disobbedienza civile
Rifiuto di obbedire a una legge senza ricorrere alla violenza
Supponiamo che uno Stato decida con una legge che tutti i suoi giovani devono partecipare a una guerra contro un altro Stato soltanto perché quello è ricco di risorse naturali di cui esso è privo. Sarebbero tutti obbligati a parteciparvi? Per pura obbedienza alla legge sì, ma per libera scelta, se ritengono ingiusto spogliare gli altri di ciò che posseggono per natura, invece no. Essi potrebbero allora rifiutarsi di obbedire, accettando però le eventuali sanzioni di legge
La disobbedienza civile è una forma di lotta politica a cui possono fare ricorso i cittadini quando ritengono che l'autorità dello Stato sia andata al di là dei limiti del buon governo, e cioè dei suoi doveri istituzionali. Essa si differenzia dalle forme rivoluzionarie (rivoluzione) di opposizione perché rifiuta totalmente il ricorso a ogni tipo di violenza e si propone anzi come un modello di pratica non-violenta, che preferisce convincere gli altri (anche con l'esempio), invece di sconfiggere gli altri.
Storicamente, la disobbedienza civile si è presentata dapprima sotto forma di rifiuto di pagare le tasse: tale fu il comportamento di Henry D. Thoreau (uno scrittore politico statunitense, vissuto tra il 1817 e il 1862) che non voleva che con il suo denaro il governo finanziasse una guerra degli Stati Uniti contro il Messico.
Nel 20° secolo grandi protagonisti della disobbedienza civile furono Gandhi, che vi ricorse per favorire l'indipendenza indiana, e M. Luther King, nella lotta per l'emancipazione dei neri d'America.
Ancora oggi, negli Stati più sviluppati e industrializzati del mondo succede che determinati gruppi politici (normalmente piccole minoranze) propongano, di fronte a quella che ritengono l'esosità dell'imposizione fiscale, una sorta di sciopero dei contribuenti: un rifiuto di obbedire alla legge che tuttavia ‒ e questa è una distinzione assolutamente fondamentale per comprendere la natura di questa forma di lotta politica ‒ ha una giustificazione totalmente differente da quella di chi invece falsifichi la sua dichiarazione dei redditi per evitare di pagare le tasse.
Non dobbiamo mai scordare che il disobbediente civile non ha intenzione di far crollare lo Stato perché, proprio al contrario, il suo fine è quello di renderlo migliore spingendolo a correggere questa o quella legge che si sia rivelata per qualche motivo sbagliata. Può ben darsi che al momento di votarla, la maggioranza si sia illusa che quella certa legge avrebbe migliorato la vita dei suoi cittadini; ora, di fronte alla sua applicazione e all'eventuale verifica che le cose stanno diversamente, lo Stato non sempre ha l'elasticità per correggere sé stesso, se non sotto la spinta dimostrativa di una parte della pubblica opinione. Per esempio, nel 1978 in Italia venne introdotta una legge che regolamentava l'interruzione della gravidanza, poiché si riteneva in tal modo di venire incontro alla libera determinazione di volontà della donna; ma diverse parti (tanto gruppi ispirati religiosamente, quanto pensatori che ritenevano intoccabili i principi del diritto alla vita) chiesero che venisse garantita loro la possibilità di disobbedienza civile, consistente, per esempio nel caso dei medici ostetrici, nell'astenersi dall'applicare la legge esistente ove essa violasse i loro principi morali o religiosi.
La disobbedienza è una forma di comportamento pubblico che mira a far prevalere i valori morali che si ritengono universali. È spesso praticata da individui o piccoli gruppi, e si inscrive tra le forme della democrazia, della quale applica, portandolo all'estremo limite, il diritto alla libertà di pensiero e di opposizione nei confronti delle maggioranze. La sua più profonda giustificazione riguarda l'idea che lo Stato, in quanto tale, non possa o non debba intervenire a regolamentare ogni circostanza della vita dei cittadini e che principi di giustizia, ispirati a valori morali superiori a quelli della legalità, debbano essere in ogni caso difesi, anche a costo di disobbedire, appunto, alle leggi.