Abstract
Per prevenire pratiche di social dumping che altererebbero il corretto funzionamento del mercato europeo, il legislatore comunitario, con la dir. 96/71/CE, definisce un nucleo di norme vincolanti il datore di lavoro che distacca in uno Stato membro un dipendente per lo svolgimento di una prestazione a carattere temporaneo, muovendo da una nozione ampia della fattispecie “distacco”, strutturalmente diversa e niente affatto sovrapponibile a quella delineata dal legislatore nazionale.
La creazione di un mercato di servizi integrato a livello europeo è contestuale alla diffusione di «nuova forma di mobilità dei lavoratori che si distingue nettamente dalla mobilità dei lavoratori migranti contemplata esplicitamente dal Trattato Ce e dagli atti del diritto derivato relativi alla libera circolazione dei lavoratori» (Commissione Ce, L’applicazione della dir. 96/71/CE, COM (2003) 458 def. Bruxelles, 25.7.2003) in quanto caratterizzata dal fatto che i lavoratori tornano al paese di origine dopo aver svolto la loro missione, senza mai accedere al mercato del lavoro dello Stato ospitante.
Il fenomeno è stato oggetto di un primo intervento della Corte di giustizia con la sentenza Rush Portuguesa (v. infra), che ha ricondotto la mobilità temporanea dei lavoratori nell’ambito di applicazione dell’art. 49 TCE sulla libera prestazione dei servizi cross border e non, come atteso, dell’art. 39 lett. d) sulla libera mobilità dei lavoratori oltre confine. Questa scelta, per quanto necessitata (l’art. 39 non era all’epoca applicabile in quanto il regime transitorio determinato dall’Atto di accessione del Portogallo differiva al 1993 l’entrata in vigore delle norme sulla libera circolazione), sancirà per sempre l’applicazione nei confronti dei lavoratori migranti della legislazione del paese d’origine, a scapito del diritto del lavoro del paese di destinazione.
Mentre gli Stati membri più interessati da questa forma di mobilità transnazionale (Francia, Austria, Germania) provvedevano a definire per la prima volta le condizioni del “distacco” nel quadro di una prestazione transnazionale di servizi, la Commissione europea elaborava una prima proposta di direttiva nel 1991 (in GUCE, 30.8.1991, n. C-225), una seconda nel 1993 (in GUCE, 9.7.1993, n. C-187), per arrivare infine, sulla base della posizione comune del Consiglio del 3.6.1996, approvata dal Parlamento europeo il 18.9.1996, al testo definitivo della dir. 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (in GUCE L 18/1 del 21.1.1997) il 16.12.1996 con l’obiettivo di superare le incertezze e gli impedimenti «che possono compromettere l’applicazione della libera prestazione di servizi» aumentando «la sicurezza giuridica e consentendo d’individuare le condizioni di lavoro applicabili ai lavoratori che a titolo temporaneo eseguono lavori in uno stato membro diverso dallo Stato la cui legislazione disciplina il rapporto di lavoro» (Commissione CE – COM (2003) 458 def.).
Sono ragioni di mera opportunità questa volta a spingere nella scelta della base giuridica più adeguata per la direttiva a favore dell’art. 49 TCE. Sebbene la direttiva, avendo ad oggetto profili di regolazione attinenti ai diritti dei lavoratori migranti avrebbe potuto anche fondarsi sulle norme contenute nel capitolo sociale del Trattato, le disposizioni sulla libera prestazione di servizi, a differenza della materia di politica sociale, ne consentivano infatti l’adozione a maggioranza qualificata e non all’unanimità (Lo Faro, A., Diritti sociali e libertà economiche del mercato interno: considerazioni minime in margine ai casi Laval e Viking, in Lav. dir., 2008, 63).
La dir. 96/71/CE assume una nozione ampia di “distacco” (nella versione originaria “posting”), niente affatto sovrapponibile a quella utilizzata per la disciplina dei profili di sicurezza sociale (v. infra, § 4) o delineata dal legislatore nazionale (cfr. Santini, F., Distacco (dir. lav.) 1. Diritto interno, in Diritto online Treccani, 2015). Dal che l’assenza di una nozione unitaria della fattispecie nell’ambito dell’Unione europea e la potenziale applicazione concorrente delle diverse fonti di disciplina.
Secondo la direttiva (art. 2), il lavoratore distaccato è «il lavoratore che, per un periodo limitato, svolge il proprio lavoro nel territorio di uno Stato membro diverso da quello nel cui territorio lavora abitualmente» nell’ambito di una prestazione di servizi fornita in uno stato membro da un’impresa stabilita in altro stato membro.
La direttiva individua poi tre differenti ipotesi di distacco finalizzate alla esecuzione di lavori nel territorio di uno Stato membro: a) le imprese impiegano il lavoratore per conto proprio e sotto la propria direzione, nel territorio di uno stato membro, nell’ambito di un contratto concluso con il destinatario delle prestazioni di servizi che opera in tale stato membro (art. 1, n. 3, lett. a); b) le imprese impiegano il lavoratore nel territorio di uno stato membro, in uno stabilimento e in un’impresa appartenente al gruppo (art. 1, n. 3, lett. b); c) le imprese inviano il lavoratore presso un’impresa utilizzatrice in esecuzione di un contratto di lavoro temporaneo o interinale (art. 1, n. 3, lett. c). A queste ipotesi ne potrebbe essere aggiunta una quarta, sui generis, sottesa alla previsione dell’art. 3.2 che si concretizza nella prestazione di servizi accessori quale l’assemblaggio iniziale e/o di prima installazione di beni precedentemente forniti (Balandi, G., La direttiva comunitaria su distacco dei lavoratori: un passo avanti verso il diritto comunitario del lavoro, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, vol. I, Diritto del lavoro, Milano,1998, 46). Sono così ricondotte alla fattispecie comunitaria “distacco” le diverse ipotesi previste nell’ordinamento interno dell’appalto di servizi, del distacco nei gruppi di impresa e della somministrazione di lavoro (v. Santini, F., Distacco (dir. lav.) 1. Diritto interno, cit.).
Sebbene apparentemente trascurato dalla dottrina, si deve innanzitutto rilevare come l’ambito di applicazione della direttiva sia fortemente condizionato dalla «nozione di lavoratore». Questa infatti non è stabilita dallo stato di origine ma «è quella applicata in base al diritto dello Stato membro nel cui territorio è distaccato il lavoratore» (art. 2). In mancanza di una nozione comunitaria di lavoratore, restano dunque intatte le differenze esistenti tra gli ordinamenti nazionali anche in punto di qualificazione della fattispecie come subordinata od autonoma, con ripercussioni ogniqualvolta i lavoratori, autonomi ai sensi del diritto dello Stato di origine, vengano viceversa qualificati come subordinati in base alle norme dello Stato ospite (Bano, F., Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione Europea, Milano, 2011, 153).
La direttiva circoscrive poi il proprio ambito di applicazione al solo caso di distacco operato nell’ambito di una «prestazione di servizi» dove per servizi devono intendersi «le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non regolate dalle disposizioni relative alle disposizioni sulla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone».
Deve trattarsi ancora di sole fattispecie di rilevanza “intracomunitaria”, così andando a regolamentare le situazioni più “rilevanti” per il mercato interno perché suscettibili di dar luogo a distorsioni dell’equilibrio concorrenziale. Nel perseguimento di un obiettivo di leale concorrenza nel mercato dei servizi non si dovrebbe purtuttavia escludere una estensione degli obblighi in essa contenuti anche nei confronti delle imprese straniere, altrimenti avvantaggiate, rispetto a quelle stabilite nella Unione, dalla non applicazione degli standard di tutela a cui vengono invece chiamate le imprese comunitarie.
Deve comunque realizzarsi «una prestazione di servizi transnazionale», laddove per transnazionalità deve intendersi, a differenza di quanto avviene per la prestazione di servizi ove ha una accezione più ampia, lo spostamento fisico del lavoratore, con il che alla transnazionalità del servizio può anche non corrispondere quella della prestazione lavorativa.
Maggiore pregnanza qualificatoria riveste il requisito della sussistenza di un legame organico tra lavoratore distaccato e impresa distaccante, così come precisato nell’Interpello 12.10.2010, n. 33 del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che può dirsi corrispondere alla necessaria permanenza in capo alla impresa distaccante dei poteri e delle responsabilità nei confronti del lavoratore distaccato (Cinelli, M., Distacco e previdenza nella prestazione transnazionale di servizi, in Lav. giur., 2007, 126 ss.). Il rapporto deve inoltre preesistere al distacco in quanto viene richiesto che la prestazione sia resa “abitualmente” nello Stato di origine, con il che sarebbe da escludere la costituzione del rapporto in vista del distacco (conclusione questa assai problematica per quanto concerne soprattutto la fattispecie della somministrazione di lavoro sub 3).
Resta infine che deve trattarsi di una prestazione connotata dal requisito della temporaneità, essendo pur sempre il distacco riferito ad un “periodo limitato”. Sebbene concernente agli aspetti previdenziali, secondo qualcuno (Cinelli, M., Distacco e previdenza nella prestazione transnazionale di servizi, in Lav. giur., 2007, 125) dovrebbe dirsi possibile ravvisare una durata massima del distacco anche ai fini lavoristici nel regolamento sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, oggi il reg. CE n. 883/2004 sostitutivo ed abrogativo del reg. CEE 1481/1971, il cui art. 12, co. 1, effettua un generico riferimento ad una durata massima di “ventiquattro mesi”, o per un periodo massimo di cinque anni, su accordo degli Stati membri, entro cui il lavoratore rimane “soggetto alla legislazione” ai fini previdenziali dello Stato di provenienza (una previsione questa purtuttavia più “rigida”, di quella che ne ammetteva una durata potenzialmente illimitata legata a “circostanze imprevedibili” (art. 14, lett. b) reg. CEE, n. 1481/1971).
La dir. 96/71/CE non intende armonizzare i contenuti delle regole nazionali in materia di lavoro bensì coordinare gli ordinamenti giuridici nazionali coinvolti individuando la legislazione applicabile al rapporto di lavoro del prestatore distaccato.
La convenzione di Roma, all’art. 6, prendendo in considerazione il problema dei conflitti di leggi relativi a rapporti fra imprese implicanti un’attività di lavoro temporaneamente localizzata all’estero, dettava il criterio del locus laboris, precisando che il luogo dell’abituale svolgimento della prestazione non muta se il lavoratore è «inviato temporaneamente in altro paese». Opzione questa resa ancor più esplicita nel Regolamento Roma I (Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 17.6.2008, n. 593) laddove si legge che tali rapporti, in difetto di electio iuris, sono disciplinati dalla legge del paese nel quale il lavoratore compie abitualmente il proprio lavoro e che, nell’ipotesi in cui non possa individuarsi un unico paese nel quale il lavoratore svolga abitualmente la propria attività, si avrà riguardo al paese «a partire dal quale» l’attività viene svolta, ribadendo che il luogo di abituale svolgimento del lavoro «non è ritenuto cambiato quando il lavoratore compie il suo lavoro in un altro paese in modo temporaneo».
È l’intervento della Corte di giustizia con la sentenza Rush Portuguesa (C. giust., 27.3.1990, C-113/89, Rush Portuguesa), secondo cui «il diritto comunitario non osta a che gli Stati membri estendano l’applicazione delle loro leggi o dei contratti collettivi di lavoro stipulati tra le parti sociali a chiunque svolga un lavoro subordinato, anche temporaneo, nel loro territorio», ad introdurre rilevanti elementi di incertezza quanto allo status giuridico del lavoratore distaccato, che la dir. 96/71/CE si propone di risolvere.
A tal fine il legislatore comunitario prevede che lo Stato membro nel cui territorio vengono temporaneamente distaccati dei lavoratori nel quadro di una prestazione di servizi organizzata da un’impresa stabilita in altro Stato membro deve garantire ai predetti lavoratori «qualunque sia la legislazione applicabile al rapporto di lavoro» le condizioni riguardanti i periodi di lavoro e di risposo, le tariffe salariali minime ed altri aspetti del rapporto di impiego fissate dalla propria legge o dai contratti collettivi in vigore (art. 3, par. 1). Viene disposta in altre parole l’applicazione di uno “zoccolo duro” di norme imperative dello Stato in cui viene resa la prestazione (Commissione Europea, Libro Verde sulla trasformazione in strumento comunitario della convenzione di Roma del 1890 applicabile alle obbligazioni contrattuali e sul rinnovamento della medesima, Bruxelles, 14.1.2003, COM (2002) 654).
Il principio della territorialità della legislazione del lavoro, radicato nelle varie ipotesi riconducibili alla libera circolazione delle persone, subisce qui una attenuazione in ragione della supposta transitorietà della presenza del lavoratore distaccato nello Stato membro ospitante. Rappresentando una normativa “speciale” rispetto all’art. 6 della Convenzione, la direttiva è destinata a prevalere sia su questo che sul successivo Regolamento Roma I, che fa infatti salva «l’applicazione delle disposizioni dell’ordinamento comunitario che, con riferimento a settori specifici, disciplinino i conflitti di legge in materia di obbligazioni contrattuali» (art. 23).
Ne consegue che le disposizioni nazionali regoleranno il rapporto di lavoro unitamente alla legge designata dalle pertinenti regole di conflitto, applicandosi le prime per i profili del rapporto specificamente indicati dall’art. 3 della direttiva e la seconda per ogni altra questione concernente il rapporto.
Con il che si legittima un certo grado di disomogeneità fra i livelli di protezione assicurati al lavoratore nei diversi stati membri, apparentemente “sincronizzato” al fine di salvaguardare i “vantaggi competitivi” che ne discendono per le imprese stabilite; la parità di trattamento tra prestatori distaccati e dell’impresa distaccataria appare così garantita quando il lavoratore è “mobile per sua scelta”, mentre viene derubricato alla soglia dei livelli minimi quando lo è per scelta del suo datore di lavoro (Gottardi, D., La libera circolazione dei lavoratori, in Marazza, M., a cura di, Trattato di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Costituzione e svolgimento, Padova, 2011,II, 2, 1478).
L’art. 3, par. 1, della direttiva identifica il nocciolo duro di tutele che devono essere garantite a chi si trova sul territorio di uno stato membro (seppure con le deroghe indicate dagli artt. 3.2. – 3.10) in materia di periodi massimi di lavoro e minimi di riposo, di durata minima delle ferie annuali retribuite; di tariffe minime salariali; delle condizioni per la cessione temporanea dei lavoratori compreso il caso del lavoro interinale; di sicurezza, salute e igiene del lavoro, tutela del lavoro giovanile e tutela della maternità; di parità di trattamento fra uomo e donna e regole di non discriminazione, cui si aggiungono, ai sensi del successivo par. 10, le disposizioni di ordine pubblico eventualmente individuate dallo Stato ospitante con la normativa di recepimento.
Coerentemente alla finalità, che non è appunto quella di armonizzare i contenuti normativi ma di coordinare la legislazione degli Stati membri, la direttiva non scende nel dettaglio specificando quale è ad esempio la durata massima del lavoro, rinviando allo «Stato membro in cui è fornita la prestazione di lavoro» di prevedere norme protettive (considerando 14) che le imprese saranno tenute a garantire al personale distaccato.
Meritevole di particolare attenzione è la previsione secondo cui «ai fini della presente direttiva, la nozione di tariffa minima salariale di cui al comma 1, lettera c) è definita dalla legislazione e/o dalle prassi nazionali dello Stato membro nel cui territorio il lavoratore è distaccato» (art. 3.1, co. 2).
Nonostante la retribuzione faccia parte di quelle materie per le quali è esclusa una competenza normativa della Comunità europea (art. 137.5 TCE), con la conseguenza che non può costituire oggetto di armonizzazione mediante direttive, la dir. 96/71/CE sceglie di includere anche i minimi salariali tra le materie oggetto di coordinamento nazionale: il costo della manodopera rappresenta infatti uno dei punti critici della mobilità transnazionale in ragione delle profonde e radicate divergenze tra Stati membri con riguardo ai salari minimi e più in generale alle strutture retributive del lavoro dipendente.
La direttiva, nell’indicare le fonti nazionali deputate alla determinazione degli standard di tutela nelle materie indicate, richiama sia le fonti legislative, regolamentari ed amministrative, che il contratto collettivo, salvo poi precisare, a fronte della eterogeneità dei modelli di contrattazione collettiva sviluppati negli Stati membri, all’art. 3.8. «per contratti collettivi o arbitrati, dichiarati di applicazione generale, si intendono quelli che devono essere rispettati da tutte le imprese situate nell’ambito di applicazione territoriale e nella categoria professionale o industriale interessate» e richiedere una «esplicita menzione nella legge di recepimento» della intenzione di avvalersi dei contratti collettivi privi di un sistema di applicazione generale per tutti quegli Stati nei quali i contratti collettivi non possiedono efficacia erga omnes.
In entrambe i casi suddetti, il contratto collettivo “applicabile” alle imprese nazionali che operano nel medesimo settore o categoria di appartenenza dell’impresa straniera esplicherà efficacia vincolante anche nei confronti delle imprese straniere distaccanti. Laddove però gli Stati membri non abbiano esplicitato l’intenzione di avvalersi della contrattazione collettiva priva di efficacia generalizzata, non si applicheranno le condizioni di lavoro e di occupazione fissate dai contratti collettivi ai lavoratori distaccati nel territorio ma solo le condizioni di lavoro e di occupazione fissate dalle disposizioni legislative.
È per di più da escludersi in quest’ultima ipotesi che l’applicazione dei contratti collettivi possa essere estesa all’impresa di servizi straniera in via negoziale, ovvero passando attraverso forme di conflitto collettivo (C. giust., 23.5.2007, causa C-341/05, Laval un Partneri Ltd; cfr. in materia i contributi di Deakin, S., La concorrenza fra ordinamenti in Europa dopo Laval, in Lav. dir., 2011, 3, 467; Lo Faro, A., Diritti sociali e libertà economiche del mercato interno: considerazioni minime in margine ai casi Laval e Viking, in Lav. dir., 2008, 63 ss. e Pallini, M., Il caso Laval-Vaxholm: il diritto del lavoro comunitario ha già la sua Bolkestein?, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 239), in quanto tali modalità sono state ritenute originare una discriminazione fondata sulla cittadinanza (C. giust., 24.1.2002, C-164/99, Portugaia Construcoes, punti 31-35).
La Corte di giustizia ha escluso in particolare la legittimità dell’astensione volta a spingere alla stipulazione di un nuovo contratto con condizioni di lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse da quelle elencate nell’art. 3.1. o più favorevoli rispetto agli standard minimi di protezione previsti dalla medesima disposizione, con un duplice ordine di conseguenze: da un lato, il ruolo dell’autonomia collettiva nell’ambito delle prestazioni transnazionali di servizi diventa pressoché nullo (C. giust., C-341/05, Laval, cit., par. 66 e 84); dall’altro, e questo in una prospettiva di sistema, la Corte di giustizia attribuisce alla direttiva in materia di distacco dei lavoratori una “efficacia prevalente” interpretandola come se in essa venisse individuato il tetto massimo anziché la soglia minima dei diritti, con particolare tutela dell’interesse dei prestatori di servizi piuttosto che dei lavoratori. Prevede, infatti, la Corte (Laval, punto 80; ma anche C. giust., 3.4.2008, causa C-346/06, Dirk Ruffert v. Land Niedersachsen) che le previsioni della direttiva non possono essere interpretate nel senso di consentire allo Stato membro ospitante di subordinare la realizzazione di una prestazione di servizi al rispetto di condizioni di lavoro e di occupazione che vadano al di là delle norme imperative di protezione minima. Viene dunque esclusa la concorrenza fra ordinamenti «al di sopra della soglia minima» e l’istituzione di un regime di diritto uniforme con riferimento a quelle aree in relazione alle quali le direttive hanno introdotto standard vincolanti (cfr. C. giust., sentenza Dirk Ruffert, cit.).
Resta affidata all’opera ermeneutica della Corte di giustizia ed agli interventi della Commissione europea (comunicazione della Commissione CE del 4.4.2006, COM (2006) 159 e del 13.6.2007, COM (2007) 304) la definizione delle misure di controllo sulle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori.
La direttiva non chiarisce infatti se ed in che misura gli Stati membri possano imporre alle imprese straniere obblighi formali e procedurali finalizzati a permettere un controllo efficace sulle condizioni di lavoro e di occupazione dei lavoratori da esse distaccati, prevedendo solo obblighi di cooperazione amministrativa (art. 4). Con il caso Arbalde (C. giust., 23.11.1999, C-369/96 e C-376/06), Commisione c. Germania (C. giust., 18.7.2007, C-490/04) e Santos Palhota (C. giust., 7.10.2010, C-515/08) la Corte di giustizia riconosce però in alcune misure di controllo una modalità di adempimento degli obblighi posti dalla direttiva in capo allo Stato ospitante, legittima nei limiti in cui queste siano strettamente proporzionate al fine perseguito, da identificarsi nella tutela dei lavoratori (sul punto Orlandini, G., Dumping sociale ed effettività dei diritti dei lavoratori stranieri distaccati in Italia, in Marazza, M., a cura di, Trattato di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Costituzione e svolgimento, Padova, 2011, II, 2, 1481). L’atteggiamento prudente adottato dalla Corte di giustizia si concretizza nella affermazione secondo cui il principio, invero consolidato, per il quale lo Stato ospitante è legittimato a pretendere l’esibizione dei documenti sociali da parte del datore straniero è formulato in termini talmente ampi da potersi ritenere estendibile a qualsiasi documentazione funzionale a tutelare i lavoratori e non solo, come indicato dalla commissione nelle citate comunicazioni, a quella relativa all’orario ed alla salute e sicurezza. Conclusione questa avvalorata dal Parlamento europeo nella Risoluzione sull’applicazione della dir. 96/71/CE n. 2006/2038 (INI), punto 12 che ha ritenuto legittima l’imposizione dell’obbligo di esibizione di qualsiasi documento sociale contenete informazioni richieste dalla normativa dello Stato ospitante.
È il reg. CE n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29.4.2004 relativo al coordinamento dei diritti di sicurezza sociale a disporre dal 1.4.2010, a seguito dell’approvazione il 16.9.2009 del reg. CE n. 987/2009 e n. 988/2009, che il lavoratore subordinato distaccato in uno Stato membro rimanga soggetto «alla legislazione del primo Stato membro a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona», in deroga così alla regola di carattere generale che privilegia la cd. lex loci laboris, con l’obiettivo di evitare gli inconvenienti legati alla doppia contribuzione. La decisione A2 del 12.6.2009 della Commissione amministrativa per il coordinamento dei sistemi di previdenza sociale, riguardante l’interpretazione dell’art. 12 in commento ha individuato due condizioni affinché si possa ravvisare l’obbligo di versare i contributi nel Paese di svolgimento dell’attività lavorativa: il lavoro sarà considerato svolto per conto del datore di lavoro dello Stato di invio se accertato che è stato eseguito per quel datore di lavoro e che persiste il legame organico tra il lavoratore e il datore di lavoro che lo ha distaccato; l’impresa deve essere collegata con lo Stato di stabilimento ove eserciti abitualmente attività significative.
Il secondo paragrafo dell’art. 12 del reg. CE n. 883/2004 disciplina anche la mobilità transnazionale dei lavoratori autonomi, disponendo che «la persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in uno stato membro e che si reca a svolgere un’attività affine in un altro stato membro rimane assoggettata alla legislazione del primo Stato membro, a condizione che la durata prevedibile di tale attività non superi i ventiquattro mesi».
Le reazioni in fase di trasposizione negli Stati membri, oltreché le azioni spontanee di protesta indette, in tempi più e meno recenti, da lavoratori di diversi paesi dell’Unione, hanno fin da subito manifestato la necessità di un intervento comunitario finalizzato al miglioramento della applicazione della direttiva da attuarsi attraverso: a) il chiarimento della nozione di distacco per contrastare comportamenti fraudolenti b) l’adozione di misure preventive di controllo e relative efficaci sanzioni c) il rafforzamento della cooperazione reciproca fra amministrazioni degli Stati membri.
Senza modificare dunque la dir. n. 96/71/CE, ma colmandone alcune lacune, il 21.3.2012 è stata approvata dalla Commissione europea la proposta di direttiva COM (201) 131 def. contenente un pacchetto di misure di carattere sostanziale volte a contrastare l’abuso dello status di lavoratore distaccato combinate con misure procedurali che, se approvate, dovrebbero permettere un più efficace contrasto a comportamenti elusivi delle condizioni di lavoro da applicare ai lavoratori distaccati nello stato ospite. Per contrastare il fenomeno delle letter box company (l’imprenditore di uno Stato membro sposta la propria sede in altro Stato; applica ai dipendenti assunti il relativo trattamento salvo poi utilizzare il medesimo personale in regime di distacco nello Stato di originaria sede, senza dover estendere al medesimo personale tutto il trattamento normativo ed economico) in particolare, l’art. 3 individua una serie di criteri sostanziali finalizzati a definire la nozione di distacco (natura temporanea del distacco e esistenza di un legame effettivo tra l’impresa distaccante e lo stato membro a partire dal quale avviene il distacco) cui si aggiungono una serie di indici di distacco genuino (temporaneità; svolgimento in uno Stato diverso da quello abituale; rientro nello Stato di origine; spese di viaggio vitto ed alloggio a carico del distaccante; assunzioni non ad hoc).
Vengono poi recepiti (Capp. II, III, IV) gli orientamenti della Corte di giustizia in materia di poteri di controllo ed obblighi amministrativi in capo ai prestatori di servizi; ed introdotti obblighi di cooperazione tra amministrazioni ed organismi ispettivi. Il Capo V ed il Capo VI infine disciplinano i meccanismi che consentiranno ai lavoratori di sporgere denunzia in caso di violazione delle norme vigenti nello Stato di distacco e l’esecuzione transfrontaliera delle sanzioni amministrative.
Convenzione sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali aperta alla firma a Roma il 19.6.1980 (80/934/CEE); reg. del Parlamento europeo e del Consiglio sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali del 17.6.2008, n, 593; dir. 96/71/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16.12.1996; reg. CE n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29.4.2004.
Allamprese, A.-Orlandini, G., La proposta di distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi, in Lav. giur., 2012, 11, 1028; Balandi, G., La direttiva comunitaria su distacco dei lavoratori: un passo avanti verso il diritto comunitario del lavoro, in Scritti in onore di Giuseppe Federico Mancini, vol. I, Diritto del lavoro, 1998, 46; Bano, F., Diritto del lavoro e libera prestazione di servizi nell’Unione Europea, Milano, 2011, 153; Carabelli, U., Una sfida determinante per il futuro dei diritti sociali in Europa: la tutela dei lavoratori di fronte alla libertà di prestazione dei servizi nella Ce, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 49/2006 ; Gottardi, D., La libera circolazione dei lavoratori, in Marazza, M., a cura di, Trattato di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Costituzione e svolgimento, II, 2, 1478; Lo Faro, A., Diritti sociali e libertà economiche del mercato interno: considerazioni minime in margine ai casi Laval e Viking, in Lav. dir., 2008, 63 ss.; Orlandini, G., Dumping sociale ed effettività dei diritti dei lavoratori stranieri distaccati in Italia, in Marazza, M., a cura di, Trattato di diritto del lavoro, Il rapporto di lavoro, Costituzione e svolgimento, II, 2, 1479; Pallini, M., Il caso Laval-Vaxholm: il diritto del lavoro comunitario ha già la sua Bolkestein?, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 239.