Distrofia muscolare
Le distrofie muscolari sono un complesso eterogeneo di malattie geneticamente determinate, il cui difetto primario è localizzato nel muscolo scheletrico; sono caratterizzate dalla progressiva degenerazione e riduzione del numero delle fibre muscolari scheletriche e dalla loro sostituzione con tessuto connettivo fibroso. Dal punto di vista clinico, caratteristica di tali malattie è una progressiva debolezza muscolare che porta, nelle forme più gravi, alla perdita di deambulazione nel secondo decennio di vita. È importante distinguere le distrofie muscolari causate da un difetto primario del muscolo da quelle malattie di origine neurologica, infiammatoria, metabolica, ormonale o anche tumorale, in cui gli effetti sul muscolo sono solo secondari. Le ricerche di L.M. Kunkel e dei suoi collaboratori sulla distrofia muscolare di Duchenne, la più diffusa e la più grave tra le distrofie, hanno consentito, nel 1986, l’identificazione del gene e, successivamente, della proteina codificata, la distrofina. Grazie a questa scoperta e all’identificazione di altri geni sono stati fatti enormi progressi nella conoscenza degli eventi molecolari alla base della degenerazione della fibra muscolare, che hanno facilitato la comprensione e la diagnosi delle varie distrofie muscolari.
Con il termine distrofinopatie si indicano due tipi di distrofia muscolare che vengono causati dalla mutazione dello stesso gene, posto sul cromosoma X, quello che codifica appunto la distrofina. Si tratta della distrofia muscolare di Duchenne (DMD, Duchenne muscular dystrophy) e della sua forma allelica più lieve, la distrofia di Becker (BMD, Becker muscular dystrophy). Esse interessano più di due terzi dei soggetti malati di distrofia muscolare, colpiscono quasi esclusivamente i maschi e hanno un’incidenza sulla popolazione di un caso ogni 2500-4000 nati maschi. L’analisi della storia familiare evidenzia che circa un terzo dei casi è dovuto a nuove mutazioni del gene. Grazie alla diagnosi prenatale, l’incidenza della distrofia di Duchenne sta diminuendo nei paesi industrializzati.
Le prime descrizioni cliniche della distrofia di Duchenne risalgono al 1852 a opera dell’inglese E. Meryon e, successivamente, di un neurologo francese, G.B. Duchenne di Boulogne, dal quale la malattia prese appunto il nome. Nell’edizione del 1861 del suo libro sulla stimolazione elettrica del muscolo, Duchenne chiamò la malattia ‘paraplegia ipertrofica del bambino da cause cerebrali’. In seguito riuscì a stabilire che la malattia era primitivamente di natura muscolare e formulò i seguenti criteri per la diagnosi, tuttora validi: 1) debolezza muscolare, che si manifesta inizialmente negli arti inferiori; 2) lordosi e andatura anserina, cioè dondolante e a gambe allargate; 3) successiva ipertrofia di alcuni o di tutti i muscoli interessati; 4) decadimento progressivo della forza muscolare; 5) diminuzione progressiva della contrattilità muscolare indotta da stimolazione elettrica; 6) assenza di febbre, disturbi del sensorio, della vescicae dell’intestino.
Nel 1879, W.R. Gowers mise in evidenza il carattere ereditario della malattia e la probabile trasmissione materna. Inoltre, descrisse dettagliatamente le particolari modalità impiegate dal bambino malato per alzarsi da terra a partire da una posizione supina, chiamate appunto segno di Gowers: il bambino rotola su sé stesso per passare alla posizione prona, poi inizia a sollevarsi estendendo prima le gambe per aiutarsi, quindi con le braccia lungo le gambe per mettersi in posizione eretta.
P.E. Becker, nel 1953, descrisse una forma di distrofia (detta appunto distrofia di Becker) anch’essa legata al cromosoma X, caratterizzata da una età di inizio tardiva rispetto alla distrofia di Duchenne e da una più lenta progressione, ipotizzando che fosse una variante benigna della distrofia di Duchenne. Successivamente si vide che le due patologie sono forme alleliche, ovvero forme causate da mutazioni dello stesso gene.
I segni della distrofia di Duchenne sono già presenti alla nascita, come stanno a indicare gli elevati livelli sierici di creatinchinasi (CK, Creatine kinase), un enzima muscolare il cui aumento nel sangue è indice di lesione dei muscoli. Tuttavia, le prime evidenze cliniche di un interessamento muscolare compaiono più tardi. Di solito, fra il primo e il terzo anno di vita, i genitori si accorgono che il bambino ha un ritardo di sviluppo, corre male, fatica a salire le scale, cade facilmente e presenta un ingrossamento dei polpacci. Fra i 3 e i 5 anni l’andatura si fa anserina e lordotica e compare il segno di Gowers. A 5-6 anni diventano evidenti l’ipertrofia di vari muscoli della gamba e della coscia e la debolezza muscolare. I muscoli prossimali degli arti inferiori sembrano essere maggiormente colpiti rispetto ai muscoli distali e ai muscoli degli arti superiori. Peraltro, il minor interessamento dei muscoli degli arti superiori è più apparente che reale, dipendendo principalmente dal fatto che, in un bambino, è difficile eseguire un accurato esame della forza dei muscoli degli arti superiori. Fra i 6 e gli 11 anni la forza muscolare diminuisce progressivamente e quasi linearmente. Questo processo non è però generalizzato; infatti, per ragioni non completamente conosciute, vengono risparmiati alcuni gruppi muscolari, come lo sternocleidomastoideo e i muscoli extraoculari. La ragione della mancata degenerazione dei muscoli extraoculari viene, da taluni ricercatori, messa in relazione con il piccolo diametro delle fibre di questi muscoli e il conseguente minor stress meccanico per unità di area della membrana sarcolemmale. All’inizio del secondo decennio di vita, la debolezza muscolare è tale da costringere il paziente all’uso della carrozzella. Anche i muscoli degli arti superiori cominciano a dimostrare grave deficit motorio, per cui si possono compiere soltanto limitati movimenti dei muscoli del braccio e della mano. A causa della debolezza dei muscoli paravertebrali si manifesta una progressiva cifoscoliosi. A 8-9 anni esordisce anche la debolezza dei muscoli respiratori che progredisce con l’età, determinando un’ingravescente insufficienza respiratoria. Circa il 40% dei pazienti muore proprio per insufficienza respiratoria, indipendentemente dall’assenza o presenza di infezioni delle vie respiratorie. Il 10-40% dei pazienti muore per insufficienza cardiaca. L’età media al momento del decesso è di circa 20 anni.
La sintomatologia della distrofia di Becker è molto variabile; si osservano casi con sintomi di gravità intermedia rispetto alla distrofia di Duchenne e altri con una sintomatologia molto lieve, come, per es., presenza di mialgie, crampi muscolari, intolleranza all’esercizio, mioglobinuria e aumento asintomatico della creatinchinasi sierica. I sintomi iniziano a manifestarsi in media a 10 anni, e la perdita di deambulazione può avvenire a età molto variabili, fino a 78 anni, con una media intorno ai 48 anni.
Il cuore di solito è colpito nella distrofia di Duchenne. Tuttavia, il grado di alterazione del miocardio, per ragioni ancora in parte sconosciute, è di gran lunga minore rispetto a quello del muscolo scheletrico. Sono presenti fenomeni degenerativi nel miocardio atriale e ventricolare e nel tessuto di conduzione. Sono particolarmente colpite la regione posterobasale e la parete laterale del ventricolo sinistro. Dal punto di vista funzionale sono presenti disturbi della frequenza, del ritmo e della conduzione. Nel caso della distrofia di Becker sono state descritte alterazioni simili a quelle della distrofia di Duchenne. È da notare comunque che non esiste una relazione diretta fra il grado di interessamento del miocardio e quello dei muscoli scheletrici: una grave cardiomiopatia può essere, infatti, presente in soggetti con un grado di miopatia lieve.
In circa un terzo dei pazienti affetti da distrofia di Duchenne è stato dimostrato un coinvolgimento del sistema nervoso centrale che si manifesta principalmente con un ritardo mentale. Tale alterazione può essere presente precocemente, non è progressiva, non può essere attribuita al deficit motorio e non è correlata con lo stadio della malattia.
Per l’identificazione del gene della distrofia di Duchenne è stata impiegata per la prima volta una tecnica di genetica molecolare, chiamata genetica posizionale, utilizzata quando non si conosce la proteina prodotta dal gene alterato. Essa si basa sul fatto che è possibile individuare un gene identificandolo in un cromosoma, grazie all’uso di marcatori di DNA specifici per un determinato locus cromosomico. Nel caso della distrofia di Duchenne, era noto da molti anni che il gene responsabile si trova nel cromosoma X (dal momento che la malattia si eredita come tratto recessivo legato al sesso). Nel 1986, L.M. Kunkel e i suoi collaboratori hanno isolato alcuni frammenti di DNA in grado di ibridare la regione del braccio corto del cromosoma X, chiamata Xp21, alterata in alcuni pazienti con distrofia di Duchenne. La mancata ibridazione di questi frammenti ha permesso di identificare altri pazienti di distrofia di Duchenne con delezione. Inoltre, utilizzando uno di questi frammenti, i ricercatori hanno isolato un tratto particolarmente esteso di RNA trascritto e, mediante questo, un clone di DNA complementare (cDNA) che ha fornito la possibilità di mappare precisamente il gene nel cromosoma X. L’RNA messaggero corrispondente a questo cDNA codifica una proteina di circa 3000 aminoacidi e peso molecolare di 417 kDa (kilodalton) che è stata chiamata distrofina. Il gene della distrofina è stato successivamente caratterizzato in dettaglio. È il gene più grande che si conosca, risultando di 2,5 milioni di paia di basi; ha circa 80 introni (la parte non tradotta del gene), alcuni dei quali molto grandi, e 79 esoni. Le sue enormi dimensioni sembrano spiegare in parte la facilità con cui va incontro a mutazioni sia nell’uomo sia negli animali. Data la grandezza occorrono 15 ore per la sua trascrizione. Il gene ha numerosi promotori, cioè sequenze specifiche di DNA che dirigono l’inizio della trascrizione del gene. Questo fatto rende possibile la sintesi di isoforme differenti di distrofina nei diversi organi e tessuti. Non è stato ancora chiarito il significato funzionale delle isoforme della distrofina espresse in cellule non muscolari. La distrofina espressa nel muscolo scheletrico rappresenta solamente lo 0,001% di tutte le proteine muscolari, e tale bassissimo contenuto spiega perché solo l’impiego delle tecniche di genetica molecolare ha reso possibile la sua identificazione.
L’analisi della sequenza e studi biochimici hanno messo in evidenza che la distrofina è una lunga proteina filamentosa, formata da quattro distinti domini funzionali: 1) l’estremità aminoterminale lega i filamenti di actina del citoscheletro di membrana della fibra muscolare; 2) una lunga porzione centrale in cui sono ripetute numerose sequenze simili alla spectrina e in cui si trovano zone ricche di prolina, un aminoacido che attribuirebbe una certa flessibilità alla molecola; 3) un dominio ricco di cisteine; 4) l’estremità carbossiterminale. Studi di localizzazione mediante tecniche di immunofluorescenza al microscopio ottico e ultrastrutturali al microscopio elettronico hanno evidenziato che la distrofina è localizzata sulla faccia citoplasmica del sarcolemma in registro con la banda Z dei sarcomeri a formare, o contribuire a formare, strutture del citoscheletro cellulare, chiamate costameri. La distrofina non è tuttavia una proteina intrinseca di membrana; infatti, l’ancoraggio della proteina al sarcolemma avviene mediante una stretta interazione con un ben definito gruppo di proteine, sia intrinseche sia estrinseche. Queste proteine sono state distinte in tre famiglie: le sintrofine, i distroglicani e i sarcoglicani. Le sintrofine sono tre proteine (a, b1 e b2) associate al dominio carbossiterminale della distrofina, e con essa sono quindi situate sulla faccia intracellulare delle membrana cellulare. Non si conosce il ruolo funzionale delle sintrofine. Associata alle sintrofine si trova una proteina dotata di caratteristiche che la individuano come una forma più corta della distrofina e, per questa ragione, è stata chiamata distrobrevina. La sua funzione non è conosciuta e non appare particolarmente rilevante, dato che negli esperimenti di laboratorio il topo transgenico, in cui è stata bloccata selettivamente l’espressione della distrobrevina, è in apparenza normale. I distroglicani, a e b, sono proteine codificate da un unico gene localizzato nel cromosoma 3. Sono espresse ubiquitariamente in tutti i tessuti. L’a-distroglicano è localizzato sulla faccia esterna del sarcolemma, dove lega una proteina della matrice extracellulare presente nella membrana basale, la merosina. Il b-distroglicano è invece una proteina intrinseca del sarcolemma che lega con il suo dominio extracellulare l’a-distroglicano, mentre con il dominio citoplasmatico lega fortemente la distrofina nella regione ricca di cisteine. Il b-distroglicano rappresenta, in questo complesso, il collegamento tra le proteine extracellulari (merosina e proteine della matrice) e quelle intracellulari (distrofina e attraverso questa i filamenti di actina). La famiglia dei sarcoglicani è costituita da quattro proteine che sono state rispettivamente chiamate a, detta anche adalina, dal termine adhal che in arabo significa «muscolo», b, c e d. Le quattro subunità del complesso sono proteine intrinseche di membrana probabilmente associate al b-distroglicano, ma non interagenti direttamente con la distrofina. Si presume possano avere una funzione di stabilizzazione del complesso nel sarcolemma. È stata identificata un’altra proteina intrinseca di membrana, il sarcospano, che presenta analogie con la famiglia di proteine chiamate tetraspani, che in altre cellule sono coinvolte nella trasduzione di segnali extracellulari all’interno della cellula.
Lo studio delle mutazioni del gene della distrofina nella distrofia di Duchenne ha messo in evidenza che le mutazioni più frequenti sono delezioni e duplicazioni. La distrofia di Duchenne può essere la conseguenza anche di mutazioni puntiformi che portano a un precoce segnale di stop della trascrizione del gene. La differenza fondamentale fra la distrofia di Duchenne e la distrofia di Becker risiede nella circostanza che nella prima la distrofina è praticamente assente nella fibra muscolare; le eccezioni sono rappresentate da quelle delezioni che colpiscono il dominio aminoterminale o quello carbossiterminale della distrofina, dove sono localizzati i siti per l’interazione con l’actina o con il b-distroglicano. Nella distrofia di Becker, invece, c’è una riduzione della distrofina presente e la gravità della malattia è correlata con la quantità di distrofina residua. Variazioni in lunghezza della porzione centrale della distrofina, causate da delezioni del gene, non sembrano essere molto gravi. È stata infatti descritta, in un paziente con distrofia di Becker che presentava una sintomatologia lieve, una delezione che interessava una vasta porzione del dominio centrale con riduzione a metà della dimensione della molecola. Il gene codificante questa ‘mini-distrofina’ è uno dei geni candidati a essere usati per la terapia genica della distrofia di Duchenne. È stato suggerito che nella distrofia di Duchenne la delezione determini un’alterazione del registro di lettura dell’mRNA con una precoce comparsa di un codone di stop della traduzione. Questo comporta la sintesi di un peptide non funzionale o poco stabile che viene rapidamente degradato. Nel caso invece della distrofia di Becker la delezione non comporta l’alterazione del registro di lettura, per cui viene sintetizzata una proteina che è ancora funzionante, anche se più piccola della distrofina normale. Un’importante conseguenza dell’assenza della distrofina è costituita dalla riduzione, fino praticamente alla scomparsa, delle proteine associate alla distrofina, sintrofine, distroglicani e sarcoglicani, nel sarcolemma muscolare.
Varie ipotesi sono state formulate allo scopo di spiegare il processo degenerativo alla base della distrofia di Duchenne. Un fattore determinante sembra essere l’interazione della distrofina con le altre proteine del citoscheletro e con la matrice extracellulare. Come abbiamo visto, la distrofina con la sua estremità aminoterminale lega i filamenti di actina del citoscheletro di membrana della fibra muscolare. Attraverso il suo dominio ricco di cisteine la distrofina inoltre lega il b-distroglicano, il quale a sua volta mediante il suo dominio extracellulare è unito all’a-distroglicano. Quest’ultima proteina infine aggancia l’intero complesso a una proteina della membrana basale, la merosina, e tramite questa alla matrice extracellulare. Si ritiene, quindi, che la distrofina e le proteine a essa associate rappresentino una via attraverso cui le tensioni meccaniche che si generano nel sarcolemma durante i cicli di contrazione-rilasciamento siano scaricate sulla matrice extracellulare. In altri termini, la distrofina conferirebbe un’elevata resistenza meccanica al sarcolemma e impedirebbe la produzione di danni fisici della membrana durante l’attività muscolare. Nella distrofia muscolare di Duchenne, a causa della mancanza di distrofina, tali danneggiamenti sarebbero più frequenti e ripetuti. La rottura fisica della membrana determinerebbe l’ingresso incontrollato di ioni calcio nella fibra muscolare. L’aumento della concentrazione di calcio attiverebbe una serie di enzimi ad azione degradativa sia sulle proteine, come le proteasi neutre tipo calpaina, sia sui fosfolipidi di membrana, come la fosfolipasi A2. Questi fenomeni sono autoinnescanti e porterebbero alla necrosi del segmento della fibra muscolare interessata. L’avvio della rigenerazione del muscolo non è in grado di compensare il danno prodotto, e per questo si avrebbe la progressiva scomparsa delle fibre muscolari e la loro sostituzione con connettivo fibroso. Una seconda teoria suggerisce che la lesione del citoscheletro comporti un’alterazione dell’attività di proteine intrinseche di membrana a esso in qualche modo associate. È stato infatti riportato nel muscolo distrofico che canali ionici, la cui attività viene modulata dallo stiramento meccanico della membrana, sono funzionalmente alterati in quanto tendono a rimanere attivi troppo a lungo. Dal momento che questi canali sono permeabili al calcio, si produrrebbe a causa del loro cattivo funzionamento un aumento della concentrazione degli ioni calcio nel citoplasma, con le conseguenze che abbiamo sopra descritte.
L’identificazione dei geni, delle relative proteine e, in particolare, del ruolo funzionale da essi ricoperto ha costretto a rivedere le precedenti classificazioni, basate sulla sintomatologia clinica e sulle caratteristiche istopatologiche. La classificazione qui adottata è basata sull’ereditarietà delle distrofie muscolari distinguendole in quattro gruppi: 1) le distrofie legate al cromosoma X, che comprendono le distrofinopatie sopra descritte e la distrofia di Emery-Dreifuss; 2) le distrofie dei cingoli autosomiche dominanti; 3) le distrofie dei cingoli autosomiche recessive; 4) le distrofie congenite, autosomiche recessive (v. tab.).
La distrofia di Emery-Dreifuss, o miopatia scapoloperoneale, è una distrofia che ha un decorso benigno simile alla distrofia di Becker, ma che tuttavia presenta le seguenti caratteristiche distintive: 1) i primi sintomi di debolezza muscolare si manifestano verso i 4-5 anni; 2) i muscoli prossimali degli arti inferiori e superiori sembrano essere quelli maggiormente colpiti; 3) mancano segni evidenti di ipertrofia muscolare; 4) sono presenti contratture precoci a livello del gomito; 5) interessamento del miocardio. Il gene della distrofia di Emery-Dreifuss è localizzato in una regione del braccio lungo del cromosoma X, chiamata Xq27-28, e codifica una proteina della membrana nucleare, l’emerina, che sembra avere la funzione di agganciare il citoscheletro cellulare al nucleo. Nel cuore sembra presente anche nei dischi intercalari e questo potrebbe rendere conto dei problemi di conduzione osservati in questa distrofia.
Le distrofie dei cingoli sono distrofie muscolari molto eterogenee, ereditate con un tratto autosomico sia dominante (tipo 1) sia recessivo (tipo 2). Colpiscono infatti sia maschi sia femmine e interessano prevalentemente i muscoli del cingolo scapolare e pelvico. Per quanto tale patologia sia stata descritta già intorno alla metà del 19° secolo, il riconoscimento della distrofia dei cingoli come entità patologica indipendente da altre miopatie ha avuto alterne vicende. Dal punto di vista clinico, la distrofia dei cingoli presenta un quadro di gravità variabile con forme molto gravi, simili alla distrofia di Duchenne, e forme meno gravi che compaiono più tardivamente, con un decorso meno drammatico anche se progressivo. Sono anch’esse caratterizzate da elevati livelli ematici di creatinchinasi.
Le distrofie dei cingoli di tipo 1 di cui sono stati identificati i geni interessati sono quattro. Nella distrofia dei cingoli di tipo 1B, che vede nella maggior parte dei pazienti un importante interessamento cardiaco, sembra essere coinvolta la connessina 40, una proteina presente nelle giunzioni serrate che collegano tra loro le cellule cardiache. Nella distrofia di tipo 1C la proteina interessata è invece la caveolina-3, la forma muscolo-specifica delle caveoline, una famiglia di proteine che partecipano alla formazione delle caveole, invaginazioni della membrana cellulare presenti in molti tipi cellulari con funzione di trasmissione di segnali intercellulari. Le proteine coinvolte nelle distrofie dei cingoli di tipo 1A e 1D non sono state sinora identificate.
Le distrofie dei cingoli di tipo 2 sono ulteriormente distinte in due gruppi, sia per la diversa gravità e sia per le proteine coinvolte. Il carattere autosomico recessivo di queste distrofie è stato originariamente scoperto perché esse comparivano all’interno di comunità chiuse, nelle quali per tradizione è possibile l’unione tra consanguinei (cugini di primo o di secondo grado). Per es., la distrofia dei cingoli tipo 2A è stata identificata tra gli abitanti dell’Isola della Riunione e nel gruppo amish residente nel Nord dell’Indiana. Essa è dovuta a mutazioni del gene codificante la proteina calpaina-3, una proteasi. Non è facile capire in questa forma di distrofia quale meccanismo patogenetico sia avviato dalla mancanza di un’attività proteolitica. Anche per la distrofia dei cingoli di tipo 2B, che viene chiamata anche miopatia di Miyoshi e nella quale è mutato il gene della disferlina, proteina del reticolo sarcoplasmico capace di legare ioni calcio, non è stata identificata la base molecolare della distrofia. Delle distrofie tipo 2G e 2H è noto il gene ma non si conosce la proteina.
Le quattro distrofie 2C, 2D, 2E e 2F rappresentano le forme più gravi tra le distrofie dei cingoli e formano un gruppo a sé stante. Esse sono dovute a mutazioni dei quattro geni che codificano i sarcoglicani, e per questo sono chiamate sarcoglicanopatie. Mutazioni di uno dei geni provocano la riduzione o l’assenza della proteina corrispondente nella membrana sarcolemmale. È interessante notare che la mancanza di uno dei componenti, del complesso comporta la riduzione fino alla scomparsa anche degli altri componenti e che c’è un certo grado di correlazione fra l’entità della diminuzione del complesso e la gravità della malattia. Per quanto riguarda la patogenesi della lesione delle fibre muscolari nelle sarcoglicanopatie, devono essere tenuti in considerazione due dati importanti: 1) il complesso sarcoglicano sembra funzionare come un’unità integrata, dal momento che la mancanza di uno dei componenti nel sarcolemma determina la scomparsa anche degli altri tre; 2) nelle sarcoglicanopatie la distrofina e il distroglicano sono localizzati normalmente nel sarcolemma, per cui il legame fisico fra il citoscheletro cellulare e la matrice extracellulare è conservato. Per questo si ritiene che il sarcoglicano eserciti nella fibra muscolare una funzione importante, molto probabilmente diversa e indipendente da quella meccanica.
L’alterazione di tale funzione è di per sé sufficiente a provocare fenomeni degenerativi nella fibra muscolare. In base a ciò si ritiene che nelle distrofinopatie la necrosi sia dovuta all’alterazione di due vie biochimiche, mentre nelle sarcoglicanopatie una sola delle due sia interessata.
Le distrofie muscolari congenite sono malattie la cui sintomatologia si manifesta fin dalla nascita o nei primi mesi di vita. Tra queste si distingue la forma classica e quella detta di Fukuyama. Nella forma classica il gene alterato codifica la catena a2 della laminina, la merosina, proteina extracellulare che, come abbiamo visto, media l’interazione del complesso distrofina-proteine associate con la matrice extracellulare e rappresenta pertanto un punto importante di ancoraggio del citoscheletro di membrana della fibra muscolare alla membrana basale. La mancata espressione della merosina o l’espressione di una merosina alterata provoca di conseguenza una forma severa di distrofia muscolare. È stato riportato che in questa distrofia si ha anche un’alterazione dell’espressione e della localizzazione di un’altra proteina di adesione, l’integrina a7b1. È noto che le integrine non solo forniscono alle cellule un sistema di ancoraggio alla matrice extracellulare, ma funzionano anche come sistemi di generazione di secondi messaggeri e quindi sistemi importanti per il trofismo delle cellule. Non è possibile quindi escludere che l’alterata espressione dell’integrina nella distrofia congenita possa avere un importante ruolo patogenetico. Anche nella distrofia congenita descritta da Y. Fukuyama, nel 1960, sembra essere coinvolta una proteina della matrice extracellulare, la fukutina, di cui peraltro non si conosce ancora la funzione.
I pazienti della forma classica e di quella di Fukuyama manifestano debolezza muscolare e ipotonia molto precoci, che in alcuni casi sono evidenti fin dalla nascita. I livelli sierici di creatinchinasi sono tuttavia nella norma. Nella forma di Fukuyama il muscolo presenta un quadro istologico simile a quello della distrofia di Duchenne, ed è presente un ritardo mentale che trova conferma in un encefalogramma e un quadro istologico anormali.
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