Distretti industriali
Industrial atmosphere
Il suono di cento campanili
di
4 MAGGIO
Viene approvato a Roma lo statuto della Federazione Distretti Italiani, associazione che si propone di tutelare e sostenere a livello regionale, nazionale ed europeo un pilastro centrale dell’economia italiana: quasi 200.000 imprese manifatturiere con circa 2 milioni di addetti, un valore aggiunto di 145.000 milioni di euro e un contributo vicino al 50% alle esportazioni di prodotti italiani.
Verso la Federazione
Le icone che concorrono a formare l’immagine dell’Italia nel mondo sono legate al patrimonio artistico e naturale, alla gastronomia e ad alcuni comportamenti collettivi, più o meno stereotipati. Insieme a queste, tuttavia, c’è una rappresentazione più concreta che prende forma tutti i giorni nelle scelte di consumo di milioni di persone nei quattro angoli del mondo quando acquistano oggetti apprezzati perché evocano lo stile di vita italiano. La produzione di questi oggetti è concentrata in un centinaio di piccoli sistemi territoriali, diffusi in mezza Italia, che hanno sviluppato una particolare sensibilità nell’interpretare la domanda di personalizzazione e di valori espressivi dei consumatori: sono i distretti industriali, potenti locomotive dell’economia e autentici paradigmi dell’immagine del Bel Paese.
Nei distretti industriali risiede circa il 20% della popolazione italiana; viene prodotto quasi un terzo del PIL; vi lavora il 40% degli addetti all’industria manifatturiera e nasce il 46% delle nostre esportazioni.
Nonostante il consistente ‘peso specifico’ economico e sociale, i distretti industriali sono stati a lungo misconosciuti. Solo a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta del 20° secolo i riflettori della stampa e del mondo politico hanno iniziato a soffermarsi sulla loro capacità di conciliare sviluppo e occupazione. Poi in poco tempo sono entrati nelle agende dei G7 e dei summit dell’Unione Europea. Delegazioni di giornalisti, professori universitari e amministratori pubblici da tutto il mondo hanno iniziato a girare per i distretti, intervistando imprenditori, amministratori locali e sindacalisti, per carpire le ricette del loro originale sentiero di sviluppo. È stata una stagione breve. Sulla scia della globalizzazione, molti distretti hanno perso massa e, diversamente da quanto succedeva ancora pochi anni fa, oggi sono vissuti come macchine problematiche. La sensazione costante è che rischiano di collassare sotto il fardello delle dimensioni delle imprese (troppo piccole per dispiegare i mezzi necessari a navigare nella concorrenza globale) e della specializzazione produttiva (troppo sbilanciata nei settori tradizionali sui quali si addensano le attenzioni dei paesi emergenti).
Contro le correnti che spingono alla deriva i vari campioni del made in Italy occorrerebbe una iniezione forte e mirata sui fondamentali della loro competitività ma le tensioni che dominano la ‘democrazia partecipativa’ di sindacati, amministratori locali e associazioni dei distretti non riescono a coagulare in un programma specifico da proiettare verso l’esterno. I problemi dei distretti, che sono quelli del depauperamento della formazione professionale, della tutela commerciale, delle strozzature nelle reti logistiche, del razionamento del credito
e dell’incomunicabilità con le università e il mondo della ricerca, si presentano sotto vesti diverse: la questione settentrionale, il vento del Nord-Est, i ‘manifesti’ per la piccola impresa. Presto non sarà
più così. Nel 2006 è stata avviata la trasformazione di Distretti Italiani, associazione che riunisce i rappresentanti dei più importanti sistemi territoriali, in una Federazione capace di dare voce alle istanze e al disagio dell’Italia dei ‘cento campanili’. È approdato così al traguardo il progetto varato nel novembre del 1994, quando un primo gruppo di operatori di cinque regioni costituì a Milano il Club dei distretti industriali. Erano uniti dalla convinzione che la competitività della maggior parte delle imprese italiane dipende meno dagli incentivi al capitale e al lavoro (in pratica, la sola leva di politica industriale utilizzata fino ad allora) e più da investimenti sul contesto, meno dagli interventi al buio delle politiche centrali e più dalla conoscenza della specificità dei problemi locali. Da qui prende le mosse la proposta programmatica della neocostituita Federazione Distretti Italiani.
Il volo del calabrone e la torre di Pisa
Nelle rappresentazioni del sistema economico italiano si è fatto spesso uso di metafore come «il volo del calabrone», insetto che, in base al rapporto tra massa ed estensione delle ali, sembrerebbe non poter volare, o della «torre di Pisa», che sembra sul punto di cadere ma è sempre lì, pronta a sfidare la legge di gravità. I paradossi dell’economia italiana, del resto, sono ben noti: secondo la classifica sulla competitività nel mondo stilata nel rapporto annuale dell’istituto IMD di Losanna (The World Competitiveness Yearbook), il nostro paese occupa la 34a posizione. Questo contrasta nettamente con il nostro rank internazionale che ci vede in settima fila per quanto riguarda il PIL e terzi nella bilancia commerciale. E contrasta anche con il 46° posto nelle classifiche sull’efficienza della burocrazia pubblica, il 45° posto per la funzionalità del Parlamento, il 43° per la pressione fiscale sulle imprese, il 42° per la dotazione e la gestione delle infrastrutture. Molte interpretazioni di questo paradosso concordano nel sottolineare che tra i protagonisti della sorprendente performance economica italiana spiccano proprio i distretti industriali. Questi sono sistemi territoriali relativamente circoscritti (i più grandi hanno 400.000 abitanti) con un’elevata concentrazione di aziende specializzate in un particolare tipo di produzione: calzature nel Brenta, ad Ascoli Piceno, Monsummano e Barletta; calze da donna a Castelgoffredo; pelli conciate ad Arzignano, Santa Croce e Solofra; pietre ornamentali a Carrara, Trani e nella Gallura; oreficeria ad Arezzo, Vicenza e Valenza Po; biomedicale a Mirandola; occhiali nel Bellunese; sedie a Manzano; rubinetteria e valvolame a Lumezzane e nel Verbano-Cusio-Ossola; divani a Matera; ceramiche a Sassuolo e Civita Castellana; abbigliamento a Carpi e San Giuseppe Vesuviano; prodotti alimentari a Nocera; tessile a Biella, Prato e San Leucio ecc.
Uno dei tratti distintivi di questi sistemi è il singolare disegno organizzativo che si basa su una articolata divisione del lavoro tra centinaia di imprese. Il loro modo di operare ricorda gli ultimi istanti dei concerti quando, senza alcun coordinamento preliminare, lo scoppio degli applausi a poco a poco si organizza in un battimani ritmato.
Il propellente del successo distretti è costituito da un mix di fattori sociali ed economici; più che semplici macchine per produrre oggetti, sono una modalità originale con la quale le persone che risiedono in un certo territorio organizzano una parte importante della loro vita materiale. Le relazioni che essi stabiliscono tra loro e con le imprese costituiscono un potente moltiplicatore di competitività. Le leve alla base di questo fenomeno sono state analizzate per la prima volta da Alfred Marshall all’inizio del 20° secolo e, recentemente, sono state riportate al centro dell’attenzione dai lavori da Giacomo Becattini, in Italia, e da quelli di Paul Krugman, Michel Porter e Charles Sabel negli Stati Uniti. Il campo di forze che sostiene la competitività delle singole imprese dei distretti si può ricondurre a tre grandi generatori.
Il primo è costituito dalle economie di agglomerazione: la concentrazione di una massa consistente di attività di uno stesso settore favorisce la formazione di un mercato del lavoro dove si confrontano domanda e offerta di profili professionali specializzati; le imprese hanno maggiori probabilità di trovare i lavoratori con le esperienze richieste e i residenti, grazie alla mobilità interaziendale, possono realizzare meglio le proprie aspirazioni professionali. Le interazioni tra gli agenti, inoltre, sono dense e i benefici per ciascuna impresa tendono ad aumentare quando aumenta la produzione delle altre. Tra i vantaggi riconducibili all’agglomerazione spiccano, ancora, la creazione di infrastrutture dedicate (aree industriali, depuratori ecc.) e lo sviluppo di servizi ausiliari specializzati (trasporti, installazione e riparazione di macchinari, scuole professionali, associazioni di categoria, intermediari del commercio ecc.).
Il secondo generatore è il risultato della sedimentazione nel tempo di numerosi elementi intangibili: know how, esperienze specifiche nella gestione dei processi produttivi, immagine del territorio e reti interpersonali che facilitano la circolazione delle informazioni e consentono di valutare gli aspetti più reconditi dei progetti imprenditoriali. Questi fattori, attraverso complesse alchimie, formano una densa ‘atmosfera industriale’ che contamina la vita quotidiana delle persone.
Il terzo generatore di forze richiama elementi di psicologia sociale; in particolare la carica di adrenalina rilasciata dalla pressione di tante imprese in stretta concorrenza tra loro stimola l’innovazione; la fiducia e il capitale sociale costituito dalla reciproca conoscenza e dalla familiarità dei rapporti fungono da lubrificante che fluidifica il coordinamento delle attività (riducendo i cosiddetti costi di transazione); infine c’è il collante costituito dal senso di identificazione della comunità di persone che risiedono in una stessa regione e che spesso, tramite le organizzazioni sindacali, le associazioni delle imprese e gli enti locali, si accordano per affrontare le minacce provenienti dall’esterno.
Effetto Rinascimento e management delle piccole imprese
Riflettendo sulla singolare parabola del made in Italy in alcuni settori (moda, mobili, gioielleria, arredamento), molti commentatori hanno più volte sottolineato l’influsso positivo delle tradizioni storiche e in particolare l’‘effetto Rinascimento’ che tuttora persisterebbe nella cultura, nel senso estetico e nelle abilità artigianali degli italiani. In pratica, il fatto di vivere in un paese che vanta forse il più ricco patrimonio monumentale del mondo sviluppa una singolare sensibilità per le cose belle. Questa interpretazione è suggestiva e spiega una parte importante del successo dei distretti ma associa i loro vantaggi competitivi a fattori che pongono in secondo piano i punti di forza organizzativi, le competenze gestionali e, in generale, i metodi propri delle moderne scienze economiche e manageriali senza i quali è impensabile che tante piccole imprese possano contendere quote di mercato e operare in mercati aperti e globali.
Alcune peculiarità dello sviluppo economico italiano in questo dopoguerra ci aiutano invece a mettere in evidenza i fondamenti del successo del made in Italy e, sotto questo particolare punto di vista, le esperienze dei distretti industriali italiani offrono interessanti indicazioni.
Da tempo si sta cercando di fare luce su alcune regolarità nei comportamenti degli imprenditori dei distretti; le ricerche sul campo hanno consentito di delineare taluni elementi distintivi di uno stile imprenditoriale forse non raffinato ma comunque efficace. La capacità dei piccoli imprenditori dei distretti di innovare e migliorare il servizio fa pensare a prassi capaci di performance non lontane rispetto a quelle perseguite con la lean production, la time based competition, i metodi del Sei sigma ecc. Le strutture operative delle aziende sono leggere. Il sottodimensionamento degli organici non si spiega solo con la scelta di strutturarsi sulle onde basse dei cicli; è una regola tacita che riflette un modo stesso di concepire l’organizzazione del lavoro e di strutturare le funzioni indirette. Gli imprenditori incontrano personalmente i clienti importanti e i fornitori chiave e questi contatti diretti danno loro preziose informazioni; rifiutano la stazionarietà. Nella loro agenda c’è una ricerca ossessiva di novità: mercati, prodotti, processi, fonti di approvvigionamento, soluzioni organizzative. Sono mentalmente predisposti a confrontarsi in campi aperti. Questi tratti comportamentali delineano un originale stile imprenditoriale che non sempre affronta con lucidità le insidie dei mercati, cosa che rende statisticamente breve la vita media delle singole imprese, ma si rivela un prezioso propellente dello sviluppo dei distretti.
Il menù delle politiche di sviluppo
Una domanda che gli osservatori esteri rivolgono nei frequenti giri di visite tra i distretti riguarda il ventaglio delle azioni pubbliche che ne hanno sostenuto lo sviluppo, salvo scoprire, con malcelato stupore, che i distretti sono stati e continuano a restare fuori dai giochi delle politiche industriali italiane. In effetti non sono mancati provvedimenti in questo senso, a partire dal trasferimento alle Regioni delle competenze in materia di distretti (l. 5 ottobre 1991, nr. 317), preludio di un nuovo disegno di politica industriale modulato sui territori e sulle specificità di uno sviluppo ‘policentrico’ come quello italiano. Purtroppo fu solo un provvedimento estemporaneo, non supportato da una chiara idea sulle cose da fare: il sasso era stato gettato ma in fatto di obiettivi, strumenti e procedure si era (e si è tuttora) in alto mare. Del resto non è mai stato sciolto un equivoco che ha sparigliato le stesse rappresentanze distrettuali nei rapporti con il Governo e le Regioni: se si escludono gli interventi per correggere gli squilibri territoriali (casistica che però non si applica ai distretti, centri che le classifiche posizionano tra i più ricchi e sviluppati del paese), sul piano dell’equità non ci sono ragioni evidenti per circoscrivere alla semplice localizzazione delle imprese all’interno dei distretti la concessione di incentivi per gli investimenti, la promozione, le aggregazioni tra aziende o la ricerca. Un fattore non meno influente per quanto attiene alla scarsa efficacia delle politiche è stata l’insufficiente convinzione di politici, accademici e degli stessi protagonisti di queste realtà che hanno ripetutamente svilito un brand di straordinario successo nella letteratura economica internazionale (distretti industriali), enfatizzandone la metamorfosi verso nuovi assetti variamente definiti: metadistretti, distretti produttivi, integrati, cluster, filiere o sistemi trainati da imprese leader. In pratica, non si è investito abbastanza per riempire di contenuti e per delimitare il perimetro delle politiche a favore dei distretti, ma prima ancora non si è scommesso sulla loro vitalità.
Come è noto, i programmi di politica industriale adottati in molti paesi (di vecchia e nuova industrializzazione) puntano prevalentemente sulle grandi aziende, sui settori high tech e sulla creazione di condizioni per attrarre imprese (e posti di lavoro) nelle aree svantaggiate. Rispetto a tutto questo, l’esperienza dei distretti introduce nuove opzioni nel menù delle politiche di sviluppo. Ovviamente nei distretti non mancano i problemi e la loro ricetta non è l’unica né, in assoluto, la migliore, ma essi propongono un sentiero che molti governi vorrebbero percorrere: imprese dinamiche e radicate sul territorio, livelli di disoccupazione contenuti, redditi pro capite superiori ai valori medi e una discreta qualità della vita, come emerge nelle classifiche che Il Sole 24 Ore pubblica a fine anno. I fattori che li rendono attraenti non mancano: i distretti sono il più esteso serbatoio di imprese di successo dell’industria italiana; sono le realtà che meglio hanno preservato il patrimonio di artigianato, arte e cultura ereditato dal passato e, nello stesso tempo, sono aree dove si avverte la voglia di esplorare il futuro. Le politiche modellate sul loro calco non puntano a coltivare ‘campioni nazionali’ o centri di eccellenza ma a creare le condizioni per trattenere la gente nei centri di residenza, senza costringerla a migrazioni di massa per cercare lavoro.
Concertazione, capitale sociale e burocrazia
Circa dieci anni fa, al termine di un lungo lavoro di ricerca che aveva evidenziato il legame tra lo sviluppo dei distretti e la collaborazione tra i loro protagonisti istituzionali (associazione industriali, comune, cassa di risparmio, camera di commercio ecc.), Giuseppe De Rita varò in seno al CNEL una serie di grandi accordi (i ‘patti territoriali’) per mobilitare
le energie e le risorse inutilizzate del Mezzogiorno. Ispirandosi alle buone pratiche dei distretti, furono finanziati progetti per innalzare il capitale sociale e migliorare le relazioni tra i soggetti: non incentivi per acquistare i macchinari o per abbattere i costi delle missioni estere, ma strumenti per costruire relazioni fiduciarie tra gli attori dei vari patti.
Per anni il successo dei distretti industriali ha dato lustro a queste raccomandazioni di policy, ma il loro recente appannamento ha aperto una riflessione sull’efficacia delle politiche della concertazione. La lunga (e un po’ tormentata) stagione dei patti territoriali, invece di creare un quadro di certezze fiscali, contributive e amministrative, ridurre il numero dei provvedimenti di incentivazione e unificarne le modalità di accesso, in non pochi casi ha favorito il consolidarsi di una burocrazia dello sviluppo locale e la formazione di un ceto dirigente che ha più bloccato che facilitato i processi decisionali e di sviluppo. Alcuni osservatori hanno rilevato che i tentativi di attivare politiche su base locale non solo non hanno generato sviluppo e occupazione, ma spesso hanno dato luogo a un utilizzo non particolarmente efficace delle risorse, scontrandosi con una cultura amministrativa incapace di coinvolgere enti e attori locali nella formulazione dei programmi e nella loro gestione. Altri ritengono che le politiche per la produzione di capitale sociale non hanno prodotto i risultati auspicati ma, nello stesso tempo, sottolineano che grazie proprio alla ‘contrattazione programmata’ in molte aree sono migliorati le relazioni e i legami tra i soggetti locali.
Molto diverso, sempre in tema di politiche a favore dei distretti, l’orientamento della Finanziaria 2006 che ha previsto una serie di strumenti per liberare i pacchetti di incentivi dai vincoli delle delimitazioni territoriali e dai macchinosi tavoli di concertazione. Di fatto, il progetto di ricondurre gli interventi a ‘libere associazioni di imprese’ e nuovi istituti come la ‘tassazione unitaria’ e i ‘bond di distretto’ ha ridestato l’interesse per un tema che sembrava relegato al piccolo cabotaggio delle politiche industriali regionali. La Finanziaria successiva (2007) ha rimescolato
le carte con un programma che prevede il cofinanziamento di progetti innovativi a favore dei distretti promossi dalle Regioni. Le 20 cartelle del documento Industria 2015 presentate nel settembre 2006 delineano un disegno di politica industriale ambizioso ma con meno appeal rispetto alla tassazione e ai bond di distretto. Gli incentivi per le reti, la modulazione del Fondo per la competitività e i ripetuti richiami alle filiere puntano ad assecondare le traiettorie competitive anche delle aziende dei distretti, in particolare di quelle più dinamiche. I riferimenti ai «settori ad alto potenziale di sviluppo», tuttavia, ammiccano più agli istituti universitari, ai centri di ricerca e alle agenzie per il trasferimento tecnologico che alle schiere degli imprenditori più piccoli.
Nonostante il deludente bilancio di quindici anni di politiche regionali per i distretti già affermati e di dieci anni di patti territoriali per crearne di nuovi, il tema dell’accompagnamento e del rafforzamento delle reti di piccole imprese dei distretti conserva la sua centralità per il paese e marca l’agenda del Governo, delle Regioni e delle associazioni del sistema imprenditoriale italiano.
L’apparato normativo
I distretti industriali sono proposti come strumento di politica industriale in grado di operare al di là delle singole imprese e dei settori di produzione dalla l. 5 ottobre 1991, nr. 317, «Interventi per l’innovazione e lo sviluppo delle piccole imprese». La legge definisce distretti industriali «le aree territoriali locali caratterizzate da elevata concentrazione di piccole imprese, con particolare riferimento al rapporto tra la presenza delle imprese e la popolazione residente nonché alla specializzazione produttiva dell’insieme delle imprese» e dispone che entro 180 giorni dalla sua entrata in vigore le Regioni individuino tali aree, con l’ausilio delle Unioni regionali delle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Per le aree individuate la legge prevede il finanziamento da parte delle Regioni di progetti innovativi concernenti più imprese, in base a un programma di priorità degli interventi definito dalle Regioni medesime. I consorzi di sviluppo industriale, costituiti ai sensi della legislazione nazionale e regionale e configurati come enti pubblici economici – spettando alle Regioni soltanto il controllo sui loro piani economici e finanziari – sono destinati a promuovere, nell’ambito degli agglomerati industriali da loro attrezzati dai consorzi medesimi, «le condizioni necessarie per la creazione e lo sviluppo di attività produttive nei settori dell’industria e dei servizi», realizzando e gestendo a tale scopo infrastrutture per l’industria, rustici industriali, servizi reali alle imprese, iniziative per l’orientamento e la formazione professionale dei lavoratori, dei quadri direttivi e intermedi e dei giovani imprenditori, e ogni altro servizio sociale connesso alla produzione industriale. Gli indirizzi e i parametri per l’individuazione delle relative aree sono stati stabiliti con d.m. 21 aprile 1993, che specifica cinque criteri vincolanti perché una zona possa essere riconosciuta distretto industriale: 1) indice di industrializzazione manifatturiera del distretto: la quota di addetti dell’industria sul totale delle attività economiche del territorio deve superare di almeno il 30% l’analogo indice nazionale o quello regionale nel caso in cui quest’ultimo sia inferiore a quello nazionale; 2) densità imprenditoriale: il rapporto tra le unità manifatturiere e la popolazione residente deve essere superiore all’analogo indice nazionale; 3) indice di specializzazione produttiva: anche il rapporto tra il numero di addetti occupati in una determinata attività manifatturiera e il totale degli addetti dell’industria manifatturiera dell’area deve superare l’analoga media nazionale di almeno il 30%. L’attività manifatturiera rientrante in questo parametro costituisce la classe di specializzazione e viene determinata secondo le attività previste nella classificazione ufficiale dell’ISTAT; 4) peso occupazionale locale dell’attività specializzata: il numero degli occupati nel settore di specializzazione deve superare il 30% del totale degli occupati manifatturieri dell’area; 5) incidenza della piccola impresa: la percentuale di addetti in piccole imprese operanti nel settore di specializzazione deve essere superiore al 50% del totale degli addetti del settore stesso. L’ultimo intervento legislativo sui distretti industriali è rappresentato dalla l. 11 maggio 1999 nr. 140, «Norme in materia di attività produttive», che definisce i distretti industriali «sistemi produttivi locali, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese industriali nonché dalla specializzazione produttiva di sistemi di imprese», indicando come sistemi produttivi locali «contesti produttivi omogenei, caratterizzati da una elevata concentrazione di imprese, prevalentemente di piccole e medie dimensioni e da una peculiare organizzazione interna». Sono lasciate all’iniziativa di ogni Regione la definizione e l’individuazione dei distretti presenti nel proprio territorio, verso i quali attuare politiche di intervento, mediante il finanziamento di progetti innovativi e di sviluppo per una copertura fino al 40% della spesa complessiva investita nel singolo progetto approvato.
I distretti riconosciuti dalle Regioni
La difficoltà di applicare i criteri proposti dal decreto ministeriale del 1993 ha bloccato di fatto in alcune realtà regionali l’individuazione dei distretti industriali. Essa rende altresì impossibile attuare una mappatura univoca sul territorio nazionale di queste aree, dal che deriva la difformità degli elenchi presentati dai vari istituti, pubblici o privati, che si sono confrontati con il problema. Così, per esempio, in DistrettItalia, la guida ai distretti italiani 2005-2006, sono descritte 150 unità, mentre sono 156 nell’elenco diffuso nel 2005 dall’ISTAT, che lo ha compilato sulla base dei Sistemi Locali del Lavoro (aggregazioni comunali al cui interno è massimo il flusso di trasferimento giornaliero casa-lavoro, individuato tramite domande presenti in censimenti della popolazione) del censimento 2001. Riferendosi ai dati delle Regioni, il numero di distretti riconosciuti dalle 13 (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Sardegna, Toscana, Veneto) che hanno individuato i distretti industriali è di 168 (dati al 1° luglio 2006). Di questi, 145 sono localizzati nel Centro-Nord e 23 nel Mezzogiorno. Le principali branche di attività, che coprono il 74% del totale, sono: tessile e abbigliamento (41 distretti riconosciuti), meccanica (34), prodotti per l’arredamento e lavorazione di minerali non metalliferi (29), pelli, cuoio e calzature (20). Nei distretti quasi due terzi degli addetti manifatturieri trovano impiego in unità locali di piccola (10-49 addetti) e media (da 50-249 addetti) dimensione, a fronte del 52% nel resto del territorio. I distretti italiani con le dimensioni medie più ridotte si concentrano particolarmente nel Mezzogiorno, dove la maggior parte delle aree distrettuali è caratterizzata dalla presenza esclusiva di piccole e medie imprese.
Piemonte
Biella (33 Comuni in provincia di Biella): tessile-abbigliamento
Borgomanero (29 Comuni in provincia di Novara): metalmeccanico
Canelli-S. Stefano Belbo (11 Comuni in provincia di Asti, Cuneo): alimentare
Carmagnola (10 Comuni in provincia di Cuneo, Torino): metalmeccanico
Casale Monferrato-Ticineto-Quattordio (42 Comuni in provincia di Alessandria, Asti, Vercelli): metalmeccanico
Cerrina Monferrato (8 Comuni in provincia di Alessandria): metalmeccanico e legno
Chieri-Cocconato (36 Comuni in provincia di Alessandria, Asti, Torino): tessile-abbigliamento Cirié-Sparone (43 Comuni in provincia di Torino): metalmeccanico
Cortemilia (9 Comuni in provincia di Asti, Cuneo): tessile abbigliamento e alimentare
Cossato (26 Comuni in provincia di Biella, Vercelli): tessile-abbigliamento
Crevacuore (7 Comuni in provincia di Biella, Vercelli): tessile-abbigliamento
Dogliani (8 Comuni in provincia di Cuneo): carta-stampa e legno
Forno Canavese (10 Comuni in provincia di Torino): metalmeccanico
Gattinara-Borgosesia (18 Comuni in provincia di Biella, Novara, Vercelli): tessile-abbigliamento
Livorno Ferraris-Santhià (30 Comuni in provincia di Biella, Torino, Vercelli): metalmeccanico
Oleggio (7 Comuni in provincia di Novara): tessile-abbigliamento
Omegna-Varallo Sesia-Stresa (41 Comuni in provincia di Verbania-Cusio-Ossola, Vercelli): metalmeccanico
Pianezza-Pinerolo (86 Comuni in provincia di Cuneo, Torino): metalmeccanico
Revello (3 Comuni in provincia di Cuneo): tessile-abbigliamento Rivarolo-Pont Canavese (30 Comuni in provincia di Torino): metalmeccanico
S. Maurizio d’Opaglio-Armeno (10 Comuni in provincia di Novara, Verbania-Cusio-Ossola): metalmeccanico
Sanfront (3 Comuni in provincia di Cuneo): tessile-abbigliamento e legno
Tollegno (11 Comuni in provincia di Biella): tessile-abbigliamento
Trivero (4 Comuni in provincia di Biella): tessile-abbigliamento
Valenza Po (10 Comuni in provincia di Alessandria): orafo
Varallo Pombia (6 Comuni in provincia di Novara): metalmeccanico e tessile-abbigliamento
Verzuolo (14 Comuni in provincia di Cuneo): legno
Lombardia
Bassa bresciana (8 Comuni in provincia di Brescia, Cremona): cuoio, calzature
Bassa bresciana abbigliamento (12 Comuni in provincia di Brescia, Cremona): confezioni, abbigliamento
Bergamasca-Valcavallina-Oglio (26 Comuni in provincia di Bergamo, Brescia): confezioni e accessori per l’abbigliamento
Brianza (36 Comuni in provincia di Como, Milano): mobile e arredo
Casalasco-Viadanese (13 Comuni in provincia di Cremona, Mantova): legno
Castelgoffredo (15 Comuni in provincia di Brescia, Cremona, Mantova): tessile, calze
Est milanese (28 Comuni in provincia di Bergamo, Lecco, Lodi, Milano): apparecchiature elettriche, elettroniche e medicali
Gallaratese (9 Comuni in provincia di Varese): confezioni, abbigliamento
Lecchese (40 Comuni in provincia di Bergamo, Como, Lecco, Milano): produzione e lavorazione metalli
Lecchese tessile (9 Comuni in provincia di Como, Lecco): tessile
Sebino (11 Comuni in provincia di Bergamo, Brescia): gomma e plastica
Serico-Comasco (36 Comuni in provincia di Como): tessile-serico
Valle dell’Arno (11 Comuni in provincia di Varese): produzione e lavorazione metalli
Valli bresciane (49 Comuni in provincia di Brescia): produzione e lavorazione metalli
Valseriana (10 Comuni in provincia di Bergamo): tessile
Vigevanese (8 Comuni in provincia di Pavia): meccano-calzaturiero. La Regione Lombardia oltre ai distretti ‘tradizionali’ ha istituito alcuni ‘metadistretti’, cioè aree caratterizzate dalla presenza di filiere produttive dove ai rapporti di contiguità fisica tra le imprese si sostituiscono i rapporti di rete e una crescente interazione tra imprese produttive, centri di ricerca e della conoscenza e attività di servizio della filiera. Sono state individuate 5 aree metadistrettuali nelle seguenti filiere: biotecnologie alimentari; altre biotecnologie; design; ICT; moda; materiali.
Veneto
La Regione Veneto ha istituito 46 distretti produttivi, per la cui identificazione spaziale la nuova normativa prevede l’indicazione della sola provincia di appartenenza della Camera di commercio competente. Per ottenere la qualifica di distretto produttivo occorrono almeno 80 aziende con non meno di 250 addetti in complesso e devono essere rispettati i requisiti di integrazione, orientamento all’innovazione e un Piano di sviluppo distrettuale da sottoporre prima alla Camera di commercio competente e poi alla Regione stessa.
Distretto biomedicale veneto (provincia di Padova)
Distretto calzaturiero veronese (provincia di Verona)
Distretto del grafico-cartario veneto (provincia di Verona)
Distretto della bicicletta (provincia di Treviso)
Distretto della ceramica-terracotta (provincia di Vicenza)
Distretto della meccatronica (provincia di Vicenza)
Distretto delle energie rinnovabili (provincia di Belluno)
Distretto dell’occhiale (provincia di Belluno)
Distretto dello sportsystem di Montebelluna (provincia di Treviso)
Distretto del marmo e delle pietre del Veneto (provincia di Verona)
Distretto del mobile classico della pianura veneta (provincia di Verona)
Distretto del mobile d’arte di Bassano (provincia di Vicenza)
Distretto del Prosecco–Valdobbiadene (provincia di Treviso)
Distretto industriale della meccanica e della subfornitura meccanica del Veneto (provincia di Padova)
Distretto logistico veronese (provincia di Verona)
Distretto orafo (provincia di Vicenza)
Distretto ortofrutticolo del Veneto (provincia di Verona)
Distretto padovano della logistica (provincia di Padova)
Distretto produttivo argentieri del Veneto (provincia di Padova)
Distretto produttivo turistico-culturale delle Province di Venezia, Rovigo, Treviso, Vicenza (provincia di Venezia)
Distretto provinciale della cantieristica nautica veneziana (provincia di Venezia)
Distretto regionale della gomma e materie plastiche (provincia di Treviso)
Distretto termale euganeo (provincia di Padova)
Distretto trevigiano della bioedilizia (provincia di Treviso)
Distretto trevigiano del legno arredo (provincia di Treviso)
Distretto turistico del Garda (provincia di Verona)
Distretto turistico della Montagna Cimbra (provincia di Vicenza)
Distretto turistico delle Dolomiti bellunesi (provincia di Belluno)
Distretto veneto dei beni culturali (provincia di Verona)
Distretto veneto del condizionamento e della refrigerazione industriale (provincia di Padova)
Distretto veneto della giostra (provincia di Rovigo)
Distretto veneto delle attrezzature alberghiere (provincia di Treviso)
Distretto veneto delle macchine agricole e dell’industria pesante (provincia di Padova)
Distretto veneto dell’informatica e del tecnologico avanzato (provincia di Verona)
Distretto veneto del vino (provincia di Verona)
Distretto veneto lattiero-caseario (provincia di Treviso)
Distretto veneto sistema moda (provincia di Treviso)
Distretto vicentino della concia (provincia di Vicenza)
Nord Est packaging (provincia di Vicenza)
Patto per lo sviluppo del settore ittico (provincia di Rovigo)
Portualità, intermodalità e logistica nelle province di Venezia/Treviso
Sviluppo agroittico della provincia di Venezia Sviluppo del distretto calzaturiero veneto (provincia di Venezia)
Sviluppo del distretto del vetro artistico di Murano (provincia di Venezia)
Venetoclima-distretto veneto della termomeccanica (provincia di Verona)
VeronaProntoModa. Distretto veneto dell’abbigliamento (provincia di Verona)
Friuli-Venezia Giulia
Distretto del coltello (9 Comuni in provincia di Pordenone)
Distretto dell’alimentare (6 Comuni in provincia di Udine)
Distretto della pietra piasentina (4 Comuni in provincia di Udine)
Distretto della sedia (11 Comuni in provincia di Udine)
Distretto del mobile (11 Comuni in provincia di Pordenone)
Liguria
Fabbricazione mezzi di trasporto (12 Comuni in provincia di Savona)
Gomma e mezzi di trasporto (15 Comuni in provincia di Genova)
Industria alimentare (17 Comuni in provincia di Imperia)
Lavorazione dell’ardesia di Cicagna (6 Comuni in provincia di Genova)
Lavorazione pietra (9 Comuni in provincia di La Spezia)
Lavorazione vetro e ceramica (14 Comuni in provincia di Savona)
Macchine elettriche (96 Comuni in provincia di Genova)
Meccanica, cantieristica e nautica (8 Comuni in provincia di La Spezia)
Meccanica e metallurgia (13 Comuni in provincia di Genova)
Mezzi di trasporto (3 Comuni in provincia di Genova)
Toscana
Arezzo (13 Comuni in provincia di Arezzo): orafo
Capannori (12 Comuni in provincia di Lucca, Pistoia): carta
Carrara (10 Comuni in provincia di Lucca, Massa-Carrara): marmo
Casentino-Val Tiberina (18 Comuni in provincia di Arezzo): tessile-abbigliamento
Castelfiorentino (5 Comuni in provincia di Firenze, Siena): pelle, cuoio, calzature
Empoli (6 Comuni in provincia di Firenze): tessile-abbigliamento
Poggibonsi (10 Comuni in provincia di Firenze, Siena): legno, mobili
Prato (12 Comuni in provincia di Firenze, Pistoia, Prato): tessile-abbigliamento
Santa Croce sull’Arno (7 Comuni in provincia di Firenze, Pisa): pelle, cuoio, calzature
Sinalunga (8 Comuni in provincia di Siena): legno, mobili
Valdarno Superiore (12 Comuni in provincia di Arezzo, Firenze): pelle, cuoio, calzature
Valdinievole (10 Comuni in provincia di Pistoia): pelle, cuoio, calzature
Marche
Cingoli (3 Comuni in provincia di Macerata): tessile-abbigliamento
Civitanova Marche (3 Comuni in provincia di Macerata): pelle, cuoio, calzature
Fabriano (16 Comuni in provincia di Ancona, Macerata): meccanica
Fermo (7 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Fossombrone (8 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): legno, mobili
Mondolfo (8 Comuni in provincia di Ancona, Pesaro e Urbino): tessile-abbigliamento
Monte San Giusto (3 Comuni in provincia di Macerata): pelle, cuoio, calzature
Monte San Pietrangeli (2 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Montefiore dell’Aso (8 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Montegiorgio (25 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Montegranaro (2 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Offida (7 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Osimo (7 Comuni in provincia di Ancona): giocattoli, altre industrie
Ostra (8 Comuni in provincia di Ancona): tessile-abbigliamento
Pergola (5 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): tessile-abbigliamento
Pesaro (7 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): legno, mobili
Piandimeleto (7 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): legno, mobili
Porto Sant’Elpidio (2 Comuni in provincia di Ascoli Piceno): pelle, cuoio, calzature
Recanati (7 Comuni in provincia di Ancona, Macerata): giocattoli, altre industrie
Sant’Angelo in Vado (3 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): tessile-abbigliamento
Sassocorvaro (6 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): tessile-abbigliamento
Serra de’ Conti (6 Comuni in provincia di Ancona): pelle, cuoio, calzature
Tolentino (7 Comuni in provincia di Macerata): pelle, cuoio, calzature
Treia (2 Comuni in provincia di Macerata): legno, mobili
Urbania (3 Comuni in provincia di Pesaro e Urbino): tessile-abbigliamento Urbisaglia (4 Comuni in provincia di Macerata): tessile-abbigliamento
Lazio
Civita Castellana (8 Comuni in provincia di Roma, Viterbo): ceramica
Monti Ausoni-Tiburtina (8 Comuni in provincia di Frosinone, Roma): estrazione e lavorazione della pietra
Valle del Liri (20 Comuni in provincia di Frosinone): abbigliamento
Abruzzo
Agroindustriale della Marsica (14 Comuni in provincia di L’Aquila)
Maiella (15 Comuni in provincia di Chieti): abbigliamento
Piana del Cavaliere (2 Comuni in provincia di L’Aquila): macchine elettriche-apparecchiature ottiche
Servizi di Pescara-Montesilvano (4 Comuni in provincia di Pescara): servizi organizzativi, tecnologici, formativi per le imprese
Vastese (20 Comuni in provincia di Chieti): vetro
Vibrata-Tordino Vomano (20 Comuni in provincia di Teramo): abbigliamento
Campania
Calitri (9 Comuni in provincia di Avellino): tessile-abbigliamento
Grumo Nevano-Aversa-Trentola Ducenta (21 Comuni in provincia di Caserta, Napoli): abbigliamento
Nocera Inferiore (20 Comuni in provincia di Napoli, Salerno): alimentare
San Giuseppe Vesuviano (8 Comuni in provincia di Napoli): tessile-abbigliamento
San Marco dei Cavoti (16 Comuni in provincia di Benevento): abbigliamento
Sant’Agata dei Goti-Casapulla (20 Comuni in provincia di Benevento, Caserta): tessile-abbigliamento
Solofra (4 Comuni in provincia di Avellino): concia
Basilicata
Agroalimentare di qualità del Metapontino (12 Comuni in provincia di Matera) Matera e Montescaglioso (2 Comuni in provincia di Matera): prodotti per l’arredamento
Pescopagano (1 Comune in provincia di Potenza): tessile-abbigliamento
Sant’Angelo Le Fratte (5 Comuni in provincia di Potenza): prodotti per l’arredamento
Vulture (15 Comuni in provincia di Potenza): agroindustriale
Calabria
Agroalimentare di Qualità di Sibari (31 Comuni in provincia di Cosenza)
Sardegna
Granito della Gallura (12 Comuni in provincia di Sassari)
Marmo di Orosei (5 Comuni in provincia di Nuoro)
Sughero di Calangianus-Tempio Pausania (7 Comuni in provincia di Sassari)
Tappeto di Samugheo (6 Comuni in provincia di Oristano)
bibliografia
G. Becattini, Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull’unità di indagine dell’economia industriale, «L’industria. Rivista di economia e politica industriale», 1979, 1.
Id., Riflessioni sul distretto industriale come concetto socio-economico, «Stato e Mercato», 1989, 25.
S. Brusco, S. Paba, Per una storia dei distretti industriali italiani dal secondo dopoguerra agli anni novanta, in Storia del capitalismo italiano, a cura di F. Barca, Roma, Donzelli, 1999.
CERIS-CNR, Innovazione, piccole imprese e distretti industriali, Roma, CNEL, 1997.
Gioielli, bambole e coltelli. Viaggio de Il Sole 24 Ore nei distretti produttivi italiani, a cura di M. Moussanet e L. Paolazzi, Milano, Il Sole 24 Ore, 1992.
Industria e distretti. Un paradigma di perdurante competitività italiana, a cura di M. Fortis e A. Quadrio Curzio, Collana Fondazione Edison, Bologna, Il Mulino, 2006.
IPI, L’esperienza italiana dei distretti industriali, Collana IPI, Roma, Ministero delle Attività produttive, 2002.
P. Krugman, Geography and trade, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1991; M. Piore, C. Sabel, The second industrial divide: Possibilities for prosperities, New York, Basic Book, 1994.
M. Porter, The competitive advantage of nations, New York, MacMillan, 1990.
Lo sviluppo locale. Una indagine della Banca d’Italia sui distretti industriali, a cura di L.F. Signorini, Roma, Donzelli, 2000.
G. Viesti, Perché nascono i distretti industriali, Bari, Laterza, 2000.
siti internet
Federazione Distretti Industriali: http://www.clubdistretti.it.
istat: http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20051216_00/Volume_Distretti.pdf.
cnel: http://www.cnel.it/cnelstats/Percorso_guidato_005_file/frame.htm#slide0001.htm.
Unioncamere: http://www.unioncamere.it/Atlante/info/dist.htm.