disunione
L’analisi del fallimento dell’esperienza repubblicana fiorentina, congiunta a quella delle ragioni della tragica sorte di una nazione «più stiava che li ebrei, più serva che’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» (Principe xxvi 3), ha portato M. a svolgere una lettura appassionata, e quindi non sempre rigorosa, della lezione degli antichi. Inerente alla vita pubblica della propria città e, in senso geograficamente e politicamente più ampio, al destino dell’Italia, il binomio d./unione attraversa tutta la sua opera – al pari di altri concetti antinomici analoghi più comunemente evocati (fortuna/virtù, guerra/pace, libertà/tirannia, amore/timore, mercenari/milizia ecc.) – con esempi emblematici tratti dall’antichità, ma anche da esperienze degli anni di cancelleria.
Convinto che a determinare il regime politico di una città o di uno Stato serva anzitutto un apparato ordinamentale in grado di gestire i rapporti di forza tra patrizi e plebei in epoca classica, ottimati e popolo in tempi moderni, M. esplicita in Principe ix 2 le basi di un equilibrio costituzionale risultante dal riscontro di inclinazioni o brame (umori e appetiti) contrastanti:
in ogni città si truovono questi dua umori diversi: e nasce, da questo, che il populo desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi e e’ grandi desiderano comandare e opprimere el populo; e da questi dua appetiti diversi nasce nelle città uno de’ tre effetti: o principato o libertà o licenza.
Nei Discorsi gli esempi di Sparta e Roma sono desunti da letture plutarchiane e polibiane; Polibio illustra nelle Storie VI x come le leggi promulgate da Licurgo impedirono che il ceto dirigente acquistasse «un’autorità superiore al giusto», affinché «lo Stato, a guisa di nave che resiste alle correnti, fosse conservato a lungo dal regolare equilibrio delle sue forze». Responsabilizzata dall’attiva partecipazione alla vita pubblica, la plebe allora «non avrebbe osato disprezzare l’autorità regia per timore della gerusia i cui membri, eletti per la loro virtù, sempre si sarebbero attenuti alla giustizia». Spettava in seguito a tale giustizia, nell’eventualità di conflitti dovuti a sbilanciamenti anzitutto sfavorevoli al popolo, sollecitare la mediazione di un senato ridotto, composto di ventotto anziani. Prendendo le distanze dal testo polibiano, M. asserisce che il merito principale dei monarchi spartani fu invece di aiutare il popolo a proteggersi dalla nobiltà:
il che faceva che la Plebe non temeva, e non desiderava imperio; e non avendo imperio, né temendo, era levata via la gara che la potesse avere con la Nobilità e la cagione de’ tumulti, e poterono vivere uniti lungo tempo (Discorsi I vi 15).
Inoltre, a garantire stabilità, contribuì essenzialmente il rifiuto di ogni ampliamento territoriale e demografico. A differenza di Sparta, Roma «non poteva, come lei, non crescere il numero de’ cittadini suoi, volendo fare un grande imperio» (Discorsi I vi 23). Smentendo per altro
la opinione di molti [ossia dei detrattori della repubblica romana, numerosi fra gli ottimati fiorentini; si veda in merito Sasso 1987, 1° vol., pp. 401-536] che dicono Roma essere stata una republica tumultuaria, e piena di tanta confusione che se la buona fortuna e la virtù militare non avesse sopperito a’ loro difetti, sarebbe stata inferiore a ogni altra republica (Discorsi I iv 2),
M. afferma, al contrario, che furono proprio la d. e i tumulti che ne conseguirono – non, quindi, la buona fortuna, né la forza delle armi in quanto tale – a garantire la plurisecolare potenza e indipendenza della città. E aggiunge che, a esaminare «bene il fine d’essi», tali tumulti non hanno «partorito alcuno esilio o violenza in disfavore del commune bene, ma leggi e ordini in beneficio della publica libertà» (iv 7). Presa di posizione «polemica e paradossale» (Inglese 2006, p. 119), ma al tempo stesso coerente e probante, come ricorda opportunamente Gennaro Sasso (1987):
Figlio di una città che sempre era stata dilaniata dalla lotta delle fazioni e che, proprio per questo, nella sua stessa interpretazione, era rimasta al di qua del traguardo al quale l’ingegno e la virtù dei suoi abitanti l’abilitavano, Machiavelli non poteva evitare quel problema. Non temeva (e forse anche amava) i paradossi; ma era un pensatore autentico: per sua e per nostra fortuna, non li contrappose mai alla serietà (1° vol., p. 116).
La tesi di M., «consapevolmente scandalosa» (Barbuto 2013, p. 163), fu contraddetta con colorita sagacia da Francesco Guicciardini: «meglio sarebbe stato se non vi fussino state le cagione della disunione; […] laudare la disunione è come laudare in uno infermo la infermità, per la bontà del remedio che gli è stato applicato» (Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, in Id., Scritti politici e ricordi, a cura di R. Palmarocchi, 1933, pp. 43-45). Nel caso della Repubblica romana non furono poi né deficienze militari, né repentini dissidi tra re, popolo e senato a rompere quell’equilibrio, bensì motivi economici, brama di lucro e prevalenza del bene privato su quello comune. Perciò, rileva Giorgio Cadoni (1994), anziché,
sotto il segno della corruzione, la decadenza delle repubbliche sembra così porsi sotto quello della fatalità, alla conquista, e al conseguente incremento della ricchezza, dal quale trasse origine il conflitto che insanguinò Roma, non essendo possibile rinunziare senza soccombere alla potenza altrui (p. 37).
Quando tuttavia la d. non è debitamente inquadrata da un adeguato sistema di ordini politici, essa diviene in M. oggetto di valutazione negativa. Tra i molti esempi in tal senso, c’è una replica di Fabrizio Colonna a Cosimo Rucellai che gli aveva chiesto quali valori o virtù simili a quelle antiche vorrebbe introdurre in epoca moderna. La risposta del condottiero è:
Onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, constringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sètte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare (Arte della guerra I 32-33).
Forse non proprio «facilmente», come si desume dalla lettera a Francesco Vettori del 10 agosto 1513, nella quale M. non nasconde il suo profondo scetticismo a proposito dello stato politico e militare dell’Italia contemporanea:
Quanto alla unione delli altri italiani, voi mi fate ridere: prima, perché non ci fia mai unione veruna a fare ben veruno; e se pure e’ fussino uniti e capi e’ non sono per bastare, sì per non ci essere armi che vagliono un quattrino, dagli spagnuoli in fuora, e quelli per essere pochi non possono essere bastanti; secondo, per non essere le code unite co’ capi; né prima moverà cotesta generazione un passo per qualche accidente che nasca, che si farà a gara a diventare loro (Lettere, p. 277).
Netta la differenza con gli svizzeri, sottolineata a conclusione della lettera del 26 agosto:
e quanto alle divisioni o disunioni che voi dite [ossia ipotetici dissidi in seno alle truppe svizzere], non pensate che le faccino effetto, in mentre che lo loro leggi si osserveranno, che sono per osservarle un pezzo; perché quivi non può essere, né surgere capi che abbino coda, e li capi senza coda si spengono presto e fanno poco effetto (Lettere, p. 290).
Nelle Istorie fiorentine, M. osserva che
se di niuna repubblica furono mai le divisioni notabili, di quella di Firenze sono notabilissime: perché la maggior parte delle altre repubbliche delle quali si ha qualche notizia sono state contente d’una divisione, con la quale, secondo gli accidenti, hanno ora accresciuta ora rovinata la città loro. […] Ma di Firenze in prima si divisono infra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti rimasa superiore, si divise in due: dalle quali divisioni ne nacquero tante morti, tanti esili, tante destruzioni di famiglie, quante mai ne nascessero in alcuna città della quale si abbia memoria (proemio §§ 6-8).
Ben espressiva di una linea storiografica risalente non tanto alla tradizione umanistica (cfr. Bausi 1998, p. 109) quanto alla cronachistica medievale e alla tradizione dantesca, la denuncia delle plurisecolari divisioni nate e tuttora nutrite da odi, lotte e ‘intelligenze’ (ossia, consorterie più o meno legali) viene ripresa, sulla falsariga di Discorsi I iv, nel capitolo liminare del libro VII delle Istorie, preludio all’esposizione della rivalità tra Neri Capponi e Cosimo de’ Medici:
Le inimicizie di Firenze furono sempre con sette, e perciò furono sempre dannose, né stette mai una setta vincitrice unita, se non tanto quanto la setta inimica era viva; ma come la vinta era spenta, non avendo quella che regnava più paura che la ritenesse, né ordine infra sé che la frenasse, la si ridivideva (i 12).
E nel guicciardiniano Dialogo del reggimento di Firenze Bernardo Del Nero addita, affinandolo, quel tratto caratteristico della mentalità politica fiorentina:
A Firenze li uomini amano naturalmente la equalità e però si accordano mal volentieri a avere e riconoscere altri per superiore; e inoltre e’ cervelli nostri hanno per sua proprietà lo essere appetitosi e inquieti, e questa seconda ragione fa che quelli pochi che hanno lo stato in mano sono discordi e disuniti, e per appetito di prevalere l’uno a l’altro tirano chi in qua chi in là, in modo che per difetto loro viene a indebolirsi tanto più la sua potenza (Dialogo..., a cura di G.M. Anselmi, C. Varotti, 1994, p. 42).
Tali discordie hanno fatto sì che la città non poté mai elevarsi alla condizione di Sparta o di Roma, né imporre la propria potenziale forza politica e culturale sulla penisola:
E senza dubio, se Firenze avesse avuto tanta felicità che, poi che la si liberò dallo Imperio, ella avesse preso forma di governo che l’avesse mantenuta unita, io non so quale republica, o moderna o antica, le fusse stata superiore, di tanta virtù d’arme e di industria sarebbe stata ripiena (Istorie, proemio § 11).
Alla Firenze reale, nota giustamente Anna Maria Cabrini (in Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, 1996, p. 351), «si contrappone la Firenze virtuale»; come, in prospettiva non dissimile, «limitée, littéraire, floue et sentimentale: un état d’âme» era la visione che M. si faceva dell’Italia (Bec 1985, p. 126).
Un ulteriore passo avanti compie la disamina delle conseguenze della dicotomia d./unione quando, al contesto spiccatamente politico, si congiungono considerazioni di natura polemologica e religiosa. Nell’orizzonte della politica estera, M. censura l’illusione di potere sfruttare le d. altrui; s’ingannarono i Veienti e gli Etruschi quando assaltarono i Romani, in un momento in cui la tensione fra plebe e nobiltà era alta: perché il loro assalto «fu cagione della unione [fra i Romani] e della rovina» degli aggressori; in epoca recente, il duca di Milano, Filippo Maria Visconti, «più volte mosse guerra a’ Fiorentini, fondatosi sopra le disunioni loro, e sempre ne rimase perdente», «perché la cagione della disunione delle repubbliche il più delle volte è l’ozio e la pace; la cagione della unione è la paura e la guerra» (Discorsi II xxv). Allo stesso modo M. respinge la ‘regola’ di tenere sottomesse le città conquistate alimentandone le ‘parti’, ossia le divisioni interne, e nel Principe osserva:
io non credo che le divisioni facessino mai bene alcuno: anzi è necessario, quando el nimico si accosta, che le città divise si perdino subito, perché sempre la parte più debole si aderirà alle forze esterne e l’altra non potrà reggere (xx 11).
Comprovano l’esito contrastante di tali illazioni la forza unitaria del regno ottomano («a chi assalta el Turco è necessario pensare di averlo a trovare tutto unito, e gli conviene sperare più nelle forze proprie che ne’ disordini di altri»: Principe iv 11), la permeabilità di quello francese («con facilità tu puoi entrarvi guadagnandoti alcuno barone del regno, perché sempre si truova de’ mali contenti e di quegli che desiderano innovare»: Principe iv 13), o ancora le vittoriose campagne militari di Cesare Borgia e l’affidamento al suo efferato luogotenente del controllo e della disciplina dei territori conquistati:
Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che correttoli, e dato loro materia di disunione, non d’unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia – iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer Rimirro de Orco, uomo crudele e espedito, al quale dette plenissima potestà [il quale] in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione (Principe vii 24-26).
«Cardini del vivere civile sono le leggi e gli ordini, e la stessa religione non è una manifestazione del foro interiore individuale, bensì un legame capace di rinsaldare la società organizzata», osserva Corrado Vivanti (2006, p. 318). La posizione machiavelliana rispetto all’impatto della religione sul destino dei popoli appare inequivocabile. Se nell’Asino, vv. 120-23 viene rivendicata l’utilità delle orazioni e delle devozioni «perché da quelle in ver par che si mieta / unione e buono ordine, e da quello / buona fortuna poi dipende e lieta», nel Principe e nei Discorsi l’opposizione tra l’azione unificatrice della «religione Gentile» nelle repubbliche antiche e le derive del cristianesimo emergono altrettanto lampanti: «se ne’ principi della republica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane più unite, più felici assai che non sono» (Discorsi I xii 12). In effetti l’ingerenza e la politica della Chiesa, procede l’autore, furono generatrici in Italia di d. interna e di fragilità politica sulla scena internazionale:
Non essendo adunque stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo, ma è stata sotto più principi e signori, de’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza che la si è condotta a essere stata preda, non solamente da’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta (xii 20).
Ricordata con altrettanta veemenza nelle Istorie – «Il quale modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi: il che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma» –, l’influenza nefasta della Chiesa si affianca alla biasimevole politica dei pontefici:
E vedrassi come i papi, prima con le censure, di poi con quelle e con le armi insieme, mescolate con le indulgenzie, erano terribili e venerandi; e come, per avere usato male l’uno e l’altro, l’uno hanno al tutto perduto, dell’altro stanno a discrezione d’altri (I ix 9-11).
Commenta inoltre Emanuele Cutinelli-Rendina (1998) che
è questa la regola della politica pontificia che era già stata fissata negli stessi identici termini nel dodicesimo capitolo del primo libro dei Discorsi, cogliendovi anche lì la maledizione della storia italiana (p. 297).
Tra i destini di Roma e di Firenze si delinea, nella visione machiavelliana, «un incolmabile abisso, perché l’una era, ai suoi occhi, la più perfetta delle città, l’altra soltanto un insigne esempio di incoerenza politica e costituzionale» (Sasso 1993, p. 489). Fu quindi del tutto naturalmente in riva all’Arno che i demoni, nel canto carnascialesco “Diavoli iscacciati di cielo”, vv. 5-7, presero «il governo / perché qui si dimostra / confusïon, dolor più che in inferno», e che per altro vi elesse domicilio l’arcidiavolo Belfagor; non solo «come quella che gli pareva più atta a sopportare chi con arte usurarie esercitassi i suoi danari» ma, come risulta da una prima stesura poi cassata, «che la fussi o di poca religione o di altri simili vitii ricolma» (Favola, § 6, in Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., 2013, pp. 221-22).
Strettamente legata alla ricerca di ordine civile e rispetto delle leggi, l’agognata unione fra cittadini rappresentava a Palazzo Vecchio un assillante motivo di preoccupazione, una «cosa più importantissima che nessuna altra perché di qui depende tutta e la salute e ruina della città», decretò Piero Popoleschi durante un’assemblea consultiva riunita il 28 luglio 1497 (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1495-1497, a cura di D. Fachard, 2002, p. 56), poche settimane prima dell’esecuzione di Bernardo Del Nero, assurto poi a figura letteraria nel Dialogo del reggimento di Firenze, protagonista «disperato che la città, che allora era ridotta in grandissima divisione e confusione, si potesse ridurre a uno governo bene ordinato» (Dialogo..., cit., p. 17). Nel corso di quella stessa consulta l’uomo di legge Domenico Bonsi si era rivolto ai suoi concittadini ricordando, tra alcuni precetti aristotelici fondamentali, che il bene supremo di uno Stato o di una città andava ottenuto tramite il rispetto delle leggi e la difesa del bene comune:
circa l’unione etc. non se ne può dire né fare tanto che sia poco, perché dove non è la concordia ogni cosa si disordina; e il latore della leggie non intende se none a unire e’ cittadini per mezzo della leggie, che è cagione della giustizia, e la giustizia della concordia e la concordia d’ogni prosperità, come etiam è sentenzia d’Aristotele nell’Etica (Consulte..., cit., 2002, p. 507).
Alla disunione dei fiorentini contribuì grandemente in quegli stessi mesi la predicazione di Girolamo Savonarola. Sul piano istituzionale: «Ma quel ch’a molti molto più non piacque / e vi fe’ disunir, fu quella scola / sott’el cu’ segno vostra città giacque» (Decennale I, vv. 154-56, in Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., 2013, pp. 26-27); all’interno delle famiglie, secondo la testimonianza di Iacopo Schiattesi:
frate Girolamo è valente uomo e ha buona dottrina, e di vita virtuosa; ma veduto che per la predicazione sua s’è divisa tutta la città, e le donne sono nimiche dal marito, e padre dal figliuolo, noi abbiamo tante fatiche che le ci sono troppo (Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, a cura di D. Fachard, 1° vol., 1993, p. 56);
o ancora sul piano strategico, quale occasione per quelli, secondo quanto espresso da Antonio Malegonnelle, che «non cercano altro se non in che modo nasca divisione nella città vostra, e cercano questo modo di fra Ieronimo» (p. 51). In seguito alla scomunica del frate lanciata da papa Alessandro VI, la Signoria iscrisse all’ordine del giorno della seduta del 5 luglio 1497 il seguente quesito: «che partito e modo sia da tenere di riunire e’ cittadini e fargli concordi». Sulle panche erano seduti i rappresentanti dei collegi e delle magistrature; anticipando il tema centrale del Discorso sopra Pisa e di Discorsi II iii, Antonio Strozzi e Guglielmo Altoviti fissarono il tono del dibattito con schemi ragionativi e sintassi dilemmatica di stampo machiavelliano:
occorre loro la unione de’ cittadini potersi fare in duo modi, o per amore o per forza; l’amore ci vede poco, e similmente poca disposizione a volersi unire e fare quello che si richiede a buoni cittadini. E per questo gli pare che sia d’adoperare la forza, cioè le leggi e le pene di quelle, acciò che chi non vuole per amore e ammonizione unirsi e fare el debito suo, la leggie e le Signorie vostre che sono sopra le leggie gliele faccino fare per forza, ché l’osservanza delle leggie e della giustizia è quella che può fare unire e’ cittadini (Consulte..., cit., 2002, p. 494).
Stefano Parenti e Giovanni Cambi denunciarono il volubile atteggiamento dei cittadini di fronte all’autorità giudiziaria: «e’ buoni s’uniscono per amore e bene della patria sua, e quegli che sono perniziosi e scandolosi s’uniscono per paura della pena delle leggie»; Francesco Gualterotti difese, a nome dei Dieci, i fondamenti stessi delle istituzioni, adducendo a pretesto che «questa disunione sia piuttosto nata da licenzia che per altra alterazione fatta nella città»; a nome degli ufficiali del Monte, Lorenzo Lenzi suggerì una variante semantica allegando che «siano piutosto dispareri che disunione», proponendo pure vie alternative elusive per «unire e’ cittadini, come sono parentadi e altri simili modi». In fine di riunione venne indotto alla Signoria di investigare le cause di tale piaga «o veramente deputare cittadini a fare questo effetto» (pp. 493-96).
Chiamata pochi giorni dopo, il 9 luglio, una nuova consulta «a fine che la città possa esser bene disposta e ordinata e d’accordo in tutte le sue azioni e occorrenze» prese in considerazione vari espedienti. Alcuni, in ottica penale, optavano per una relativa tolleranza: «bisogna li errori punirgli sempre con qualche misericordia, perché chi non punisce e’ delitti dà cagione multiplicarli»; altri invece prediligevano una severità finora non attuata:
che se fusse quella rigidità della giustizia che doverrebbe esser ne’ Magistrati, e massime ne’ primarii, che la unione crescerebbe; se non per amore, almeno per temenza delle leggi; chi ancora crede che etiam observandosi giustizia rimarebbono ancora gl’animi incrudeliti (pp. 497-98).
C’erano poi coloro che, affrontando l’argomento in chiave morale e religiosa, si auguravano che
essendo oggi el dì del Signore, Eccelsi Signori, è da sperare mediante la sua grazia qualche buono effetto delle proposte fatte; perché avendosi a parlare della pace e unione de’ cittadini, cosa veramente santa e approvata, s’acordano tutti questo consistere nella virtù e nella verità, ché quando si vive virtuosamente sempre la concordia crescie, e così contra vivendo viziosamente (p. 497).
Bernardo Rucellai ricorse con la solita facondia all’assai diffusa immagine della medicina:
come dalla concordia viene tutti e’ beni, così dalla discordia ogni male. E’ si vede la città non ha buono stomachio, perché el bene ella non lo vuole; e’ bisogna purgare questo stomaco e rettificarlo, che gli piaccia e’ buoni nutrimenti,
sollecitando la Signoria «e sera e mattino a porci ogni studio e diligenzia di unire e fare concordi e’ cittadini, ché opra più salutifera non può fare la Signoria vostra». Esortazione corroborata da Guidantonio Vespucci:
Uno de’ gran rimedii che far si potesse alla salute della città crede sarebbe ritornare nella sua pristina dignità, e questo si farebbe con l’unire e’ cittadini; e per questo conforta le Signorie vostre a studiare e’ cittadini deputati, che qualche sesto se ne caverà
e da Bernardo Del Nero («Questa è cosa necessaria assai, e però ne ho più parlato caldamente che dell’altre cose», pp. 502-07), e più tardi da Giovanni Mazzinghi: «a dire il vero, se la città non fusse divisa non saremo venuti nella calamità ci troviamo» (Consulte e pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, cit., p. 274).
Indicativa, già prima del governo soderiniano, della difficoltà «a volersi conservare la città», la pertinente e opportuna congiunzione di tre accorgimenti vagliata da Giovan Paolo Lotti sembra appartenere ormai all’ordine dell’utopia: «la prima, avere amici; seconda, unione di cittadini; terza, ordine del danaio» (Consulte..., cit., 2° vol., 1993, p. 561). La riluttanza dei cittadini a far fronte alle carenze finanziarie della città – «conoscono la città avere bisogno del danaio, e di buona somma; e non essendo vinto pel passato, stimano sia proceduto da disunione nella città», secondo la testimonianza di Simone Uguccioni (Consulte..., cit., 1° vol., 1993, p. 276) – sarà poi denunciata nelle Parole da dirle sopra la provvisione del danaio (§ 31), vera e propria «orazion picciola» (Divina commedia, Inferno XXVI 122) in cui il Segretario scuote con veemenza l’apatia dei concittadini esortandoli ad allargare i propri orizzonti, ad abbandonare una visione municipale del contesto politico, nonché a meditare sulla sorte di Costantinopoli e sulla maledizione dell’imperatore: «Andate a morire con cotesti danari, poiché voi non avete voluto vivere sanza essi». In secondo luogo, i tumulti e le dissensioni interne non sembrano ormai risanabili senza intervento divino; secondo le parole di Niccolò Guasconi: «e’ disordini si dicono sono verissimi, e procedono dalla poca fede ha l’uno cittadino con l’altro; e però confortò a pregare Idio che induca le menti di ciascuno a unione» (Consulte..., cit., 2° vol., 1993, p. 748). Quanto aleatorio fosse, infine, il primo provvedimento verrà confermato dalla tragica fine della Repubblica. Per cui, come a un principe «non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere d’averle» (Principe xviii 13), così alla Repubblica fiorentina era necessario, non potendo essere unita, almeno parere di esserlo. Nell’emergenza politica di quegli anni tale simulazione fu in genere ritenuta necessaria: ai confini toscani, raccomandò Guidantonio Vespucci,
per tòrre animo a Piero [de’ Medici] e a ogni altro inimico, che sia da fare ogni cosa per tòrre via la opinione che qui sia disunione, e per questo di potere malignare contro allo stato di questa Republica (Consulte..., cit., 1° vol., 1993, p. 73).
E oltralpe, per ravvivare la fragile e onerosa alleanza con Luigi XII. Sentendosi in effetti rimproverare dal segretario personale del re, Florimond Robertet, durante la sua prima legazione in Francia, che
questa Maestà non era per farvi, né per consentire che vi fussi fatta villania alcuna, se le Signorie non se la facevono da loro per essere disunite e avere nella città chi ama poco la libertà di quella,
M. esortò la Signoria a dissipare tale reputazione così nociva, per conferire al volubile, ma imprescindibile alleato l’immagine fallace di una città unita:
A che io replicai e facilmente iustificai questa parte della disunione, la quale è necessario al tutto tôrre della opinione di costoro, perché farebbe così mali effetti qui quando la si credessi, come costà quando re vera la vi fussi (LCSG, 1° t., lett. 301, §§ 27-28, p. 526).
Bibliografia: Edizioni critiche: F. Guicciardini, Considerazioni intorno ai Discorsi del Machiavelli, in Id., Scritti politici e ricordi, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1933; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1505-1512, a cura di D. Fachard, Genève 1988; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, a cura di D. Fachard, prefazione di G. Sasso, 2 voll., Genève 1993; F. Guicciardini, Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G.M. Anselmi, C. Varotti, Torino 1994; N. Machiavelli, Parole da dirle sopra la provvisione del danaio, fatto un poco di proemio e di scusa, in L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 443-52; N. Machiavelli, Legazioni. Commissarie. Scritti di governo, 1° t., 1498-1500, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2002; Consulte e Pratiche della Repubblica fiorentina, 1495-1497, a cura di D. Fachard, prefazione di G. Cadoni, Genève 2002; N. Machiavelli, Opere storiche, a cura di A. Montevecchi, C. Varotti, coordinamento di G.M. Anselmi, Roma 2010; N. Machiavelli, Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. Corsaro, P. Cosentino, E. Cutinelli-Rendina et al., coordinamento di F. Bausi, Roma 2013.
Per gli studi critici si vedano: G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli 1967; C. Bec, Machiavel, Paris 1985; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 67-118 (Machiavelli e Polibio. Costituzione, potenza, conquista) e pp. 401-536 (Machiavelli e i detrattori, antichi e nuovi, di Roma. Per l’interpretazione di Discorsi, I 4 ), e 2° vol., Milano-Napoli 1988, pp. 57-118 (Machiavelli, Cesare Borgia, don Micheletto e la questione della milizia), pp. 119-64 (Coerenza o incoerenza del settimo capitolo del Principe?), pp. 351-490 (Principato civile e tirannide); G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, Bologna 1993; G. Cadoni, Crisi della mediazione politica e conflitti sociali. Niccolò Machiavelli, Francesco Guicciardini e Donato Giannotti di fronte al tramonto della Florentina libertas, Roma 1994; Niccolò Machiavelli politico, storico, letterato, Atti del Convegno, Losanna 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996 (in partic. M. Martelli, Machiavelli e Firenze dalla repubblica al principato, pp. 15-31; C. Vasoli, Machiavelli e la filosofia degli antichi, pp. 37-62; A.M. Cabrini, L’idea di Firenze dal primo Decennale alle Istorie, pp. 337-61); F. Bausi, Machiavelli e la tradizione culturale toscana, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 1997, Roma 1998, pp. 81-115; E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Pisa-Roma 1998; G. Inglese, Per Machiavelli, Roma 2006; C. Vivanti, La riflessione storica di Machiavelli ante res perditas, in Machiavelli senza i Medici. Scrittura del potere. Potere della scrittura, Atti del Convegno, Losanna 2004, a cura di J.-J. Marchand, Roma 2006, pp. 303-18; G.M. Barbuto, Machiavelli, Roma 2013.