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dittare

di Bruno Basile - Enciclopedia Dantesca (1970)
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dittare

Bruno Basile

Il verbo (dal latino dictare [frequentativo di dicere], propriamente " dire ripetutamente perché sia scritto " e, per estensione, " parlare ", " dire ", " prescrivere ") compare tre volte, sempre in passi particolarmente significativi e discussi dalla critica per il valore linguistico e per quello storico-letterario.

In Pg XIV 12 per carità ne consola e ne ditta / onde vieni e chi se', il verbo significa semplicemente " dire ", come già notava il Buti (" e ne ditta, cioè dì a noi "), secondo un uso non estraneo alla lingua antica di cui troviamo vestigia anche in Petrarca (Rime CXXVII 6 " mi lascia in dubbio sì confuso ditta ").

In Pg XXIV 54 I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando, nel contesto sottilmente figurato che vede l'enunciazione del manifesto poetico dello stilnovismo dantesco, il ditta dà luogo a due possibili interpretazioni: che il verbo significhi " dire ", " parlare ", " prescrivere " (Scartazzini-Vandelli, Mattalia), oppure " dettare " (Sapegno, Porena, Bosco, Roncaglia). Benché concettualmente assai vicine (in esse si perpetua la tradizionale ambivalenza del verbo latino), alla prima ipotesi, pur fondata su basi di pregio (cfr. Pg XIV 12 citato, Vn XXIV 3 queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua d'Amore, e 4 parve che Amore mi parlasse nel cuore), sembra preferibile la seconda, che, meno generica nel puntualizzare il " dettato d'Amore " (Roncaglia), presenta un D. scriba Amoris; secondo una metafora avvalorata dalle parole di Bonagiunta al poeta (Pg XXIV 58-59 Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette), parole che non a caso trovano un centro emblematico nelle penne e nel dittatore. L'esegesi del passo suonerebbe pertanto: " Io sono uno, fra gli altri, che, quando Amore mi parla, prendo nota delle sue parole, e quindi mi sforzo di esprimere quello che egli mi detta dentro con assoluta fedeltà " (Sapegno). Per le fonti del ‛ dittare ' dantesco, oltre a possibili reminiscenze di scrittori classici e medievali, per cui è arduo stabilire la certezza di una lettura da parte di D. (oltre Ovidio, il Roncaglia ha proposto luoghi di Tertulliano, Ennodio, Notkero il Balbo), va ricordato, per consonanza concettuale, G. Cavalcanti Di vil matera 16, ove leggiamo " Amore à fabricato ciò ch'io limo " e, per più sottile rispondenza linguistica e spirituale, Riccardo da San Vittore Tractatus de gradibus charitatis (Migne, Patrol. Lat. CXCVI 1195), messo in luce dal Casella, ove si afferma: " Quomodo enim de amore loquetur homo qui non amat, qui vim non sentit amoris? De aliis nempe copiosa in libris occurrit materia; huius vero aut tota intus est, aut nusquam, quia non ab exterioribus ad interiora suavitatis suae secreta transponit, sed ab interioribus ad exteriora transmittit. Solus proinde de ea digne loquitur qui secundum quod cor dictat verba componit ".

In Vn XX 3 2 Amor e' l cor gentil sono una cosa, / sì come il saggio in suo dittare pone, all'interno di un verso di esegesi non controversa (" come scrive il saggio [G. Guinizzelli] nella sua poesia [Al cor gentile rempaira sempre Amore] "), d. assume la funzione di sostantivo, divenendo sinonimo di dictamen, e significando quindi " ciò che si scrive con arte sia in prosa che in poesia " e, con lieve trapasso dantesco, " componimento poetico ". Per un simile uso, invero raro, del d. sostantivo, esiste un esempio affine in Meo Abbracciavacca (Rimatori Pistoiesi, ediz. Zaccagnini, Pistoia 1907, 46): " Seneca lo disse in suo dittare ", che potrebbe testimoniare una derivazione del sostantivo attraverso un uso assoluto dell'infinito del verbo, quale leggiamo in G. Villani (VIII 10): " ser Brunetto ... fu sommo maestro in rettorica, tanto in bene saper dire come in bene dittare ". Infine dittata ricorre come variante di ditratta, in Rime dubbie XII 14 (cfr. Contini, ad l.). v. ARS DICTAMINIS.

Bibl. - G.A. Cesareo, Amor mi spira, in Miscellanea Graf, Bergamo 1903 (poi in Studi e ricerche sulla letteratura italiana, Palermo 1929, 145-163); N. Sapegno, Dolce stil novo, in " La Cultura " I (1930) 331-341; M. Casella, in " Studi d. " XVIII (1934) 105-126; U. Bosco, Il nuovo stile della poesia dugentesca secondo D., in Medioevo e Rinascimento. Miscellanea B. Nardi, I, Firenze 1955, 79-101 (rist. in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 29-54); S. Pellegrini, Quando Amor mi spira, in Saggi di filologia italiana, Bari 1962, 113-124; A. Roncaglia, Ritorno e rettifiche alla tesi vossleriana sui fondamenti filosofici del dolce stil novo, in " Beiträge zur Romanischen Philologie " IV 2 (1965) 113-123.

Vocabolario
ditta
ditta s. f. [variante di detta, part. pass. femm. di dire; propr. (nel sign. 1) «casa commerciale detta, chiamata ...»]. – 1. La denominazione di un’impresa commerciale o di un’azienda, che può essere formata dal solo nome dell’imprenditore...
dìttio-
dittio- dìttio-. – Variante assimilata di dictio-, che può trovarsi nei composti dittiosoma, dittiospora, dittiostele, per i quali v. dictiosoma, dictiospora, dictiostele.
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