dispatrio
s. m. Perdita della propria patria e delle proprie radici affettive e socioculturali.
• anche i più recenti «Nello splendore dei gigli» ‒ maiuscolo affresco sul Novecento americano visto attraverso il cinema ‒ o «Terrorista», del 2006 ‒ straziante e lucida analisi del dispatrio di un giovane americano di origini egiziane dirottato verso il terrorismo ‒ simboleggiano una mai sopita propensione a seguire il tempo e le sue evoluzioni, o le sue mancate conferme di crescita sociale. La società cambia, nei romanzi di [John] Updike, ma gli uomini rimangono sempre gli stessi, con i loro dubbi, con la loro ricerca spesso bassamente sessuale di una conferma di esistere, in una società che cambia troppo in fretta. (Sergio Pent, Unità, 28 gennaio 2009, p. 40, Culture) • Sono gli «autori migranti», quelli che cambiano vita e lingua, quelli che hanno vissuto il trauma del «dispatrio» ‒ secondo il titolo di un libro di Luigi Meneghello. Arrivano nel nostro paese carichi di storie dolorose, di memoria, d’inguaribile nostalgia. E scrivono libri in italiano, in una lingua che si trasforma alla ricerca del parlato o della perfezione, della metafora o del neologismo sfrenato: straniante e spaesata. (Luciana Sica, Repubblica, 17 luglio 2009, p. 49, Cultura) l Il lungo «dispatrio» in Inghilterra è cessato: [Luigi] Meneghello si ritira definitivamente nella sua casa di Thiene, scegliendo, per studiare e scrivere, uno scantinato. (Franco Marcoaldi, Repubblica, 16 settembre 2012, p. 46, Cultura).
- Derivato dal s. f. patria con l’aggiunta del prefisso dis-, sul modello di espatrio; titolo del libro di Luigi Meneghello, Il dispatrio, Milano 1993.
- Già attestato nel Corriere della sera del 23 novembre 1993, p. 29 (Giulio Nascimbeni).