Distretti industriali e imprese nel Mezzogiorno
Obiettivo di questo contributo è fornire un quadro dei principali distretti produttivi presenti nelle regioni meridionali, focalizzando l’attenzione sui processi che hanno portato alla loro nascita e al loro sviluppo, con particolare attenzione ai cambiamenti degli ultimi vent’anni. Le espressioni distretti produttivi o industriali verranno adoperate con flessibilità rispetto alle definizioni fornite nella letteratura economica, a indicare, in termini generali, fenomeni di concentrazione nello spazio di imprese che producono beni simili o fra loro collegati.
Non verranno presentate statistiche descrittive relative all’andamento dei principali indicatori economici dei singoli distretti; saranno, piuttosto, analizzati i fattori che ne hanno determinato la genesi e l’evoluzione nel corso del tempo. Il lavoro non ha la pretesa di essere esaustivo: non saranno descritte tutte le aree di concentrazione economica del Mezzogiorno. L’attenzione sarà limitata al manifatturiero, in particolare a tre ambiti: la produzione di beni di consumo per le persone e la casa (settore moda, calzaturiero, mobile); alcune delle aree specializzate nell’agroalimentare; le produzioni a più alta tecnologia. Anche di queste, si intende dare una trattazione non a tutto campo, ma solo esemplificativa di alcune situazioni particolari. Non saranno coperti infatti i casi, pur molto rilevanti, di presenze manifatturiere caratterizzate da una grande impresa, coma la FIAT a Melfi, l’ILVA a Taranto o la petrolchimica a Siracusa, né le concentrazioni produttive agricole (come quelle nella Sicilia orientale e nel Metapontino), turistiche (nel Golfo di Napoli e nella Sardegna settentrionale) e di altri comparti del terziario (come la logistica in Campania o i sistemi portuali).
Spicca in questo quadro la presenza molto modesta nel Mezzogiorno di imprese e concentrazioni produttive nella meccanica specializzata, distretti che invece costituiscono il principale asse portante dell’industrializzazione del Centro-Nord e il fattore caratterizzante (insieme ai beni di consumo) del modello di specializzazione internazionale dell’Italia (tab. 1).
Molti dei distretti analizzati, soprattutto quelli che producono beni di consumo, sono nati nel secondo dopoguerra, in seguito a processi lunghi e in parte spontanei, grazie all’esistenza di un antico sapere o, talora, all’attività di delocalizzazione da parte di imprese settentrionali; altri, prevalentemente quelli attivi nell’high-tech, hanno origini strettamente legate alle politiche di industrializzazione. Storicamente, concentrazioni produttive localizzate sono visibili nel Mezzogiorno sin dall’Ottocento (Iuzzolino, Pellegrini, Viesti 2012), per quanto di dimensione inferiore rispetto al Nord-Ovest. Nascono laddove sono presenti competenze artigianali e mercati di sbocco locali di sufficiente ampiezza e raggiungibili con una minima rete stradale. Le politiche industriali e commerciali della prima metà del 20° sec., soprattutto il favore esplicito per l’industria pesante e l’autarchia fascista, non ne favoriscono certo lo sviluppo. Tuttavia, con i dati del censimento del 1951 sono ancora ben visibili significative concentrazioni produttive (Brusco, Paba 1997).
Nel ventennio successivo l’unificazione del mercato nazionale, la riduzione dei costi di trasporto, l’industrializzazione di molte produzioni artigiane portano all’espansione delle più strutturate e competitive imprese del Centro-Nord nel Mezzogiorno, con il conseguente ridimensionamento del tessuto produttivo locale e l’emigrazione di massa anche di molti microimprenditori. L’arrivo di alcuni grandi insediamenti industriali al Sud spiazza il preesistente tessuto artigiano: molti microimprenditori si convertono in lavoratori dipendenti. Limitate concentrazioni produttive resistono solo nel Napoletano e lungo la dorsale adriatica, mentre in altre aree – come nell’intera Sicilia – si perde definitivamente un rilevante patrimonio di conoscenze e capacità.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, con il crescere dei mercati locali, l’inizio di una proiezione internazionale e i flussi di subfornitura provenienti dal Nord, alcune di queste aree si rafforzano, altre nascono apparentemente ex novo, recuperando saperi che sembravano ormai perduti o sviluppandone di nuovi.
Negli anni Novanta si ha il periodo di massima crescita di questi distretti, che sfruttano appieno il boom dell’export conseguente all’uscita dell’Italia dal sistema monetario europeo (Bodo, Viesti 1997). Con il nuovo secolo, in un panorama complessivo di difficoltà e arretramento per l’intera manifattura italiana, emergono però inediti, rilevanti, problemi. Dai primi anni Duemila si assiste, infatti, a un rallentamento dei processi di ampliamento della base imprenditoriale nel Mezzogiorno, aggravatosi poi a partire dal 2009 in misura ancora più intensa che nella media nazionale (tab. 2).
I sistemi produttivi del Sud sono colpiti più della media nazionale da quattro fenomeni differenti (Le sfide del cambiamento, 2007). Il primo è un effetto di natura settoriale, legato all’intensificarsi della concorrenza internazionale in molti settori di tradizionale specializzazione italiana nei beni finali di consumo, prevalenti, rispetto ad altri, nel Mezzogiorno. Il secondo è un effetto di mercato ed è connesso alle difficoltà per le imprese del Sud, prevalentemente di piccole dimensioni, di sostenere i costi di entrata e gli investimenti distributivi necessari all’ingresso nei nuovi mercati emergenti per sopperire alla debolezza della domanda nei tradizionali mercati di sbocco, domestici ed europei.
Il terzo è, in particolare, un effetto di domanda interna, in relazione all’andamento dei consumi. Il quarto e ultimo è legato al forte rallentamento, nel nuovo secolo, delle politiche mirate allo sviluppo industriale del Mezzogiorno, che si sono via via quasi annullate (Prota, Viesti 2013).
La reazione all’aumento della competizione internazionale e all’affievolirsi delle politiche di industrializzazione del Mezzogiorno è stata molto differenziata tra i territori e le imprese meridionali. In certi casi questi fattori hanno costretto alcune imprese ‒ le meno efficienti e ‘robuste’ – a uscire dal mercato e hanno portato a un complessivo ridimensionamento dei distretti. In altri casi, invece, le imprese hanno mostrato una buona capacità di reazione, cogliendo le sfide poste dal mutamento del quadro politico-economico come stimolo a innovare, ad ampliare la gamma produttiva, a stringere nuovi rapporti di collaborazione o, infine, a posizionarsi su fasce della produzione a maggiore valore aggiunto.
Le differenti reazioni delle imprese riflettono le differenze molto marcate che esistono tra i distretti industriali presenti nel Sud. Le imprese e i sistemi produttivi del Mezzogiorno, infatti, non sono uniformi; essi differiscono da tempo non solo in termini di specializzazioni di prodotto e fascia di mercato in cui si collocano, ma anche per il tipo di organizzazione produttiva, il grado di internazionalizzazione (tab. 3) e il ruolo dei subfornitori (Viesti 2000).
Anche la loro collocazione geografica non è uniforme. Come mostra la prima immagine in alto nella figura 1, i distretti industriali non sono diffusi in tutte le regioni del Mezzogiorno; si concentrano in Abruzzo, Campania e Puglia mentre sono molto limitati nelle Isole e praticamente assenti in Calabria e in Basilicata, con l’eccezione del distretto del mobile imbottito che si sviluppa nell’area della Murgia e quindi a cavallo tra la Puglia e la Basilicata. La presenza di poli tecnologici è ancora meno diffusa (fig. 1, immagine in basso), essendo localizzati solo in Abruzzo, Campania, Puglia e Sicilia.
Il tessile-abbigliamento dell’Abruzzo settentrionale si sviluppa nella provincia di Teramo nel corso degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando l’antica tradizione tessile dell’area evolve verso forme imprenditoriali più avanzate. Le imprese dell’Abruzzo settentrionale sono specializzate nella fabbricazione e confezione di articoli di abbigliamento in pelle e nella pelletteria. Lo sviluppo dell’area avviene anche grazie alle strategie di decentramento produttivo adottate da imprese del Centro-Nord, come La Perla o Golden lady, che spostano fasi della produzione in quest’area alla ricerca di più bassi costi del lavoro (Gioielli, bambole, coltelli, 1992), come del resto avvenuto in tutta la fascia medio-adriatica, a cominciare dalle vicine Marche.
La nascita e lo sviluppo del distretto, caratterizzato inizialmente dalla presenza di piccole e medie imprese, sono stati favoriti da una serie di fattori. Innanzitutto dalla trasformazione di precedenti attività artigianali in attività industriali. Poi dalla nascita di imprese di subfornitura, stimolata sia dalla presenza di imprese tessili locali sia dalle commesse provenienti dalle grandi imprese del Centro-Nord. Per finire, è stata determinante la presenza di una grande azienda, la Monti, che inizialmente ha svolto un importante ruolo nella formazione di un indotto di subfornitura specializzata e poi, con la sua chiusura, ha originato un processo di spillover (Pizzi 1998). Negli anni Novanta, infatti, in seguito al fallimento della Monti, si assiste a un notevole incremento delle piccole e medie imprese del tessile fondate da ex dipendenti.
Il sistema produttivo del distretto si consolida tra gli anni Settanta e Ottanta, ma già sul finire degli anni Ottanta la concorrenza proveniente da Paesi con una manodopera a basso costo inizia a mettere in difficoltà le imprese di subfornitura e anche quelle finali (Di Federico 2000). Ciò genera una serie di cambiamenti della struttura produttiva; vi è una fuoriuscita delle imprese meno efficienti mentre quelle che rimangono sul mercato adottano, come strategia di risposta alla concorrenza internazionale, anche la delocalizzazione all’estero di alcune fasi della produzione e, parallelamente, un innalzamento della qualità dei prodotti.
Il rallentamento delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno, unito all’aumento della concorrenza internazionale e della delocalizzazione produttiva, generano sul finire degli anni Novanta nuove difficoltà, e la situazione non migliora neanche nel corso dei primi anni Duemila. Molte delle piccole e medie imprese nate sulle ceneri della Monti non reggono il verificarsi di questi eventi e chiudono. Ciò accade sia alle imprese finali sia a molte contoterziste, a eccezione di quelle che lavorano per le grandi case di moda italiana ed estera, come Prada, Gucci, Louis Vuitton o Yves Saint-Laurent. Tuttavia, oltre alle piccole e medie imprese, si ridimensionano anche altri marchi noti dell’industria tessile italiana. Ne sono esempi la Casucci, nata in Val Vibrata agli inizi degli anni Settanta e specializzata nella produzione di abbigliamento jeans, e la camiceria Men’s, nata a metà anni Settanta dalle ceneri della camiceria Cng, che è stata venduta prima a un imprenditore indiano, che l’ha portata a un passo dal fallimento, e poi rilevata da uno dei soci originari per un tentativo di rilancio.
Altre imprese, invece, come la Gi.Effe Moda, la Dfp e il Maglificio Gran Sasso, hanno reagito ai fenomeni negativi degli ultimi anni investendo in innovazione, politiche di marchio, ampliamento della gamma produttiva e strategie distributive, posizionandosi in questo modo su fasce di mercato più alte.
Il distretto tessile dell’Abruzzo meridionale si sviluppa intorno alle province di Chieti e Pescara tra la seconda metà degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta, grazie alla presenza di due grandi aziende: Monti d’Abruzzo, che come illustrato nel paragrafo precedente ha svolto un ruolo molto importante anche per lo sviluppo dell’altro distretto del tessile abruzzese, e Marvin Gelber (Le sfide del cambiamento, 2007). La prima, di origini antichissime e insediatasi inizialmente nel Teramano, apre il suo primo stabilimento di confezioni di abbigliamento nella città di Pescara nel 1964. Qui si confezionavano inizialmente pantaloni per uomo e donna che poi venivano inviati agli stabilimenti di Roseto, da dove venivano esportati. Successivamente, la gamma produttiva viene ampliata a capi di abbigliamento sportivo e biancheria intima. La seconda nasce invece dall’insediamento della più grande azienda manifatturiera di camicie in Europa a opera del gruppo tedesco Schulte & Dieck-hoff in collaborazione con l’ingegnere americano Marvin Gelber.
Entrambe le imprese entrano in crisi all’inizio degli anni Settanta ma le loro sorti sono diverse. La Monti fallisce, e da essa sorgono una serie di piccole e medie attività. La Marvin Gelber, invece, è rilanciata tra la metà e la fine degli anni Settanta, diventa l’Industria adriatica confezioni e passa dalla produzione di camicie a quella di abbigliamento maschile di fascia medio-alta. Da entrambe hanno avuto origine una serie di imprese locali, alcune di dimensioni maggiori, come la Sixty, nata sul finire degli anni Ottanta e specializzata inizialmente nella produzione di abbigliamento in denim, e altre più piccole (F. Benucci, Il casual abruzzese scivola nel terzismo, «Il Sole 24 Ore», 13 sett. 2012).
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, avvia la sua attività anche la Brioni, grazie all’iniziativa di due imprenditori locali che aprono uno stabilimento produttivo dopo aver intrapreso un’attività di sartoria a Roma (Abbigliamento abruzzese e napoletano, 2012). L’impresa, specializzata in alta sartoria, ha a lungo costituito un motivo di vanto per il territorio; dopo il 2010 è stata rilevata da un gruppo francese.
Nel corso del tempo quindi, e prevalentemente negli anni Ottanta, nasce e si sviluppa una serie di attività produttive che hanno contribuito alla strutturazione duale del distretto: grandi imprese da un lato e subfornitrici dall’altro. La presenza nel distretto di grandi imprese leader ha avuto effetti sia positivi sia negativi. Da un lato, esse hanno guidato e favorito il processo di nascita e sviluppo del sistema produttivo locale osservato fino agli anni Ottanta; dall’altro, la forte dipendenza di alcune imprese contoterziste nei confronti delle imprese leader le ha esposte maggiormente alle difficoltà presentatesi nel corso degli anni Novanta e legate prevalentemente alla crescita della concorrenza internazionale.
Le imprese del distretto hanno potuto contare su una dotazione infrastrutturale maggiore e migliore rispetto alle altre aree del Mezzogiorno e questo ha facilitato i rapporti con le maggiori aree della moda italiana. In secondo luogo, nel tempo, alle competenze provenienti dalla lunga tradizione artigiana si sono aggiunte anche quelle produttive e organizzative tipiche della cultura manifatturiera industriale. Per finire, la presenza delle grandi imprese, oltre a favorire lo sviluppo del sistema produttivo distrettuale, ha anche guidato le politiche di internazionalizzazione delle altre aziende del distretto. Allo stesso tempo ha creato una forte dipendenza da parte delle imprese subfornitrici rispetto alle esigenze delle committenti, e questo aspetto, insieme alla mancanza di collaborazione tra le imprese, limitata ai soli rapporti di subfornitura, rappresenta uno degli ostacoli alla crescita del distretto.
Il distretto del tessile campano si sviluppa prevalentemente intorno a due aree, una nella zona di San Giuseppe Vesuviano e l’altra compresa tra le province di Napoli e Caserta, la zona di Grumo Nevano e Aversa. Le imprese attive in queste due zone produttive differiscono sotto molti punti di vista, ma in entrambe si producono e confezionano prodotti tessili e di abbigliamento. Le due aree, che hanno avuto origine in modo diverso, si distinguono sia per la gamma di articoli offerti sia per l’articolazione del sistema produttivo. In particolare, a Grumo Nevano la prima impresa (MAP) è stata aperta negli anni Cinquanta da un imprenditore romano, e a questa si sono poi affiancate altre attività imprenditoriali (Baculo, Gaudino 2000).
Non mancano però esempi di aziende nate nello stesso periodo grazie all’iniziativa di imprenditori campani. È il caso della CIPA (ora Ciro Paone), nata negli anni Cinquanta e specializzata nella produzione di abiti di sartoria da uomo, che nel corso degli anni Novanta ha ampliato la sua gamma creativa, continuando a offrire prodotti d’abbigliamento di qualità elevata e mantenendo al suo interno tutta la fase di produzione, dalla progettazione alla distribuzione (Abbigliamento abruzzese e napoletano, 2012). Nel corso del tempo il numero di imprese attive nell’area è andato aumentando, è stato avviato un processo di differenziazione e, durante gli anni Ottanta, di riorganizzazione strategica che ha portato alcune imprese a produrre in pronto moda (Viesti 2000).
L’area di San Giuseppe Vesuviano, invece, è diventata il punto di riferimento commerciale per tutta la provincia di Napoli. Negli anni Settanta nascono le prime imprese di confezioni, anche se l’attività di produzione diventa più importante rispetto a quella commerciale durante gli anni Ottanta, quando il settore del commercio all’ingrosso entra in crisi, e prende il via dalla decisione dei distributori all’ingrosso di investire nella produzione, esternalizzando le fasi centrali del processo produttivo e il confezionamento a imprese terziste attive nell’area. Negli anni Novanta il rallentamento della domanda interna spinge gli imprenditori dell’area a cercare di entrare in nuovi mercati, sia per il reperimento di materie prime sia per la vendita dei prodotti finali.
Oltre a essere nate e a essersi sviluppate in modo diverso, le due aree differiscono anche per il tipo di produzione e l’organizzazione del sistema produttivo. Nella zona di Grumo Nevano la gamma produttiva è molto ampia e collocata prevalentemente nella fascia alta del mercato. Nella zona di San Giuseppe Vesuviano, invece, l’articolazione del sistema produttivo è un po’ più complessa e le imprese dell’area sono specializzate in prodotti di qualità media o medio-alta. Tuttavia, nonostante producano beni qualitativamente inferiori, negli anni si sono affermate anche queste imprese, nella maggior parte dei casi grazie a politiche di marchio e distributive innovative. È il caso, per es., della Imap export S.p.A., nata agli inizi degli anni Ottanta e specializzata nella produzione di abbigliamento casual per uomo, donna e bambino. Si tratta di un gruppo composto da tre imprese (la più nota è l’Original marines) che hanno saputo superare la crisi attraversata dal distretto negli anni Novanta attraverso un consistente decentramento internazionale e politiche di franchising, potenziando il marchio e la rete distributiva e costruendo alleanze strategiche prestigiose.
Il distretto nasce inizialmente nella provincia di Bari, spinto anche dalla crescita della domanda interna, per poi diffondersi in altre province, in particolare in quelle di Taranto e Lecce (Le sfide del cambiamento, 2007). La maggior parte delle imprese del distretto è specializzata nel confezionamento di capi di abbigliamento o articoli in maglieria, o nell’offerta dei relativi servizi produttivi, sebbene le linee di sviluppo e le specializzazioni produttive varino leggermente nelle tre province.
Nella zona meridionale del Barese, e in particolare nell’area di Putignano, nota anche per la produzione di abiti da sposa, è stata determinante la presenza di un’azienda, la Contegiacomo, attiva dagli inizi del 20° sec. fino a metà degli anni Ottanta, che ha contribuito a trasformare il saper fare artigianale locale in una vera e propria organizzazione industriale (Comei 2012). Ha quindi avuto origine una serie di imprese che tendono a collocarsi nelle fasce alte e medio-alte della produzione e si sono imposte sul mercato con marchi propri. La maggior parte dei laboratori artigianali specializzati in abiti da sposa è concentrata tra Putignano e Castellana Grotte. In quest’area si trovano le principali imprese specializzate nella produzione di abiti da cerimonia (Val & Max, Valentini sposa), così come alcuni importanti produttori di abbigliamento per bambino (Mafrat) e di camiceria che si collocano nella fascia medio-alta del mercato.
Le imprese del Barese settentrionale, invece, nascono anche stimolate dalle attività di subfornitura svolte per il Centro-Nord o per l’estero. Per lo sviluppo di quest’area è stata molto importante l’esperienza della Hettemarks, un’azienda d’abbigliamento svedese insediatasi a Bari nel 1963 e attiva fino alla fine degli anni Settanta, che ha contribuito, dopo la sua chiusura, alla diffusione del know-how tecnico (Le sfide del cambiamento, 2007).
Nel Leccese, come nel Barese settentrionale, lo sviluppo del settore è relativamente recente e risale agli anni Settanta, epoca in cui alla tradizione artigianale locale, soprattutto per la maglieria, si aggiunge il processo di decentramento di alcuni importanti marchi nazionali. Questi sviluppi hanno favorito la nascita di laboratori con specifiche competenze; alcuni si sono poi evoluti in imprese di significative dimensioni; ne è un esempio la Romano S.p.A., specializzata nella produzione di jeans, che opera sia in rete, con aziende subfornitrici della zona, sia attraverso il proprio marchio Meltin’Pot.
Per finire, le imprese attive nella provincia di Taranto, localizzate prevalentemente nella zona di Martina Franca e specializzate nel confezionamento di capispalla, sono sorte grazie a un’antica tradizione, ma anche sulla spinta del passaggio in atto dal commercio di semilavorati (tessili e filati) al confezionamento di capi di abbigliamento.
Dalla fine degli anni Novanta tutte queste aree hanno vissuto una fase di profondo mutamento che, oltre alla contrazione del numero di imprese attive, ha portato all’affermazione di alcune aziende puramente commerciali e all’emergere di altre, come la Harry and Sons, destinate, grazie all’adozione di strategie mirate a migliorare la qualità delle produzioni, a far crescere la propria presenza sui mercati esteri e a consolidare i marchi aziendali (Le sfide del cambiamento, 2007).
L’area calzaturiera del Barese settentrionale ha subito continui cambiamenti e processi di adattamento virtuoso alle nuove condizioni di mercato. Il distretto calzaturiero si concentra prevalentemente nelle aree di Bisceglie, Trani e Barletta; nelle prime due è prevalente la produzione di scarpe da passeggio, mentre a Barletta si è passati dalla produzione di scarpe ‘iniettate’ per il tempo libero a quella di scarpe antinfortunistiche.
Sebbene l’area a nord di Bari possa contare su un’antica tradizione, il passaggio alla dimensione industriale si realizza solo nel secondo dopoguerra e si sviluppa a pieno grazie all’iniziativa di imprenditori locali, come Giuseppe Damato. Questo imprenditore sfrutta i contatti stabiliti con aree in cui la produzione calzaturiera è più avanzata per introdurre l’impiego di nuovi materiali, nuove tecniche produttive e nuovi macchinari (Gioielli, bambole, coltelli, 1992).
Ciò ha prodotto almeno due conseguenze sin dagli anni Cinquanta: in primo luogo, si è raggiunta una dimensione industriale del processo produttivo che ha reso i prodotti accessibili a una clientela più ampia; in secondo luogo, si sono realizzate attività a supporto della produzione calzaturiera, come quelle destinate alla lavorazione della gomma e alla produzione di stampi (Rosato 2013). Tuttavia, il vero e proprio boom del distretto si ha negli anni Settanta, grazie alla rapida acquisizione di materiali e tecnologie innovative, alla flessibilità della produzione che permette di rispondere rapidamente alla domanda di mercato, allo sviluppo dell’export e ai prezzi molto competitivi della merce.
Durante gli anni Novanta la contrazione del mercato di riferimento, unita al peggioramento della posizione competitiva dei produttori locali sul mercato internazionale, genera una crisi nel distretto. La crisi causa, a sua volta, un cambiamento radicale nell’assetto del distretto calzaturiero. Si passa, infatti, da un sistema locale formato da molte imprese di varie dimensioni e impegnate nelle diverse fasi della filiera produttiva a un sistema di poche aziende che dirigono una catena del valore complessa e di tipo globale. Le imprese del distretto hanno mostrato abilità nel reagire alla crisi degli anni Novanta non solo attraverso la delocalizzazione (Prota, Viesti 2007), ma ricorrendo anche a un processo di riconversione produttiva, facilitato sicuramente dalle competenze acquisite negli anni precedenti, dall’approfondimento delle fasi di progettazione del prodotto e dagli investimenti in ricerca e sviluppo intrapresi da molte imprese.
Le imprese si impegnano dunque a diversificare il prodotto: la maggior parte abbandona la produzione di scarpe da tempo libero in gomma iniettata, il cui vantaggio competitivo era il basso prezzo, e si posiziona su una nicchia produttiva con buone prospettive di crescita, quella delle scarpe per l’antinfortunistica. Un esempio per tutti, in questo senso, è rappresentato dal gruppo Cofra che diventa rapidamente leader nella produzione di scarpe antinfortunistiche. Accanto alla Cofra nascono altre imprese, come quella fondata da un ex ricercatore del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR), Antonio Diterlizzi, che intuisce le potenzialità del prodotto. Con il tempo vengono sviluppate molte varianti di calzature di sicurezza, combinando design e componenti tecniche avanzate. L’attività di ricerca è fondamentale per il settore ed è molto sviluppata nell’area (Maugeri 2012).
Nel primo decennio degli anni Duemila, quindi, cresce sensibilmente il peso dell’antinfortunistica mentre si riducono notevolmente le imprese che producono calzature casual, ormai non più competitive, e quelle che restano sul mercato passano dalla produzione programmata a quella in pronto moda, per poter contare sulla flessibilità produttiva e su tempi di consegna brevi come fattori di competitività.
Anche questo distretto produttivo, come il calzaturiero pugliese, ha origini molto antiche, ma in questo caso la storia ha un epilogo diverso in quanto il distretto è ormai quasi del tutto scomparso. È un distretto particolare, che ha avuto un ruolo molto importante nel territorio, ma non ha mai abbandonato la sua struttura piuttosto verticalizzata incentrata attorno alle grandi imprese insediatesi nell’area.
Il distretto calzaturiero ha le sue origini in un’antica tradizione artigiana; la prima impresa ad adottare una produzione industriale, l’Elata, nasce addirittura nel 1923 ed è specializzata nella produzione calzaturiera femminile. Le scarpe classiche da uomo e da donna con suola in cuoio rappresentano la specializzazione produttiva dell’area, ma è solo negli anni Cinquanta che si pongono le basi per un vero sviluppo industriale della zona, grazie all’insediamento, lungo l’asse Casarano-Tricase, di due imprese più grandi, la Filanto e la Nuova Adelchi. Queste vengono presto affiancate da altre aziende di piccola e piccolissima dimensione, spesso nate proprio per fornire capacità produttiva alle due grandi leader del distretto, che pure, inizialmente, hanno mantenuto tutte le fasi produttive all’interno di vasti stabilimenti di proprietà. Durante gli anni Sessanta si assiste a un ampliamento della gamma produttiva ma è nel decennio successivo, con la crescita di ambedue le aziende, che si generano processi fondamentali per la crescita del distretto. La presenza delle due imprese leader ha sicuramente rappresentato un vantaggio per lo sviluppo dell’area in quanto hanno costituito un centro di aggregazione per tutte le competenze artigianali territoriali. Nelle fasi di sviluppo iniziale del distretto, poi, le incentivazioni industriali, così come il rientro di alcuni artigiani emigrati, hanno favorito lo sviluppo del sistema imprenditoriale locale. Nonostante alcuni di questi elementi a un certo punto siano venuti meno, il distretto ha potuto continuare a contare su una forte tradizione artigiana, sulla capacità di adeguarsi alle richieste dei clienti e di ampliare e differenziare la gamma produttiva in modo da rispondere meglio ai cambiamenti del mercato. Ciononostante le imprese locali hanno sempre puntato sul fattore prezzo come strumento di competitività, benché fosse da tempo evidente la necessità di posizionarsi su fasce di mercato più alte (dove non è il prezzo l’elemento cardine) e di focalizzarsi su attività a valle della produzione per presidiare il mercato finale (Viesti 2007).
Più in generale, sarebbe stato necessario alzare il livello qualitativo dei prodotti offerti, ridurre il numero di addetti e lavorare con marchi più forti. Ma nessuna delle due aziende leader riuscì in questo sforzo. Nel primo decennio del nuovo secolo le due aziende collassarono e la produzione si ridimensionò nettamente.
Il distretto calzaturiero campano è localizzato nelle province di Napoli e Caserta e, come la gran parte dei casi analizzati fino a ora, nasce grazie all’antico saper fare locale. Le prime aziende artigiane hanno origini antichissime, come quella fondata nel 1907 da Gabriele Peluso, che nel secondo dopoguerra si trasforma in una S.r.l. presente anche sui mercati internazionali. Durante gli anni Quaranta, poi, i laboratori della zona si specializzano nella chiodatura delle scarpe; nel decennio successivo iniziano a svilupparsi le prime attività commerciali e durante gli anni Sessanta aumentano notevolmente le piccole imprese, per lo più a conduzione familiare. Tuttavia, è tra gli anni Settanta e Ottanta che le unità manifatturiere aumentano in misura considerevole; le imprese iniziano a spostarsi dai centri più popolosi in cui erano inizialmente collocate, muovendosi prima verso la periferia e poi verso la provincia di Caserta, soprattutto nella zona di Aversa (Viesti 2000).
Verso il finire degli anni Novanta, ma soprattutto all’inizio del nuovo secolo, si assiste a una polarizzazione nel distretto. Alcune aree, come quella di Grumo Nevano, in cui erano localizzate le produzioni di bassa qualità, vengono completamente espulse dal mercato dalla concorrenza asiatica. Ci sono poi le aziende terziste che possono contare sulle commesse di marchi prestigiosi, che si affidano alle capacità degli artigiani locali per la realizzazione dei loro prodotti. E ci sono, infine, le grandi imprese che hanno perseguito una strategia di contenimento dei costi e di recupero del valore aggiunto delle produzioni, affidando all’esterno parti o fasi della lavorazione, dispiegando maggiori risorse sulle caratteristiche di stile e moda del prodotto (Viesti 2007). Altre ancora hanno puntato sulla diffusione e sulla produzione del proprio marchio. È il caso della Peluso S.r.l. che, oltre a produrre per grandi case di moda, produce anche calzature a marchio proprio.
Le imprese attive nel distretto hanno cercato di superare anche i limiti provenienti dalle ridotte dimensioni delle aziende, dando vita a una serie di consorzi per favorire la cooperazione tra imprenditori sia in materia di marketing e commercializzazione sia per la collaborazione produttiva di filiera. Notevole è stato lo sviluppo delle esportazioni, con un buon recupero anche dopo la crisi del 2009, anche grazie alla capacità di ingresso su mercati emergenti.
Rispetto agli anni Novanta, il distretto calzaturiero campano è profondamente mutato: «grazie all’innesto della tecnologia sulla tradizione manuale per la realizzazione di modelli, cui si aggiunge l’ampliamento della gamma dal classico uomo allo sportivo uomo e alla donna, più accessori e capi d’abbigliamento speciali e di altissima gamma» (V. Viola, I piccoli artigiani conquistano le griffe, «Il Sole 24 Ore», 3 genn. 2013), come nel caso della Mario Valentino S.p.A., azienda fondata negli anni Cinquanta che inizialmente produceva calzature e ha poi esteso la propria produzione alla pelletteria e ai capi d’abbigliamento in pelle.
Il distretto, collocato tra le province campane di Salerno e Avellino, è specializzato nella concia di pelli per calzature, abbigliamento e pelletteria, attività sviluppatasi grazie a un’antichissima e solida tradizione esistente nell’area. Durante la Prima guerra mondiale prende l’avvio una produzione a livello industriale dei manufatti da concia (Le sfide del cambiamento, 2007). Il vero e proprio boom si ha però negli anni Settanta, quando le imprese iniziano a esportare; nei decenni successivi, insieme a una crescente apertura ai mercati internazionali, si assiste a una diversificazione nella produzione. Quasi esclusivamente orientata al pellame da calzatura fino agli inizi degli anni Ottanta, negli anni Novanta la produzione registra un incremento nelle pelli per abbigliamento, mentre sul finire del decennio le forniture per l’abbigliamento si riducono a una nicchia di altissima qualità e aumentano invece quelle per le calzature.
Anche la performance di questo distretto è molto ciclica, con ripetute fasi di contrazione ed espansione della domanda e quindi della produzione. A metà degli anni Novanta il distretto è attraversato da una forte crisi causata principalmente dal calo delle esportazioni e, dopo essersi ripreso sul finire dello stesso decennio, entra nuovamente in difficoltà nei primi anni del Duemila. Il cambiamento della produzione è una delle tipiche risposte delle imprese locali alla crisi del settore.
I cambiamenti nel tipo di produzione sono ovviamente accompagnati non solo dallo sviluppo tecnologico nella concia della pelle ma anche da una naturale evoluzione nella tipologia di ‘clientela’. Le aziende del distretto, infatti, inizialmente producono pelli per l’industria mentre ora gli interlocutori principali sono le grandi griffe come Armani o Gucci. Allo stesso tempo, poi, cresce il volume di esportazioni verso l’Asia.
Le imprese del distretto hanno quindi mostrato di saper reagire ai periodi di crisi grazie a un processo di continuo cambiamento. È il caso, per es., della Deviconcia che, dopo quattro anni di crisi in cui i dipendenti erano ridotti a zero, ha investito in innovazione e ricerca, puntando sulla produzione a basso impatto ambientale e sulla formazione interna delle maestranze, nel frattempo nuovamente aumentate, riportando così il fatturato intorno ai dieci milioni di euro (F. Benucci, Sulla pelle di Solofra il marchio delle griffes, «Il Sole 24 Ore», 27 ag. 2012).
Il distretto del mobile imbottito è collocato nell’area a cavallo tra la Basilicata e la Puglia, precisamente nella zona compresa tra la provincia di Matera e quella di Bari. Si tratta di un distretto molto grande, nato negli anni Cinquanta grazie all’iniziativa di alcuni imprenditori locali che industrializzano alcune fasi delle produzioni dei laboratori artigianali già presenti sul territorio.
Se, da un lato, le competenze in materia di falegnameria e tappezzeria sono state preziose per il distretto, dall’altro per la sua nascita e il suo sviluppo è stata determinante l’attività di Pasquale Natuzzi, l’imprenditore che ha dato il via al vero e proprio processo di industrializzazione nell’area. Natuzzi fonda una prima azienda nel 1959 a Taranto, ma quest’esperienza si conclude negativamente nel giro di pochissimo tempo. Dopo un breve periodo nel commercio di mobili a Matera, dove entra in contatto con Giuseppe Nicoletti e Vincenzo Liborio Calia – che si riveleranno altri due imprenditori importanti per lo sviluppo del distretto – Narduzzi ritenta, questa volta con maggior successo. Agli inizi degli anni Settanta apre un nuovo stabilimento a Santeramo.
Negli anni Ottanta la Natuzzi entra nel mercato internazionale, esportando negli Stati Uniti dove conosce uno straordinario successo grazie all’ottimo rapporto qualità-prezzo. Agli inizi degli anni Novanta l’azienda ha già raggiunto dimensioni notevoli (Gioielli, bambole, coltelli, 1992). In quel periodo il gruppo è composto da ben quattro società di produzione. La Natuzzi quindi, insieme alle imprese relativamente più piccole fondate quasi contemporaneamente da Nicoletti e Calia, costituisce l’azienda leader del distretto.
L’indotto di terzisti e subfornitori, che dà origine all’attuale distretto, si sviluppa grazie alla forma organizzativa scelta dalle imprese leader che hanno industrializzato il ciclo produttivo, esternalizzando alcune fasi della produzione affidate alle aziende artigiane specializzate nella tappezzeria e nella produzione di componenti in legno.
Accanto a questi fattori altri due hanno favorito la crescita del sistema produttivo dell’area: l’abbondanza di manodopera e la capacità imprenditoriale e imitativa, che ha spinto molti dipendenti a lasciare l’impresa per cui lavoravano e ad avviare attività in proprio. Il boom di crescita del distretto si osserva nel corso degli anni Novanta, in particolare nella seconda metà di quel decennio, quando il valore dell’export per le imprese dell’area raggiunge il picco più alto; il distretto è fra i maggiori d’Italia. Il suo sviluppo è stato certamente favorito dalle scelte strategiche delle imprese leader di organizzare la produzione in modo da ridurre i tempi medi di lavorazione e di costruire prevalentemente mobili imbottiti di media qualità a prezzi contenuti (Greco 2012). La prima strategia ha spinto anche gruppi esterni al territorio, come Chateau D’Ax, a insediare nell’area alcuni stabilimenti produttivi, mentre la seconda ha favorito l’ingresso sui mercati internazionali.
Agli inizi degli anni Duemila l’incrocio di fattori macroeconomici con l’aumento della concorrenza asiatica ha generato crescenti difficoltà che hanno costretto le imprese attive nell’area a intraprendere una serie di cambiamenti. Innanzitutto, è cresciuta notevolmente la delocalizzazione produttiva: la Natuzzi ha iniziato a produrre in Cina per il mercato statunitense precedentemente servito dall’Italia. In secondo luogo, si è assistito a una revisione e una riorganizzazione degli assetti produttivi; le imprese hanno aumentato il peso delle attività di marketing e l’attenzione rivolta al cliente, e per finire, hanno puntato a un riposizionamento strategico, mirando a collocarsi nella fascia medio-alta del mercato.
Nonostante ciò, la crisi del distretto ha causato notevoli conseguenze negative: basti pensare che l’export è passato dai 1.272.000 di euro del 2002 a 421.000.000 nel 2011, riducendosi quindi del 65% (Greco 2012). Gli effetti negativi hanno colpito tanto le piccole e medie imprese locali quanto i due gruppi leader del distretto: la Natuzzi ha visto ridurre notevolmente il suo fatturato e la Nicoletti ha chiuso.
Il distretto sardo del sughero è molto piccolo, localizzato nella zona dell’Alta Gallura e comprendente pochi comuni, tra i quali il centro di maggiore importanza è Calangianus, paesino nella provincia di Olbia-Tempio. L’utilizzo di questo materiale ha origini antichissime, datate addirittura intorno al 1400; le prime imprese nascono intorno al secondo dopoguerra. In questo periodo, con la diffusione dell’energia elettrica, i cicli produttivi vengono meccanizzati e le attività delle imprese razionalizzate, tanto che Calangianus diventa il principale centro di trasformazione di quasi tutto il sughero sardo. Negli anni Cinquanta e Sessanta si afferma, sia in Italia sia all’estero, come la ‘capitale del sughero’ (Gioielli, bambole, coltelli, 1992).
Lo sviluppo del settore è stato favorito dall’attività di ricerca svolta nella stazione sperimentale insediata a Tempio che, già negli anni Novanta, ha permesso di conoscere nuove potenzialità di questo materiale e sviluppare usi alternativi al suo impiego per la produzione di tappi. Il sughero ha iniziato a essere usato per la coibentazione termica e per la decorazione di ambienti interni. Con il passare del tempo si sono poi sviluppate altre specializzazioni produttive ed esso è stato impiegato in ulteriori applicazioni. Non solo, nell’area si è sviluppato anche un piccolo comparto metalmeccanico in cui sono attive imprese, come la Turchi, che produce macchinari per la sua lavorazione.
Dai primi anni Duemila lo sviluppo dell’area è stato minacciato dall’uso, soprattutto in campo enologico, di materiali alternativi; le imprese della zona hanno tuttavia reagito bene alla sfida. La concorrenza causata dall’utilizzo dei tappi in plastica, infatti, ha stimolato investimenti nella ricerca che hanno offerto nuovo impulso alle imprese attive nel segmento di mercato di fascia medio-alta e medio-bassa (Maugeri 2012).
L’analisi dei distretti agroalimentari differirà da quella condotta nella sezione precedente per almeno due motivi. In primo luogo, i distretti in cui si producono beni di consumo per la persona e la casa sono stati oggetto di specifiche ricerche negli ultimi vent’anni, mentre ciò è avvenuto in misura decisamente minore per i distretti attivi nell’agroalimentare, rispetto ai quali gli studi e le analisi disponibili sono dunque minori. In secondo luogo, i distretti dell’agroalimentare sono più difficilmente individuabili perché si tratta di una produzione più diffusa sul territorio ed è quindi difficile individuare le specifiche zone. L’analisi sarà quindi limitata a tre aree esemplificative: quella del Nocerino, quella della Sicilia occidentale, e quella di Oristano.
Il distretto delle conserve di pomodoro campane in esame si colloca prevalentemente nella provincia di Salerno, estendendosi in piccola parte anche in quella di Napoli. Le origini del conserviero sono antiche, basti pensare che Cirio fonda il primo stabilimento di conserve in quest’area alla fine dell’Ottocento. Con il passare del tempo a questo stabilimento si affianca una serie di piccole fabbriche conserviere che favoriscono lo sviluppo dell’industria dell’indotto; sorgono, infatti, nuove imprese di servizi, che operano prevalentemente nel settore dell’imballaggio o dei trasporti. L’industria conserviera è quindi presente nel Nocerino sin dalla prima metà del Novecento e cresce notevolmente nel secondo dopoguerra.
Lo sviluppo del settore conserviero in quest’area è favorito sia da circostanze ambientali, che permettono di sviluppare colture di qualità, tra le quali spicca il pomodoro San Marzano, sia da fattori di ordine geografico. La vicinanza con la Puglia, per es., ha fatto sì che la crisi della produzione agricola degli anni Ottanta fosse superata spostando lì la produzione, e tutt’oggi il 70% circa del prodotto da trasformare proviene da quella regione.
A differenza di quanto visto per gli altri distretti produttivi, il boom economico del secondo dopoguerra non porta una forte espansione. L’area del Nocerino è penalizzata sicuramente dalla struttura produttiva, organizzata intorno a piccolissime imprese, per lo più a gestione familiare. Le fabbriche conserviere dell’epoca, infatti, sono organizzate soprattutto da famiglie contadine con piccoli appezzamenti di terreno o da operatori del settore dell’intermediazione, e si basano prevalentemente su una produzione non meccanizzata (Brancaccio 2013). Questo tipo di struttura produttiva resta in piedi fino agli anni Sessanta. Durante questo decennio la gestione imprenditoriale familiare entra in crisi e si assiste a un ridimensionamento o all’uscita dal mercato di gruppi storici.
Tra gli anni Sessanta e Settanta il settore conserviero viene completamente ristrutturato; si consolida la filiera produttiva che vede a monte le imprese metalmeccaniche che producono macchinari per l’inscatolamento e a valle quelle che si occupano di imballaggio e trasporto, il tutto incentrato attorno alle conserviere.
Durante gli anni Settanta, oltre alla crescita del settore, si intensifica il conflitto tra produttori agricoli e industriali che rientra solo negli anni Ottanta, quando però il distretto è investito da un’altra crisi, questa volta di produzione. Come anticipato, la produzione agricola viene spostata in Puglia e quella locale del San Marzano viene sostituita da una qualità ibrida, mentre la trasformazione del prodotto continua a restare localizzata in Campania. Durante gli anni Ottanta, quindi, si assiste a un nuovo ridimensionamento dei gruppi industriali del distretto e a una ristrutturazione generale del comparto.
Nonostante le crisi e le trasformazioni in corso negli anni Ottanta e Novanta, il distretto si dimostra molto dinamico e con una buona capacità di reagire alle sfide che si presentano nel corso del tempo, attraverso il potenziamento delle politiche di marketing e l’ampliamento della gamma produttiva. In particolare, le poche aziende più grandi presenti sul territorio, tra cui la Doria, si spostano verso le produzioni a maggior valore aggiunto e a minore stagionalità. Le piccole imprese, non potendo puntare sulla diversificazione che richiederebbe notevoli investimenti, adottano come strategia il miglioramento della qualità del prodotto offerto.
Un breve cenno merita anche un’altra specializzazione produttiva, quella dei pastifici, che caratterizza il sistema dell’agroalimentare campano ed è presente fin dall’Ottocento. I mulini e i primi pastifici nascono in epoche remotissime, facilitati da una parte dalla possibilità di sfruttare l’energia prodotta dalla caduta delle acque e dall’altra dalla posizione strategica della Puglia, da cui proviene il grano allora da essi utilizzato, rispetto agli altri mercati di vendita nel resto del Paese.
I pastifici sono localizzati nella zona di Gragnano, dove già nel 16° sec. alcune piccole attività a conduzione familiare ricorrono all’utilizzo di trafile in bronzo per la lavorazione della pasta. Queste aziende sono andate in crisi con la diffusione della pasta di produzione industriale, ma hanno poi saputo utilizzare l’antica tradizione artigianale per crescere e affermarsi sul mercato nazionale ed estero, offrendo un prodotto di qualità elevata a un prezzo più alto. In molti casi, come in quello della Di Martino, è stata proprio la presenza sul mercato estero a favorire la tenuta di queste imprese o la loro crescita. In altri, invece, un ruolo determinante lo hanno svolto l’innovazione produttiva e l’investimento nella ricerca, che hanno permesso di sviluppare formati di pasta speciali o che hanno portato le aziende a inserirsi in mercati di nicchia, per es. quello della pasta senza glutine (Scarci 2012), come ha fatto la Garofalo, molto cresciuta negli anni recenti.
Il distretto è collocato nelle province di Agrigento, Palermo e Trapani. Le prime cooperative di produttori nascono intorno agli anni Cinquanta anche se gli impianti di trasformazione artigianale e la produzione di vino erano diffusi già dall’Ottocento. Il sistema basato sulla produzione di vino sfuso attraversa una profonda crisi intorno agli anni Novanta del Novecento. Le imprese più piccole vengono inglobate in quelle più grandi, che danno avvio a un vero e proprio processo di ristrutturazione e diversificazione del prodotto; si diffonde nel distretto la produzione di vini di qualità.
Il miglioramento qualitativo portato avanti dalle imprese più grandi è reso possibile da una serie di fattori quali le iniziative di imprenditori locali, favorite dal ricorso a finanziamenti nazionali e regionali, e l’intervento di investitori extraregionali che si realizza sia attraverso rapporti di collaborazione o joint venture con le imprese locali, sia con l’acquisizione di imprese locali o la realizzazione ex novo di stabilimenti di trasformazione (Le sfide del cambiamento, 2007).
I cambiamenti più significativi, però, si verificano nel primo quinquennio degli anni Duemila, quando il processo di diversificazione del prodotto diventa ancora più marcato; si intensifica ulteriormente la varietà del vino prodotto e commercializzato. La diversificazione è stata portata avanti sia mediante l’introduzione di nuove varietà che hanno permesso di produrre tipologie di vino inedite, sia con l’acquisizione di altri terreni e la realizzazione di nuove cantine in luoghi diversi dalla zona di produzione principale.
Le imprese più grandi hanno introdotto moderne tecniche di vinificazione e diversificato ancor più il prodotto offerto, accrescendo così la loro presenza sui mercati nazionali e internazionali, mentre molte imprese agricole hanno adottato come strategia competitiva la produzione di vino confezionato con marchio proprio.
La specializzazione produttiva nel comparto lattiero-caseario e l’attuale configurazione di questo distretto produttivo traggono origine dall’allevamento ovino e dalla nascita e diffusione di cooperative di trasformazione del latte. La nascita del distretto è datata alla fine dell’Ottocento e il suo sviluppo è stato favorito da una serie di circostanze, tra le quali la sedentarizzazione dei pastori.
Agli inizi del Novecento a questi fattori se ne aggiunge uno molto importante, vale a dire l’insediamento di grandi caseifici industriali da parte di alcuni casari romani che introducono la produzione del pecorino romano. Parallelamente nascono le prime cooperative locali che inizialmente operano solo come contoterziste.
Oltre ai casari romani, agli inizi del Novecento, in seguito alla bonifica della piana di Arborea, arrivano anche i coloni veneti. L’attività di bonifica è completata nel secondo dopoguerra e nel 1951 l’Ente per la trasformazione fondiaria assegna i terreni ai mezzadri, che intanto hanno fondato due cooperative, una delle quali, la 3A, rileva uno stabilimento e avvia la produzione di latte (Meloni 2013). Dagli anni Ottanta, quindi, si assiste al consolidamento di un sistema produttivo locale duale in cui si trovano produzioni di tipo artigianale e industriale; le imprese diventano più grandi e la produzione si concentra, grazie soprattutto alle strategie adottate dalla 3A.
Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, a causa di una riduzione della domanda e del venir meno degli aiuti comunitari, il distretto attraversa una crisi, cui però mostra di saper rispondere in modo dinamico. Le aziende di allevamento si ammodernano; alcune di esse associano a quello ovino altri tipi di allevamento, l’agricoltura o la produzione di formaggi di qualità artigianale. Le aziende di trasformazione, invece, rafforzano le politiche commerciali e distributive, ampliano la gamma produttiva e provano a entrare direttamente nella grande distribuzione organizzata (Meloni 2013). In questo modo si determina l’attuale fisionomia del sistema produttivo locale strutturato intorno a due grandi cooperative, che si occupano anche della gestione e del coordinamento dei produttori, e a una serie di imprese private medie e medio-piccole.
I distretti dell’high-tech nascono grazie all’insediamento di grandi stabilimenti esterni (a eccezione del polo aeronautico pugliese), da parte di imprese straniere o a partecipazione statale, che usufruiscono degli incentivi finanziari erogati a favore degli investimenti (Cersosimo, Viesti 2013). Come si vedrà dall’analisi dei tre distretti esemplificativi illustrati di seguito, la presenza di grandi insediamenti favorisce lo sviluppo di questi distretti attraverso vari canali. In primo luogo, favorendo la crescita di imprese di piccole e medie dimensioni che operano come fornitori. La presenza di un primo, grande insediamento industriale, che rimane attivo e cresce nel tempo, attira successivamente nuovi investimenti esterni. Infine va segnalato il ruolo fondamentale di queste imprese ‒ attive in settori tecnologicamente avanzati e quindi stimolanti per l’intensificarsi dei rapporti di collaborazione fra mondo imprenditoriale e mondo della ricerca ‒ nello sviluppo di un capitale umano altamente qualificato.
Il distretto dell’high-tech di Catania nasce negli anni Sessanta del Novecento. L’impresa motrice è una grande azienda a partecipazione statale, la SGS Ates (divenuta STM in seguito alla fusione con Thompson Semiconducteurs), attorno alla quale il distretto si identifica tutt’ora in larga misura.
Il distretto si amplia e si consolida negli anni Ottanta e Novanta, segnato dalle strategie dell’impresa leader che, fino alla metà del primo decennio degli anni Duemila, ne ha guidato la crescita di occupazione e produzione. Prima di questa data, infatti, nascono e si sviluppano molte piccole e medie imprese, attive nei comparti della produzione di componenti elettronici, della lavorazione e dei servizi software e informatici e delle telecomunicazioni. Contemporaneamente, la presenza di una grande impresa e la crescita del distretto hanno attirato nuovi investimenti. La presenza della STM ha rappresentato un’importante economia di localizzazione per altre imprese esterne, in primo luogo per Nokia e IBM (International Business Machines) e, da ultimo, per Micron (Cersosimo, Viesti 2013). Attualmente, nel distretto sono presenti almeno altre tre grandi realtà industriali: Micron technology inc., arrivata nel distretto nel 2010; 3Sun, nata da una joint venture fra ENEL, Green Power, STM e Sharp, attiva dal 2011, e Meridionale impianti, nata qualche anno prima, sulla scia dell’evoluzione della STM.
Oltre che dall’attività dell’impresa leader, la crescita del distretto catanese è stata guidata da una serie di fattori, quali gli incentivi pubblici, le intense collaborazioni tra imprese e mondo della ricerca e la dotazione di capitale umano qualificato. Il consolidamento del distretto ha influenzato fortemente i processi formativi e di ricerca, universitari e non. La crescita dell’impresa leader ha avuto come effetto un aumento notevole dell’offerta formativa delle materie tecnico-scientifiche presso l’ateneo catanese e, con il passare del tempo, si sono intensificate le collaborazioni tra aziende e mondo della ricerca. Negli anni Ottanta, università, CNR e imprese danno vita a un Consorzio di ricerca sulla microelettronica, e all’interno della STM nascono due laboratori di ricerca pubblici.
Nella seconda metà del primo decennio del Duemila, però, tutto l’indotto subisce un ridimensionamento; i cambiamenti dello scenario globale e i trend regressivi del settore elettronico italiano ed europeo, uniti alla crisi internazionale, colpiscono in particolar modo le imprese più piccole e meno robuste sotto il profilo finanziario.
Il polo aeronautico campano nasce agli inizi del Novecento e ha un primo sviluppo durante la Prima guerra mondiale sull’onda dei bisogni e delle opportunità imprenditoriali nel campo della costruzione e manutenzione di motori e velivoli militari e dell’approvvigionamento bellico (Cersosimo, Viesti 2013). Dopo la Seconda guerra mondiale, però, le industrie del settore attraversano un periodo di stallo, interrotto solo dall’intervento dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) che istituisce la Finmeccanica, ancora oggi responsabile delle linee e delle strategie decisionali del comparto a livello nazionale (De Vivo 2013).
Nel frattempo il comparto aeronautico viene ristrutturato e nel 1955 nasce una nuova impresa, la Aerfer, che localizza in Campania l’assemblaggio di un aereo realizzato per l’esercito. Grazie ad accordi con le industrie britanniche e americane, poi, nei primi anni Sessanta vengono gettate le basi per collaborazioni anche nell’aviazione commerciale. Alla fine degli anni Ottanta il calo della domanda a livello mondiale comporta un’ulteriore riorganizzazione del settore e nel 1990 l’Aeritalia, che era sorta nel 1969, si fonde con la Selenia, dando origine all’Alenia, azienda del gruppo Finmeccanica (dal 2002 Alenia Aeronautica), che ancora oggi mantiene la leadership imprenditoriale nel settore aeronautico in Campania. Le sue commesse, infatti, hanno favorito la nascita di un indotto di dimensioni considerevoli, composto da aziende di media e piccola dimensione che si occupano della lavorazione della lamiera, delle attività di montaggio e verniciatura o di attività di supporto nel campo dei controlli, delle manutenzioni e delle riparazioni.
Le piccole e medie imprese attive nel polo campano, e non direttamente dipendenti dal gruppo Finmeccanica, sono di vario tipo. Alcune sono presenti direttamente sul mercato con un prodotto proprio e in alcuni casi gestiscono direttamente al loro interno la progettazione, la produzione e la vendita di componenti o semilavorati (Le sfide del cambiamento, 2007). Altre, di media dimensione, come la Tecnam o la Vulcan Air, producono aerei leggeri e ultraleggeri e operano con un marchio proprio nel comparto dell’aviazione generale (Rosato 2013).
Lo sviluppo del comparto in Campania è stato favorito anche dalla presenza dell’università. Molte delle piccole e medie imprese locali, infatti, sono nate grazie all’iniziativa imprenditoriale o di ex dipendenti dei gruppi industriali attivi nel polo o di industriali formatisi nel sistema dell’istruzione aerospaziale campana.
L’industria aerospaziale ha il suo avvio in Puglia sin dagli anni Trenta, grazie alle capacità manifatturiera e manutentiva dimostrate dalle imprese attive nell’area. È una grande impresa privata a fungere da motore per l’avvio dell’attività aerospaziale, la Società anonima costruzioni aerei (SACA), attiva fino alla fine degli anni Settanta. Questa sarà sostituita dall’Augusta e dalla FIAT aviazione (poi diventata Avio). Nello stesso decennio l’Alenia insedia il suo primo stabilimento in Puglia, a Foggia, cui si aggiungerà, in anni più recenti, quello di Grottaglie, specializzato nella realizzazione della fusoliera per il nuovo Boeing 787.
Nel corso del tempo la struttura produttiva si è andata molto articolando, con grandi, piccole e medie imprese, la cui attività si arricchisce della collaborazione con i numerosi centri di ricerca, pubblici e privati, presenti sul territorio. Il fulcro del sistema produttivo del distretto è rappresentato dal Gruppo Finmeccanica, cui fanno capo la maggior parte delle imprese attive sul territorio. Nel polo, alcune aziende si occupano solo dell’esecuzione di cicli della produzione, mentre altre, la cui nascita è stata favorita in molti casi dalla presenza del sistema universitario, riescono a offrire sul mercato nazionale ed estero un proprio prodotto (Le sfide del cambiamento, 2007).
Oltre alla capacità di crescita e sviluppo mostrata dalle piccole e medie imprese locali, altri punti di forza del polo aeronautico pugliese sono la capacità di fare rete e gli investimenti in ricerca e sviluppo. Grazie ai finanziamenti e alle politiche pubbliche a sostegno dell’innovazione e della cooperazione tra imprese ed enti di ricerca pubblici e privati, le attività di ricerca e sviluppo sono state intraprese non solo dalle aziende di grandi dimensioni, ma anche da quelle piccole e medie, sebbene per queste ultime sia più difficile mettere operativamente a frutto i risultati dell’attività di ricerca attraverso l’avvio del processo di industrializzazione (V. Viola, Il Mezzogiorno si rilancia con l’industria aerospaziale, «Il Sole 24 Ore», 6 dic. 2012).
L’apparato produttivo del Mezzogiorno rappresenta una parte significativa, anche se minoritaria, dell’industria italiana: il peso delle produzioni meridionali è rilevante in diversi settori, sia di grande scala, sia di prodotti finali. Molte di queste attività produttive hanno una evidente dimensione spaziale: sono concentrate in alcune porzioni del territorio meridionale. Le tipologie di concentrazioni produttive al Sud, così come nel resto del Paese, sono però diversificate. Di alcune di esse non ci si è direttamente occupati in questo contributo. Ma vale ugualmente ricordare come siano significativi i casi nel Mezzogiorno, dove una grande impresa, più spesso un grande impianto, occupa una parte significativa della produzione di un’area: è così per es. per la FIAT a Melfi, o per l’ILVA a Taranto. Ancora, vale la pena ricordare come nel Mezzogiorno, in genere, siano praticamente assenti, a differenza di quanto accade nel Centro-Nord, concentrazioni produttive territoriali nel settore della meccanica strumentale e dei macchinari, elettrici e non: e questo è senz’altro il più rilevante punto di debolezza del tessuto industriale dell’area.
Sono invece presenti in misura significativa nel Mezzogiorno concentrazioni produttive di beni di consumo finali, la cui genesi è differenziata (Viesti 2000). Alcune di esse nascono intorno agli anni Settanta, grazie ai fenomeni di decentramento produttivo e di induzione di subfornitura delle grandi imprese del Nord, con una evidente prosecuzione verso Sud del modello che ha caratterizzato una parte significativa dell’industrializzazione marchigiana. Questi casi sono più evidenti soprattutto in Abruzzo, oltre che in Puglia. Altre concentrazioni produttive, invece, hanno radici più antiche, essendone stata rilevata la presenza nel Mezzogiorno già dalla seconda metà dell’Ottocento. Molto interessante è, per es., il caso di Solofra, pienamente industrializzata già nei primi anni del Novecento. Sono produzioni di piccolissima scala, basate su saperi artigiani. Molte di queste produzioni svaniscono con il secondo dopoguerra, per l’effetto congiunto dell’emigrazione degli artigiani e della penetrazione sui mercati meridionali di più competitivi prodotti industriali (abbigliamento e calzature in serie, per es.) delle imprese del Nord. È quanto accade in Sicilia, dove tutte le concentrazioni artigiane di questo tipo scompaiono. Altrove resistono, invece, e nel tempo evolvono, come accade intorno a Napoli o in diverse aree della Puglia, dove la presenza di mercati locali di consumo di rilevanti dimensioni permette a queste imprese di differenziarsi e produrre. Più originali sono i casi in cui il peso dei mercati esterni diviene da subito molto importante: come per il divano della Murgia, che nasce per l’esportazione perché il mercato interno è già presidiato da prodotti settentrionali, o per la calzatura barlettana. In tutti i casi, come si è già visto, i distretti meridionali subiscono interessanti, continue trasformazioni. Alternano periodi di grandissimo sviluppo, come nella seconda metà degli anni Novanta, ad altri più difficili, come quelli vissuti dopo il 2010 a causa della forte contrazione del mercato interno.
Nel caso delle produzioni alimentari, invece, il modello si ripete da caso a caso. È naturalmente la disponibilità di materie prime agricole, oltre che dei saperi connessi, a determinare la geografia delle produzioni. La loro storia e il relativo successo delle aree sono invece legati all’evoluzione delle tecnologie produttive, allo sviluppo di imprese di maggiori dimensioni, alla capacità di vendere i propri prodotti al di fuori dei mercati locali e, crescentemente, all’estero.
Completamente diversa è infine la storia dei poli produttivi a maggiore tecnologia: nell’aeronautica, nella farmaceutica, nell’elettronica. La loro genesi è sempre collegata (Cersosimo, Viesti 2013) all’investimento di grandi imprese esterne, italiane o straniere. Ciò accade prevalentemente negli anni Sessanta e Settanta. Da esse si dipanano, con storie differenziate, spesso positive, le vicende di tessuti produttivi che diventano più ricchi. In questi si sviluppano altre imprese a matrice locale, come accade in misura notevole nei settori dell’aeronautica, o nei quali la presenza di produzioni e saperi più avanzati determina una spinta all’accumulo di capitale umano molto qualificato, che dà vita a nuove avventure imprenditoriali, come nel caso dell’elettronica catanese.
Nell’insieme questi fenomeni determinano una chiara gerarchia regionale: interessano in misura nettamente prevalente Abruzzo, Campania e Puglia, mentre sono molto più deboli nelle Isole e nelle regioni minori. Per quanto complessivamente limitato, specie se rapportato alle dimensioni demografiche dell’area, lo sviluppo di queste concentrazioni produttive appare dunque assai vario e interessante. Rappresenta un capitolo dei complessivi processi di industrializzazione e sviluppo dell’Italia.
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