disperare [disperrebbe, III singol. cond. pres.]
Con valore intransitivo, significa " smettere di sperare ", ed è attestato, in correlazione con ‛ sperare ', in Detto 67 Per ch'i' già non dispero, / ma ciaschedun dì spero, e, nella forma pronominale, in Fiore CXLII 10 Ch'i' son certana ch'e' si disperrebbe, e CLVII 14. Il medesimo valore intransitivo è in Cv IV XV 14 Costoro sempre come bestie in grossezza vivono, d'ogni dottrina disperati, dove il participio si completa nella specificazione, ‛ essendosi privati della speranza di acquistare dottrina ' (non possono credere che né per loro né per altrui si possano le cose sapere, § 14): siamo agli antipodi dell'ideale espresso da Ulisse in If XXVI 118-120.
Ha valore transitivo, e nell'oggetto si esprime la cosa di cui si dispera, in Pg I 12 quel suono / di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono: in Ovidio (Met. V 302 ss.), alla fine del lungo canto di Calliope, conservano un atteggiamento di sfida (" Convicia victae cum iacerent... / Rident Emathides spernuntque minacia verba ", vv. 664-669). Per ovviare a tale contrasto con la fonte classica, il Buti proponeva una lezione del tutto congetturale: " potrebbe anco dire lo testo: che dispettar perdono, cioè ebbeno in dispetto che fusse loro perdonato ".
Nelle due attestazioni del participio passato con valore di aggettivo, la qualificazione non si limita alla perdita della speranza ma si rapporta al dolore che quella implica o quanto meno all'assenza del conforto che viene dalla speranza. Come attributo di strida, in If I 115 udirai le disperate strida, ne significa più l'origine che la qualità: esse sono espressione del dolore (spiriti dolenti, v. 116) di chi non ha più speranza. In XXXIII 5 Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor, l'attributo vale " inconsolabile ": un tratto che supera la genericità dell'infandum virgiliano (Aen. II 3), e concorre alla continuità tra la tragicità' della scena di Ugolino che rode la testa di Ruggieri e la tragicità della vicenda che sta per essere narrata. Il De Sanctis legava questa disperazione alla " grandezza di proporzioni " del personaggio, che è " più fiero che la sua azione " e non si appaga di rodere il cranio del suo nemico; il Porena conferiva invece all'attributo una pregnanza spirituale e religiosa: essendo quella di Ugolino la morte di un incredulo prigioniero della terrestrità, il suo dolore è d. perché nessun conforto gli può venire da un raggio di ultraterrena speranza. Più estranea al contesto l'indicazione dell'Anonimo: " e vedendosi il conte morire, domandò un frate per confessore, e non gli fu dato ".