personalità, disturbo della
Dopo aver affrontato il concetto di disturbo di personalità così come definito dall’Associazione americana di psichiatria e i criteri di classificazione e suddivisione dei diversi disturbi della personalità (comportamenti aberranti o eccentrici, disturbi caratterizzati da alta emotività, disturbi caratterizzati da elevata ansietà), vengono qui descritte le principali cause – ambientali e genetiche – in grado di favorire lo sviluppo dei disturbi di personalità. Assieme a esse sono descritti gli approcci metodologici (studi epidemiologici, psicologici, clinici e modelli sperimentali) funzionali all’identificazione dei fattori eziopatologici dei disturbi di personalità. Infine, vengono brevemente accennate alcune potenziali ricadute etiche nell’ambito della psichiatria forense. [➔ comportamenti compulsivi; gambling; impulsività; personalità; stereotipie] Il disturbo della p. è definito dall’Associazione americana di psichiatria (in sigla APA dall’ingl. American Psychiatric Association) e dal suo manuale di riferimento, il DSM IV-TR (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders, Text Revision; ➔ DSM), come «un insieme stabile e duraturo di attitudini mentali o comportamenti (pattern) che discostano marcatamente dalle aspettative della cultura cui l’individuo appartiene». La natura rigida e inflessibile del disturbo della p. ha conseguenze fortemente negative sul piano lavorativo e sociale laddove essa può comportare atteggiamenti inappropriati e, a volte, illegali. Tali conseguenze sono ulteriormente esacerbate dalla natura egosintonica dei sintomi, ossia dal fatto che le condotte devianti non sono percepite come tali dall’individuo, che, viceversa, le considera parti integranti del proprio ego e pertanto appropriate al contesto. Per completezza, va detto che, essendo un manuale soggetto a revisioni e integrazioni nel corso del tempo, la quinta versione del DSM, prevista per il 2012, potrebbe contenere modifiche alla presente definizione.
Oltre alla definizione data in precedenza, la diagnosi del disturbo della p. deve soddisfare determinati criteri, così definiti dal DSM IV-TR:
• il pattern si manifesta in due o più delle seguenti aree: esperienza cognitiva, affettiva (in partic. l’intensità e l’appropriatezza delle risposte emozionali), funzionamento interpersonale e controllo degli impulsi;
• i comportamenti devianti sono immodificabili e inflessibili, indipendentemente dal contesto sociale e personale in cui si manifestano;
• il pattern comporta sintomi clinici di sofferenza o conseguenze negative sul piano del funzionamento lavorativo o sociale;
• il pattern stabile e duraturo di comportamenti devianti ha solitamente origine durante la prima età adulta o la tarda adolescenza;
• il pattern non deve essere secondario ad altri disturbi psichiatrici;
• il pattern non deve dipendere dall’uso o abuso di farmaci o agenti psicotropi né da patologie cliniche.
Il DSM IV-TR definisce 10 disturbi della p. principali, e li distribuisce in tre gruppi (cluster) nosografici: gruppo A, bizzarro-eccentrico; gruppo B, drammatico-emotivo; gruppo C, ansioso-evitante.
Disturbi del gruppo bizzarro-eccentrico. Il gruppo A comprende il disturbo paranoide, quello schizoide e quello schizotipico. Il disturbo paranoide è caratterizzato da sospettosità eccessiva e irrazionale e da un diffuso senso di minaccia da parte degli altri. Il disturbo schizoide è invece caratterizzato da un disinteresse generalizzato per le relazioni interpersonali e da una gamma ristretta di espressioni emotive (si riscontra spesso l’assenza di interesse nei confronti della famiglia, delle relazioni sessuali e un generale distacco). Nel disturbo schizotipico il distacco dalla realtà e il disagio sociale sono accompagnati da distorsioni percettive e da credenze insolite assimilabili al pensiero magico o a superstizioni irrazionali. Inoltre il comportamento diventa progressivamente più eccentrico e le modalità di interazione sociale sempre più distanti dai canoni appropriati.
Disturbi del gruppo drammatico-emotivo. Il gruppo B comprende i disturbi borderline, istrionico, narcisistico e antisociale. Nel disturbo borderline, si osserva una marcata instabilità delle relazioni personali, dell’immagine di sé e dell’umore, a cui si accompagna spesso una notevole impulsività; esiste una notevole difficoltà nell’instaurare relazioni sociali stabili associata a sentimenti di idealizzazione o svalutazione del sé. Assieme a questi sintomi primari, si osserva una serie di comportamenti inappropriati come instabilità emotiva, abuso di sostanze psicotrope e altri comportamenti correlati a un’alterata regolazione degli impulsi. Il disturbo istrionico si caratterizza per la continua ricerca di attenzioni da parte degli altri per mezzo dell’espressione esagerata e manipolativa delle emozioni e dell’esibizione di un comportamento sessualizzato e seducente. Il disturbo narcisistico consiste in un atteggiamento generalizzato e pervasivo di grandiosità ed elevata autostima, di necessità di ammirazione incondizionata e mancanza di empatia, nonché in una mancanza di considerazione e rispetto dei diritti e delle emozioni altrui, motivata dalla certezza che tutto sia dovuto al paziente data l’importanza della sua persona. I soggetti affetti da disturbo antisociale, infine, mostrano sin dall’adolescenza un completo disinteresse e inosservanza delle leggi e dei diritti altrui, che tendono a infrangere regolarmente. Il disturbo antisociale tende a manifestarsi con assenze a scuola o dal lavoro, fughe da casa, menzogne, irresponsabilità, incapacità di sostenere impegni familiari o lavorativi e a lungo termine, aggressività (che può portare anche a commettere reati) e impulsività. È importante notare come questi atteggiamenti non siano quasi mai associati a sensi di colpa, e infatti la mancanza di rimorso è uno dei sintomi più frequentemente osservati in questo tipo di pazienti.
Disturbi del gruppo ansioso-evitante. Il gruppo C comprende il disturbo evitante, il disturbo dipendente e il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Il disturbo evitante è caratterizzato da timidezza esasperata, senso di inadeguatezza e ipersensibilità al giudizio altrui che si traduce in una ritrosia quasi completa nei confronti di attività sociali. In questo disturbo, le cui conseguenze affliggono il paziente in quanto ne pregiudicano la maggior parte delle attività che prevedano rapporti interpersonali o l’assunzione di rischi, è radicato un forte timore di essere umiliato e ridicolizzato per le proprie prestazioni in pubblico. Nel disturbo dipendente, il soggetto ha una forte tendenza a sottomettersi agli altri in quanto pressoché incapace di prendere autonomamente decisioni quotidiane; i pazienti dipendenti esprimono la necessità pervasiva di essere accuditi e temono oltremodo la separazione dalle figure di attaccamento principali. La natura gregaria dei pazienti affetti da disturbo dipendente fa sì che essi tendano a dar ragione agli altri anche nel caso in cui si trovino in disaccordo. Il disturbo ossessivo- compulsivo di personalità, infine, è caratterizzato da una ricerca esasperata della precisione, dell’ordine e del perfezionismo a scapito della flessibilità e dell’efficienza.
Come già discusso, i disturbi della p. sono fortemente dipendenti dal contesto in cui si manifestano. Questo è evidenziato anche dalla differente distribuzione dei disturbi della p. in nazioni diverse. In partic., da un punto di vista epidemiologico si stima come, mentre nelle civiltà industrializzate i soggetti afflitti da disturbi della p. variano tra il 5 e il 10% degli individui compresi tra i 18 e i 45 anni di età, tali percentuali si riducano drasticamente nelle società tribali o contadine. Ulteriori informazioni – riguardanti il ruolo giocato dall’ambiente nel manifestarsi di comportamenti devianti in individui particolarmente vulnerabili – derivano da esperimenti di psicologia. Due studi classici esemplificano l’influenza del contesto sullo scatenamento di tratti antisociali. In uno studio, condotto da Stanley Milgram nel 1961, è stata valutata l’importanza di chi impartisce un ordine sul livello di sottomissione di persone con tratti di personalità dipendente. Nello specifico, veniva richiesto al soggetto sperimentale – convinto di partecipare a uno studio sull’apprendimento – di somministrare scosse elettriche di intensità crescente a un ipotetico individuo (lo studente in fase di apprendimento), ogni qualvolta questi avesse sbagliato la risposta. Lo studio ha dimostrato come, se l’ordine di somministrare la scossa proveniva da una persona ritenuta estremamente autorevole (come un medico), tali scosse potevano raggiungere intensità superiori a quelle che avrebbero ucciso lo studente (un attore che fingeva di ricevere delle scosse elettriche). Un secondo studio, che ha portato a conclusioni analoghe, è divenuto famoso con il nome di prigionia di Stanford. Questo studio fu condotto da Philip Zimbardo nel 1971, presso l’Università di Stanford, al fine di studiare l’effetto di un contesto autoritario e deresponsabilizzante sulla deindividuazione personale in un gioco di ruolo. Parallelamente agli scopi originali, si osservò come la semplice possibilità di esercitare il potere, data a soggetti selezionati in modo casuale, fosse in grado di stimolare comportamenti antisociali senza associare a essi un qualsiasi senso di colpa. In partic., furono selezionati 24 soggetti di sesso maschile, ceto medio e senza apparenti inclinazioni verso comportamenti devianti. Alla metà di questi soggetti fu chiesto di interpretare il ruolo dei prigionieri, mentre all’altra metà fu impartito l’ordine di interpretare i carcerieri. Due giorni dopo l’inizio dell’esperimento, i ‘prigionieri’ iniziarono a mostrare comportamenti violenti nei confronti dei ‘secondini’ che, a loro volta, iniziarono a infliggere umiliazioni verbali e corporali ai primi. L’esperimento è stato interrotto al quinto giorno (in anticipo rispetto alla durata prevista), quando i ‘prigionieri’ hanno iniziato a mostrare seri segni di disgregazione, distacco dalla realtà, atteggiamenti dipendenti e seri disturbi emotivi. I ‘secondini’, viceversa, continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico senza mostrare alcun apparente senso di colpa. Va chiarito che gli studi appena descritti fanno riferimento all’induzione di comportamenti aberranti e non all’insorgenza di disturbi della p. che, come descritto in precedenza, caratterizzano in modo pervasivo il vissuto quotidiano dell’individuo. Tuttavia, con gli ovvi limiti di ogni studio sperimentale, questi lavori esemplificano il ruolo esercitato dall’ambiente nella modulazione di comportamenti devianti.
Nonostante il ruolo giocato dall’ambiente – sia nel facilitare l’insorgenza dei disturbi della p., sia nella definizione nosografica del disturbo stesso –, nella letteratura scientifica è ormai noto il ruolo giocato da variabili genetiche. Per quanto non si possa parlare di cause precise dell’insorgenza dei disturbi dell’umore, si ipotizza che alcuni fattori biologici possano accrescere o diminuire la vulnerabilità a fattori ambientali in grado di favorire lo sviluppo di tali patologie. Sono infatti noti, in letteratura, determinati geni in grado di aumentare la tendenza, per es., all’impulsività, alla ricerca di gratificazione e altri ancora. È necessario però chiarire come qui non si tratti di ‘geni del disturbo della p.’, quanto, piuttosto, di geni che possono favorire lo sviluppo di un determinato tratto personologico – da intendere come perfettamente all’interno della norma dei comportamenti esibiti dal gruppo di appartenenza – e che fattori ambientali, come violenze subite durante le fasi precoci dell’esistenza, abbandono, eventi particolarmente stressanti durante il corso dello sviluppo, possono accrescere, in tale profilo biologico, il rischio di sviluppare disturbi della personalità. Gli studi che permettono di identificare potenziali fattori genetici di predisposizione alla patologia e di spiegare come questi interagiscano con l’ambiente di sviluppo sono solitamente condotti su coppie di gemelli identici (monozigoti) o diversi (eterozigoti). Questi studi permettono, infatti, di analizzare se e quanto un tratto di personalità dipenda da geni condivisi, dall’ambiente in cui si è cresciuti, o sia piuttosto da ascrivere a una combinazione di questi due fattori. Un ulteriore ausilio all’identificazione delle cause biologiche alla base di disturbi della p. può essere fornito dagli studi condotti in laboratorio. Gli studi condotti su specie animali a sviluppo neurologico ridotto (per es. topi e ratti), infatti, permettono di scomporre fenomeni complessi nelle loro componenti fondamentali. Nel caso dei disturbi della p., la ricerca animale può permettere di isolare il gene o l’insieme di geni candidato a definire un determinato tratto di personalità oppure di modulare le influenze ambientali su quello stesso tratto. Uno degli approcci maggiormente utilizzati consiste nell’analizzare gli effetti di una determinata mutazione genetica (spontanea o indotta tramite ingegneria genetica) sul comportamento e sui suoi mediatori cerebrali; un altro approccio, invece, consiste nell’esporre i soggetti sperimentali (animali) a condizioni di crescita diverse (come gabbie arricchite da oggetti rispetto a gabbie prive di ogni oggetto) e analizzarne gli effetti. Questi approcci hanno portato, per es., all’identificazione di geni e neuromediatori in grado di favorire un’elevata impulsività. Altri studi hanno dimostrato come alcune condizioni ambientali siano in grado di ridurre, nei topi, la manifestazione di comportamenti aberranti, assimilabili ai comportamenti compulsivi nella nostra specie. Infine, una vasta letteratura si è occupata negli anni delle conseguenze dell’ambiente precoce, e in partic. degli effetti di stili diversi di comportamento materno sullo sviluppo dei meccanismi di difesa nei ratti. Così è stato evidenziato come essere allevati da una madre particolarmente premurosa sia associato allo sviluppo di risposte di difesa più appropriate all’ambiente circostante, rispetto all’essere allevati da madri particolarmente negligenti.
L’identificazione delle cause genetico-ambientali dei disturbi della p. può essere un importante ausilio nella ricerca di terapie innovative, ma pone anche seri quesiti da un punto di vista etico e medico- legale. Sebbene questo aspetto esuli dai nostri scopi, esso merita comunque una breve menzione. In partic., abbiamo accennato in precedenza al fatto che molti disturbi della p. hanno come risultato la manifestazione di comportamenti socialmente inappropriati e, spesso, criminali. La possibilità di identificare cause biologiche alle condotte devianti può, in ambito di psichiatria forense, porre quesiti rilevanti di ordine etico. Semplificando, sarebbe giusto condannare un imputato le cui azioni avessero come origine cause biologiche definite, fossero cioè scritte nel suo genoma? Da tempo la scienza si occupa delle ricadute legali di queste valutazioni (si veda per es. un dibattito su Nature del marzo 2010). Sebbene, come descritto in precedenza, non sia possibile attribuire a una singola variazione genetica un comportamento complesso come un furto, una condotta antisociale o l’abuso di droghe, studi futuri che integrino psichiatria, neuroscienze del comportamento, criminologia, bioetica e sociologia potranno fornire risposte esaustive a tali quesiti.