distribuzione del reddito
Modalità attraverso cui il reddito si ripartisce tra i membri della società. La d. del r. dipende da un insieme di circostanze eterogenee. Per es., la struttura di un dato mercato, o l’allocazione delle capacità individuali tra i membri della società, possono rendere alcune persone più abili di altre nel produrre ricchezza. L’assegnazione disomogenea di queste caratteristiche fa sì che la d. del r. possa assumere un carattere non egualitario. Partendo da questo assunto, si immagini che perseguire una d. egualitaria del reddito sia l’obiettivo della classe dirigente di un Paese. Ogni classe politica è, infatti, caratterizzata da una propria funzione di benessere sociale dalla quale deriva una d. ottima del r. nazionale. Se l’assetto cui si trova dinnanzi è diverso da quello ottimo (nel caso specifico una d. egualitaria), la classe dirigente imporrà vincoli al mercato (salari minimi, calmiere dei prezzi, divieti di importazione), o interventi finanziari (imposte progressive, dazi all’importazione, sussidi alle classi meno abbienti), per tendere alla frontiera ottimale.
Una simile azione redistributiva non può prescindere da una efficace misurazione della concentrazione dei redditi. L’indice di Gini (➔ Gini, indice di), e la curva di Lorenz (➔ Lorenz, curva di) sono due strumenti ideati all’inizio del 20° sec. per misurare, rappresentare e analizzare la d. del reddito. M.O. Lorenz ideò una rappresentazione su un sistema di assi ortogonali in cui le ascisse indicano la popolazione di una data comunità e le ordinate la ricchezza complessiva a disposizione di quella comunità, ed entrambe le grandezze sono espresse in termini percentuali. Una omogenea d. del r. vorrebbe che a ogni individuo ne fosse attribuita la stessa quantità. Graficamente ciò dà luogo alla retta Y=X (come indicato nel grafico dalla retta della perfetta uguaglianza ONC11). Se il reddito di quella popolazione si distribuisce in maniera diseguale, è minore la parte che si concentra nelle mani dei primi percentili della popolazione. Graficamente ciò dà esito a una curva. Maggiore è il carattere inegualitario della d., maggiore è la distanza tra la curva che ne origina e la retta dell’uguaglianza. Se il totale del reddito fosse nelle mani di un solo individuo, la curva coinciderebbe con le rette ONC11. L’area compresa tra la retta di eguaglianza e la retta di effettiva d. del r. è detta area di disuguaglianza. L’indice di Lorenz è il rapporto tra le due aree. In termini formali:
Tale indice assume valore 0 in caso di d. egualitaria (il numeratore è pari a 0), oppure uguale a 1 nel caso tutto il reddito sia detenuto da un unico individuo.
Parte dell’analisi economica si è concentrata sulla ripartizione del reddito tra classi omogenee di individui (➔ classe sociale). In generale, le teorie sulla d. del r. si basano su una stilizzazione delle classi sociali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri. Questi aggregati, definiti ceti sociali, avanzano richieste sulla ripartizione del prodotto netto, in base al differente modo in cui essi entrano in relazione con il processo produttivo.
Il potenziale conflitto tra queste pretese è un tema centrale tra gli economisti classici, cui si fa risalire una teoria sociale della d. del r. (D. Ricardo, K. Marx, J.M. Keynes, M. Kalecki, P. Sraffa, A. Quadrio Curzio). Questa teoria è basata sulla d. tra i ceti sociali del prodotto netto, ovvero della differenza tra produzione complessiva e mezzi di produzione impiegati. Ricardo teorizzò una relazione inversa tra il salario dei lavoratori e il saggio di profitto dei capitalisti, determinando un principio che induceva, necessariamente, i salari a tendere verso la sussistenza nel lungo periodo. La teoria ricardiana illustrava una legge naturale, e non presupponeva un necessario conflitto tra le classi sociali. La lotta tra classi fu, invece, centrale negli studi di Marx, il quale introdusse il concetto di ‘saggio di plusvalore’, ovvero una misura dello sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti. Ogni qualvolta il saggio di plusvalore si riduce, a opera di un incremento del salario unitario dei lavoratori, oltre i valori di sussistenza, i capitalisti trovano vantaggioso ridurre l’impiego di lavoro e aumentare la composizione organica del capitale, ovvero le macchine impiegate nel processo di produzione. Il risultato è un aumento della disoccupazione e un conseguente ritorno dei salari ai livelli di sussistenza. Negli anni 1960, Sraffa riprese l’analisi dell’antagonismo tra profitti e salari, individuando nel progresso tecnico un mezzo per lenire la rivalità tra i due fattori.
La teoria funzionale ha preso avvio alla fine del 19° sec., con lo sviluppo della scuola marginalistica. Secondo tale visione, i prezzi dei fattori di produzione sono determinati dalle interazioni tra domanda e offerta, che, a loro volta, dipendono dalle scelte degli individui che ricercano la massimizzazione della propria utilità. Quest’ottica consente di equiparare ogni singolo elemento che concorre al processo di produzione. Lavoro, capitale e terra sono intesi come semplici fattori produttivi, la cui remunerazione è determinata dalla loro disponibilità, dalla domanda loro associata e dalla loro produttività. Si ricordano a tal proposito i contributi di A. Marshall (➔) e J.G. Wicksell. La teoria delle forme di mercato, infine, intermedia le due teorie precedenti (➔ anche Sylos Labini, Paolo).