Reddito, distribuzione del
di Conchita D'Ambrosio e Edward N. Wolff
SOMMARIO: 1. Introduzione. ▭ 2. Le rappresentazioni della distribuzione del reddito. ▭ 3. La disuguaglianza del reddito: a) misure di concentrazione; b) il coefficiente di variazione; c) il coefficiente di Gini; d) l'indice di entropia di Theil e la deviazione logaritmica media; e) l'indice di Atkinson. ▭ 4. Evidenza empirica sulla disuguaglianza reddituale in Italia e in altri paesi dell'OCSE. ▭ 5. La povertà reddituale. ▭ 6. Evidenza empirica sulla povertà in Italia e in altri paesi dell'OCSE. ▭ Bibliografia.
1. Introduzione.
Il reddito è normalmente considerato un indicatore della posizione economica e del benessere individuali, e la distribuzione del reddito descrive quanto reddito viene ricevuto da ogni unità di analisi. Formalmente, una distribuzione del reddito consiste in un insieme di numeri, ciascuno dei quali rappresenta il reddito di ogni unità che compone l'economia. Supponiamo che la società sia composta da N unità, per i = 1, 2, …, N; in questo caso una distribuzione del reddito è il vettore (y1, y2, …, yN), dove yi è il reddito percepito dalla i-esima unità. A seconda del contesto, possiamo rivolgere il nostro interesse a differenti intervalli temporali - reddito corrente o reddito lungo tutto l'arco di vita - e a differenti unità di analisi - individui oppure nuclei familiari. Vista la presenza di economie di scala, il reddito dei nuclei familiari viene spesso confrontato per mezzo di scale di equivalenza. Una delle più diffuse è quella proposta da Brigitte Buhmann e altri (v., 1988): reddito equivalente = reddito familiare/numero dei componentiE, dove E è l'elasticità di equivalenza e varia tra 0 e 1. Quando E = 1 non c'è alcuna economia di scala, dal momento che il reddito equivalente coincide con il reddito pro capite; all'opposto, E = 0 comporta piene economie di scala, visto che nel calcolare il reddito equivalente non si opera alcun aggiustamento. Può anche essere rilevante conoscere non solo quanto le persone guadagnano, ovvero la distribuzione del reddito personale, ma anche il modo in cui il reddito viene distribuito tra fattori che concorrono alla sua produzione, ossia capitale e lavoro, ovvero la distribuzione funzionale del reddito. Quest'ultima descrive i rendimenti dei differenti fattori della produzione (come il lavoro, il capitale e la terra), a differenza della prima che descrive i flussi di reddito ai singoli o ai nuclei familiari. L'argomento di questo articolo sarà la distribuzione del reddito personale.
Nell'analisi della distribuzione del reddito è possibile rispondere a diverse domande: quali sono le caratteristiche rilevanti, dal punto di vista economico, della distribuzione del reddito? Quando una distribuzione è preferibile a un'altra? Quali sono gli effetti della distribuzione del reddito sulla crescita economica e, viceversa, in che modo la crescita influisce sulla distribuzione del reddito? Nelle pagine che seguono risponderemo alle prime due domande e analizzeremo l'evoluzione che ha avuto negli ultimi decenni la distribuzione del reddito in Italia e in altri paesi.
2. Le rappresentazioni della distribuzione del reddito.
Esistono vari strumenti per rappresentare la distribuzione del reddito: alcuni di questi sono specifici per l'argomento (la 'parata dei nani' di Pen e la curva di Lorenz); altri, invece, sono basilari strumenti statistici (la distribuzione di frequenza e la distribuzione cumulata di frequenza). La tab. I presenta i dati relativi al 1998 sul reddito disponibile dei nuclei familiari in due regioni italiane, Emilia-Romagna e Puglia, simili per numero di abitanti (circa 3,5 milioni). I dati rappresentano una sottosezione dell'Indagine sui Bilanci delle Famiglie Italiane (IBFI) della Banca d'Italia, la fonte più attendibile di dati statistici sul reddito italiano (v. Brandolini, 1999). Il metodo di campionamento dell'IBFI ne garantisce la rappresentatività a livello nazionale ma non regionale, e per questo motivo i dati qui presentati potrebbero non essere del tutto attendibili. Li utilizzeremo comunque per chiarire i concetti che introdurremo.
Una distribuzione di frequenza descrive la frequenza con cui le osservazioni relative a una specifica variabile rientrano in categorie preventivamente fissate di valori per quella variabile. Nel caso del reddito queste categorie sono intervalli o classi di reddito. Bisogna innanzitutto notare che le classi di reddito sono tutte definite in modo tale da escludersi l'un l'altra. Va inoltre ricordato che gli intervalli di reddito che definiscono ciascuna classe possono differire per ampiezza. Nel nostro esempio le distribuzioni sono definite su tredici classi di reddito: le prime dodici sono classi limitate, dal momento che c'è un confine specifico di reddito, mentre l'ultima è aperta verso l'alto, in quanto non viene specificato il limite superiore. La prima colonna della tab. I descrive la frequenza con la quale le osservazioni sul reddito, in percentuale del totale, cadono nelle classi predefinite. In Emilia-Romagna, ad esempio, il 5,4% del totale delle osservazioni ricade nella classe di reddito compresa tra i 20 e i 25 milioni. La colonna successiva mostra la frequenza cumulata percentuale, calcolata sommando la frequenza percentuale della specifica classe di reddito con quella delle classi inferiori. La frequenza cumulata percentuale descrive perciò la proporzione del campione che riceve un reddito uguale o inferiore alla classe di riferimento. Per esempio, il 9,4% della popolazione dell'Emilia-Romagna riceve un reddito inferiore ai 25 milioni. La terza colonna mostra la proporzione del reddito totale in relazione a ogni classe reddituale. In Emilia-Romagna, per esempio, il reddito delle famiglie appartenenti alla classe di reddito compresa tra i 20 e i 25 milioni è il 2,1% del reddito totale della regione. Le colonne successive contengono lo stesso tipo di dati relativi alla Puglia.
Possiamo presentare la funzione di densità di frequenza e la funzione cumulata di frequenza anche in forma grafica, come mostrato in fig. 1, A e B, in cui l'asse verticale rappresenta la percentuale della popolazione in ciascuna classe di reddito e l'asse orizzontale rappresenta il livello di reddito. La forma assunta dal grafico della fig. 1A è tipica delle distribuzioni del reddito: la maggior parte delle osservazioni si concentra nella parte sinistra del grafico, dove la distribuzione raggiunge la sua punta più alta; la parte della distribuzione compresa tra il reddito zero e il picco è detta 'coda inferiore', o 'sinistra', della distribuzione, mentre la parte destra, ovvero 'coda superiore' o 'destra', è più sottile e lunga di quella inferiore. La forma tipica della distribuzione è di norma asimmetrica o inclinata verso destra. Una distribuzione nella quale una coda è più lunga dell'altra è anche chiamata 'distribuzione asimmetrica', e la direzione dell'asimmetria è il lato in cui la coda è più lunga.
La funzione cumulata di frequenza per l'Emilia-Romagna e la Puglia è mostrata in fig. 1B.
Nel 1971 Jan Pen ha proposto un'interessante rappresentazione della distribuzione del reddito - nota come 'parata dei nani' - immaginando che ogni membro della popolazione abbia un'altezza proporzionale al reddito guadagnato e che tutta la popolazione sfili in ordine di altezza e con passo regolare nel corso di un'ora. Chi ha reddito medio sfilerà quando metà della parata sarà passata, e quanti passeranno negli ultimi minuti dell'ora sembreranno così alti che tutti quelli già passati a confronto appariranno nani (da qui il nome). Le 'parate dei nani' per l'Emilia-Romagna e la Puglia sono tracciate in fig. 1C, dove i redditi più elevati sono stati troncati alla soglia dei 200 milioni di lire.
La curva di Lorenz è lo strumento più diffuso per rappresentare la distribuzione del reddito. Tracciamo innanzitutto un quadrato. L'asse orizzontale rappresenta la percentuale cumulata delle famiglie (ordinate per reddito crescente) e l'asse verticale rappresenta la percentuale cumulata del reddito ricevuto da queste famiglie. La linea che congiunge gli angoli opposti del quadrato dal punto (0,0) al punto (1,1) è detta linea a 45°. Tutte le curve di Lorenz partono dal punto (0,0), in cui lo 0% della popolazione riceve lo 0% del reddito totale, e terminano nel punto (1,1), in cui il 100% della popolazione riceve il 100% del reddito. Le curve di Lorenz per l'Emilia-Romagna e la Puglia sono riportate nella fig. 1D.
3. La disuguaglianza del reddito.
Disuguaglianza del reddito significa disparità nel reddito. In una società composta da molti individui è difficile valutare le disparità e riuscire a ordinare diverse distribuzioni del reddito. È opportuno, in questo caso, costruire una misura di disuguaglianza, cioè "una regola che ci aiuti ad assegnare un grado di disuguaglianza a ciascuna possibile distribuzione delle risorse all'interno della popolazione. In altre parole, [un indice di disuguaglianza] assegna a ciascuna distribuzione un valore che può essere visto come la rappresentazione della disuguaglianza di quella specifica distribuzione" (v. Ray, 1998, pp. 177 e 178). Formalmente, un indice di disuguaglianza, I, è una funzione, definita su tutte le distribuzioni di reddito ammissibili: (y1, y2, …, yN): I = I (y1, y2, …, yN).
La gran parte degli studiosi ritiene che un indice di disuguaglianza non possa essere una qualsiasi funzione, ma debba soddisfare quattro proprietà (assiomi): il principio dell'anonimato, il principio della popolazione, il principio di invarianza di scala, detto anche del reddito relativo, e il principio di Pigou-Dalton.
In base al principio dell'anonimato, nella valutazione della disuguaglianza non importa chi riceve che cosa, e dunque la disuguaglianza non cambia se scambiamo i redditi guadagnati tra le persone. Formalmente, con la condizione di anonimato, la funzione I è completamente insensibile a qualsiasi permutazione della distribuzione del reddito (y1, y2, …, yN) tra i diversi individui. Questo principio consente di ordinare gli individui per reddito crescente senza che vada perduta alcuna informazione rilevante per la misurazione della disuguaglianza.
Il principio della popolazione afferma che la disuguaglianza non è sensibile a repliche della popolazione. Formalmente, I (y1, y2, …, yN) = I (y1, y2, …, yN; y1, y2, …, yN); la duplicazione di ciascuna unità di reddito non influisce sulla disuguaglianza. "Quindi, se prendiamo il minimo comune multiplo della popolazione di qualsiasi gruppo di distribuzioni del reddito, possiamo comunque trattare ciascuna distribuzione come se avesse effettivamente la stessa popolazione." (v. Ray, 1998, p. 178). Questo principio permette di considerare i soli valori percentuali della popolazione - come nella funzione di densità e cumulata di frequenza, nella parata dei nani e nella curva di Lorenz - poiché non è importante il numero assoluto degli individui.
Il principio del reddito relativo, ovvero l'invarianza di scala, implica che nella valutazione della disuguaglianza si dia peso soltanto ai livelli relativi di reddito e non ai livelli assoluti. Si richiede, in altre parole, che la misura di disuguaglianza non cambi in seguito a variazioni proporzionali dei redditi che non ne modifichino la distribuzione relativa. Formalmente, per ogni numero positivo λ, I (y1, y2, …, yN) = I (λy1, λy2, …, λyN). Questo principio consente di valutare le sole quote di reddito detenute da ciascuno e non i valori assoluti, come nella curva di Lorenz.
In ultimo, il principio di Pigou-Dalton afferma che ogniqualvolta si sottrae del reddito a un individuo povero per darlo a uno più ricco (e cioè si opera un trasferimento regressivo), la disuguaglianza aumenta. Formalmente, per ogni trasferimento δ 〉 0, I (y1, y2, …, yN) 〈 I (y1, …, yi - δ, …, yj + δ, …, yN), ogniqualvolta yi 〈 yj.
C'è una stretta connessione tra questi quattro assiomi e la curva di Lorenz. Se ciascuno riceve lo stesso reddito, la percentuale cumulata del reddito coincide con la percentuale cumulata dei percettori del reddito, e la curva di Lorenz, a sua volta, coincide con la linea a 45°, cioè la bisettrice. Se non c'è perfetta uguaglianza di reddito, la curva di Lorenz giace al disotto della bisettrice, perché il P% degli individui con il reddito più basso riceverà necessariamente meno del P% del reddito totale. D'altro canto, la distribuzione in cui tutto il reddito è detenuto da un solo individuo e tutti gli altri hanno reddito pari a zero sarà rappresentata da una curva di Lorenz che coincide con l'asse delle ascisse in [0, 100) e vale 100 in 100. Quindi, tanto maggiore è la disuguaglianza presente in una società tanto più la curva di Lorenz si allontana dalla bisettrice.
Ritorniamo alle distribuzioni del reddito di Emilia-Romagna e Puglia. Dalla fig. 1D è evidente che la curva di Lorenz della Puglia giace interamente al disotto di quella dell'Emilia-Romagna, e che quest'ultima è più vicina alla curva di Lorenz del caso di perfetta eguaglianza, ovvero la linea a 45°. Il reddito in Puglia risulta quindi distribuito in maniera più ineguale che in Emilia-Romagna.
Questo criterio, che consente di istituire paragoni in termini di disuguaglianza, è noto come 'criterio di Lorenz'. Un indice di disuguaglianza, I, è coerente col criterio di Lorenz se, per ogni coppia di distribuzioni (y1, y2, …, yN) e (x1, x2, …, xN), si ha che I (y1, y2, …, yN) ≥ I (x1, x2, …, xN) ogniqualvolta la curva di Lorenz di (y1, y2, …, yN) giace al di sotto di quella di (x1, x2, …, xN). Inoltre, un indice di disuguaglianza è coerente con l'ordinamento di Lorenz se e solo se è simultaneamente concorde con i principî di anonimato, popolazione, invarianza di scala e di Pigou-Dalton.
Questa è la forza della curva di Lorenz. Essa incorpora i principî di anonimato, popolazione e invarianza di scala in quanto si basa su quote relative di reddito e di popolazione. In aggiunta, un trasferimento di tipo regressivo determina uno spostamento della curva di Lorenz verso l'esterno. Il criterio di Pigou-Dalton afferma che in questo caso la disuguaglianza aumenta, e così anche il criterio di Lorenz. "Il criterio di Lorenz riflette il principio di Pigou-Dalton; in pratica i due criteri concordano" (v. Ray, 1998, p. 182). Inoltre, se una curva di Lorenz giace interamente al di sotto di un'altra, esiste una sequenza finita, non vuota, di trasferimenti regressivi che, se applicati alla prima delle due curve, la portano a coincidere con la seconda.
La rappresentazione grafica è uno strumento per ordinare in modo semplice e univoco la disuguaglianza nelle distribuzioni del reddito di due differenti paesi o dello stesso paese in due diversi istanti temporali quando le curve di Lorenz non si incrociano. Quando ciò non accade, ossia quando le curve di Lorenz si incrociano, il confronto grafico risulta ambiguo. Un esempio è riportato nella fig. 2. Prendiamo due punti sull'asse orizzontale, P1 e P2, e i punti corrispondenti sulle curve di Lorenz per le distribuzioni del reddito C e D. Nel punto P1, D1 è maggiore di C1: il P1% più povero delle famiglie detiene una quota maggiore di reddito nella distribuzione D piuttosto che nella C. Invece in corrispondenza del punto P2, C2 è maggiore di D2: il P2% più povero ha una porzione maggiore di reddito in C piuttosto che in D. Nella distribuzione C la classe di reddito più elevata detiene una quota del reddito totale minore che nella distribuzione D, ma anche la classe più disagiata riceve una porzione più piccola. In questo caso non c'è un modo diretto di confrontare il grado relativo di disuguaglianza delle due distribuzioni basandosi soltanto sul confronto delle curve di Lorenz. Il criterio di Lorenz non è quindi applicabile.
Quando le curve di Lorenz si incrociano possiamo ricavare un ordinamento completo delle distribuzioni del reddito tramite indici di disuguaglianza, ma in questo caso indici differenti, pur se tutti concordi con l'ordinamento di Lorenz, potrebbero fornire conclusioni discordanti.
Nella letteratura sull'argomento sono state proposte diverse misure della disuguaglianza (v. Sen e Foster, 1997). Nei paragrafi seguenti presenteremo quelle che vengono usate più comunemente.
a) Misure di concentrazione.
Il più semplice degli indici sintetici della disuguaglianza reddituale è la percentuale del reddito totale detenuta dagli individui più ricchi - normalmente il 20% all'apice della distribuzione del reddito (ossia l'ultimo quintile), o il 10% (decile), o il 5% o l'1% più ricco. Sotto l'ipotesi di perfetta uguaglianza ciascun individuo riceverebbe lo stesso reddito e ciascun percentile della distribuzione del reddito totale differirebbe dal precedente dell'1% (l'n-esimo percentile è quel livello di reddito tale che l'n% del campione ha un reddito minore o uguale a questo livello. Il 50-esimo percentile è detto 'mediana', in quanto è il livello di reddito nel mezzo della distribuzione. Metà del campione ha un reddito uguale o inferiore alla mediana. Il reddito mediano rappresenta il livello di benessere dell'individuo medio, o della famiglia media). Se c'è disuguaglianza, i percentili più alti ricevono una porzione maggiore del reddito totale rispetto ai percentili bassi.
Nonostante queste misure sintetiche siano molto pratiche e agevoli da calcolare, esse descrivono soltanto la parte superiore della distribuzione. I cambiamenti nella parte inferiore, come una ridistribuzione del reddito dalle classi medie alla classe più svantaggiata, non vengono rilevati. Per ovviare a questo inconveniente buona parte degli studiosi preferisce servirsi di misure sintetiche di disuguaglianza che riflettano l'intera distribuzione.
b) Il coefficiente di variazione.
Il coefficiente di variazione CV è definito come il rapporto tra la deviazione standard del reddito, SD, e il reddito medio ȳ:
La deviazione standard è già essa stessa una misura della dispersione del reddito. Essa viene divisa per il reddito medio per garantire che l'indice sintetico di disuguaglianza sia una misura relativa e, in particolare, permetta il paragone tra distribuzioni in differenti istanti di tempo e in differenti paesi. Si può dimostrare che la deviazione standard varia proporzionalmente a un comune fattore moltiplicativo dei prezzi. Come risultato, la sola inflazione dei prezzi farebbe aumentare il valore di quest'ultima. Dividendo SD per ȳ, la misura di disuguaglianza viene standardizzata e resa invariante rispetto a tali cambiamenti. Formalmente, CV non è sensibile a cambiamenti di scala e, inoltre, soddisfa tutti gli assiomi presentati in precedenza. Dunque CV è coerente con l'ordinamento di Lorenz.
Una critica mossa a quest'indice è che la media e la deviazione standard catturano soltanto due aspetti ('momenti') di una distribuzione. Se il reddito fosse distribuito secondo una distribuzione normale, questa informazione sarebbe sufficiente per descrivere una simile distribuzione in modo completo. In generale, però, ciò non accade in quanto le distribuzioni del reddito sono asimmetriche verso destra. Il momento terzo della distribuzione, ovvero la sua asimmetria, non viene catturato da CV.
CV è, inoltre, più sensibile a variazioni di reddito nella coda superiore della distribuzione che non a quelle che avvengono nella parte centrale o inferiore.
c) Il coefficiente di Gini.
Una delle misure più comunemente usate è il coefficiente di Gini, G - proposto da Corrado Gini nel 1912 -, che deriva direttamente dalla curva di Lorenz. Esso è proporzionale all'area tra la linea a 45° e la curva di Lorenz. G è coerente con l'ordinamento di Lorenz; quindi più una curva di Lorenz è lontana dalla linea a 45° e più il valore del coefficiente di Gini sarà elevato. Nei casi in cui le curve di Lorenz si incrociano, come nella fig. 2, il confronto dei rispettivi coefficienti di Gini permetterà di ordinare le distribuzioni in base al grado di disuguaglianza presente in esse. In una situazione di questo tipo, però, è dubbio il potere esplicativo dell'indice, nonostante esso fornisca un ordinamento non ambiguo. In particolare, se partiamo da un giudizio di valore che dà maggiore importanza al fatto che il povero abbia troppo poco e minore al fatto che il ricco abbia troppo, considereremmo la distribuzione del reddito C più ineguale della D, dal momento che il povero ha una percentuale del reddito totale minore in C piuttosto che in D. D'altro canto, se riteniamo più rilevante il fatto che il ricco detenga una quota troppo elevata del reddito totale, allora valuteremmo la distribuzione del reddito D più ineguale. Formalmente, il coefficiente di Gini ha la seguente espressione:
Nel caso di perfetta uguaglianza l'indice assume valore zero, mentre nel caso di completa diseguaglianza è pari a uno. Caratteristica importante del coefficiente di Gini è la maggiore sensibilità a trasferimenti di reddito che avvengono nel mezzo della distribuzione piuttosto che nelle code.
d) L'indice di entropia di Theil e la deviazione logaritmica media.
L'indice di disuguaglianza di Theil, T, è dato dalla formula:
La giustificazione intuitiva di quest'indice deriva dalla teoria dell'informazione. L'idea sottostante è che eventi non attesi abbiano un valore in termini di informazione maggiore di quello di eventi prevedibili. Se nella popolazione esiste una perfetta uguaglianza nel reddito, è facile prevedere il livello di reddito di un individuo scelto a caso: ogni informazione non avrà alcun valore e un messaggio sul livello di reddito non ha rilevanza in termini di informazione.
La derivazione formale è la seguente. Supponiamo di avere N eventi che si escludono vicendevolmente e che possono manifestarsi con probabilità πi, i = 1, …, N. In base alla teoria dell'informazione, se un certo evento è molto raro, allora il valore dell'informazione che indica che quell'evento è accaduto è molto rilevante; al contrario, il valore informativo di un evento molto comune è piuttosto basso. Se h(πi) è una funzione che assegna un valore in termini di informazione a ciascun evento, essa sarà decrescente in πi. Un'altra conseguenza di questa teoria è che se sappiamo che si sono manifestati due eventi indipendenti, i e j, il contenuto informativo del fenomeno deve essere la somma dei valori dei due distinti messaggi di informazione. Dal momento che la probabilità che i e j si manifestino assieme è πiπj, ne consegue che la funzione h deve essere tale per cui h(πiπj = h(πi) + h(πj). Una funzione che gode di questa proprietà ed è decrescente in πi è h(πi) = - ln(πi). Il contenuto atteso di informazione ('entropia' o 'disordine') del sistema nel suo complesso è dato dalla somma degli h(πi) ponderata per le rispettive probabilità, ovvero
Il valore massimo che questa funzione S può assumere è
nel caso in cui tutti gli eventi siano ugualmente probabili. Più è grande il 'disordine' presente (ossia più differiscono le probabilità), più S si allontana dal suo valore massimo. Una funzione che esprime questa relazione è l'indice di entropia E dato da:
Tanto maggiore sarà il disordine presente nel sistema, tanto più la funzione E assumerà valori elevati. L'analogia tra 'disordine' e disuguaglianza del reddito fornisce una giustificazione dell'uso di E come base per un indice di disuguaglianza. Infatti, la funzione T di Theil è esattamente equivalente a E se le probabilità vengono sostituite con le quote di reddito
è coerente con l'ordinamento di Lorenz, e inoltre è additivamente scomponibile nelle due componenti di disuguaglianza tra gruppi e disuguaglianza all'interno dei gruppi. Infatti:
dove Γ è il numero dei gruppi, Nj è il numero degli individui nel gruppo j, e ȳj è il reddito medio nel gruppo j. Il primo termine nella (4) è la somma ponderata degli indici di Theil per ciascun gruppo (cioè la somma ponderata della disuguaglianza all'interno dei gruppi), dove il peso di ciascun gruppo j è pari alla quota del reddito totale detenuta dal gruppo stesso. Il secondo termine rappresenta la disuguaglianza tra i diversi gruppi, calcolata con la formula di Theil, trattando ogni gruppo come fosse un singolo individuo. In linea con questa scomposizione, possiamo pensare che siano tre i fattori che influiscono sulla disuguaglianza: la proporzione di popolazione nei diversi gruppi; la disuguaglianza all'interno dei gruppi; la variazione delle medie dei vari gruppi attorno alla media generale dell'intera popolazione.
L'indice di Theil è più sensibile ai cambiamenti di reddito che avvengono nella coda inferiore della distribuzione.
Un altro indice additivamente scomponibile e coerente con il criterio di Lorenz è la deviazione logaritmica media (proposta da Theil), ovvero L:
scomponibile in modo esatto nelle componenti di disuguaglianza tra gruppi e disuguaglianza all'interno dei gruppi nel seguente modo:
Dal momento che Nj, N, ȳj, e ȳ cambiano al passare del tempo, la (6) può essere riscritta come:
dove t indica l'anno di riferimento. Nella (7) le componenti della disuguaglianza all'interno dei gruppi e tra i diversi gruppi sono state corrette per i cambiamenti dovuti alle variazioni del numero di unità. Quest'ultimo effetto verrà catturato da LP, la componente residuale.
e) L'indice di Atkinson.
Anthony Atkinson (v., 1970) ha sviluppato una famiglia di indici che introducono espliciti giudizi di valore nel campo della misurazione della disuguaglianza. Il suo indice assume la forma:
Atkinson nota che ogni misura di disuguaglianza implicitamente richiede dei giudizi di valore, e ritiene preferibile che questi vengano resi espliciti al momento di scegliere la misura di disuguaglianza da adottare. Un giudizio di valore implica che nell'analisi venga introdotta una specifica funzione di benessere sociale e, in particolare, richiede che venga specificato il grado di avversione alla disuguaglianza della società in questione, ovvero ε. Atkinson osserva che se togliessimo un euro a una persona ricca per darne una certa porzione x a una persona povera (la restante parte viene persa nel processo), la società si dovrebbe chiedere: "Per quale livello di x smettiamo di considerare questa ridistribuzione desiderabile?". Se tutto il reddito tolto all'individuo ricco viene dato al povero (cioè se x = 1), allora qualsiasi società che si preoccupa minimamente della disuguaglianza valuterà questa ridistribuzione come socialmente desiderabile. Se invece il povero riceve soltanto una piccola frazione dell'euro, allora solamente una società particolarmente attenta alla disuguaglianza considererà questo trasferimento come tale. Il valore di x è determinato in modo che la società sia indifferente tra il livello effettivo di disuguaglianza e una distribuzione nella quale ciascuno riceve il medesimo livello di reddito, ma il reddito medio è solo l'x% dell'effettivo reddito medio.
L'indice di Atkinson richiede di specificare il valore di ε, dove x = 1/2ε. La scelta di un valore elevato di ε (ossia di un valore basso di x) comporta un alto grado di avversione alla disuguaglianza. All'opposto, la scelta di un valore di ε relativamente basso descrive una società con un basso grado di avversione alla disuguaglianza e particolarmente attenta ai cambiamenti che avvengono nella parte alta della distribuzione del reddito.
Il vantaggio di questa misura è quello di rendere esplicito il giudizio di valore insito nella scelta della misura di disuguaglianza da adottare. È la stessa scelta di ε a determinare se la società è più avversa alla disparità reddituale a un estremo o all'altro della distribuzione.
Tuttavia, è molto difficile determinare il valore di ε (ossia il grado di avversione alla disuguaglianza) di una specifica società. Di conseguenza è necessario servirsi di differenti valori di ε per calcolare l'indice di Atkinson. Tale indice è molto sensibile al valore assunto da ε e, inoltre, differenti valori di ε producono spesso differenti andamenti nell'indice, e dunque differenti ordinamenti.
4. Evidenza empirica sulla disuguaglianza reddituale in Italia e in altri paesi dell'OCSE.
Una importante questione sociale su cui dibattono politici e opinione pubblica è se la disuguaglianza del reddito in Italia e in altri paesi sia aumentata o diminuita nel tempo.
L'evoluzione della disuguaglianza del reddito tra nuclei familiari in Italia nella seconda metà del XX secolo è stata studiata da Andrea Brandolini (v., 2000), il quale ha utilizzato come indice il coefficiente di Gini. Per la fine degli anni quaranta è disponibile solo una serie di rilevazioni dell'Istituto Doxa, mentre dal 1977 in poi i microdati di fonte IBFI consentono di costruire serie relativamente omogenee. Le rilevazioni per gli anni 1968-1972 non sono basate su microdati, ma su dati raggruppati per classi di reddito tratti dai bollettini ufficiali della IBFI. L'ultima serie utilizzata nello studio proviene, invece, da rilevazioni fiscali del Ministero delle Finanze, MF (v. fig. 3; per una descrizione dettagliata delle fonti dei dati e delle differenze nelle serie, v. Brandolini, 2000).
Dal confronto tra l'indice di Gini del 1948 e quello della fine degli anni sessanta non si nota alcuna variazione rilevante nella disuguaglianza dagli anni del 'miracolo economico', ma non siamo in grado di valutare adeguatamente la variazione avvenuta, dal momento che le osservazioni tra i due punti non sono disponibili. Al contrario, l'indice di disuguaglianza per tutti gli anni settanta, calcolato sui dati IBFI (al netto degli interessi da capitale finanziario e comprensivi delle rendite), registra un calo significativo. I quindici anni successivi possono dar luogo a una duplice interpretazione. Da una parte, il confronto della prima e dell'ultima rilevazione negli anni ottanta e novanta porta a concludere che la disuguaglianza ha oscillato intorno a un trend stabile; dall'altra, i movimenti ciclici della disuguaglianza reddituale suggeriscono che soltanto i primi anni ottanta sono la continuazione di quegli anni settanta segnati da una dinamica egualitaria; da quel momento in poi la disuguaglianza del reddito ha iniziato ad aumentare. Il coefficiente di Gini del 1998 ha lo stesso valore di quello del 1980. Massimo Baldini (v., 2002), riporta per l'anno 2000 una diminuzione nel coefficiente di Gini al livello del 1995. Brandolini (v., 2000) attribuisce in parte i cambiamenti registrati nella disuguaglianza alla dinamica dei differenziali salariali tra settori, qualifiche e lavoratori che si sono livellati fino ai primi anni ottanta, per poi ampliarsi. "Vi è nella storia italiana recente uno snodo cruciale. L"autunno caldo' […]. È in quel periodo che i dati a nostra disposizione indicano l'avvio della fase di rapida riduzione della disuguaglianza. […]. La scelta fortemente egualitaria, unitamente alla forza della classe operaia, contribuisce a spiegare la significativa riduzione dei differenziali retributivi e della dispersione dei redditi familiari negli anni settanta" (ibid., pp. 229-230).
Le figg. 4, 5 e 6, tratte dallo stesso lavoro di Brandolini, riportano alcune serie di dati sulla disuguaglianza misurata dall'indice di Gini per le distribuzioni del reddito rispettivamente degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Svezia. L'andamento della disuguaglianza del reddito in questi paesi ricalca parzialmente quanto rilevato per l'Italia: un declino negli anni settanta e una ripresa negli anni ottanta. Alcuni hanno ritenuto che questo andamento analogo avesse cause comuni, come la globalizzazione e la rivoluzione informatica, una valutazione criticata da Brandolini. Altri paesi, come ad esempio la Germania e il Canada, anche se investiti dalla globalizzazione e dalla rivoluzione informatica, non hanno sperimentato l'andamento della disuguaglianza a forma di U descritto in precedenza. Inoltre, l'incremento della disuguaglianza sperimentato da Stati Uniti, Regno Unito e Svezia non è identico. La Svezia ha la distribuzione più egualitaria, mentre il Regno Unito ha fatto registrare il maggior incremento nella dispersione dei redditi, raggiungendo negli ultimi anni livelli simili a quelli rilevati negli Stati Uniti.
Possiamo tracciare un quadro completo dei livelli di disuguaglianza nelle distribuzioni del reddito nei paesi facenti parte dell'OCSE basandoci sul questionario armonizzato dell'OCSE (v. Förster, 2000; i dati sono riportati nella tab. II). Alla metà degli anni novanta i paesi scandinavi e l'Austria mostrano il più basso valore di disuguaglianza, seguiti dall'Olanda. All'estremità opposta troviamo Messico e Turchia, che sono senza dubbio i paesi con la distribuzione più iniqua, con un indice di Gini rispettivamente di 0,562 e 0,491. Tra i paesi dell'Unione Europea i valori più elevati si registrano in Italia, Grecia, Irlanda e Regno Unito. Solo pochi paesi nell'ultimo decennio hanno sperimentato una riduzione nella disuguaglianza, mentre la maggior parte mostra valori costanti o un leggero aumento di essa. L'Italia, con la Turchia, costituisce un'eccezione, con un aumento nel coefficiente di Gini superiore al 12%.
In conclusione, l'Italia appartiene al gruppo dei paesi industrializzati con la distribuzione del reddito più diseguale. Nel nostro paese il periodo egualitario è terminato all'inizio degli anni ottanta, e da allora la disuguaglianza ha iniziato ad aumentare.
Esiste uno stretto legame tra le caratteristiche demografiche di una popolazione e la sua distribuzione del reddito. La struttura per età è un elemento rilevante, in quanto l'entità e la composizione del reddito variano durante il ciclo di vita dell'individuo. Inoltre, il reddito del nucleo familiare dipende dalla sua struttura in termini di numero, età, impiego e livello di istruzione dei suoi componenti. Un'analisi dell'impatto sulla disuguaglianza dei cambiamenti della struttura dei nuclei familiari in Italia dal 1977 al 1995 è stata condotta, tra gli altri, da Brandolini e D'Alessio (v., 2003). Questo lavoro analizza la distribuzione del reddito equivalente tra individui, dove i redditi equivalenti sono ottenuti dividendo il reddito familiare per la radice quadrata del numero di componenti, e dunque E = 0,5. La popolazione italiana tra il 1977 e il 1995 è aumentata di oltre il 2% (da 56 a 57,3 milioni) e la struttura delle famiglie è mutata in modo radicale. La quota di famiglie composte da un unico componente è raddoppiata, mentre la percentuale di famiglie con cinque o più componenti è diminuita. La dimensione media del nucleo familiare è diminuita da 3,2 a 2,8 componenti. Tra il 1977 e il 1995 il numero di nuclei con capofamiglia di sesso femminile è aumentato considerevolmente (da 12% a 28% del totale), così come l'età media del capofamiglia.
Usando la scomposizione della deviazione logaritmica media (eq. 6, dove l'anno di riferimento è il 1995) Brandolini e D'Alessio descrivono in che misura il livello di disuguaglianza totale possa essere attribuito alle distanze tra i gruppi di nuclei familiari (la componente intragruppo) e in che misura sia invece dovuto alle distanze all'interno dei gruppi (la componente infragruppo). I risultati mostrano che le influenze di natura demografica sulla disuguaglianza sono secondarie, in quanto sono in grado di spiegare solo una piccola parte del livello totale di disuguaglianza. Riportiamo qui in dettaglio i risultati di una delle scomposizioni per la sua importanza nel contesto italiano: la scomposizione per area geografica di residenza del nucleo familiare (v. tab. III). La differenza nel reddito medio tra il Nord, il Centro e il Sud Italia è tale da spiegare una parte consistente del livello generale di disuguaglianza, e l'importanza di queste differenze è cresciuta nel tempo (dall'8,2% nel 1977 al 12,3% nel 1995). D'altro canto i cambiamenti nelle frequenze relative - Nj/N nelle equazioni (6) e (7) - cioè l'effetto demografico, nonostante il differente tasso di crescita della popolazione nelle varie aree, sono praticamente nulli.
5. La povertà reddituale.
Per povertà si intende una situazione in cui è presente un inadeguato livello di reddito, e conseguentemente un basso livello di consumo e di benessere. La povertà quindi può essere misurata sia in termini di livello di reddito, sia in termini di spesa per consumi: quest'ultima è la strategia adottata in Italia dalla Commissione di Indagine sull'Esclusione Sociale e dall'ISTAT. Tuttavia, poiché qui ci occupiamo della distribuzione del reddito, analizzeremo esclusivamente la povertà reddituale.
A differenza della diseguaglianza, la povertà è determinata esclusivamente dalla coda inferiore della distribuzione del reddito. Per definire la classe dei poveri è necessario fissare uno standard su cui valutare il livello del reddito posseduto, cioè una linea di povertà. Conformemente a questa interpretazione, i poveri sono gli individui il cui reddito cade al disotto di tale linea. Il concetto di povertà non è però univoco. Esso può essere sia assoluto che relativo: è assoluto se si considera che, indipendentemente dalla società in cui si trova a vivere, ogni individuo ha bisogno di nutrirsi in modo adeguato; è relativo, invece, se si considera che un tenore di vita adeguato è una variabile che dipende anche dalla società in cui si vive. In Italia, per esempio, possedere un telefono può essere considerato socialmente necessario per vivere una vita all'altezza delle più modeste aspettative.
Il concetto di povertà assoluta presuppone che esista un minimo livello di reddito fissato che definisce la povertà indipendentemente dal tempo e dal luogo. Un esempio di tale soglia di povertà è il dollaro al giorno usato per misurare la povertà nei paesi in via di sviluppo (v. The World Bank, 2001), e la soglia di povertà ufficiale degli Stati Uniti, proposta da Mollie Orshansky nel 1965 e da allora aggiornata solo all'inflazione. Il concetto di povertà relativa, invece, valuta se gli individui posseggano o meno un livello di reddito adeguato in rapporto alla società in cui vivono. Un esempio di soglia di povertà relativa è quella adottata dall'Unione Europea come definizione operativa del Consiglio Europeo del 1984, ovvero il 60% del reddito mediano della distribuzione.
Indichiamo con z la soglia di povertà. In questo caso un individuo i verrà considerato povero se il suo reddito è al disotto della soglia di povertà, ossia yi 〈 z. Come nel caso della disuguaglianza, per la misurazione della povertà sono stati proposti numerosi indici. In questa sede presentiamo le misure più usate: l'indice di diffusione o incidenza, il coefficiente del divario di povertà e quello del divario di reddito.
L'indice di diffusione. - Un modo naturale per misurare la povertà è semplicemente quello di contare gli individui il cui reddito è al disotto della soglia di povertà. L'indice di diffusione, H, misura l'incidenza della povertà contando i poveri ed esprimendone il numero in percentuale della popolazione:
dove q è il numero di individui il cui reddito è al disotto della linea di povertà. Il problema di quest'indice è che tratta tutti i poveri nella stessa maniera. Esso, cioè, non cattura il grado di povertà, ovvero non descrive di quanto i redditi degli individui cadano al disotto della linea di povertà.
Il coefficiente del divario di povertà e quello del divario di reddito. - Per considerare il grado di povertà possiamo servirci di due misure alternative. Il coefficiente del divario di povertà, P, è una misura delle risorse necessarie per eliminare la povertà. Esso è definito come la quota del reddito medio necessaria per portare tutti i poveri alla soglia di povertà espressa come proporzione del reddito medio della società:
Nel 1999 l'importo assoluto di reddito necessario per sconfiggere la povertà in Italia era di 10.670 miliardi di lire (v. Brandolini, 2001).
Un indice alternativo è basato su una differente normalizzazione dell'ammanco necessario per portare tutti i poveri alla soglia di povertà. Nel coefficiente del divario di reddito, I, il deficit viene diviso per il reddito totale necessario a portare tutti i poveri alla soglia di povertà. I è dunque dato da:
Questo indice cattura l'intensità della povertà, dal momento che misura la povertà relativa rispetto al reddito totale necessario per sconfiggere questa povertà.
Tutti gli indici sopra presentati hanno una caratteristica in comune. Un trasferimento di reddito tra un individuo già povero e uno ancor più povero non modifica il loro valore. Sono stati proposti anche indici più complessi, che permettono di superare questo inconveniente (v. Sen, 1976; v. Foster e altri, 1984).
6. Evidenza empirica sulla povertà in Italia e in altri paesi dell'OCSE.
"All'inizio del nuovo secolo la povertà rimane un problema globale di proporzioni smisurate. Dei 6 miliardi di abitanti del pianeta, 2,8 miliardi vivono con meno di 2 dollari al giorno e 1,2 miliardi con meno di 1 dollaro al giorno. Ogni 100 bambini, 8 non arrivano a vedere il loro quinto compleanno; 9 bambini e 14 bambine ogni 100 al raggiungimento dell'età scolare non vanno a scuola. La povertà è altresì evidente nella mancanza di voce e potere politico delle persone povere e nella loro estrema vulnerabilità rispetto a problemi di salute, a disgrazia economica, a violenze alla persona, a disastri naturali. E il flagello dell'HIV/AIDS, la frequenza e la brutalità delle guerre civili, il divario crescente tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo hanno aumentato il senso di privazione e ingiustizia nei riguardi di molti" (v. The World Bank, http://www. worldbank/org/poverty/wdrpoverty/).
La tab. IV riporta i numeri assoluti e le frequenze relative delle persone che vivono in povertà assoluta là dove la soglia di povertà è fissata a un dollaro al giorno. Tra il 1987 e il 1998 la quota di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è passata dal 28% al 24%. Ma la crescita della popolazione sperimentata durante questo decennio ha fatto diminuire solo marginalmente il numero assoluto di persone che vivono in povertà. Inoltre, questa riduzione non è equamente distribuita tra le varie regioni. In alcune osserviamo addirittura un incremento delle quote, come nell'Europa orientale e nell'Asia centrale (dallo 0,2% nel 1987 al 5,1% nel 1998), nell'America Latina e nei Caraibi (dal 15,3% nel 1987 al 15,6% nel 1998). Se ci concentriamo sulle cifre assolute, a quest'ultimo gruppo dobbiamo aggiungere l'Asia del sud e l'Africa sub-sahariana.
L'evidenza empirica sulla povertà relativa in Italia e in altre nazioni dell'OCSE è presentata nella fig. 7 e nelle tabb. V e VI. L'evoluzione della povertà in Italia dal 1977 al 2000 è stata analizzata da Baldini (v., 2002), che fissa la soglia di povertà al 50% del reddito mediano e misura la povertà mediante l'indice di diffusione calcolato nella distribuzione del reddito equivalente, in linea con i microdati dell'IBFI. La scala di equivalenza applicata è quella usata per calcolare "l'indicatore della situazione economica" (per ulteriori approfondimenti, v. Baldini, 2002). L'evoluzione della povertà ricalca quella della disuguaglianza del reddito: l'indice di diffusione diminuisce fino ai primi anni ottanta e aumenta successivamente fino a raggiungere il suo valore più alto nel 1998. L'indice di diffusione, calcolato sui sottogruppi di individui in base all'età, mostra un fenomeno davvero interessante: gli individui di età inferiore ai 18 anni e superiore ai 65 anni sono più propensi a cadere al disotto della soglia di povertà rispetto alla popolazione totale nel 1977. Ma dalla metà degli anni ottanta in poi l'esperienza di questi sottogruppi più vulnerabili cambia radicalmente. Il numero relativo di anziani al di sotto della soglia di povertà diminuisce ed è inferiore al valore corrispondente per l'intera popolazione. La tab. V descrive la povertà in rapporto ad alcune caratteristiche demografiche. I valori sono calcolati estraendo e accorpando alcuni anni dell'indagine. In particolare, i dati mostrano che la probabilità di essere povero è aumentata per i residenti al Sud e nelle isole, e per le famiglie numerose.
I risultati per i paesi dell'OCSE sono presentati nella tab. VI. I dati e la scala di equivalenza sono identici a quelli usati nell'analisi della disuguaglianza riportata in precedenza. Vengono fissate differenti soglie di povertà - 40%, 50% e 60% del reddito mediano nazionale - per testare la diversa sensibilità degli indici. I risultati mostrano un'ampia stabilità nei tassi di povertà relativi: in media la povertà è rimasta pressappoco allo stesso livello nell'ultimo decennio, indipendentemente dalla soglia di povertà. In particolare in Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Ungheria e Stati Uniti l'indice di diffusione è diminuito in misura maggiore per le soglie più elevate. Finlandia e Francia hanno sperimentato invece il fenomeno opposto. In Grecia, Irlanda e Messico la povertà è diminuita se fissiamo la soglia di povertà al 40% del reddito mediano, negli altri casi è aumentata. In Turchia osserviamo il fenomeno opposto. In tutti gli altri paesi la povertà è aumentata, in modo particolare in Italia e nel Regno Unito. Dall'analisi dei valori dell'indice di diffusione, possiamo concludere che l'Italia è anche uno dei paesi dell'Unione Europea con il più alto livello di povertà.
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