perfino quando i parchi non sono in discussione, l'adozione di norme che limitino l'accesso alle risorse naturali più a rischio può causare reazioni dello stesso genere: negli Stati Uniti occidentali, per esempio, sono sempre più frequenti i casi di minacce e di aggressioni contro gli appartenenti al Forest Service e al Parks Service da parte di agricoltori e taglialegna che si sentono minacciati dalle disposizioni governative che regolano lo sfruttamento del territorio pubblico.
Le popolazioni locali tuttavia possono gestire l'ambiente senza danneggiare la biodiversità, come dimostrano gli agroecosistemi tradizionali e le foreste degli indiani huaztechi, nel Messico nord-orientale (Alcorn, 1984). Oltre all'agricoltura stabile e a quella mobile, gli Uastechi si occupano anche della manutenzione di tratti di foresta situati sui pendii, lungo i corsi d'acqua e in altre zone fragili o inadatte all'agricoltura intensiva. Queste foreste contengono oltre 300 specie di piante, che forniscono a questo popolo cibo, legna e altri prodotti. La composizione specifica della foresta è alterata a favore delle specie utili mediante piantagioni e sarchiature selettive periodiche. Le risorse fornite da queste foreste consentono alle famiglie uasteche di sopravvivere negli anni di carestia. Esempi analoghi di foreste in cui l'attività di controllo e di regolazione è gestita dalle popolazioni locali ( si ritrovano nelle società tradizionali di tutto il mondo (Oldfield e Alcorn, 1991; Nepstad e Schwartzman, 1992; Redford e Padoch, 1992).
l biologi delle organizzazioni ambientaliste devono lavorare al fianco delle associazioni filantropiche e umanitarie per aiutare le popolazioni locali a organizzare e sviluppare attività economiche sostenibili che non danneggino la biodiversità. l progetti integrati di conservazione e sviluppo rappresentano un esempio di questo tipo di approccio. l programmi di aiuti ai paesi poveri devono essere attentamente pianificati allo scopo di alleviare la povertà della popolazione rurale, e non di arricchire le élite urbane, come invece troppo spesso accade. Poiché i fondi a disposizione degli ambientalisti sono limitati e i problemi da affrontare sono urgenti, occorre concentrare tutte le forze disponibili sulle popolazioni che risiedono nelle aree di maggiore importanza dal punto di vista biologico. Inoltre, la partecipazione dei biologi e delle organizzazioni ambientaliste ai programmi di pianificazione familiare è in costante aumento. La riduzione della crescita demografica dovrebbe essere strettamente collegata alle iniziative volte a migliorare le condizioni economiche e ad arrestare il degrado ambientale (Dasgupta, 1995).
Grande industria e distruzione della biodiversità
Anche se le attività di sussistenza degli abitanti dei paesi in via di sviluppo incidono pesantemente sull 'habitat naturale, la causa principale della distruzione della diversità biologica risiede probabilmente nella sperequazione della distribuzione delle risorse a livello mondiale. Gli abitanti dei paesi industrializzati e la minoranza di ricchi che risiedono nei paesi in via di sviluppo consumano una quota enorme dell'energia, dei minerali, del legno e del cibo prodotti nel mondo (Parikh e Parikh, 1991; WRl/UNEP/UNDP, 1992). Per esempio, il cittadino medio statunitense consuma ogni anno una quantità di prodotti petroliferi 43 volte maggiore, una quantità di alluminio 34 volte maggiore e una quantità di fosfati fertilizzanti 58 volte maggiore rispetto al cittadino medio dell'India (WRl/UNEP/UNDP, 1994). Questo consumo eccessivo delle risorse non è sostenibile nel lungo periodo. Se questo modello di consumi venisse adottato dalla classe media dei paesi in via di sviluppo, in costante espansione, si produrrebbero dei guasti ambientali di proporzioni gigantesche. Gli agiati abitanti dei paesi industrializzati devono impegnarsi a limitare l'eccesso di consumi e a ridimensionare il proprio stile di vita, se vogliono apparire credibili ai paesi in via di sviluppo quando offrono loro suggerimenti e aiuti per frenare la crescita demografica e proteggere la diversità biologica (fig. 9).
Nella maggior parte del mondo attuale vige la norma di sfruttare le risorse il più rapidamente possibile. Se esiste un mercato per un certo tipo di prodotto, l'ambiente naturale delle regioni in cui se ne trova in maggior quantità verrà setacciato fino al completo esaurimento di tutte le riserve. Non fa differenza che gli abitanti del luogo siano poveri e affamati o ricchi e avidi: essi si serviranno comunque di ogni mezzo a loro disposizione per ottenere ciò che desiderano. A volte una comunità tradizionale può perfino decidere di vendere i propri diritti su una particolare risorsa (una foresta o una zona mineraria, per esempio) per ottenere il denaro necessario ad acquistare i beni di cui sente la mancanza. l controlli che regolavano tradizionalmente lo sfruttamento delle risorse naturali nelle aree rurali si sono indeboliti quasi ovunque; nelle zone a forte emigrazione, o in quelle in cui si sono verificati disordini o guerre, spesso i controlli tradizionali non vengono più esercitati affatto. Una delle conseguenze dei disordini civili che hanno interessato alcune nazioni, come la Somalia, la ex Iugoslavia, lo Zaire e il Ruanda, è stata l'enorme diffusione delle armi da fuoco tra la popolazione rurale, che si è accompagnata all'interruzione della rete di distribuzione alimentare. In una situazione del genere, le risorse ambientali sono a disposizione di chiunque voglia servirsene. Il cacciatore più bravo e meglio armato può uccidere più animali, vendere una quantità maggiore di carne e guadagnare più denaro per sé e per la propria famiglia. A volte gli animali vengono addirittura utilizzati come bersaglio, o uccisi solo per fare un dispetto al governo.
In molti casi lo sfruttamento eccessivo di una risorsa è legato allo sviluppo di un mercato per i prodotti forniti da specie biologiche fino a quel momento non utilizzate, o utilizzate solo a livello locale. Uno degli esempi più diffusi è il commercio internazionale delle pellicce, a causa del quale varie specie di cincillà (Chinchilla), le vigogne (Vicugna vicugna), le lontre giganti (Pteronura brasiliensis) e numerose specie di felini sono state sottoposte a una caccia indiscriminata che ne ha fortemente ridotto la quantità. La cattura di un numero eccessivo di esemplari di farfalle, di orchidee, di cactus e di altre piante, di molluschi marini e di pesci tropicali per conto di collezionisti e appassionati di vario genere, costituisce una forma di sfruttamento a cui vengono sottoposte intere comunità biologiche per soddisfare un'enorme domanda internazionale.
Si calcola che sul mercato internazionale dei pesci da acquario vengano immessi ogni anno 150÷ 300 milioni di pesci tropicali, e che un numero molto maggiore di esemplari venga ucciso durante le operazioni di pesca e di trasporto. Il traffico legale e illegale di piante e animali selvatici è responsabile del declino di molte altre specie. Il mercato mondiale di questi 'prodotti' ha raggiunto dimensioni sorprendenti, con un fatturato di circa 5 miliardi di dollari, e assorbe ogni anno circa 30.000 primati, 4 milioni di uccelli da gabbia e 2÷3 milioni di pelli di rettili (tab. I). l maggiori esportatori sono in primo luogo i paesi in via di sviluppo e, in particolare, quelli tropicali, mentre i principali importatori sono le nazioni industrializzate, compresi il Canada, la Cina, l'Unione Europea, Hong Kong, il Giappone, Singapore, Taiwan e gli Stati Uniti (Hemley, 1994). Il commercio illegale di specie selvatiche coinvolge successivamente gli abitanti dei paesi poveri, doganieri corrotti, commercianti senza scrupoli che conoscono i mezzi per aggirare la legge e ricchi compratori che preferiscono non fare troppe domande su ciò che acquistano. In molti casi questo traffico possiede le stesse caratteristiche, le stesse modalità e a volte perfino gli stessi gestori del traffico illegale di armi e di stupefacenti.
È scoraggiante osservare come il processo di sfruttamento eccessivo di piante e animali si ripeta in modo sostanzialmente identico a distanza di anni. Dopo la scoperta del valore commerciale di una determinata specie, e la creazione di un mercato per i prodotti che ne derivano, la popolazione locale viene mobilitata per la raccolta e la vendita di tutti gli esemplari disponibili. La raccolta prosegue con la massima intensità, fino a quando la risorsa in questione diviene troppo rara o addirittura si estingue, e il mercato identifica un'altra specie o un' altra regione per sostituire le precedenti. L'industria della pesca segue questo modello, lavorando una specie dopo l'altra fino a quando rimangono sufficienti margini di profitto. Anche l'industria del legname agisce quasi sempre in modo analogo, procedendo al taglio delle piante meno pregiate o di minori dimensioni in cicli successivi, fino a esaurire completamente le potenzialità commerciali di una foresta. A causa di questa politica, il mogano delle Indie occidentali (Swientenia mahoganii) è divenuto una pianta rara nei Caraibi e le grandiose foreste di cedri del Libano, che coprivano un tempo 500.000 ha, sono ridotte oggi a pochi frammenti isolati. In Indonesia, l'abbattimento dell'albero del ferro del Borneo (Eusideroxylon zwageri), da cui si ricava un legno molto apprezzato dagli abitanti del luogo per la sua durezza, era regolato un tempo da rigide norme locali, che consentivano uno sfruttamento sostenibile di questa risorsa; in tempi più recenti questi metodi sono stati sostituiti dall'azione indiscriminata dell'industria del legname, appoggiata dal governo, che sta rapidamente eliminando tutti gli esemplari esistenti. Inoltre, le operazioni necessarie al taglio dei rari esemplari delle specie più pregiate, effettuate con l'uso di strumenti meccanizzati, producono molto spesso la distruzione di tutta la vegetazione circostante.
I governi e le industrie spesso affermano di poter evitare lo sfruttamento eccessivo delle specie selvatiche mediante l'applicazione dei principi della moderna gestione scientifica. A sostegno di questa tesi è stata prodotta una copiosa letteratura riguardante la gestione ambientale e i suoi rapporti con l'industria della pesca e del legname, il cui scopo è quello di stabilire il massimo prelievo compatibile, ossia la massima quantità di esemplari che può essere rimpiazzata dalla crescita della popolazione ogni anno, e quindi prelevata senza causare danni alla specie. Questi calcoli vengono eseguiti sulla base del tasso di crescita della popolazione e del potenziale biologico del territorio, cioè la popolazione più numerosa che la zona può sostenere. Il livello del massimo prelievo sostenibile si considera raggiunto quando le dimensioni di una popolazione corrispondono alla metà del potenziale biologico del territorio. Nei casi in cui è possibile controllare e quantificare con esattezza le dimensioni di una popolazione, come nelle piantagioni di alberi da taglio, il principio del massimo prelievo sostenibile può funzionare, ma nella maggior parte delle situazioni reali lo sfruttamento di una specie al massimo livello teoricamente sostenibile ne causa immancabilmente il brusco declino.
Spesso i governi, per favorire gli interessi degli operatori economici locali e per proteggere l'occupazione, stabiliscono livelli di prelievo troppo alti che finiscono per compromettere le basi di sopravvivenza della specie. Il principio del prelievo sostenibile è particolarmente difficile da applicare nei casi di specie che si spostano attraverso i confini nazionali e le acque internazionali, per via dei problemi relativi al coordinamento degli accordi tra i paesi interessati e delle azioni di monitoraggio. Inoltre, il prelievo illegale produce in molti casi una distruzione aggiuntiva di risorse, non individuata dai rapporti ufficiali, e una percentuale considerevole degli esemplari rimanenti viene danneggiata nel corso stesso delle operazioni di raccolta. Un'ulteriore difficoltà è rappresentata dal fatto che spesso le quote di prelievo vengono mantenute a un livello più o meno costante, mentre le dimensioni della popolazione interessata fluttuano a seconda degli anni; il prelievo di una certa specie di pesci, che risulta normalmente sostenibile, può danneggiare seriamente o perfino distruggere la specie in annate in cui le dimensioni della sua popolazione sono particolarmente ridotte a causa, per esempio, delle cattive condizioni del tempo.
Molti governi hanno iniziato tuttavia a riconoscere la necessità di prevenire la distruzione completa delle specie, anche attraverso l'adozione di misure drastiche. Durante gli anni Ottanta, una flotta canadese di pescherecci ha raccolto grandi quantità di merluzzo allargo delle coste dell'isola di Terranova, malgrado l'evidente declino della popolazione di questi pesci, con il risultato che le riserve di merluzzi si sono ridotte a un centesimo delle loro dimensioni originali. Nel 1992, il governo si è visto quindi costretto a vietare la pesca, cancellando in questo modo 35.000 posti di lavoro. Le dimensioni di questa crisi furono sottolineate dall'insolito conflitto internazionale che ne seguì: un peschereccio spagnolo, che pescava nelle acque internazionali al largo delle coste canadesi, venne fermato, abbordato e confiscato dalla guardia costiera canadese. La Spagna defrnì l'episodio un atto di pirateria, dato che la nave era stata sequestrata oltre il limite delle acque territoriali canadesi; il governo canadese replicò che il duro colpo inflitto all'industria della pesca del paese dal crollo delle riserve di pesce giustificava l'adozione di tutti mezzi necessari a impedire la prosecuzione dello sfruttamento delle zone di pesca. Come era lecito attendersi, questa posizione fu appoggiata dagli Stati Uniti che erano stati costretti ad adottare analoghe restrizioni alla pesca a causa della diminuzione delle specie più commerciabili. Questo esempio dimostra chiaramente che la teoria del massimo prelievo sostenibile si rivela spesso inadeguata e inapplicabile.
In molti casi, la distruzione degli habitat è causata dalle attività industriali e commerciali su vasta scala legate al funzionamento dell'economia globale, come l'industria mineraria, l'allevamento del bestiame, la pesca industriale, il commercio del legname, le piantagioni agricole, l'attività manifatturiera e la costruzione di dighe. Molti di questi progetti sono finanziati dagli stati nazionali e dalle banche internazionali per favorire lo sviluppo economico, in quanto portano alla creazione di posti di lavoro, benessere materiale e introiti fiscali. Altri sono invece frnanziati dalle grandi imprese multinazionali. Tuttavia, nella maggior parte dei casi si tratta di attività basate su uno sfruttamento delle risorse naturali irrazionale e improduttivo, che privilegiano i ricavi a breve termine a scapito della conservazione a lungo termine delle risorse naturali, e che, in genere, non rispettano le esigenze della popolazione locale, la cui sopravvivenza dipende dalle stesse risorse. Le industrie del legname che prendono in affitto le foreste, le compagnie minerarie che acquistano temporaneamente i diritti di estrazione per una certa zona e gli allevatori che prendono in affitto dallo Stato vaste estensioni di terreni da pascolo, spinti dal desiderio di rapidi profitti, spesso danneggiano il territorio e ne riducono la capacità produttiva. Queste attività economiche non solo lasciano dietro di sé un ecosistema degradato, che non potrà più essere ripopolato da molte specie viventi tipiche delle foreste primarie, ma spesso espandono le frontiere delle attività umane con la costruzione di strade e ferrovie che facilitano la colonizzazione successiva del territorio da parte dell'uomo.
La distruzione della foresta pluviale tropicale è spesso una conseguenza della domanda di prodotti agricoli a basso costo, come gomma, olio di palma, cacao, carne e legname, da parte dei paesi industrializzati. Nel corso degli anni Ottanta, per esempio, la Costa Rica ha fatto registrare uno dei più alti tassi di deforestazione del mondo, in seguito alla conversione di vaste estensioni di foresta pluviale in terreni da pascolo (Downing et al., 1992). Gran parte della carne così prodotta era venduta agli Stati Uniti e ad altri paesi industrializzati per la produzione di hamburger a basso costo. La pubblicità negativa causata dalla divulgazione di questa 'hamburger connection', a cui fece seguito il boicottaggio da parte dei consumatori, ha indotto le principali catene di ristorazione rapida degli Stati Uniti a interrompere gli acquisti di carne proveniente dagli allevamenti tropicali. Benché la deforestazione della Costa Rica sia proseguita anche dopo il boicottaggio, questa iniziativa ha permesso ai consumatori di prendere coscienza degli interessi economici che stanno dietro al fenomeno della distruzione delle foreste.
Un altro caso ben documentato riguarda il legame tra la scomparsa delle foreste tailandesi e l'industria olandese dell'allevamento. L'Olanda importa grandi quantità di tapioca (ricavata dalla manioca), pasta di cuore di palma e altri prodotti tropicali, che utilizza come mangimi nei suoi allevamenti. Per venire incontro a questa domanda, gli agricoltori thailandesi hanno aumentato i terreni coltivati a manioca e ad altre piante da foraggio, che sono passati dai 105 ha del 1965 a circa 10⁶ ha intorno alla metà degli anni Ottanta. Oltre il 25% della deforestazione della Tailandia nord-orientale è attribuibile all'attività delle cinquecentomila famiglie di contadini impegnate nella coltivazione della mani oca. Così, quello che può apparire a prima vista un fenomeno secondario, e cioè l'importazione di prodotti agricoli a basso costo da parte dell'Olanda per alimentare un settore secondario della propria economia, è in effetti all'origine di un grave guasto ambientale (Primack, 1993). Le organizzazioni ambientaliste devono impegnarsi in primo luogo a fornire le informazioni, la consapevolezza e i progetti necessari a preservare l'integrità di quanto rimarrà della foresta pluviale, quando l'attuale ciclo di distruzione sarà giunto a termine.
La consapevolezza della necessità di realizzare uno sviluppo sostenibile - ossia uno sviluppo economico che soddisfi la richiesta presente e futura di posti di lavoro e di risorse naturali - si va diffondendo con sempre maggiore forza tra i biologi ambientalisti, gli uomini politici e gli amministratori incaricati della gestione del territorio. Il concetto di sviluppo sostenibile può essere applicato in vari modi. Secondo la definizione di alcuni economisti ambientalisti, lo sviluppo economico può essere il risultato di miglioramenti di carattere organizzativo, ma non implicare necessariamente un aumento del consumo delle risorse naturali, e dovrebbe essere chiaramente distinto dalla crescita economica, cioè dall'aumento materiale della quantità di risorse consumate. Il concetto di sviluppo sostenibile può inoltre essere applicato al campo della conservazione della diversità biologica, a patto che si ammetta l'importanza delle politiche volte a favorire lo sviluppo corrente e a limitare la crescita economica. Gli investimenti nelle infrastrutture dei parchi nazionali, finalizzati ad aumentare la protezione della diversità biologica e a creare nuove opportunità di reddito per gli abitanti, potrebbero rappresentare un esempio di questo tipo di politica, così come l'adozione di pratiche meno distruttive nell'industria del legname e della pesca.
La protezione delle specie minacciate può infatti avere implicazioni economiche rilevanti. Molte grandi imprese, e le organizzazioni politiche che esse finanziano, hanno fatto un uso volutamente distorto del concetto di sviluppo sostenibile, per 'ripulire' le loro attività economiche, senza apportarvi nessuna sostanziale modifica (fig. 11). Si sono costituiti gruppi di sostegno all'industria che, servendosi di un linguaggio ricalcato su quello degli ambientalisti, hanno attaccato l'Endangered Species Act, la più importante legge per la protezione delle specie in pericolo in vigore negli Stati Uniti, proponendo di sostituirla con un 'saggio uso' delle risorse naturali, ossia un uso che privilegi i bisogni umani di occupazione, di materie prime e di sviluppo economico rispetto alle necessità delle specie e degli ecosistemi. L'adozione di norme restrittive per il commercio del legname in aree particolarmente a rischio della costa nordoccidentale degli Stati Uniti, richiesta a gran voce dalle organizzazioni ambientaliste, è stata fortemente contrastata da gruppi di cittadini e di industriali della regione, come pure da molti uomini politici. Dopo anni di negoziati, battaglie legali e pressioni politiche, la questione rimane ancora irrisolta. La considerazione che, forse, farà pendere alla fine la bilancia a favore della conservazione di queste foreste potrebbe essere il riconoscimento della necessità di mantenere intatto il bacino idrico della regione, in modo da garantire la pulizia dei fiumi e la sopravvivenza della popolazione di salmoni, poiché questa ha permesso lo sviluppo di una fiorente attività turistica.
Il divario tra ricchi e poveri
Spesso le esigenze delle famiglie povere e quelle delle industrie sono in conflitto tra loro, a tutto svantaggio delle comunità biologiche. In molti paesi permane un'estrema diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e una minoranza esigua possiede la maggior parte delle risorse (denaro, terreni fertili, capi di bestiame, foreste e così via). In molti casi si può innescare un processo di 'consumo' delle risorse naturali semplicemente circondando un vasto tratto di foresta di cartelli di divieto di accesso (e facendoli rispettare), allo scopo di designare la zona come area protetta e impedire agli abitanti del luogo di cacciare o raccogliere cibo, legname o medicinali al suo interno. Queste iniziative conducono a un fenomeno conosciuto con il termine generico di "crisi dei beni comuni" (crisis of the commons): la popolazione rurale, priva di terreni o risorse proprie, è costretta a sfruttare eccessivamente lo scarso territorio pubblico residuo, causando la distruzione delle comunità biologiche e l'estinzione delle specie protette (Kummer e Tumer, 1994). Quando cartelli di divieto di accesso delimitano una riserva o un parco naturale, possono esplodere violenti conflitti tra le organizzazioni ambientaliste e la popolazione locale. Molto spesso, comunque, la terra appartiene a qualche ricco proprietario che la converte rapidamente in una piantagione o in terreni da pascolo.
Un fenomeno altrettanto frequente nei paesi in via di sviluppo è l'espulsione forzata dei contadini dalla loro terra a opera di grandi proprietari terrieri o potenti gruppi economici, spalleggiati quasi sempre in queste circostanze dal governo, dalla polizia e dall'esercito. Spesso ai contadini espropriati non resta altra scelta che trasferirsi nelle aree più remote e non ancora sviluppate, per tentare di sopravvivere dedicandosi alla coltura mobile. Come abbiamo osservato in precedenza, l'impatto ambientale di questo tipo di coltivazione è modesto se la densità di popolazione è bassa, ma in questi casi gli agricoltori sono confrnati quasi sempre in un'area troppo ristretta per poterne trarre mezzi di sostentamento sufficienti senza danneggiare l'ambiente. Gli agricoltori possono essere costretti ad abbandonare le proprie terre e a trasferirsi in aree più remote, ma meno pericolose, anche a causa di situazioni di instabilità politica e di insicurezza, o addirittura per via di una guerra. Invece che di agricoltura mobile, si dovrebbe parlare in questi casi di 'agricoltori mobili', per distinguerli dai coltivatori che risiedono da lunghissimo tempo nelle foreste pluviali. Spesso i nuovi arrivati non hanno alcuna familiarità con le tecniche di coltivazione, come il terrazzamento o la pacciamatura, che aumentano la fertilità del terreno impedendo la dispersione delle sostanze nutritive. Inoltre, essi non hanno generalmente né i mezzi né la volontà necessari a porre le basi per una coltivazione sostenibile di terreni che non appartengono loro, e sui quali non potranno comunque rimanere a lungo.
I mercati internazionali e la diversità biologica
La diversità biologica è concentrata in gran parte nelle aree tropicali dei paesi in via di sviluppo, che sono quasi tutti relativamente poveri e presentano tassi molti elevati di crescita demografica, di sviluppo economico e di distruzione dell'habitat. I paesi industrializzati (gli Stati Uniti, l'Europa, il Giappone, il Canada, e così via) hanno bisogno della diversità biologica dei paesi tropicali per rifornire di materiale genetico e prodotti naturali la propria agricoltura e la propria industria. Inoltre, l'opinione pubblica dei paesi industrializzati si impegna per salvaguardare la salvezza delle specie naturali esotiche, come gli elefanti, i leoni e gli uccelli tropicali, che sono così affascinanti da osservare, negli zoo, sui libri o in televisione. Anche i paesi in via di sviluppo sono spesso interessati alla salvaguardia della diversità biologica, ma non possiedono i mezzi necessari a finanziare le attività di tutela, ricerca e gestione ambientale necessarie a questo scopo. In che modo le nazioni possono collaborare per preservare la diversità biologica?
La protezione della diversità biologica richiede ai governi interessati un impegno a diversi livelli. Mentre i principali meccanismi di controllo attualmente in uso agiscono all'interno dei singoli paesi, si moltiplicano gli accordi internazionali per la protezione delle specie e degli habitat. Vi sono molte ragioni che rendono la cooperazione internazionale un fattore cruciale per la protezione della biodiversità. In primo luogo, molte specie migrano attraverso i confini nazionali. Per essere efficaci, le misure per la conservazione di una specie devono perciò estendersi a tutta l'area che essa copre nei suoi spostamenti; sarebbe inutile, infatti, proteggere una specie in un paese e consentire che il suo habitat venga distrutto nei paesi verso cui migra. Per esempio, le misure adottate dai paesi dell'Europa settentrionale per proteggere le specie di uccelli migratori non serviranno a nulla se non verrà posto un freno alla distruzione del loro habitat nei paesi africani in cui svernano. I tentativi di proteggere le balene nelle acque territoriali statunitensi saranno inutili frnché non saranno impediti l'uccisione e il ferimento dei cetacei anche nelle acque internazionali. Le specie animali, tra l'altro, sono particolarmente vulnerabili durante le migrazioni, perché sono più facilmente individuabili, più affaticate e più bisognose di acqua e di cibo.
In secondo luogo, le responsabilità del commercio di prodotti biologici sono comuni. Come già osservato in precedenza, una forte domanda di un certo prodotto in un paese ricco può spingere gli abitanti dei paesi in via di sviluppo a un eccessivo sfruttamento della specie ricercata. Finché esisteranno ricchi disposti a pagare a caro prezzo gli animali esotici o generi di lusso come le ossa di tigre, i corni di rinoceronte e la bile di orso, i cacciatori di frodo o gli individui più poveri e disperati continueranno a catturare e uccidere fino all'ultimo esemplare quelle specie da cui possono ricavare un reddito. Per prevenire lo sfruttamento eccessivo, è necessario fornire un'educazione e alternative economiche valide alle persone implicate nel traffico e istituire controlli sul commercio di prodotti biologici, sia nei paesi esportatori sia in quelli importatori. In terzo luogo, i benefici derivanti dalla conservazione della diversità biologica hanno rilevanza internazionale. L'intera comunità internazionale trae giovamento dall'esistenza di specie e varietà che possono trovare impiego in campo agricolo, medico e industriale, così come dall'esistenza degli ecosistemi che contribuiscono a regolare il clima e dei parchi nazionali e delle riserve naturali, di elevato valore sia scientifico che turistico. I paesi ricchi della zona temperata traggono i maggiori profitti dalla diversità biologica tropicale e hanno quindi il dovere di aiutare i paesi poveri a preservarla. Infine, molti problemi di inquinamento ambientale che minacciano gli ecosistemi, come la pesca e la caccia eccessive, l'inquinamento atmosferico e le piogge acide, l'inquinamento di laghi, fiumi e oceani, i mutamenti climatici e la distruzione della fascia di ozono stratosferico hanno dimensioni internazionali e possono essere risolti solo a livello internazionale. Si pensi a un fiume come il Danubio, che scorre attraverso la Germania, l'Austria, la Slovacchia, l'Ungheria, l'ex Iugoslavia, la Bulgaria, la Romania e l'Ucraina, prima di sfociare nel Mar Nero, che è a sua volta uno specchio d'acqua internazionale. Solo la collaborazione tra tutti i paesi coinvolti può risolvere questo tipo di problemi.
Debito estero e aiuti internazionali
I governi dei paesi in via di sviluppo giustificano a volte le proprie politiche di sviluppo, che includono il taglio delle foreste e la soppressione dei controlli sulle attività industriali inquinanti, con la necessità di raccogliere fondi per far fronte al debito estero della nazione. Per un amaro paradosso dell'attuale sistema bancario internazionale, infatti, i poveri dei paesi in via di sviluppo sprofondano sempre di più nella miseria per pagare gli interessi pretesi dalle banche dei paesi ricchi, e le preziose nicchie biologiche dei paesi tropicali vengono distrutte per far fronte al debito estero, invece di essere utilizzate per le necessità dei loro abitanti. Gli aiuti internazionali dovrebbero proporsi piuttosto lo scopo di fornire ai paesi in via di sviluppo le risorse, tanto culturali quanto frnanziarie, necessarie a evitare l'instabilità sociale, prevenire il diffondersi delle malattie, proteggere la diversità biologica e affrontare gli altri problemi derivanti dalla crescita della povertà.
Nei paesi industrializzati si va facendo strada la convinzione che, se si vuole davvero contribuire a preservare la biodiversità nei paesi più ricchi dal punto di vista biologico, ma più poveri da quello economico, non ci si può limitare a dare consigli ma occorre anche fornire un aiuto concreto. Una delle principali fonti di sostegno frnanziario è rappresentata da alcune istituzioni che hanno sede negli Stati Uniti. I fondi forniti da queste istituzioni nel corso degli ultimi anni sono stati piuttosto consistenti: nel 1991, le istituzioni statunitensi di diverso tipo hanno approvato 1410 progetti di conservazione ambientale in 102 paesi in via di sviluppo, per un investimento totale di 105 milioni di dollari (Abramovitz, 1994). La maggior parte dei finanziamenti è stata fornita da agenzie governative (70 milioni di dollari), come l'Agency for International Development e la National Science Foundation, dalle fondazioni umanitarie (20 milioni di dollari) come la Fondazione Mellon, la Fondazione W. Alton Jones, e i Pew Charitable Trusts, e da organizzazioni non governative (lO milioni di dollari), come il WWF, Conservation International e The Nature Conservancy (fig. 12). Gli investimenti delle principali fondazioni a favore della conservazione ambientale sono aumentati di sette volte tra il 1987 e il 1991, mentre i frnanziamenti governativi si sono triplicati, a dimostrazione del fatto che la conservazione della diversità biologica tropicale è stata chiaramente individuata come questione di importanza prioritaria. La realizzazione di questi progetti è stata affidata ad agenzie governative (come U.S. Fish and Wildlife Service e Peace Corps), a organizzazioni non governative (come la Wildlife Conservation Society o il WWF), a musei (per esempio, il Field Museum of Natural History e lo Smithsonian Institution), a orti botanici (come il Missouri Botanical Garden e il New Y ork Botanical Garden), a giardini zoologici e a università. Meno dell'1% degli Il miliardi di dollari stanziati ogni anno dagli Stati Uniti a titolo di aiuti internazionali serve a finanziare la protezione della biodiversità. La più importante agenzia governativa statunitense nel campo degli aiuti economici e umanitari è l'USAID (United States Agency for International Development), con un bilancio di oltre 5 miliardi di dollari l'anno. L'USAID, che finanzia programmi e missioni in una sessantina di paesi in via di sviluppo, è una presenza dominante nel settore delle attività di assistenza. Per rispondere alle crescenti preoccupazioni per la sorte dell'ambiente, il Congresso degli Stati Uniti ha emendato nel 1983 la legge sugli aiuti internazionali (Foreign Assistance Act), per consentire l'inserimento delle attività di conservazione della biodiversità e di protezione delle specie minacciate tra i compiti istituzionali dell'USAID. L'emendamento impone all'USAID di investire una parte dei fondi a sua disposizione in progetti per la conservazione della biodiversità, e in particolare di finanziare le iniziative miranti a migliorare la protezione degli ecosistemi e il livello di educazione ambientale a livello locale. Le linee guida di questa politica di investimenti sono state stabilite alla metà degli anni Ottanta da una commissione di rappresentanti di istituzioni governative e non governative, incaricata di delineare la posizione ufficiale degli Stati Uniti in tema di conservazione della biodiversità (USAID, 1985).
Anche se i finanziamenti destinati dai paesi industrializzati alla conservazione della biodiversità si sono notevolmente accresciuti negli ultimi anni, la somma stanziata è nel complesso ancora insufficiente per proteggere il grande patrimonio di varietà biologica da cui dipende la futura prosperità delle società umane. In confronto ai miliardi di dollari stanziati dagli Stati Uniti a favore di altri grandi progetti scientifici, come il Progetto genoma umano e il Programma spaziale, i 105 milioni di dollari destinati dalle istituzioni statunitensi alla protezione della diversità biologica rappresentano infatti un ben magro bilancio.
Le banche internazionali di sviluppo e i danni all'ecosistema
Anche se può apparire paradossale, i metodi attualmente utilizzati per finanziare lo sviluppo finiscono in molti casi per favorire la distruzione degli habitat. Il processo di deforestazione dei paesi tropicali è stato notevolmente accelerato dalla decisione di finanziare progetti di sviluppo imponenti e mal concepiti, assunta dalle maggiori banche multilaterali di sviluppo (MDB, Multi/ateral Development Banks): la Banca Mondiale, che eroga prestiti in tutto il mondo, e le MDB regionali, tra cui l'lnter-American Development Bank, l'Asian Development Bank e l'African Development Bank. Le MDB concedono ogni anno prestiti per oltre 25 miliardi di dollari a 151 paesi, per finanziarne lo sviluppo economico (Rich, 1990). In effetti, il sostegno delle MDB va oltre questa cifra, perché in molti casi alle somme stanziate da queste istituzioni si aggiungono altri finanziamenti, da parte di paesi donatori, di banche private o di altre istituzioni governative; si calcola che i 25 miliardi di dollari stanziati dalle MDB attraggano prestiti per altri 50 miliardi di dollari, assicurando alle MDB un ruolo di primo piano nell'economia dei paesi in via di sviluppo. Benché l'obiettivo perseguito ufficialmente dalle MDB sia lo sviluppo economico, la maggior parte dei progetti che vengono finanziati riguardano sostanzialmente lo sfruttamento delle risorse naturali, allo scopo di aumentare la quota di esportazioni sul mercato internazionale dei paesi interessati. In molti casi, la realizzazione di questi progetti ha determinato la distruzione su vasta scala degli ecosistemi, favorendo l'erosione dei suoli e le inondazioni, e ha causato inquinamento delle acque, problemi sanitari e perdita di reddito per le popolazioni locali, oltre a danneggiare la diversità biologica.
Un'altra importante fonte di finanziamenti, il Fondo Monetario Internazionale (FMI), è ugualmente responsabile di gravi alterazioni della diversità biologica, causate dalle politiche di riforma economica sostenute da questo organismo. Creato al termine della Seconda guerra mondiale, l'FMI è stato concepito come 'banca di emergenza' per le economie in difficoltà (Lacayo, 1997). Quando un paese si trova di fronte alla prospettiva del collasso economico, come è accaduto al Messico nel 1994 e alla Tailandia, all'Indonesia e alla Corea del Sud nel 1997, l'FMI può concedergli un pacchetto di prestiti in cambio dell'adozione di riforme economiche. Questa politica di prestiti su cauzione è dettata dal desiderio di prevenire l'insorgere di situazioni di grave instabilità economica, simili a quelle che portarono all'affermazione del fascismo in Europa. In effetti l'FMI riesce in genere a raggiungere gli obiettivi per cui è stato creato, grazie alle severe norme di ristrutturazione economica imposte alle nazioni che richiedono un prestito. Purtroppo, però, le misure di austerità stabilite dall'FMl possono causare seri danni alla biodiversità, dato che ai governi viene richiesto di aumentare il gettito fiscale e di tagliare simultaneamente le spese considerate superflue, come l'assistenza sociale e i progetti di conservazione ambientale. Questo genere di misure comporta inevitabilmente un peggioramento delle condizioni di vita delle famiglie povere, e al tempo stesso riduce gli interventi a favore della conservazione dell'habitat naturale. Inoltre molti paesi, per sfuggire al controllo dell'FMl, puntano allo sviluppo di un'industria autosufficiente, che in molti casi si traduce in un aumento dello sfruttamento delle risorse naturali.
Le istituzioni finanziarie internazionali hanno iniziato da qualche tempo a riconoscere le proprie responsabilità nel processo globale di deterioramento della biodiversità. l finanziamenti concessi all'Argentina e alla Tailandia alla fine degli anni Novanta, per esempio, prevedono anche l'adozione di misure di assistenza sanitaria e scolastica e interventi a favore dell'occupazione (Lacayo, 1997), che possono contribuire ad alleviare i fattori di disagio sociale parzialmente responsabili della distruzione degli habitat. Anche la Banca Mondiale ha cominciato a considerare con maggiore attenzione il rischio di guasti ambientali connessi alle proprie iniziative: uno studio effettuato da questo istituto sui progetti di sviluppo finanziati, ha stabilito che il3 7% di essi sarebbe stato respinto se si fossero adottati adeguati criteri di protezione ambientale. Tra i progetti finanziati dalle MDB, per esempio, molti riguardano la costruzione di dighe e di impianti di irrigazione, che forniscono acqua ed energia elettrica alle attività agricole e industriali. Anche quando risultano momentaneamente vantaggiosi sul piano economico, tali progetti stravolgono il corso naturale dei fiumi e spesso danneggiano irreparabilmente ecosistemi acquatici di grandi dimensioni, modificando la profondità dell'acqua e la direzione delle correnti, favorendo la sedimentazione e impedendo la dispersione delle acque. Molte specie non riescono a sopravvivere in un ambiente così alterato.
Paradossalmente, la distruzione della diversità biologica potrebbe essere la causa del fallimento di alcuni dei più importanti progetti internazionali che hanno devastato le foreste pluviali tropicali. La perdita del manto vegetale sui pendii che circondano i bacini artificiali favorisce infatti l'erosione e l'interramento, portando di conseguenza alla perdita di efficienza, a maggiori costi di manutenzione e al danneggiamento delle dighe e degli impianti di irrigazione. Come ormai viene oggi ampiamente riconosciuto, la protezione delle foreste e della vegetazione naturale circostanti le opere idrauliche costituisce un mezzo efficace e relativamente poco costoso di assicurare la loro funzionalità e longevità, garantendo al tempo stesso la conservazione di ampie zone di habitat naturale. Uno studio sui progetti di irrigazione realizzati in Indonesia mostra che i costi della protezione della vegetazione del bacino fluviale incidono per l'l÷l0% sul costo totale del progetto, contro una perdita di efficienza causata dall'interramento stimata intorno al 30÷40% in assenza di adeguate misure di protezione ambientale. Uno dei migliori esempi dell'efficacia dell'investimento ambientale è rappresentato dal prestito di 1,2 milioni di dollari concesso dalla Banca Mondiale all'Indonesia per la creazione e la protezione del Dumoga-Bone National Park, nella zona settentrionale dell'isola di Sulawesi (Wells e Brandon, 1992). 278.700 ha di foresta pluviale primaria, che comprendono l'area di raccolta delle acque situata sui pendii che sovrastano un impianto di irrigazione da 60 milioni di dollari, finanziato dalla stessa Banca Mondiale, sono stati convertiti in parco nazionale (fig. 13). In questo caso, la Banca Mondiale ha potuto proteggere il suo investimento iniziale, spendendo meno del 2% dei costi complessivi del progetto, e creare al tempo stesso un nuovo e importante parco nazionale.
Cambiare il processo di finanziamento Se molti dei grandi progetti internazionali di sviluppo si rivelano inutili sul piano economico e dannosi su quello ambientale, c'è da domandarsi per quali motivi vengano approvati e perché i paesi in via di sviluppo siano disposti a ospitarli e le MDB a finanziarli. Molti progetti vengono approvati perché gli economisti effettuano previsioni troppo ottimistiche sull'andamento della produzione e dei prezzi e sottovalutano le possibili conseguenze negative. Inoltre, non si eseguono le ricerche e gli studi pilota necessari, o comunque non se ne tengono nel dovuto conto i risultati, così come non si considerano i risultati di progetti analoghi già realizzati altrove. l costi ambientali sono spesso ignorati o sottovalutati, essendo considerati variabili estranee all'analisi economica. Un modello affidabile e completo dovrebbe invece prendere in considerazione tutti i benefici e tutti i costi di un progetto, inclusi l'erosione del suolo, la perdita della diversità biologica, l'inquinamento delle acque, gli effetti sulle abitudini alimentari e sulla salute della popolazione e la perdita di reddito derivante dalla distruzione delle risorse rinnovabili.
In molti casi, i governi dei paesi in via di sviluppo si mostrano favorevoli a ospitare i grandi progetti internazionali malgrado i loro aspetti negativi, perché essi rappresentano una fonte temporanea di posti di lavoro e di prosperità economica, e contribuiscono di conseguenza ad alleviare momentaneamente le tensioni sociali. Gli operatori economici locali, e soprattutto quelli che godono di appoggi all'interno del governo, sono favorevoli ai progetti, da cui contano di trarre consistenti vantaggi economici. I paesi industrializzati che sostengono le MDB incoraggiano la concessione di questi prestiti ai paesi in via di sviluppo, allo scopo di stabilizzare i governi più vicini ai loro interessi, che spesso non godono di molta popolarità nel loro paese.
Quale dovrebbe essere un comportamento più responsabile da parte delle MDB? Prima di tutto, questi istituti dovrebbero cessare immediatamente di finanziare i progetti dannosi per l'ambiente. A questo scopo, si dovrebbero creare dei modelli teorici che consentano di calcolare con precisione i costi complessivi di un progetto di sviluppo, inclusi i suoi effetti ecologici e ambientali. Inoltre, prima di passare alla fase di attuazione di un progetto, le banche dovrebbero incoraggiare l'apertura di una discussione libera e approfondita di tutti i suoi aspetti tra tutte le parti interessate; in particolare, le banche dovrebbero consentire il pubblico esame e la discussione obiettiva dei rapporti di impatto ambientale, prima di approvare il finanziamento di un progetto.
Poiché le MDB sono finanziate principalmente dai governi dei paesi più industrializzati, come gli Stati Uniti, il Giappone, la Germania, l'Italia, la Gran Bretagna, la Francia e il Canada, le politiche di investimenti di questi istituti devono tenere conto delle opinioni espresse dai rappresentanti politici, dai mezzi di comunicazione e dalle organizzazioni ambientaliste di queste nazioni. Per esempio, dopo le critiche avanzate dal Congresso degli Stati Uniti e da altre istituzioni a proposito di alcune discutibili iniziative della Banca Mondiale, questo istituto ha iniziato a preoccuparsi delle conseguenze ambientali dei nuovi progetti, ingaggiando uno staff di esperti di problemi ambientali per esaminare i nuovi progetti e quelli già in corso di attuazione, e adottando una politica di gestione (detta nuovo ambientalismo), che tiene conto dei legami tra sviluppo economico e uso compatibile delle risorse ambientali (fig. 14). Questa politica si basa sul riconoscimento degli alti costi ambientali delle politiche economiche fin qui seguite e della necessità di ridurre la povertà per proteggere l'ambiente, favorendo modelli di crescita economica che salvaguardino i valori ambientali.
Le iniziative di protezione della diversità biologica a livello globale
Il bisogno di finanziamenti a favore delle iniziative di protezione della diversità biologica rimane elevato a livello locale, nazionale e globale. Attualmente vengono spesi ogni anno per la protezione delle aree protette circa 4 miliardi di dollari, mentre ne sarebbero necessari almeno 17 per gestire adeguatamente la diversità biologica del mondo (Heywood, 1995). Anche se la cifra di 17 miliardi di dollari può apparire enorme, certamente non lo è in confronto ai 245 miliardi di dollari spesi ogni anno per i sussidi all'agricoltura o ai 1000 miliardi destinati alle spese militari. Un modesto aggiustamento nella scala delle priorità a livello mondiale sarebbe certamente possibile e assicurerebbe risorse sufficienti alla protezione della biodiversità. Non sarebbe preferibile che gli Stati Uniti, invece di investire somme enormi nella produzione di aerei, missili e altre armi dell'ultima generazione, in un'insensata gara contro se stessi, destinassero una piccola parte di quelle risorse alla protezione della diversità biologica? E non sarebbe auspicabile che i consumatori dei paesi ricchi, invece di spendere il loro denaro per acquistare gli ultimi ritrovati dell'industria elettronica, scegliessero di contribuire al finanziamento delle organizzazioni e delle cause ambientaliste?
La protezione dell'ambiente è una missione che può essere portata a termine solo a livello globale. Sebbene la distruzione di risorse e di ecosistemi di fondamentale importanza sia ancora in atto, sono stati compiuti alcuni significativi passi avanti verso l'adozione di una seria politica mondiale di protezione ambientale. Il Vertice per la Terra, svoltosi per dodici giorni a Rio de Janeiro in Brasile, nel giugno del 1992, e il Climate Change Summit, svoltosi nel dicembre del 1997 a Kyoto in Giappone, hanno segnato due tappe significative in questa direzione (a questo riguardo, v. il saggio di Von Droste, Rössler e Von Rosenstiel, Ambiente e istituzioni internazionali). Il primo vertice, la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo UNCED, United Nations Conference on Environment and Development, più comunemente nota come Conferenza di Rio o Eco '92, ha riunito i rappresentanti di 178 paesi, alla presenza di oltre 100 capi di Stato, coadiuvati dai massimi dirigenti delle Nazioni Unite e delle principali organizzazioni non governative e ambientaliste. Lo scopo della conferenza era quello di discutere i modi per conciliare un' efficace protezione dell'ambiente con un'adeguata crescita economica dei paesi poveri. La Conferenza di Rio ha contribuito a diffondere una maggiore consapevolezza della gravità della crisi ambientale, ponendo questo problema al centro dell'attenzione mondiale. Uno dei meriti principali di questa iniziativa è stato quello di avere stabilito un chiaro legame tra la protezione dell'ambiente e la necessità di alleviare la povertà dei paesi del Terzo Mondo, incrementando il flusso di aiuti finanziari da parte dei paesi più ricchi. Mentre i paesi ricchi dispongono infatti di risorse sufficienti a provvedere alle necessità dei loro cittadini e a proteggere l'ambiente, per molti paesi del Terzo Mondo l'impiego immediato delle proprie risorse naturali rappresenta l'unico strumento per sollevare gli standard di vita di una popolazione sempre più impoverita. Nella Conferenza di Rio i paesi ricchi sono stati richiamati collettivamente alla necessità di assistere i paesi meno industrializzati, come premessa indispensabile alla protezione dell'ambiente e della biodiversità tropicale. I partecipanti alla conferenza hanno discusso e fIrmato cinque documenti di grande importanza e dato il via a numerose nuove iniziative. A parte questi specifIci risultati, il merito principale della Conferenza di Rio è quello di aver ribadito la volontà dei partecipanti di continuare a collaborare anche in futuro per la realizzazione di una serie di obiettivi a lungo termine. Le maggiori difficoltà hanno riguardato il raggiungimento di un accordo sul finanziamento delle iniziative decise, e in particolare della Convenzione sulla diversità biologica e di Agenda 21 (v. oltre). Il costo di questi programmi è stato stimato in 600 miliardi di dollari l'anno, 125 dei quali avrebbero dovuto essere forniti dai paesi industrializzati sotto la forma di aiuti internazionali allo sviluppo.
La Dichiarazione di Rio
La Dichiarazione di Rio contiene i principi generali che dovrebbero guidare l'azione sia dei paesi ricchi sia di quelli poveri in materia di protezione ambientale e sviluppo. Viene riconosciuto il diritto delle nazioni a utilizzare le proprie risorse naturali per aiutare lo sviluppo economico e sociale della popolazione, nella misura in cui ciò non provochi danni all'ambiente naturale di altre nazioni. Nella Dichiarazione viene affermato inoltre il principio secondo cui chi inquina paga, che stabilisce per le imprese e per i governi l'obbligo di assumersi la responsabilità finanziaria dei danni arrecati all'ambiente. Come si afferma nella Dichiarazione, "gli Stati dovranno cooperare in uno spirito di collaborazione globale per conservare, proteggere e ripristinare la salute e l'integrità dell'ecosistema terrestre. Gli Stati hanno responsabilità comuni, ma differenziate, in ordine al contributo apportato da ciascuno di essi al degrado ambientale del pianeta".
La Convenzione sulla diversità biologica
La Convenzione sulla diversità biologica ha tre obiettivi: proteggere la diversità biologica, consentirne un uso sostenibile e distribuire tra tutti i paesi i benefIci derivanti dalla scoperta di nuovi prodotti ottenuti dalle specie selvatiche e domestiche. Quest'ultimo obiettivo si basa sul riconoscimento del fatto che i paesi in via di sviluppo dovrebbero ricevere un adeguato compenso per l'impiego delle specie raccolte sul loro territorio. I benefIci derivanti dalla diversità biologica dovrebbero ricadere anche sulle popolazioni indigene, soprattutto quando siano stati ottenuti con il contributo delle loro conoscenze tradizionali. In passato i paesi industrializzati hanno sviluppato nuovi tipi di sementi, di medicine e di altri prodotti biotecnologici sulla base di diverse specie tropicali, senza restituire ai paesi in via di sviluppo, da cui provenivano le specie selvatiche utilizzate, la tecnologia, i nuovi prodotti o i profItti derivanti dalla loro commercializzazione. L'inserimento nella legislazione internazionale sui diritti di proprietà intellettuale dei provvedimenti e dei compromessi che consentirebbero di distribuire in modo più equo i benefIci finanziari derivanti dalla diversità biologica, si è rivelato tutt'altro che facile. Malgrado i progressi compiuti, sono ancora molti gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo obiettivo. La Convenzione sulla diversità biologica, ratifIcata da quasi 170 nazioni, afferma che i singoli paesi possiedono determinati diritti sulle specie che vivono sul loro territorio e devono garantire che ne venga fatto un uso sostenibile. Il Congresso degli Stati Uniti non ha ancora ratifIcato il trattato, a causa delle restrizioni che esso imporrebbe alla gigantesca industria biotecnologica del paese.
Agenda 21 e politiche dei paesi industrializzati
Agenda 21 è un imponente documento che analizza i legami esistenti tra i problemi ambientali e altre questioni che vengono in genere considerate separatamente, come la protezione dell'infanzia, la povertà, la questione femminile, la trasmissione delle tecnologie e la distribuzione della ricchezza. Esso propone dei piani di azione per affrontare i problemi dell'inquinamento atmosferico, del degrado e della desertifIcazione del territorio, dello sviluppo delle comunità montane, agricole e rurali, della deforestazione, della distruzione degli ecosistemi acquatici e dell'inquinamento in generale. Il documento descrive inoltre una serie di meccanismi fInanziari, istituzionali, tecnologici e legali relativi alla realizzazione di tali piani. Gli Stati Uniti hanno risposto alle questioni sollevate da Agenda 21 in un rapporto in cui vengono delineati i modi in cui sarebbe possibile realizzare in quel paese l'obiettivo di uno sviluppo sostenibile.
Benché in tutti questi documenti si affermi chiaramente l'esistenza di un legame tra lo stato di salute dell'ambiente e il benessere della popolazione umana, purtroppo le nazioni sviluppate non si sono finora mostrate disposte ad accettare i sacrifIci necessari per la difesa di questi valori. Attualmente le dimensioni degli aiuti internazionali allo sviluppo ammontano a circa 60 miliardi di dollari l'anno per tutti i campi di attività, mentre la realizzazione di queste convenzioni internazionali richiederebbe lo stanziamento del triplo di questa somma. I paesi industrializzati, alle prese con problemi interni di bilancio e di investimenti, non hanno acconsentito a partecipare al fInanziamento di questi progetti. In alternativa il Group of 77, un'associazione tra i paesi in via di sviluppo, ha proposto alle nazioni industrializzate di portare nel giro di qualche anno la quota destinata agli aiuti internazionali allo 0,7% del PIL (Prodotto Interno Lordo), raddoppiando più o meno i livelli attuali. Benché questa richiesta sia stata formalmente accolta dai principali paesi industrializzati, non sono state stabilite scadenze precise per la sua attuazione. Dei 21 paesi donatori, solo cinque sono già in linea con l'obiettivo prefIssato: la Norvegia (che destina agli aiuti internazionali l'1,4 % del proprio PIL), la Danimarca (0,96%), la Svezia (0,92%), l'Olanda (0,88%) e la Finlandia (0,76%), mentre gli Stati Uniti arrivano molto dopo, con appena lo 0,2% del PlL.
La frustrazione dei paesi in via di sviluppo è stata eloquentemente riassunta da Mahathir bin Mohamed, primo ministro della Malesia: "È stato chiesto alle nazioni povere del mondo di preservare le loro foreste e le altre risorse genetiche nell'ipotesi remota che ciò possa consentire un giorno la scoperta di qualcosa di utile per l'umanità. Ma adesso si dice loro che i ricchi non sono disposti a compensare i poveri per i loro sacrifici, e si sostiene che la diversità genetica immagazzinata e protetta dai paesi poveri non avrà alcun valore, finché i ricchi non provvederanno, con la loro superiore intelligenza, a estrarne tutti i potenziali benefici".
La Banca Mondiale, in collaborazione con il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP, United Nations Development Program) e il Programma ambientale dell'ONU (UNEP, United Nations Environmental Program), ha costituito nel 1991 un nuovo organismo per il frnanziamento delle attività di protezione ambientale, il GEF (Global Environment Facility). La maggior parte dei progetti di questo organismo era già stata approvata e finanziata al momento dell'apertura della Conferenza di Rio, nel giugno del 1992. Il GEF è stato concepito come un programma pilota triennale, dotato di un budget di 860 milioni di dollari, che serviranno a finanziare i progetti nel campo della conservazione della biodiversità, della protezione delle acque internazionali, della lotta al riscaldamento globale e all'assottigliamento della fascia di ozono.
Questi ultimi due argomenti sono stati al centro del dibattito nel già citato Climate Change Summit, noto anche come Conferenza di Kyoto. l delegati di 170 nazioni si sono incontrati per mettere a punto un trattato che limiti l'emissione dei gas responsabili dell'effetto serra, che stanno danneggiando la fascia di ozono stratosferico e provocando il riscaldamento globale del pianeta. Le nazioni industrializzate, e in particolare gli Stati Uniti, sono le principali responsabili delle emissioni di CO2 e di altri gas nocivi; la loro riduzione richiederebbe l'adozione di severe e costose misure di controllo dei gas di scarico prodotti dalle automobili e dai processi industriali. Mentre i paesi dell'Unione Europea hanno proposto l'adozione di misure che riporterebbero nel giro di alcuni anni le emissioni di gas nocivi all'85% del livello del 1990, gli Stati Uniti si sono mostrati inizialmente più riluttanti, temendo che tali restrizioni potessero compromettere la loro prosperità economica e sottolineando il fatto che il progetto dell'Unione Europea non contemplava l'adozione di misure analoghe da parte dei paesi in via di sviluppo. Fortunatamente, però, le iniziali resistenze degli Stati Uniti sono state in parte superate, aprendo così la strada alla conclusione di un accordo. Anche se questa apertura degli Stati Uniti rappresenta un importante passo in avanti nelle trattative, è purtroppo molto probabile che molti membri del Congresso statunitense si rifiuteranno di accettare l'accordo, sia perché non sono disposti a barattare l'attuale prosperità del loro paese in cambio di incerti benefici futuri, sia perché non ritengono che esista una reale necessità di procedere alle riduzioni preventivate. Perfino tra gli scienziati, infatti, una rumorosa minoranza sostiene ancora che non esiste alcun riscaldamento globale, oppure che si tratta di un fenomeno naturale, e non del prodotto delle attività umane. Fino a quando vi sarà qualcuno disposto a difendere queste posizioni e a insinuare dubbi sulle responsabilità umane, sarà molto difficile convincere i governi dei paesi industrializzati della necessità di intraprendere un'azione immediata.
Se si pensa che la Conferenza di Rio e la Conferenza di Kyoto hanno segnato i momenti di massima attenzione alle questioni ambientali da parte delle più alte autorità del pianeta e dell'opinione pubblica mondiale, l'incapacità dei principali paesi industrializzati di comprendere la gravità dei problemi sul tappeto ha costituito certamente una grossa delusione. l tempi e i modi della raccolta dei fondi necessari all'applicazione della Convenzione sulla diversità biologica e di Agenda 21 rimangono ancora da stabilire, così come non è ancora stata decisa in modo soddisfacente l'eventuale allocazione di queste risorse, che vede i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo contendersi a vicenda la direzione e il controllo dei programmi.
Conclusioni
l paesi industrializzati si mostrano generalmente più interessati alla conservazione della biodiversità dei paesi del Terzo Mondo, i cui territori contengono la maggior parte delle specie conosciute. È necessario che i paesi economicamente più sviluppati, le organizzazioni ambientaliste, i giardini zoologici e gli orti botanici forniscano ai paesi in via di sviluppo i mezzi finanziari necessari per la creazione e la conservazione di parchi naturali e altre aree protette. Questa richiesta appare del tutto ragionevole e opportuna, dal momento che i paesi industrializzati possiedono riserve sufficienti per finanziare queste iniziative e sono i più interessati a utilizzare le risorse biologiche contenute nelle aree protette, in campo agricolo e industriale, nei programmi di ricerca, nei giardini zoologici, negli acquari e nelle strutture educative. Allo stesso tempo, si dovrebbero affrontare i problemi economici e sociali che ostacolano oggi la conservazione della biodiversità, e in particolare quelli relativi alla miseria e alla guerra. La riduzione o la cancellazione del debito estero che grava sui paesi poveri, l'adozione di una politica di cancellazione del debito in cambio di protezione ambientale e la creazione di fondi fiduciari per il frnanziamento delle iniziative di protezione ambientale potrebbero facilitare il raggiungimento di questi obiettivi. l singoli cittadini possono contribuire finanziariamente o partecipare in prima persona alle attività delle organizzazioni impegnate nella conservazione della natura.
Una delle sfide più difficili che la biologia ambientalista si trova oggi a dover affrontare consiste nel trovare il modo di conciliare i bisogni della popolazione locale con l'esigenza di conservare la diversità biologica. Come è possibile convincere la povera gente, in particolare quella del Terzo Mondo ma anche molti individui residenti nelle aree rurali del mondo sviluppato, a rispettare le riserve naturali e la diversità biologica, quando per sopravvivere giorno per giorno sono costretti a penetrare nelle aree protette alla disperata ricerca di cibo, legna e di altri prodotti naturali? l dirigenti dei parchi devono accettare le indispensabili soluzioni di compromesso, come quelle suggerite dal concetto di biosfera e dai progetti integrati di conservazione e sviluppo, che consentono ai locali di accedere alle risorse naturali di cui hanno bisogno per mantenere le proprie famiglie senza danneggiare le comunità biologiche che vivono nel parco. È necessario inoltre giungere a una più equa distribuzione delle risorse economiche del mondo, sia a livello nazionale che internazionale, eliminando gli eccessi di povertà e di ricchezza attuali. Si devono porre in atto efficienti programmi di pianificazione familiare per stabilizzare la popolazione mondiale e, al tempo stesso, si deve porre un freno alla distruzione delle risorse naturali attuata dall'industria, per evitare che la ricerca del profitto immediato conduca a una catastrofe ecologica irreparabile. Occorre altresì sviluppare delle politiche di gestione in grado di conservare la diversità ambientale anche in quel 95% di territorio che non entrerà a far parte delle aree protette, così come nello sconfinato e in gran parte inesplorato ambiente marino.
l singoli cittadini e i governi dei paesi industrializzati devono inoltre divenire consapevoli delle gravi responsabilità che si assumono distruggendo la diversità biologica e consumando in misura eccessiva le risorse mondiali. Gli individui devono comprendere che il loro modo di agire e il loro stile di vita possono avere conseguenze che superano di molto i confini della comunità a cui appartengono. Allo stesso modo, l'adozione di uno stile di vita diverso e la creazione di mercati alternativi per i prodotti ecologici o riciclati possono produrre effetti molto positivi sull'ambiente. Anche un semplice mutamento di prospettiva potrebbe essere molto importante. Prendiamo, per esempio, gli eufemismi utilizzati per distinguere le nazioni ricche e industrializzate da quelle meno ricche e prive di una grande industria: le nazioni industrializzate dell'America Settentrionale e dell'Europa vengono chiamate paesi sviluppati o paesi del Primo mondo, mentre le nazioni non industrializzate dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina sono etichettate come paesi sottosviluppati, in via di sviluppo o del Terzo Mondo. Le definizioni "sottosviluppato" o "in via di sviluppo" suggeriscono che le nazioni non industrializzate siano in qualche modo in ritardo rispetto allo sviluppo storico 'normale' della società umana, rappresentato dalle nazioni 'sviluppate', che vengono assunte implicitamente come modello ideale di impiego umano delle risorse naturali. Un punto di vista alternativo potrebbe essere quello di ritenere che le cosiddette nazioni sviluppate siano in effetti troppo sviluppate, e che in questi paesi il grado di meccanizzazione, di consumi e di spreco spudorato delle risorse abbia superato di molto i livelli auspicabili, e non sia più indirizzato al soddisfacimento dei bisogni quotidiani ma sia frutto di una decadente indulgenza verso se stessi. Benché questa osservazione sia valida sia all'interno delle singole società sia a livello di rapporti internazionali - non c'è dubbio, infatti, che negli Stati Uniti, che incarnano il modello di nazione ipersviluppata, vi siano persone che vivono in condizioni di povertà anche estrema - nel complesso la maggioranza delle persone considerate povere secondo gli standard statunitensi dispone in effetti di una quantità di beni e servizi molto superiore a quella dei poveri dei paesi in via di sviluppo. Se fosse possibile far capire agli abitanti delle nazioni cosiddette sviluppate che la maggior parte dei loro consumi sono in effetti superflui, li si potrebbe anche convincere a ridimensionare il loro stile di vita e a consumare di meno. Come ha osservato P. Raven, direttore del Missouri Botanical Garden, a proposito della progressiva scomparsa della diversità biologica: "Si può pensare a questo problema su scala globale, e allora esso ci appare scoraggiante e insolubile, oppure in termini di specifiche opportunità, per cogliere tali opportunità e ridurre la questione a dimensioni più ragionevoli" (Tangley, 1986).
Ringraziamenti
Alcune parti di questo saggio sono riprese da Essentials of conservation biology e da A primer of conservation biology, pubblicati dalla Sinauer Associates, Sunderland, Massachusetts, USA. Elizabeth Platt ha collaborato alla redazione del manoscritto.
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