dittologia
L'uso frequente di esprimere dei concetti per mezzo di coppie di sinonimi o di vocaboli i cui significati s'integrano proviene a D. da uno stilema diffuso nelle letterature romanze, una specie di iterazione sinonimica, che non trova però riscontro nella trattatistica antica e medievale. Infatti la synonymia, intesa da Quintiliano (IX III 45), e quindi da Marziano Capella (41 535) e da Isidoro (II XXI 6), come la ripetizione del medesimo concetto con vocaboli di significato simile, non prevede la connessione di due vocaboli mediante la congiunzione, e contempla piuttosto l'accumulazione (congeries) di più vocaboli distinti dall'asindeto. In D. è rara la congeries dei sinonimi, mentre ricorre spesso, sia in prosa che in versi, la d., con cui indichiamo appunto la congiunzione di due vocaboli simili nel significato o complementari. Si tratta pur sempre di una tecnica riguardante l'amplificazione, ma generalmente l'esigenza di servirsi di tale schema per precisare un concetto ricco d'implicazioni (donde il costituirsi di vere e proprie formule), o per dar vigore a un vocabolo che altrimenti apparirebbe troppo trito, sostenendolo con un altro più prezioso, supera in D. il fine meramente retorico di attuare la " copia verborum ".
Nella prosa del Convivio, dove la d. entra come elemento importante non solo per la stessa natura didattica del discorso, ma per l'esigenza d'irrobustire il periodo, s'incontrano coppie sinonimiche con una funzione puramente ornamentale. Si veda IV I , dove si susseguono a breve distanza congiunge e unisce (§ 1), abominava e dispregiava, infamia o vituperio (§ 5), dannoso e pericoloso (§ 6); e IV IV, in cui s'incontrano con la medesima frequenza rette e regolate (§ 5), sinonimi anche etimologicamente vicini, vigore e autoritade, maiestade e autoritade (§ 7), cui si può aggiungere vicenda... e fratellanza (§ 3), una d. in cui i due termini apparentemente distanti sono assunti nel medesimo significato di ‛ scambio '. Sinonimi, che danno quindi luogo a ridondanze, sono i termini di dittologie come le seguenti: mondissimo e purissimo (IV V 5), dispetto e vituperio (VII 9), difettivo e insufficiente (XII 1), danno e recano sete (§ 5), astratta e assoluta (XXI 8). Altre volte il legame dei due sinonimi nella d. risente di una maggiore ricercatezza, quando essi sembrano richiamati dalla lontana origine comune, come in cattivo e discacciato (II XII 3; cfr. ‛ cacciare ', ‛ captivare '), o viceversa dal gusto di accostare vocaboli equivalenti che hanno una diversa area d'origine: baldezza e onore (IV V 5), baiuli e tutori (§ 11), bandeggiato e cacciato (§ 15), saziamento e bastanza (XII 5). Il più delle volte la d. è costruita con due vocaboli che si equivalgono, piuttosto che essere dei veri sinonimi, e il cui rapporto è mediato da un discorso che rimane sottinteso, ma che proprio quell'accostamento richiama alla memoria. A parte l'insistenza su dittologie come allegorica e vera (II XII 1), fittizia e letterale (XV 2), che presuppongono il principio interpretativo che è al fondo del trattato, e che sono ormai delle formule, vili... ed imperfette (IV Le dolci rime 56) richiama l'identificazione fra ‛ nobiltà ' e ‛ perfezione ' (cfr. nobile e beata, Vn XXIII 8; cara ancella e pura, Rime CVI 39), temperata e forte (v. 129) allude al fondamento etico della fortezza, maestro e duca (IV VI 8; cfr. additatore e conduttore, § 16) designa la funzione del maestro come simbolica ‛ guida ', che sarà alla base del concepimento della Commedia. Talora i due termini rappresentano propriamente due momenti successivi o concomitanti di una medesima operazione: aprire e mostrare (I VIII 1), argomentando e disputando (IV II 13; così nella Vita Nuova, in relazione al medesimo concetto, solvere e dichiarare, XII 17). Regola e freno (IV XVII 4) designano due aspetti diversi, ma in sostanza concomitanti e identificabili, della temperanza; allo stesso modo in Rime CVI 84 ha raunato e stretto sintetizza il concetto di avarizia, richiamando insieme i due aspetti della trattazione aristotelica di tale vizio, l'avidità nel raccogliere e la grettezza nello spendere, e illuminandone l'analogia. In si veste e vela (Pd III 99) i due termini si completano a vicenda essendo l'uno troppo generico e l'altro parziale ma specifico (simile era il rapporto interno della d. in cinta e ornata, Vn II 3), e nondimeno per l'accostamento è stata certo determinante la paronomasia.
Nella Vita Nuova, nelle Rime e nella Commedia la d. ha la funzione d'insistere sui concetti tipici della tradizione cortese e della poetica stilnovistica: umile e onesto (Vn II 3), gentile e... onesta (XXVI 4 1), cortesia e valore (Rime LXXXVI 3; cfr. If XVI 67 e valore e cortesia, Pg XVI 116), 'l pregio e l'onore (Pg XIV 88). Non si tratta originariamente di sinonimi, ma di termini che appunto l'ideologia cortese ha strettamente congiunti. Così altre coppie, appartenenti allo stesso dominio etico, hanno assunto il carattere di formule: malvagio e vile (Vn XXXI 11 33), malvagi e rei (Rime LXXXIII 112; cfr. malvagia e ria, If I 97). Interessante è il caso di vile e noioso (LXXXIII 10), perché il poeta stesso si preoccupa di dimostrare l'identificazione dei due termini attraverso l'identificazione dei contrari (con nome di valore / cioè di leggiadria, vv. 11-12). La d. è adoperata sovente per caratterizzare gli atteggiamenti psicologici propri della tradizione lirica: queta e umile (Cv III Amor che ne la mente 69), benigna e piana (Rime LXIX 10), grazioso e benigno (If V 88), grazioso e caro (Pg XIII 91, dove ha giocato l'etimologia di caro da ‛ charitas '); cui si contrappongono disdegnosi e feri (Cv IV Le dolci rime 5), angosciosa e dispietata (Rime CIII 22), rigido e feroce (Pd XIII 134), le ultime due coppie attribuite per traslato a delle cose, altera e disdegnosa (Pg VI 62), con riferimento a Sordello. Al medesimo atteggiamento psicologico e morale, anche se guardato nella sua espressione sensibile, si ricollegano coppie come dolce e latina (Rime CXIII 2), soave e piana (If II 56), ed è inutile insistere sulla diffusa coppia dolce e soave (Vn VII 4 9, XXXIII 10 7, Rime LXVII 11, Pd XVI 32), su leggiadre e belle (Rime LXXXIII 124), dolci e leggiadre (Pg XXVI 99), che racchiudono un ideale etico ed estetico insieme. Coppie come aspro e forte (If I 15; cfr. Pg II 65), aspre e chiocce (If XXXII 1), riprendono, capovolgendoli, i termini precedenti. Per comprendere il sistema della d. in questi casi, in cui i termini appaiono sinonimi e sono effettivamente complementari, va notato che i concetti di ‛ leggiadro ' e ‛ soave ' (cui corrispondono quelli di ‛ forte ' e ‛ chioccio ') designano propriamente l'effetto che opera sulle facoltà sensitive, o meglio il modo come le facoltà sensitive recepiscono (o non recepiscono), ciò che è di per sé ‛ dolce ' (o ‛ aspro ') e ‛ bello '.
L'uso della d. per dar rilievo al concetto è evidente in alcuni versi della canzone Così nel mio parlar, dove non a caso l'insistenza verbale diviene un elemento dell'asprezza e del realismo espressivo: scudiscio e ferza, vespero e squille, non... pietoso né cortese (Rime CIII 67-71). Nella Commedia questa ricerca è particolarmente seguita soprattutto quando si tratti di rendere intensa l'immagine: lo strazio e 'l grande scempio (If X 85), brusciato e cotto (XVI 49), aggroppata e ravvolta (v. 111), stanca e vinta (XXIII 60), livido e nero (XXV 84), arrosso e disfavillo (Pd XXVII 54; cfr. lucente e chiaro, Cv III Amor che ne la mente 77).
Maggiore interesse offrono quei casi in cui il bisogno di dar vigore al concetto induce il poeta ad accompagnare il vocabolo più consueto con un altro più prezioso, o assumendo un termine nell'originaria accezione latina (a combattere e tentare, Vn XIII 1; con piangere e con lutto, If VIII 37), o attribuendo a un vocabolo un insolito significato (li atti e la statura, Vn XXXV 4 7; si lamenti e garra, Pd XIX 147), o ricercando un vocabolo più raro (palese e conta, Rime CIV 37). Altrettanto interessante è il caso in cui uno dei due termini non fa che spiegare metaforicamente l'altro: chiusa e onesta (Rime CVI 154, dove si allude alla ‛ riservatezza ' della canzone), si purga e risolve (Pd XXVIII 82, dove si allude al concetto del peccato come ‛ nodo ' che lega l'anima). Così talora uno dei due termini indica la manifestazione esterna di un atteggiamento espresso dall'altro: li occhi vergognosi e bassi (If III 79), dispettoso e torto (XIV 47), dispettosa e trista (Pg X 69). Dello stesso genere è la coppia fissi e attenti (Pg II 118, Pd XXXI 140), che ritorna nel guardate e attendete di If XXX 60. Talora l'accoppiamento dei due vocaboli accenna a una gradatio, qual era generalmente richiesta nel classico schema della synonymia: uccide e distrugge (Vn XV 2), dissecca e arde (Cv II XIII 2), falsi e bugiardi (If I 72), diletti e venerati (Pd XXXIII 40). Tale può considerarsi la coppia principio e cagion (If I 78), dove l'equivalenza dei due termini dal punto di vista filosofico non esclude che il secondo appaia l'intensificazione del primo.
Più ristretta entro i limiti della ripetizione sinonimica è la d. nella prosa latina: si veda ad es. regulamur et doctrinamur (VE I 3), puritas et simplicitas naturalis (Mn III IX 9), mores et habitus (I 5), illegitimos et irregulares modos (III 2). Un carattere più ornamentale hanno coppie come nox et umbra (Ep VII 29), curae sit vobis et animo (XII 1), dove concorre l'anastrofe. Né sarebbe il caso di citare la ripresa del famoso esempio biblico ad ymaginem suamatque similitudinem (VII 25).