Dislessia
Il termine dislessia si riferisce a un insieme di disturbi che compromettono le capacità di lettura. Talvolta lo si riserva alla caratterizzazione dei soli disturbi evolutivi della lettura che si manifestano durante la fase di apprendimento della lingua scritta, mentre si parla di alessia per denotare le alterazioni sopraggiunte in persone adulte che avevano precedentemente acquisito in maniera normale la capacità di leggere, in conseguenza di lesione cerebrale, molto spesso a carico del giro angolare e di quello sopramarginale dell'emisfero sinistro. Nel corso del tempo è tuttavia prevalso l'uso del termine dislessia per riferirsi a entrambe le varietà di disturbi, anche se da un punto di vista concettuale è importante operare una netta distinzione tra le dislessie evolutive e le dislessie acquisite.
l. Dislessie evolutive
La dislessia evolutiva, considerata una varietà dei disturbi dell'apprendimento, secondo una definizione largamente accettata (Benton 1975), denota una difficoltà nella lettura (e spesso nella scrittura) in bambini che frequentano regolarmente la scuola, con intelligenza perlomeno nella media, con un normale livello di maturazione e motivazione e senza deficit sensoriali rilevanti. La dislessia evolutiva è spesso associata a problemi comportamentali che, retroagendo sul disturbo specifico, possono ulteriormente ostacolare l'apprendimento. Il fatto che in gran parte dei casi non siano riscontrabili deficit cerebrali, né di tipo anatomico né di tipo fisiologico, rende difficile spiegare le alterazioni dislessiche soltanto sulla base di patologie organiche, anche se alcune ricerche sembrano mostrare nei soggetti dislessici uno sviluppo neuroanatomico atipico di alcune aree corticali già nel periodo fetale (Cerebral dominance 1984).
Per tutte queste ragioni, sulla definizione, sull'eziologia e sulla natura della dislessia evolutiva vigono posizioni divergenti, che non hanno finora consentito di dare una caratterizzazione univoca e omogenea né del disturbo né della popolazione da esso interessata. In particolare, il dibattito sulle sue cause è stato particolarmente vivo a partire dal secondo dopoguerra e continua ancora, tra posizioni che di volta in volta ne enfatizzano gli aspetti percettivi, linguistici o anche cognitivi (per es. per la presenza di alterazioni associate dell'attenzione o della memoria). Dal punto di vista clinico, la dislessia evolutiva si presenta con una grande varietà di sintomi, ma questo fatto non è stato riconosciuto subito in tutta la sua rilevanza. Per molto tempo, invece, sono prevalse ipotesi di tipo unitario e lo studio dei disturbi evolutivi della lettura è stato caratterizzato dagli assunti che tutti i bambini dislessici evidenziassero, con diversi gradi di gravità, gli stessi sintomi e le stesse difficoltà di apprendimento, che la dislessia evolutiva fosse una sindrome unitaria, forse addirittura determinata da una singola causa, e che lo scopo principale della ricerca fosse quello di descrivere le caratteristiche di base della sindrome e di inferirne la vera causa.
Gli studi caratterizzati da questo approccio hanno inizialmente inquadrato il problema, da un lato, come disturbo eminentemente visivo (Hinshelwood 1917), dall'altro, come risultato di una incompleta lateralizzazione cerebrale (Orton 1937). Con il progressivo affinarsi delle ipotesi, gli studiosi hanno insistito soprattutto su tre possibili modelli circa la natura e l'origine delle alterazioni evolutive della lettura. Secondo la prima ipotesi, la dislessia sarebbe un disturbo percettivo determinato dall'incapacità di estrarre l'informazione visiva veicolata dalle parole scritte e dalle singole lettere che le compongono. La seconda ipotesi sostiene che la fonte principale del deficit andrebbe individuata nell'incapacità di controllare i movimenti oculari durante lo scorrimento del testo scritto. Secondo la terza ipotesi, infine, i problemi nella lettura sarebbero dovuti a un disturbo della memoria a breve termine, che non consentirebbe a chi legge di integrare l'informazione in arrivo con quella appena elaborata, in modo da ottenere una resa sequenzialmente corretta del testo scritto. Tutte queste spiegazioni unitarie della sindrome si sono rivelate insoddisfacenti.
Una più seria considerazione dell'estrema variabilità di sintomi soggiacenti alla comune definizione di dislessia evolutiva ha portato oggi gran parte dei ricercatori a dubitare del fatto che i bambini etichettati come dislessici rappresentino una popolazione omogenea, affetta da un comune tipo di sindrome dislessica. Questa consapevolezza ha stimolato a sua volta la ricerca di sottogruppi omogenei definiti dallo stesso tipo di deficit. Per es., E. Boder (1973) ha operato una distinzione tra dislessici disfonetici e dislessici diseidetici. I primi imparerebbero normalmente a riconoscere e leggere le parole sulla base della loro forma visiva, associando a questa l'intera pronuncia, ma sarebbero deficitari nell'apprendimento dell'analisi fonologica lettera per lettera. I diseidetici, al contrario, avrebbero un disturbo delle abilità di riconoscimento olistico delle parole e apprenderebbero la lettura unicamente sulla base di strategie di segmentazione e analisi fonemica delle stringhe di lettere. Ma, al di là di un approccio 'sindromico' più o meno aggiornato o dettagliato, è oggi chiaro che la lettura rappresenta un compito cognitivamente molto complesso, che necessita di un'architettura funzionale estremamente articolata, nella quale diverse componenti di rappresentazioni distinte interagiscono tra loro. Un danno a una qualsiasi di tali componenti o a un qualsiasi sottoinsieme di esse genera, in linea di principio, una configurazione del tutto peculiare di disturbi, non riconducibile a una caratterizzazione univoca e potenzialmente, sempre in linea di principio, diversa da soggetto a soggetto.
La stessa consapevolezza è oggi comune allo studio delle dislessie acquisite, ma anche in tale settore di ricerca essa è stata raggiunta con l'entrata in crisi di una pluridecennale tradizione di studi clinico-tipologici e con il contemporaneo prevalere di un tipo di analisi caratterizzato in senso cognitivista. La comunanza di approccio nei due settori di ricerca ha anche portato a un certo numero di tentativi di estendere la classificazione fornita per le dislessie acquisite anche a quelle evolutive (Surface dyslexia 1983; Temple-Marshall 1983). Le classificazioni tradizionali della dislessia acquisita (in passato definita anche come 'cecità per le parole' o 'afasia visiva') sono state formulate su base clinico-neurologica, a partire o dalla localizzazione anatomica della lesione o dalla costellazione di sintomi che tendono statisticamente a co-occorrere.
Una delle classificazioni cliniche più comuni è quella che distingue tra i disturbi dislessici che investono selettivamente la capacità di leggere singole lettere (alessia letterale) e i disturbi che compromettono l'abilità di lettura di parole (alessia verbale). Un'altra classificazione, ancora più diffusa e storicamente rilevante, è quella che distingue la dislessia con disgrafia (cioè accompagnata da un disturbo dei meccanismi di produzione scritta) dalla dislessia senza disgrafia (o dislessia pura). Quest'ultima forma di alterazione, nella quale a volte il paziente non riesce neanche a leggere ciò che ha appena scritto, ha suscitato un certo interesse dal punto di vista neurologico, perché, così come l'afasia di conduzione (v. afasia), è considerata un esempio classico di sindrome da disconnessione. Le prime descrizioni dettagliate di pazienti con un disturbo acquisito della lettura risalgono alla fine del 19° secolo, a opera di J. Déjerine, e riguardano proprio un caso di dislessia pura e uno di dislessia con disgrafia. Sulla base delle rispettive localizzazioni dei deficit cerebrali, Déjerine propose un modello neuroanatomico dei due tipi di patologia secondo il quale la dislessia con disgrafia si manifesterebbe in seguito a una lesione del giro angolare sinistro, mentre quella pura sarebbe dovuta a un'interruzione del collegamento tra il giro angolare sinistro e le aree visive.
Successivamente lo studio dei disturbi dislessici si è rivolto principalmente verso un'analisi particolareggiata degli errori di lettura prodotti dai vari pazienti per inferire quali sono i meccanismi sottostanti che li determinano. Gli errori (o paralessie) possono essere di varia natura; la caratterizzazione più generale li suddivide in almeno tre categorie: errori semantici (per es. la parola 'cane' letta come 'gatto'), errori morfologici (per es. la parola 'cane' letta come 'canile'), errori ortografico-fonologici (per es. la parola 'cane' letta come 'pane'). Diverse configurazioni o bilanciamenti di questi tipi di errori si suppone corrispondano al danneggiamento di diversi meccanismi funzionali alla base del disturbo. A partire dalla metà degli anni Settanta del 20° secolo, con l'affermarsi del paradigma cognitivista nello studio dei disturbi del linguaggio, si sono imposte nuove classificazioni delle dislessie acquisite, più motivate in termini teorici e più dettagliate dal punto di vista funzionale.
Il modello che ha fatto da sfondo al nuovo approccio e che ha dato un rinnovato impulso agli studi è quello che postula due diversi meccanismi, o due vie, per l'elaborazione dell'informazione scritta a disposizione di chi legge: una via 'lessicale' o ortografica, che permette un riconoscimento su base visiva della forma intera di una parola e un recupero diretto dal lessico mentale della sua pronuncia, e una via 'non lessicale' o fonologica, che analizza i caratteri che compongono una stringa di lettere (grafemi o insiemi di grafemi) e successivamente li converte in fonemi per assemblare la corretta pronuncia della stringa stessa. Il modello a due vie ha costituito il naturale contesto teorico nel quale collocare e approfondire lo studio di alcune forme di dislessia acquisita, in particolare la dislessia di superficie e la dislessia fonologica. Queste due forme si caratterizzano infatti, rispettivamente, come il risultato di un disturbo selettivo alla via lessicale e alla via non lessicale.
Nella dislessia di superficie, il risultato di una compromissione delle componenti lessicali si manifesta con la difficoltà di lettura delle parole irregolari, ossia di quelle la cui pronuncia, in lingue a ortografia non trasparente come l'inglese, non è deducibile da una corretta applicazione delle regole di conversione grafema-fonema. La pronuncia corretta di tali parole è possibile soltanto attivando nel lessico mentale la rappresentazione ortografica, alla quale va associata la corrispondente rappresentazione fonologica.
Un paziente dislessico di superficie, che abbia cioè un disturbo della via lessicale di lettura con preservazione di quella extralessicale, tenderà dunque a leggere le parole regolari meglio di quelle irregolari; inoltre tenderà a regolarizzare queste ultime, cioè a leggerle, sbagliando, in conformità alle regole di conversione da grafemi a fonemi. Nella dislessia fonologica, che viceversa è il prodotto di un disturbo selettivo delle componenti non lessicali e di una preservazione di quelle lessicali, si osserva invece una corretta lettura su base visiva delle parole, sia regolari sia irregolari. Il sintomo più evidente consiste, in questo caso, nella lettura deficitaria delle cosiddette 'non-parole', cioè alcune stringhe di lettere senza senso alle quali non è associata alcuna rappresentazione nel lessico; difatti la corretta pronuncia di tali stringhe può essere computata solo attraverso un'esatta applicazione delle regole extralessicali di conversione da grafemi a fonemi.
Un disturbo della via extralessicale è implicato anche in un altro tipo di dislessia dalla sintomatologia più complessa, la cosiddetta dislessia profonda (Marshall-Newcombe 1973), che si caratterizza inoltre per la presenza di paralessie semantiche e di effetti dipendenti dalla categoria grammaticale: i nomi tendono a essere letti meglio degli aggettivi, gli aggettivi meglio dei verbi e questi ultimi meglio dei funtori grammaticali.
Gli sviluppi più recenti della ricerca, tanto nel campo delle dislessie evolutive quanto in quello delle dislessie acquisite, hanno portato a una crisi sempre più marcata dalla nozione di sindrome, anche nell'accezione rinnovata che ne ha fornito il cognitivismo. Con la forte crescita del numero e della varietà di casi patologici documentati in letteratura, è stata evidenziata la difficoltà a trovare situazioni che siano l'esatta replica l'una dell'altra. Il danneggiamento di una determinata componente del sistema cognitivo non solo non si presenta sempre in forma pura, ma può essere associato a quello di una o più altre componenti: questo quadro contraddice lo stesso concetto di sindrome come associazione necessaria di lesioni funzionali. Non solo, ma assegnare un paziente a una sindrome particolare può rivelarsi invece che un utile strumento euristico, un vero e proprio ostacolo alla comprensione dei meccanismi causali che sono alla base del particolare caso osservato.
L'alternativa che allo stato attuale appare più corretta è quella dell'analisi sperimentale delle prestazioni del singolo paziente, tanto di quelle danneggiate quanto di quelle intatte, e della valutazione dei risultati alla luce della teoria delle componenti cognitive indagate (Caramazza 1986). Sempre in tempi recenti, infine, sono risultate di particolare interesse le ricerche sulle abilità di lettura di pazienti utenti di lingue con sistemi di scrittura diversi da quello alfabetico diffuso nel mondo occidentale, come per es. quello logografico (o ideografico) Kanj, che è uno dei sistemi di scrittura giapponesi: in esso a ogni simbolo corrisponde sia la forma fonologica sia il significato di un'intera parola (Sasanuma 1980). È presumibile che uno studio più approfondito in questa direzione permetterà di stabilire, con maggiore approssimazione alla verità, se il modello a due vie oggi prevalente sia da considerarsi universale o invece appropriato soltanto per le caratteristiche particolari delle lingue che finora sono state studiate e per il tipo di restrizioni da esse esercitate sulle forme che i disturbi della lettura possono assumere.
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