Dissenso
Il dissenso è una nozione relativamente recente nella storia dell'umanità: non è più vecchia di tre secoli e mezzo. Il suo riconoscimento e la sua accettazione sono propri della modernizzazione liberale del mondo occidentale. A livello culturale, in paesi dominati dalla religione e dalla tradizione non vi è posto per tale fenomeno. Anche a livello politico, là dove le diverse forme di assolutismo sono ancora prevalenti, non vi è spazio alcuno per il dissenso.
Già nell'antichità classica, ad esempio ad Atene durante il IV secolo a.C., cioè nel periodo a cui tradizionalmente ci si rifà per indicare la 'democrazia degli antichi', l'istituto dell'ostracismo puniva il dissenziente ritenuto pericoloso per la comunità. Dalla romanità fino ai Comuni italiani, poi, abbondano gli autori che sostengono essere proprio il disaccordo, ovvero il dissenso, all'origine della decadenza e del crollo di regimi politici storicamente molto diversi. In breve, fino al XVIII secolo l'idea di fondo condivisa da governanti e pensatori politici, come dalla gente comune, è che un regime diviso da opinioni e posizioni dissenzienti sia destinato al dissolvimento, alla sconfitta di fronte al nemico; sia sostanzialmente inadatto alla sopravvivenza. Successivamente, soprattutto dalla fine del XVIII e durante il XIX secolo, con il riconoscimento anche formale del dissenso prende corpo uno degli aspetti centrali delle liberaldemocrazie moderne; talmente importante da passare anche in certi tipi di regime autoritario (si veda più avanti). Che cosa è successo?
Il dissenso per essere riconosciuto e legittimato ha bisogno di almeno due presupposti, uno culturale e uno sociale, che si sviluppano gradualmente intrecciandosi nel corso dei secoli; con diversità notevoli tra paese e paese, ma sempre nell'ambito dell'Europa occidentale. Il presupposto culturale di questo processo sta nel riconoscimento pieno dell'individuo-persona e dei relativi diritti inalienabili. All'esistenza acclarata e giuridicamente garantita dei diritti si giunge attraverso contributi successivi portati dal cristianesimo, dal Rinascimento, dalla Riforma protestante, dal giusnaturalismo, e, infine, dal liberalismo. Con il fissare la pari dignità di tutti gli uomini, oppure con la stessa nozione di peccato e di grazia individuali, il cristianesimo è il terreno più fertile su cui si comincia a costruire la nozione di individuo. Il Rinascimento, che pure recupera la civiltà classica, finisce per essere anche un'esaltazione dell'individuo: artista, scienziato, principe o condottiero. Il protestantesimo introduce l'idea dell'autonomia individuale anche nella sfera religiosa, e tale autonomia può prescindere perfino dall'autorità costituita. Il giusnaturalismo postula chiaramente e sistematicamente una dottrina dei diritti innati che, poi, vengono precisati e sviluppati anche nella loro dimensione giuridica dal liberalismo, soprattutto nel XIX secolo. Nei primi decenni dell'Ottocento, peraltro, la nozione dell'individuo-persona si estende anche ad altri paesi dell'Europa occidentale, tra cui l'Italia.
Il riconoscimento e la difesa anche giuridica dell'individuo costituiscono il presupposto culturale importantissimo del dissenso, poiché solo in una società di individui provvisti di diritti vi può essere la possibilità e l'accettazione di idee, valori e posizioni diverse. Inoltre, quelle diversità possono essere concretamente fatte valere solo in una società siffatta, in una società che abbia ormai superato sia una forte divisione per ceti, laddove vi è stata, sia l'invadenza totale della religione nella vita quotidiana.Il secondo presupposto del dissenso è sociale: gli individui hanno risorse proprie e autonome rispetto all'autorità regia o signorile e sono in grado di gestire e controllare quelle risorse. Questo accade principalmente quando un nuovo ceto cittadino e borghese nasce insieme alla rivoluzione industriale, e in modo meno accentuato anche prima, cioè quando vi è un pieno sviluppo della fase mercantilista nelle economie dell'Europa occidentale. In ogni caso, quando non vi è o non vi è più un monopolio pubblico nel controllo delle risorse economiche.
L'esistenza di questi due aspetti, con le relative molteplici dimensioni, suggerisce che non ci si trova più in società fortemente omogenee, nelle quali, anzitutto, esiste una religione dominante che regola la vita della comunità tradizionale, piccola o grande che sia. Le società omogenee non sentono neppure il bisogno del dissenso, ovvero l'esigenza del suo riconoscimento. Integrazione e conformismo sono prevalenti. La modernizzazione sociale e culturale, invece, introduce la diversità, l'eterogeneità, la frammentazione culturale, la diversificazione sociale, in una parola il pluralismo sociale e culturale.
Il dissenso nasce e ha la sua base e la sua possibilità di riconoscimento nell'esistenza del pluralismo. Esso caratterizza la modernizzazione occidentale e, in una prospettiva politica, la genesi e la formazione delle oligarchie competitive. Proprio questo tipo di regime, caratterizzato da competizione tra élites ristrette, ammette e riconosce per la prima volta il dissenso politico. L'oligarchia competitiva è il precedente storico e politico delle moderne liberaldemocrazie di massa, delle quali appunto pluralismo e dissenso, insieme alla partecipazione popolare, costituiscono gli aspetti principali e definitori.
La 'concatenazione', dunque, è la seguente: sul versante delle trasformazioni culturali (e religiose) vi è il riconoscimento della nozione di individuo con propri diritti innati; sul versante sociale, collegato al primo, differenziazione all'interno della società con nuovi gruppi sociali; di qui, emergere del pluralismo culturale e sociale; effetto primo del pluralismo, esistenza del dissenso; fondazione, quindi, di regimi - le oligarchie competitive - in cui il disaccordo viene riconosciuto e, per la prima volta, apprezzato, non considerato un fatto solo negativo e deleterio per il sistema politico; in alcuni paesi, trasformazione delle oligarchie competitive in liberaldemocrazie di massa nelle quali, accanto alla potenziale partecipazione politica del più largo numero di cittadini adulti, il dissenso è consentito e protetto.
La 'concatenazione' appena abbozzata trova anche una sorta di legittimazione nel pensiero politico tra la seconda metà del XVIII e il XIX secolo. Se con Rousseau la regola dell'unanimità è ancora quella prevalente, già con Burke e il riconoscimento del ruolo dei partiti la 'novità' culturale e politica è proposta e assorbita (v. Sartori, 1987, p. 92).
In una prospettiva più strettamente storica, si può aggiungere che la prima istituzionalizzazione del dissenso si ha in Inghilterra dopo il 1750, quando all'opposizione parlamentare si riconosce un ruolo positivo di stimolo, di critica e di controllo del governo e del suo operato (v. Poggi, 1990, cap. 4). Viene fondato così uno degli istituti centrali e più importanti delle oligarchie competitive e, poi, delle liberaldemocrazie di massa. Tuttavia, in questi anni molto rilevanti sono anche altri due eventi, la Rivoluzione americana, segnata da un'importantissima Dichiarazione dei diritti, da una guerra di decolonizzazione e dall'approvazione di una costituzione liberale, e la Rivoluzione francese. Entrambi questi fatti hanno un impatto enorme sui diversi paesi europei, ma sono anche l'occasione - qui da sottolineare - per un rafforzamento nell''azione' e per una sanzione definitiva del principio del dissenso.
Dopo quegli anni e quegli eventi, l'idea che il dissenso sia necessario e costitutivo dei regimi liberali competitivi, a partecipazione ristretta o ampia, coesiste con la precedente convinzione che il dissenso divida in maniera letale un sistema politico portandolo al crollo. Sia fuori d'Europa che all'interno di essa, la prima idea rappresenta uno dei principî usati per legittimare le democrazie, la seconda rimane uno dei luoghi comuni più ricorrenti per giustificare interventi militari, ideologie totalitarie, azioni governative con contenuti autoritari.
Dalla ricostruzione della genesi storica e analitica della nozione di dissenso si può ricavare la sua definizione generale come ogni forma di disaccordo o atteggiamento negativo verso il regime o il sistema vigente. Quella ricostruzione suggerisce anche la ragione principale per cui non è possibile accettare una definizione ristretta della nozione: la relazione società di individui/dissenso, il rapporto dissenso/oligarchie competitive, il legame forte tra pluralismo e dissenso e gli altri aspetti sopra citati, tutti postulano che la nozione qui discussa sia la categoria più generale di ogni forma di disaccordo o di opposizione, assuma cioè un significato generale tale da ricoprire ogni forma di disaccordo.
Peraltro, gli autori che aderiscono alla definizione più ristretta ritengono che con dissenso si debba indicare solamente quelle forme di disaccordo non stabilmente organizzate, non istituzionalizzate, che si mantengono in ambiti limitati e non violenti, siano esse collettive o individuali. Nell'ambito di tale definizione ristretta si può sostenere che elemento centrale e ricorrente sia la pubblicità che si riesce a dare alle manifestazioni di dissenso, ovvero la forza con cui si riesce a raggiungere l'opinione pubblica e a presentare le proprie diverse posizioni. Così non è, invece, se si accetta la definizione più ampia, come qui si fa, proprio perché le variegate manifestazioni di dissenso (v. cap. 2) non sono tutte necessariamente caratterizzate dall'importanza del ricorso alla pubblica opinione.
Come si può intendere immediatamente, anche con riferimento ai due significati, quello ampio e quello più ristretto, gli elementi più rilevanti nell'analisi di questo fenomeno stanno nelle forme e nei gradi che esso assume in un sistema politico. Il che significa che qui si privilegia il dissenso politico, e si trascura l'importanza - peraltro notevole - di questa nozione nei rapporti interpersonali tra uomo e donna, tra genitori e figli o ancora, in sedi di lavoro, tra superiori e inferiori o all'interno di gruppi che collaborano. Si tratta in tutti i casi di sfere sociali nelle quali, di nuovo, l'accettazione o la negazione delle diversità di opinione e il loro riconoscimento o non riconoscimento di fatto giocano ruoli particolarmente importanti. L'analisi di queste sfere sociali presenta molte analogie con quella propria della sfera politica, a cui sarà dedicato il resto dell'articolo.
Il dissenso politico può manifestarsi in diverse forme e a diversi livelli. Le principali forme riguardano due dimensioni: 'profondità' e 'traduzione in azione'. Sotto il primo profilo, il disaccordo può limitarsi a contestare singoli provvedimenti o anche specifiche politiche governative; oppure può investire certe regole chiave o norme basilari proprie del regime vigente, ovvero riguardare anche gli assetti istituzionali parimenti vigenti; o, infine, può anche attenere ai principî basilari su cui si regge una comunità politica, come i diritti di libertà o eguaglianza, ovvero gli stessi principî basilari sottesi alla struttura socio-economica, quali i diritti di proprietà privata, il riconoscimento del profitto e anche dell'esistenza di un mercato.
La seconda dimensione più rilevante riguarda il modo in cui il dissenso è tradotto concretamente in azione. Infatti un certo disaccordo, anche radicale e profondo, può tradursi in una completa passività, che dal punto di vista politico è sostanzialmente irrilevante; ma può anche tradursi, al contrario, in azione più o meno organizzata e violenta con l'intento di rovesciare l'ordinamento del paese, ovvero in azione organizzata, ma pacifica, che segue i canali di espressione previsti dalla legge, ad esempio quelli dell'opposizione parlamentare. Quali siano le forme principali del dissenso lo si può vedere in forma semplificata nella relativa tabella che utilizza in forma incrociata i due criteri sopra illustrati.
Questa tabella sollecita immediatamente alcune osservazioni. Innanzitutto, il dissenso è la categoria più generale nell'ambito di una gamma molto ampia di azioni (e di non azioni). Inoltre, certe forme più specifiche di dissenso possono investire sia le politiche che certe istituzioni, ovvero possono travalicare dalla non violenza alla violenza. Nella prima prospettiva si pensi alla 'latitudine' che può assumere la disobbedienza civile. Nella seconda si pensi a uno sciopero pacifico che sfocia in dimostrazioni con scontri con la polizia, occupazione di locali pubblici, blocchi stradali o ferroviari, o che, in un'escalation progressiva, si trasforma in episodi di guerriglia urbana. Infine, la tabella evidenzia con chiarezza la relazione tra la profondità del dissenso e il grado di violenza che possono assumere certe sue forme, quali il terrorismo e la guerriglia urbana.
La tabella suggerisce anche l'importanza di altre dimensioni per approfondire l'analisi delle forme di dissenso. La prima di queste riguarda la questione se il dissenso sia individuale o collettivo. Mentre tutte le forme di dissenso passivo sono, di solito, espressione di scelte implicite o esplicite fatte da un singolo individuo, il dissenso attivo può essere collettivo. Se così è, la successiva dimensione rilevante è il grado di organizzazione raggiunto dal dissenso collettivo: l'opposizione parlamentare sottintende un gruppo o un partito dietro l'espressione del disaccordo. Così avviene anche per efficaci opposizioni antiregime, contrarie cioè alle istituzioni vigenti, o antisistema, cioè contrarie ai principî cardine di quel sistema politico. Ma è così anche per il dissenso che si esprime nel terrorismo o nella guerriglia urbana. In entrambi i casi, forme sia pure diverse di organizzazione sono necessarie.
Un quinto e ultimo criterio rilevante per distinguere tra le diverse forme di dissenso consiste nel vedere se e come manifestazioni di dissenso si pongano nei confronti delle leggi in vigore. Questo criterio è particolarmente importante in un contesto autoritario, nel quale il dissenso è formalmente vietato e a dispetto di ciò riesce a esprimersi ed è di fatto, in alcuni casi, tollerato dai governanti. Riprendendo un'analoga distinzione di Linz (v., 1973, pp. 171 ss.) a proposito dell'opposizione in regimi autoritari, si può parlare di un dissenso legale, alegale, pseudolegale, illegale. Con queste etichette s'intendono: 1) quelle espressioni riconosciute, accettate e garantite dalla legge (legali); 2) quelle forme di contrasto verso il regime che scelgono vie non esplicitamente disciplinate dalle norme (alegali); 3) quelle modalità di dissenso solo apparentemente tali, che in realtà tengono gruppi incerti all'interno del regime e non violano mai le norme vigenti (pseudolegali); infine, 4) le manifestazioni, violente e non violente, che chiaramente contravvengono alle norme vigenti (illegali). L'interesse principale di questo quinto criterio e delle relative distinzioni sta nell'evidenziare un'area di notevole ambiguità tra legalità e illegalità, nella quale si collocano gruppi sociali dissenzienti, ma poco attivi politicamente o incerti o poco efficaci o che addirittura raggiungono l'effetto contrario a quello atteso di delegittimare il regime.
Una trattazione più dettagliata delle diverse forme di dissenso non è possibile in questa sede. Qui si deve, piuttosto, sollevare un quesito di carattere generale: quali fattori condizionano la scelta di una forma di dissenso piuttosto che un'altra? La risposta che viene dalla ricerca nell'ambito della scienza politica non si allontana molto da quanto suggerito dal senso comune. Più esattamente, la discriminante principale viene data dalle differenze contestuali, cioè se ci si trova in un contesto democratico o in uno autoritario, per citare le due varianti più importanti.
Precisato, quindi, che un qualche grado di insoddisfazione vi deve essere perché si abbia dissenso e che esso può essere presente anche in condizioni sociali, economiche e culturali molto diverse nel mondo moderno, per spiegare le forme che il dissenso concretamente assume bisogna rifarsi alle modalità di espressione delle domande politiche e alle ideologie prevalenti. Queste sono notevolmente diverse nei regimi democratici e in quelli autoritari, e perfino all'interno del genus democratico o di quello autoritario le differenze restano apprezzabili.
Se il contesto è democratico, le tre variabili principali sono la potenzialità di espressione concreta del dissenso, il grado di ricettività del regime e l'esistenza di ideologie estremiste e tradizioni di violenza. Sotto il primo profilo, le fonti di differenziazione sono date dalla diversa misura in cui i diritti civili sono garantiti, dalla facilità dell'accesso ai canali di comunicazione di massa, dalla densità della rete di rapporti tra cittadini e governanti eletti, dalle relazioni partiti/gruppi di pressione. In generale, una maggiore ricchezza e varietà di canali di accesso, ovvero una maggiore facilità di espressione della domanda, mantiene il dissenso a livelli meno profondi e più limitati e rende più frequenti le espressioni contenute nelle colonne centrali della tabella, disobbedienza civile e opposizione parlamentare. In breve, vi sono minori possibilità che il dissenso si radicalizzi.
Complementare a questo aspetto è il secondo, il grado di ricettività del regime. Al di là dell'espressione della domanda è rilevante se e come quel disaccordo sia recepito e assorbito. Nei regimi caratterizzati da maggiori capacità ricettive, cioè dotati di meccanismi istituzionali che esaltano quella ricettività attraverso la possibilità di alternanza al governo, ovvero attraverso un notevole decentramento regionale, le espressioni di dissenso tenderanno a essere moderate e a svilupparsi all'interno dei canali previsti dal regime. Nel caso opposto tenderanno a radicalizzarsi o in direzione dell'apatia e dell'alienazione ovvero verso comportamenti più violenti.
A queste considerazioni, però, ne vanno aggiunte altre di segno diverso. L'esperienza democratica degli anni settanta in Europa occidentale ha evidenziato l'importanza della prima caratteristica rispetto alla seconda. Se, cioè, in astratto si potrebbe supporre che ciò che veramente conta sia il grado di ricettività del regime, poi, in concreto, è l'altro aspetto che risulta più importante. Innanzitutto, la possibilità di esprimere adeguatamente le proprie domande e il proprio dissenso sembra spesso far premio sulla effettiva soddisfazione di quel disaccordo. Questo per due motivi: il fatto stesso dell'espressione limita e integra il dissenso; poi, la ricettività è difficile da rilevare empiricamente e valutare da parte dello studioso, e lo è ancora di più per il cittadino. Dal punto di vista di quest'ultimo conta di più, semmai, la microricettività clientelare, che può esserci in diversi tipi di democrazie, e perfino in certi regimi autoritari. In società industriali con classi medie ampie e composite, dal punto di vista del cittadino è importante anche il mantenimento di certe soglie in termini di inflazione, qualità di diversi servizi (scuola, salute, trasporti, e altri), salari e profitti. Dunque, la ricettività di cui si discute è alla fine qualcosa di molto concreto e limitato a certe politiche economiche.Il terzo principale elemento da considerare è il radicamento di ideologie estremiste insieme a tradizioni di ricorso alla violenza. Quali che siano le ragioni storiche che in alcuni paesi, specie non europei, possono spiegare tale radicamento o il più frequente uso della violenza come mezzo di azione politica, questo fattore è indubbiamente molto importante per spiegare le forme assunte dal dissenso.
Questa analisi ha tralasciato altri fattori parimenti salienti, ma più ovvi e meno direttamente legati al problema in esame: anzitutto, le risorse del paese anche in rapporto con la densità della popolazione, aspetti a loro volta più direttamente influenti sulla ricettività del regime.Se il contesto è autoritario, il quadro cambia notevolmente. Infatti, sebbene non si possa negare una qualche importanza ai tre fattori sopra discussi per i regimi democratici, nel contesto autoritario la questione si pone in modo diverso. Poiché in quei regimi il dissenso è represso, esso si indirizza verso forme passive o verso una radicalizzazione, assumendo caratteri di organizzazione e di violenza. Inoltre, come già ricordato alla fine del capitolo precedente, in quei regimi le espressioni più rilevanti del disaccordo tendono a occupare le zone grigie ai margini della legalità. A questo punto la domanda più ovvia è perché i governanti autoritari ammettano, di fatto, il dissenso se la logica di quei regimi condurrebbe a reprimerlo. La prima risposta viene da Dahl (v., 1971), quando evidenzia come il costo della repressione sia talvolta superiore al costo della tolleranza. In altri e più concreti termini, per i governanti autoritari mantenere un apparato repressivo capillare può essere molto più costoso che ammettere un limitato grado di dissenso, in quanto oltretutto quel dissenso svolge paradossalmente anche una funzione positiva. Mentre su questo punto specifico si rinvia al prossimo capitolo, qui si può aggiungere che proprio questo aspetto, cioè l'ammettere un limitato dissenso, è uno degli elementi principali di differenza tra i regimi autoritari e i regimi totalitari storicamente esistiti, che non ammettevano alcun tipo di disaccordo ed erano pronti a sostenere tutti i costi della repressione capillare della società. L'ideologia, il ruolo del partito unico, il grado di partecipazione organizzata e diretta dall'alto, la posizione preminente del capo (duce, Führer, o jefe) erano tutti aspetti che non consentivano l'ammissione anche soltanto di forme limitate e controllate di dissenso.
L'analisi del dissenso fin qui condotta ha fatto emergere due paradossi. Il primo: in contesti democratici, da una parte, si riconosce il dissenso e addirittura lo si garantisce e istituzionalizza per rafforzarne l'espressione, ma, dall'altra, si vede come diverse manifestazioni di dissenso abbiano un impatto negativo e delegittimante sul regime democratico. Il secondo: in contesti autoritari, che aboliscono di fatto le garanzie dei diritti civili e politici, si tollerano alcune espressioni di dissenso. Come risolvere i due paradossi rispetto a un fenomeno negativo nei confronti di ogni regime politico, ma di cui si apprezza la positività?
La prima risposta è normativa e attiene alle giustificazioni del dissenso. Al di là delle sue basi sociali, il dissenso si 'autogiustifica' in quanto espressione di volontà individuali e collettive che si constatano diverse da quelle della maggioranza solo dopo che ne sia stata garantita effettivamente la manifestazione. Dunque, la giustificazione del dissenso è duplice: come libera espressione di volontà e come necessità di proteggere le minoranze dissenzienti. Entrambi gli aspetti costituiscono elementi ricorrenti delle ideologie liberali o anche liberaldemocratiche. Dal punto di vista normativo è ovviamente irrilevante il contesto democratico o autoritario: anche nel secondo caso, infatti, il dissenso è giustificato in termini di diritti e di libertà. Dunque, nella prospettiva normativa, i due paradossi sopra indicati non sono neanche considerati rilevanti.
Nella prima prospettiva normativa rientra anche una seconda e più specifica giustificazione: il consentire il dissenso nelle sue diverse espressioni è utile anche a prendere decisioni maggiormente avvertite, consapevoli, razionali rispetto allo scopo che si vuole raggiungere. La sostanza dell'argomento sta semplicemente nel rilevare come il dissenso e la discussione possano essere un mezzo per approfondire un problema, esplorandone tutte le soluzioni alternative, pesando vantaggi e svantaggi, capendo meglio gli stessi obiettivi che si vogliono raggiungere (v. Dahl, 1966, pp. 391-392). Se questo corrisponde all'esperienza di tutti i giorni, non è tuttavia possibile darne definitive prove empiriche a livello di processo decisionale politico. Per questa ragione sembra un argomento il cui fondamento più solido sta in un'opzione di valore, cioè nella convinzione che il dissenso sia positivo in se stesso. Si torna così alla precedente giustificazione.
La seconda risposta è empirica e riguarda le funzioni del dissenso. L'aspetto centrale è che il paradosso del dissenso in democrazia è solo apparente. Ammettendo l'espressione di opinioni diverse e contrarie, il dissenso svolge un'importante funzione di autocorrezione e automutamento all'interno del regime democratico, sia in sedi governative centrali che locali, e in questa prospettiva svolge un ruolo molto importante nel migliorare la 'qualità' del governo. Inoltre, dando l'opportunità di manifestare il proprio scontento, offre canali di sfogo a un'insoddisfazione che altrimenti si radicalizzerebbe e sfocerebbe in forme più aperte e violente di contestazione. In questo modo, invece, si riescono a integrare e, comunque, a mantenere nella comunità politica anche gruppi che altrimenti ne sarebbero rimasti fuori. Complessivamente, automutamento e integrazione danno maggiore legittimità al regime democratico, contribuiscono cioè al suo mantenimento. A ben vedere, dunque, le funzioni effettivamente svolte dal dissenso portano in direzione esattamente opposta a quella apparente, di divisione e di conflittualità.
Tali funzioni, però, sono svolte efficacemente solo se le sue manifestazioni si mantengono entro limiti moderati e pacifici. In una situazione di bassa legittimità del regime e diffusa insoddisfazione e, magari, in presenza di élites mobilitate contro il regime, un dissenso radicale e violento ha effetti ben diversi da quelli sopra indicati; ha, cioè, risultati destabilizzanti sull'intero assetto democratico, magari preparando il terreno per leggi d'emergenza, un intervento militare e una trasformazione del regime in senso autoritario. Da questo punto di vista, di fronte a manifestazioni radicali e violente, un regime democratico può solo difendersi con misure di polizia, come in verità farebbe ogni altro regime. Dunque, il dissenso si presenta con funzioni sempre positive finché rimane pacifico e all'interno dell'ordinamento democratico vigente.
In un contesto democratico deve essere considerata un'altra e più specifica funzione, che non è solo manifestazione di scontento o impulso all'automutamento. Traendo lo spunto dal frequente ricorso ad atti di protesta da parte di gruppi privi di risorse, si può ritenere (v. Lipsky, 1968) che per questi gruppi la protesta, mantenuta nei limiti della legalità, sia una vera e propria risorsa politica. L'aspetto più delicato della strategia adottata da tali gruppi sottoprivilegiati per avere una qualche forza contrattuale nel processo politico è che essa può facilmente superare la soglia della legalità e diventare violenta. In ogni modo, il dissenso nelle sue forme di protesta legale dà voce a minoranze sottoprivilegiate e non rappresentate altrimenti, con scarsa capacità di organizzazione e pressione in forme diverse; consente insomma a tali minoranze di esprimere la propria domanda politica. In questo senso, le espressioni di dissenso da proteggere non sono solo quelle ben note che si svolgono attraverso canali istituzionalizzati e consistono soprattutto in un controllo dell'operato del governo, ma sono anche queste altre forme appena citate, che a livello di massa prendono la via della protesta legale.
Se in democrazia forme moderate di dissenso svolgono funzioni di legittimazione e di espressione della domanda, che dire dei regimi autoritari che tollerano il dissenso? Si è visto sopra che una ragione di tale tolleranza è l'alto costo della repressione. Ora occorre aggiungere che anche in regimi autoritari quella funzione di legittimazione e integrazione può essere svolta dal dissenso. Anche se con modalità limitate e, di solito, solo a livello di élite, nel tollerare il dissenso i governanti autoritari vedono la possibilità di mantenere all'interno del regime i gruppi poco convinti e in posizioni marginali. Questo, alla fine, significa maggiore stabilità del regime autoritario, anche grazie a un attento dosaggio di tolleranza e repressione.
Per concludere, i due paradossi del dissenso sono solo apparenti. Al contrario di quanto suggerito da molti, il dissenso ha effetti positivi per un regime politico, se viene mantenuto entro la legalità. Reciprocamente, il non consentirne l'espressione porta alla sua radicalizzazione, richiede un ricorso sempre maggiore alla repressione, contribuisce alla crisi del regime stesso e, in presenza di altre condizioni, può portare anche a un suo eventuale crollo.
(V. anche Disobbedienza civile).
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