Abstract
In materia tributaria i dividendi distribuiti ricevono lo stesso trattamento fiscale di una moltitudine di situazioni nelle quali si assume distribuita o, comunque, retrocessa all’investitore una parte dell’utile sociale. Si esaminano, quindi, tutte le forme di tassazione degli utili previste nel testo unico delle imposte sui redditi e le modalità di tassazione a seconda del soggetto erogante e del tipo di investitore.
La nozione giuridica di dividendo, da un punto di vista civilistico, è diversa da quella di “utili”. Quest’ultima, infatti, costituisce una componente di carattere patrimoniale costituita dal risultato economico finale dell’esercizio o periodo di riferimento, ove positivo; tale risultato potrà essere patrimonializzato (a titolo di riserva legale e di altre riserve statutarie o facoltative) ovvero distribuito ai soci ed agli altri investitori. Il “dividendo” rappresenta, appunto, la parte di utili che viene distribuita dalla società ai propri soci ed investitori, nei modi e nei termini stabiliti dall’apposita delibera assembleare.
In base alle disposizioni civilistiche (art. 2433 c.c.), per aversi dividendi devono concorrere tre condizioni: 1) i dividendi devono derivare da utili realmente conseguiti; 2) tali utili devono risultare dal bilancio regolarmente approvato; 3) la distribuzione di dividendi deve risultare da apposita delibera assembleare. Si tratta di una configurazione che, accanto a profili di carattere sostanziale, unisce requisiti di carattere più formale.
In materia tributaria, viceversa, il legislatore, cogliendo l’essenza economica sottesa a questo fenomeno ed evitando ogni riferimento ai presupposti civilistici (Melis, G., La nozione di dividendo tra normativa tributaria ed evoluzione del diritto delle società, in Dir. prat. trib., 2013, 1031, ss.), ha adottato un criterio di carattere eminentemente sostanziale e più ampio rispetto al perimetro civilistico, giungendo a trattare alla stregua di dividendi tutte le remunerazioni comunque erogate, in denaro o in natura, ai soci ovvero agli altri investitori di titoli aventi caratteristiche similari alle azioni; questa la ragione per la quale, in ambito fiscale, i due termini (utili e dividendi) sono utilizzati con una certa indifferenza (Falsitta, G., Utili e dividendi (imposizione su), in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, 1 ss.).
La distinzione tra utili e dividendi, peraltro, risulta del tutto irrilevante per le società di persone in relazione alle quali si è scelto il diverso modello di tassazione del reddito “per trasparenza” sui soci (cfr. art. 5, co. 1, d.P.R. 22.12.1986, n. 917); sistema che trova diverse (e non sempre univoche) giustificazioni nella struttura di queste società secondo le regole di diritto societario e in uno specifico apprezzamento sociologico di siffatti enti.
Il sistema di tassazione dei dividendi ha subito una radicale riforma a seguito dell’introduzione dell’IRES, allorquando è stato abbandonato il metodo del credito d’imposta a vantaggio di un sistema di sostanziale doppia tassazione (in capo alla società, prima, ed agli investitori, poi), attenuato da forme di riduzione del prelievo che si traducono in percentuali di esenzione degli utili distribuiti.
In origine, infatti, il sistema del credito d’imposta rendeva di fatto neutrale la tassazione del reddito in capo alla società nella misura in cui il medesimo veniva distribuito ai soci, prevedendosi il riconoscimento a questi ultimi di una cifra a titolo di credito d’imposta IRPEF in misura tale per cui, ove sommato al dividendo distribuito, il valore risultante equivaleva all’utile distribuito dalla società al lordo dell’IRPEG (ed al netto dell’ILOR allora vigente). Tale metodo, più volte modificato nel tempo per introdurre alcuni importanti correttivi (quali la maggiorazione di conguaglio ed il sistema dei canestri) (Fantozzi, A., Riserve e fondi nel bilancio d’esercizio: profili tributari, in Rass. trib., 1986, I, 132, ss.; Carpentieri, L.-Ceccacci, S., Dall’abrogazione della maggiorazione di conguaglio al nuovo credito d’imposta sugli utili di partecipazione, in Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di M. Miccinesi, Padova, 1999, 940, 11.) onde tenere conto delle ipotesi in cui il reddito imponibile della società risultava inferiore rispetto all’utile di bilancio, produceva l’effetto di neutralizzare, sotto il profilo economico, il prelievo facente capo alla società. Un simile sistema aveva condotto la dottrina a concepire l’IRPEG gravante sulle società e sugli enti commerciali alla stregua di un tributo non definitivo, e cioè come una forma di anticipazione della tassazione di una parte del reddito complessivo della persona fisica (ossia quello derivante dalla partecipazione all’impresa societaria); tassazione che avrebbe assunto le vesti di un prelievo definitivo solo in sede IRPEF, ossia nel momento in cui il vero titolare della manifestazione reddituale sottoposta a prelievo fosse stato colpito sul suo reddito complessivo (Fantozzi, A.-Lupi, R., Le società per azioni nella disciplina tributaria, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 1993, 9**, 6, ss.; Lovisolo, A., Il sistema impositivo dei dividendi, Padova, 1980, 107, ss.; Castaldi, L., Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi, Torino, 1999; Castaldi, L., I redditi di capitale, in L’imposta sul reddito delle persone fisiche, a cura di F. Tesauro, Torino, I, 217 ss.). Questo approccio, fondamentalmente legato alla visione del fenomeno societario quale forma di esercizio collettivo dell’impresa, deve considerarsi messo in discussione, dapprima, dalla riforma del diritto societario che, elaborando nuove modalità di partecipazione alla vita societaria (ed ai suoi rendimenti), ha sostanzialmente scisso il binomio soci–società quale unica forma di erogazione dei risultati della gestione, allineando tale rapporto alle altre tipologie di investimento (in specie, quelle collegate alla sottoscrizione degli strumenti finanziari partecipativi previsti dal codice civile) (Notari, M., Le categorie speciali di azioni e gli strumenti finanziari partecipativi nella riforma delle società, in AA.VV., Quaderni del consiglio nazionale del notariato, suppl. al fasc. 1/2004, Milano, 2004, 46 ; Notari, M., Azioni e strumenti finanziari: confini delle fattispecie e profili di disciplina, in Banca borsa, 2003, I, 543, ss.; Portale, G. B., Capitale sociale e società sottocapitalizzata, in Trattato delle società per azioni, diretto da G.E. Colombo e G.B. Portale, Torino, 2004, 1**, 3, ss.; Tombari, U., La nuova struttura finanziaria delle società per azioni (corporate governance e categorie rappresentative del fenomeno societario), in Riv. società, 2002, 921, ss.; Cian, G., Strumenti finanziari partecipativi e poteri di voice, Milano, 2006, 36; Angelici, C., La riforma delle società di capitali, Padova, 2003, 22); dipoi, dalle profonde modifiche apportate al nostro sistema di tassazione diretta per effetto del d.lgs. 12.12.2003, n. 344 (Gallo, F., L’adeguamento delle norme tributarie alla riforma del diritto societario, in Il reddito d’impresa tra norme di bilancio e principi contabili, a cura di R. Rinaldi, Milano, 2004, 3, ss.; Gallo, F., Riforma del diritto societario e imposta sul reddito, in La riforma dell’imposta sulle società, a cura di P. Russo, Torino, 2005, 3, ss.; Corasaniti, G., Azioni, strumenti finanziari partecipativi e obbligazioni: dalla riforma del diritto societario alla riforma dell’imposta sul reddito delle società, in Dir. prat. trib., 2003, I, 908, ss.; Melis, G., La nozione di dividendo, cit., 1046). Si è andato così delineando un sistema di tassazione degli investimenti in società di capitali tendente ad esaltare non tanto la sottoscrizione del capitale sociale come unica forma “partecipativa”, quanto piuttosto a rintracciare nelle diverse forme di investimento l’esistenza di un rischio collegato alla remunerazione del capitale investito (Padovani, F., Investimenti in società di capitali e imposizione sul reddito, Milano, 2009, 270 ss). Ciò ha comportato, sotto il profilo tributario, un’accentuazione della separazione del prelievo gravante sulla società e di quello facente capo al socio, che si è realizzata, da un lato, attraverso l’abolizione del credito d’imposta riconosciuto ai soci e, dall’altro, nel riconoscimento della società e dei soci come autonomi soggetti passivi del tributo (la prima dell’IRES, i secondi dell’IRPEF) di guisa che il reddito prodotto dalla società e i dividendi da questa distribuiti ai soci rappresentano entità reddituali autonome, gravanti su soggetti diversi (Fedele, A., I rapporti fra società e soci, in La riforma dell’imposta sulle società, a cura di P. Russo, Torino, 2005, 143, ss.; contra Viotto, A., Il regime tributario delle plusvalenze da partecipazione, Torino, 2013, 17, ss.).
Questo sistema di tassazione (cd. classico, fondato, cioè, sull’autonoma imposizione della società e del socio) è articolato diversamente a seconda che l’investitore sia una persona fisica che detiene la partecipazione non in regime d’impresa, ovvero in regime d’impresa, ovvero ancora sia una società di capitali. In tutti e tre i casi, però, la percentuale di esenzione degli utili è stata determinata in misura pari a quella prevista per le plusvalenze realizzate in occasione e per effetto della cessione di partecipazioni (cd. participation exemption), talché autorevole dottrina ha collegato i due fenomeni teorizzando che l’esenzione totale (nell’IRES) e parziale (nell’IRPEF) prevista per i dividendi sia correlata al nuovo sistema di prelievo fondato sulla PEX: infatti, attenuata l’esigenza di correlare la tassazione dei redditi societari alla misurazione della (variabile) capacità contributiva delle persone fisiche (ultime) beneficiarie degli utili, si è potuto e inteso risolvere il problema della doppia tassazione economica dei redditi societari rendendo definitiva e assorbente la tassazione in capo alle società di capitali, attraverso la sostituzione del metodo del credito d’imposta con quello della participation exemption (Fantozzi, A., Il regime della trasparenza per le società di capitali, in La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete, a cura di F. Paparella, Milano, 2007, 17 ss.)
L’art. 47 TUIR si occupa dell’ipotesi in cui l’investimento sia effettuato da un soggetto non in regime d’impresa, qualunque sia la forma d’investimento prescelta, sia essa una partecipazione societaria o un investimento in strumenti finanziari partecipativi equiparati alla partecipazione sociale (art. 44, co. 1, lett. e, i quali integrano gli estremi della partecipazione, rispettivamente, al capitale ed al patrimonio della società, ed il cui investimento concorre alla formazione del patrimonio netto della società emittente in quanto partecipa al rischio d’impresa sia sotto il profilo della remunerazione sia sotto quello della durata) o assimilati alle azioni (art. 44, co. 2, lett. a, che viceversa integrano un investimento di carattere “partecipativo” solo sotto il profilo della sola remunerazione), e muove dalla considerazione che la remunerazione rappresentata da una partecipazione agli utili costituisce corrispettivo dell’atto d’impiego di capitali concessi ad un terzo (Castaldi, L., I redditi di capitale, cit., 278). Soggiacciono al relativo regime gli utili distribuiti da tutte le società e gli enti indicati dall’art. 73 del TUIR e, quindi, sia dalle società residenti che da quelle non residenti. Per effetto dell’abolizione del credito d’imposta sui dividendi (che, necessariamente, non poteva che funzionare con riferimento agli utili distribuiti dalle società residenti) è stato infatti possibile equiparare il criterio di tassazione dei dividendi di fonte italiana e di fonte estera (Zizzo, G., L’imposta sul reddito delle società, in Falsitta, G., Manuale di diritto tributario, Parte speciale, Padova, 2008, 327 ss.; Fantozzi, A., Il regime della trasparenza per le società di capitali, cit., 22, ss).
Per quel che concerne gli utili da partecipazione percepiti dalle persone fisiche non in regime d’impresa, essi concorrevano, originariamente, a formare il reddito complessivo del percipiente nella misura del 40 per cento. Tale misura è stata elevata al 49,72% ad opera del d.m. 2.4.2008 in conseguenza dell’abbattimento dell’aliquota IRES dal 33 al 27,5% disposto dalla l. 24.12.2007, n. 244. Analogamente a quanto previsto per gli utili e proventi equiparati, l’art. 2, co. 2, primo periodo del decreto stabilisce nel 49,72% la percentuale di concorso al reddito imponibile delle plusvalenze e minusvalenze realizzate mediante cessione di partecipazioni qualificate, non detenute in regime d’impresa. Specularmente, per le plusvalenze e minusvalenze realizzate mediante cessione di partecipazioni in società ed enti detenute nell’esercizio d’impresa la misura di esenzione (per le plusvalenze) e di indeducibilità (per le minusvalenze) è stabilita nel 50,28%. Questo meccanismo di tassazione trova peraltro applicazione solo con riferimento alle partecipazioni qualificate (cioè quelle che danno diritto ad una percentuale dei diritti di voto esercitabili in assemblea ordinaria o che riconoscono una partecipazione al capitale o al patrimonio superiore, rispettivamente, al 20% [2% per i titoli negoziati in mercati regolamentati] o al 25% [5% per i titoli negoziati in mercati regolamentati]), posto che per gli utili relativi a partecipazioni non qualificate occorre obbligatoriamente fare applicazione della ritenuta alla fonte a titolo d’imposta nella misura del 26% del loro ammontare prevista dall’art. 27 del d.P.R. 29.9.1973, n. 600.
Il legislatore fiscale ha introdotto una presunzione di carattere assoluto in forza della quale, indipendentemente dalla delibera assembleare, ai fini fiscali si considerano distribuiti prioritariamente l’utile dell’esercizio e le riserve, diverse da quelle da apporto, per la quota di esse non accantonata in sospensione d’imposta. La previsione risponde alla finalità di definire un ordine nella distribuzione del patrimonio sociale, evitando quindi che la società proceda alla distribuzione di riserve di capitale (che non scontano tassazione in capo ai soci trattandosi della semplice restituzione del capitale a suo tempo investito) ed al contestuale accantonamento a riserva dell’utile di esercizio.
Un sistema del tutto analogo a quello di tassazione dei dividendi riguarda le remunerazioni connesse ai contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza diversi da quelle in cui l’apporto sia rappresentato esclusivamente da opere e servizi; e ciò in considerazione dell’equiparazione dei profili di rischio (quanto meno sotto il profilo della remunerazione) che tali contratti palesano rispetto agli investimenti in capitale e in titoli ad essi equiparati (critica tale equiparazione Filippi, P., Brevi osservazioni sui profili fiscali del contratto di associazione in partecipazione, in Dir. prat. trib., 2004, I, 205, ss.). Anche in questo caso l’equiparazione presuppone una partecipazione qualificata, tale essendo quella in cui il valore dell’apporto è superiore, rispettivamente, al 5 per cento (nel caso di società i cui titoli sono negoziati in mercati regolamentati) o al 25 per cento (nel caso di altre partecipazioni) del valore del patrimonio netto contabile risultante dall’ultimo bilancio approvato prima della data di stipula del contratto. Il richiamo ai valori del patrimonio netto testimonia la volontà del legislatore tributario di non tenere conto, ai fini del suddetto rapporto, dei soli investimenti in capitale, ma di dare rilievo alla complessiva struttura patrimoniale della società associante e, quindi, delle riserve e degli strumenti finanziari che, per durata, rappresentano un investimento stabile nella società e, per tipologia di remunerazione, partecipano al rischio dell’impresa. Al fine di garantire un trattamento uniforme, il legislatore ha applicato alle associazioni in partecipazione in cui l’associante è un soggetto non residente i medesimi criteri di tassazione stabiliti per gli utili derivanti da partecipazioni a società non residenti. La remunerazione percepita dall’associato, dunque, è assimilata all’utile (e, quindi, sottoposta a tassazione con i medesimi criteri) ove: a) la stessa risulti totalmente indeducibile nello Stato di residenza del soggetto emittente; b) l’indeducibilità risulti da una dichiarazione di quest’ultimo, ovvero da altri elementi certi e precisi. Verificandosi tali condizioni, per le partecipazioni non qualificate si applica la ritenuta alla fonte a titolo d’imposta del 26 per cento ad opera dell’intermediario per il cui tramite si detiene il rapporto, ovvero ad opera dello stesso contribuente che, in sede di dichiarazione, dovrà includere i relativi proventi tra i redditi sottoposti ad imposta sostitutiva, ed auto liquidarla, ai sensi dell’art. 18 del TUIR. Per le partecipazioni qualificate, si applica una ritenuta alla fonte a titolo d’acconto nella misura prevista dall’art. 27, co. 4, d.P.R. n. 600/1973 sul 49,72 per cento dell’ammontare della remunerazione. Ove non siano rispettate le condizioni suddette, le remunerazioni dei contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza concorrono per il loro intero ammontare alla formazione del reddito dell’associato.
Nel caso di distribuzione di utili in natura, l’imponibile da sottoporre a tassazione è rappresentato dal valore normale degli stessi alla data individuata dall’art. 109, co. 2, lett. a) del TUIR, ossia alla data di consegna o spedizione o di stipula dell’atto a seconda che oggetto di assegnazione siano, rispettivamente, beni mobili ovvero beni immobili o aziende, ovvero (se successiva) alla data in cui si verifica l’effetto traslativo o costitutivo della proprietà o di altro diritto reale.
I dividendi di fonte estera, ordinariamente equiparati a quelli di fonte italiana, scontano una disciplina ad hoc ove l’erogante sia localizzato in uno dei Paesi a fiscalità privilegiata (cfr. art. 167 TUIR). Ed infatti, l’art. 47, co. 4, TUIR, derogando al principio di parziale concorrenza degli utili alla formazione del reddito, prevede che, in caso di distribuzione degli utili da parte di soggetti localizzati in Stati o territori a bassa fiscalità (Cordeiro Guerra, R., La nuova definizione di regime fiscale privilegiato nell’ambito della disciplina in tema di controlled foreign companies e di componenti negative derivanti da operazioni con imprese estere, in Rass. trib., 2000, 1788, ss.), essi concorrono integralmente alla formazione del reddito imponibile, ad eccezione della parte di essi imputata al socio per effetto della disciplina delle CFC di cui all’art. 167 e all’art. 168 TUIR. Questa disciplina, essenzialmente volta ad evitare la localizzazione di redditi in Stati a bassa fiscalità finalizzata al drenaggio dell’imponibile in Italia, ha matrice antielusiva (Gaffuri, A.M., La residenza fiscale nel diritto tributario, in Giur. it., 2009, 11, 2579, ss.; Ceriani, V., Problemi attuali dell’imposizione sulle società, in Rass. trib., 2006, 1604, ss.; Melis, G., Profili sistematici del trasferimento della residenza fiscale delle società, in Dir. prat. trib. int., 2004, 13, ss.) e, pertanto, è consentito al socio residente di dimostrare (a mezzo della procedura di interpello di cui al predetto art. 167, co. 5, lett. b) che dalla partecipazione in dette società non sia conseguito l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a bassa fiscalità. Ove tale procedura dia esito positivo, i dividendi saranno tassati secondo le ordinarie regole già esposte. Ove le partecipazioni detenute siano non qualificate, è prevista l’applicazione di una ritenuta a titolo d’acconto (ad opera degli intermediari finanziari italiani per il cui tramite i titoli sono detenuti) pari al 26% sull’intero ammontare dei dividendi (cfr. Circolare n. 26/E/2004). La piena tassazione dei dividendi si applica anche qualora sia stato ottenuto il parere favorevole dell’Agenzia delle Entrate per la disapplicazione della disciplina CFC in base all’esimente di cui all’art. 167, co. 5, lett. a) (ove sia cioè dimostrato che la società residente in un Paese a bassa fiscalità ivi svolge comunque un’effettiva attività industriale o commerciale che rappresenta la sua principale attività): in tal caso, infatti, gli utili distribuiti al soggetto residente concorreranno integralmente alla formazione del reddito di costui, rimanendo comunque possibile presentare una nuova istanza di interpello per vedersi riconoscere (anche) l’esimente di non aver conseguito l’effetto di delocalizzazione del reddito ai fini del regime di tassazione dei dividendi.
La tassazione piena si applica agli utili provenienti da società localizzate in Paesi e territori a bassa fiscalità; onde il regime di tassazione integrale non riguarda solo i dividendi distribuiti direttamente da tali soggetti, ma anche quelli generati da società localizzate in paradisi fiscali e distribuiti al soggetto residente tramite società intermedie (cfr. Circolare n. 28/E/2006), come del resto attestato anche dalle modifiche che il testo della norma ha subìto nel tempo: originariamente, infatti, l’art. 47, co. 4, aveva riguardo agli utili provenienti da società localizzate in Stati o territori a bassa fiscalità; l’art. 2, co. 2, d.lgs. 18.11.2005, n. 247 sostituì tale espressione con quella di utili relativi alla partecipazione al capitale o al patrimonio, ai titoli e agli strumenti finanziari di cui all’art. 44, secondo comma, lett. a); infine, il d.l. 4.7.2006, n. 223 ha ripristinato l’originaria formulazione proprio per evitare che gli anelli intermedi della catena partecipativa potessero rappresentare un sistema di aggiramento del principio di integrale tassazione degli utili distribuiti da società localizzate in paradisi fiscali. Ciò, peraltro, non può significare che, ove il soggetto residente sia titolare di una partecipazione in una società che, a sua volta, detiene una partecipazione in una società localizzata in un paradiso fiscale, l’intero utile distribuito dalla prima deve essere integralmente sottoposto a tassazione, tale regime dovendo riguardare solo la quota – parte di utile proveniente dalla seconda società.
Nel sistema tributario non assume rilevanza reddituale la restituzione delle somme investite nella società e, in applicazione di tale principio, è previsto che non costituiscono utili le somme ed i beni ricevuti dai soci di società soggette ad IRES a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con sopraprezzi di azioni o quote, con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale e con saldi di rivalutazione monetaria esenti da imposta. Si tratta, in altri termini, di restituzioni dell’investimento effettuato dai soci cui le somme sono restituite o da altri soci (nel caso dei sopraprezzi) che, in ogni caso, rappresentano il patrimonio della società. Tale restituzione, quindi, non si inquadra tra gli atti realizzativi, ma tra quelli organizzativi, attenendo alla dotazione patrimoniale dell’ente societario (cfr. Melis, G., La nozione di dividendo, cit., 1050 ss.; Michelutti, R., Dividendi e distribuzioni atipiche ai soci, in AA.VV., La tassazione dei dividendi intersocietari. Temi attuali di diritto tributario italiano, dell’unione europea e delle convenzioni internazionali, Milano, 2011, 65, ss.). L’unico effetto che producono tali restituzioni è la riduzione del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione nel bilancio dell’investitore. In caso di restituzione di somme superiori rispetto al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione la differenza concorre a tassazione (cfr. art. 27, co. 1-bis, d.P.R. n. 600/1973, il quale assoggetta a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, fra l’altro, le ipotesi di cui al quinto comma dell’art. 47 TUIR, assumendo come imponibile l’intero ammontare ricevuto qualora il percettore non comunichi il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione) senza che ciò determini un’eccezione al principio generale dell’irrilevanza reddituale delle somme investite nella società. Infatti, in presenza di un versamento a fondo perduto o in conto capitale, il relativo ammontare determina un aumento di pari importo del costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione; onde, e in linea di principio, in caso di restituzione di tali forme di finanziamento non si determina un valore negativo attratto a tassazione. Diversa l’ipotesi, ad esempio, della riserva costituita con sopraprezzo di azioni che, ove distribuita, si configura in capo al ricevente non già come restituzione di un investimento, quanto piuttosto come remunerazione (frutto) dell’investimento medesimo. Essa, pertanto, concorre alla formazione del reddito immediatamente, ove il relativo importo sia maggiore rispetto al costo fiscale della partecipazione, e successivamente, sotto forma di maggior plusvalenza, qualora il relativo importo sia inferiore al costo fiscale della partecipazione.
Non costituisce, inoltre, realizzo di utili l’assegnazione gratuita ai soci di nuove azioni e l’aumento gratuito del valore nominale delle azioni o quote già emesse nel caso di aumento del capitale sociale mediante passaggio di riserve o altri fondi a capitale. Si tratta, peraltro, di riserve diverse rispetto a quelle sopra passate in rassegna: anche per queste ultime, infatti, il passaggio a capitale non determina realizzazione di utili, ma in questo caso non si applica la regola prima esaminata per il caso di successiva riduzione del capitale. Infatti, in caso di imputazione a capitale delle riserve previste dal sesto comma, le azioni gratuite assegnate ai soci o l’aumento del valore nominale delle azioni o quote rappresenta un atto di organizzazione dell’impresa che si sostanzia nella scelta dei soci di non procedere alla distribuzione di utili, ma di imputare tali importi (che già concorrono alla formazione del patrimonio netto in qualità di riserve) a capitale sociale, assoggettandole alla relativa disciplina. Tuttavia, qualora venga successivamente deliberata la riduzione del capitale esuberante (e la conseguente restituzione ai soci del relativo importo disinvestito), essa è considerata distribuzione di utili fino a capienza dell’importo delle riserve a suo tempo utilizzate per aumentare il capitale.
In linea con i principi sopra passati in rassegna, le somme ricevute dal socio in occasione del suo recesso o della sua esclusione, della liquidazione della società, della riduzione del capitale esuberante e del riscatto non rappresentano utili nella misura in cui esse trovino capienza nell’investimento originario. Secondo la prassi, la disposizione in esame trova applicazione solo in ipotesi di recesso tipico (annullamento delle azioni o quote del socio receduto) e non anche qualora, per effetto della riforma del diritto societario del 2003, il recesso avvenga con modalità diverse, ossia mediante acquisto da parte degli altri soci proporzionalmente alle loro partecipazioni (cfr. art. 2473, co. 4, c.c.), tale ultima ipotesi essendo stata più propriamente inquadrata – con buona pace del tanto conclamato principio della prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica – nell’ambito degli atti traslativi e, come tale, realizzativa di plusvalenze finanziarie tassabili alla stregua di redditi diversi (cfr. Circolare n. 26/E/2004).
Per quanto riguarda il riscatto di azioni, esso è disciplinato dall’art. 2437 sexies c.c., secondo il quale le disposizioni relative ai criteri di determinazione del valore delle azioni e al procedimento di liquidazione, previste per le ipotesi di recesso, trovano applicazione anche alle azioni riscattabili, ovvero a quelle “azioni o categorie di azioni per le quali lo statuto prevede un potere di riscatto da parte della società o dei soci”.
In relazione alla fattispecie di esclusione del socio, l’art. 2473 bis c.c. stabilisce che, qualora l’atto costitutivo preveda specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa, si debbano applicare le disposizioni relative al recesso del socio medesimo, ad eccezione di quella relativa al rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale. Di conseguenza, il legislatore tributario si è adeguato alla normativa primaria estendendo la disciplina fiscale prevista per il recesso alle ipotesi di riscatto di azioni ed esclusione.
Gli utili da partecipazione conseguiti da società di capitali ed enti residenti (e, più in generale, in regime d’impresa) non sono tassati quali redditi di capitale, ma concorrono, per effetto del principio di attrazione consacrato dall’art. 81 TUIR, alla formazione del reddito d’impresa della società; per l’effetto, anche la loro determinazione non avviene secondo le regole stabilite per la categoria dei redditi di capitale, bensì in base ad una disciplina propria, recata appunto dal secondo comma della disposizione in esame.
Abbiamo visto che con la riforma tributaria del 2003, il sistema di tassazione degli utili è stato radicalmente modificato. In particolare, è stato eliminato il sistema del credito d’imposta, e gli utili distribuiti da un soggetto IRES residente non concorrono alla formazione della base imponibile di quest’ultimo se non nella misura del 5% (tale percentuale è attratta a tassazione per sterilizzare la rilevanza fiscale delle spese di gestione della partecipazione, che sono deducibili, ed il cui ammontare è forfetizzato in detta misura al pari di quanto era previsto dall’art. 96-bis nella versione ante riforma, in attuazione della direttiva CEE n. 90/435 sul regime fiscale madre-figlia: cfr. Circ. 25/E/2004). La scelta di fondo, peraltro, è quella di mantenere irrilevanti ai fini fiscali i passaggi orizzontali di ricchezza a livello IRES (per effetto dell’esclusione degli utili dal concorso alla formazione del reddito della partecipante) e di tassare il passaggio verticale degli utili dal piano IRES a quello IRPEF. Queste considerazioni inducono a ritenere che il suddetto regime non può considerarsi agevolativo, bensì ricognitivo di un principio strutturale del sistema di tassazione emergente dalla riforma, così come attestato anche dal tenore letterale dell’art. 89 TUIR, secondo cui gli utili non concorrono alla formazione del reddito in quanto esclusi, integrando così una fattispecie di esclusione che concorre a delineare il perimetro di applicazione dell’imposta (Fedele, A., I rapporti fra società e soci, cit., 155, ss.; Fransoni, G., Riflettendo su un convegno leccese, in Riv. dir. trib., 2005, I, 58, ss.; Padovani, F., Investimenti in società di capitali, cit., 250, ss.; contra, Viotto, A., Il regime tributario delle plusvalenze, cit., 40, ss.).
Si noti, a conferma di quanto accennato in premessa, che l’art. 89 cit. parla genericamente di utili senza fare riferimento al titolo in forza del quale essi sono percepiti dal soggetto IRES; anzi, la medesima norma ha cura di precisare che essa si riferisce agli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione da società ed enti commerciali residenti, onde la medesima sembra riferirsi: 1) agli utili derivanti dalla partecipazione al capitale; 2) agli utili derivanti dalla sottoscrizione di strumenti finanziari di quasi capitale (che determinano una partecipazione al patrimonio della società); 3) agli utili derivanti dalla sottoscrizione di strumenti finanziari assimilati alle azioni (laddove la remunerazione sia totalmente costituita dalla partecipazione agli utili della società emittente o di altre società del gruppo); 4) agli utili corrisposti in base a contratti di associazione in partecipazione e di cointeressenza quando sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi; 5) agli utili rappresentati dalle somme o dal valore normale dei beni ricevuti dai soci in caso di recesso, esclusione, riscatto e riduzione del capitale esuberante o di liquidazione anche concorsuale delle società ed enti. In tutti questi casi siamo in presenza di una distribuzione di utili, la quale sarà attratta a tassazione nella misura del 5% (cfr. Basilavecchia, M., La difficile individuazione degli utili da partecipazione, in Corr. trib., 2005, 365; Tassani, T., Autonomia statutaria delle società di capitali e imposizione sul reddito, Milano, 2007, 306 ss.; Padovani, F., Investimenti in società di capitali, cit., 276; Melis, G., La nozione di dividendo, cit., 1041).
Gli utili distribuiti da soggetti IRES concorrono alla determinazione del reddito del socio secondo il criterio di cassa e, quindi, nell’esercizio in cui gli stessi sono stati percepiti, essendo irrilevante la data in cui è stata deliberata la relativa distribuzione (cfr. Circ. n. 26/E/2004). Per quanto riguarda gli utili distribuiti nelle ipotesi di recesso, esclusione, riscatto, riduzione del capitale esuberante o liquidazione, anche concorsuale, di società ed enti, la norma recata dall’art. 89 deve essere coordinata con quanto disposto dall’art. 86, co. 5-bis, ove è previsto che costituiscono plusvalenze le somme o il valore normale dei beni ricevuti a titolo di ripartizione di capitale e riserve di capitale per la parte eccedente il costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione. Dunque, le somme o il valore dei beni ricevuti nelle ipotesi sopra enucleate deve essere suddiviso (correlativamente scontando un diverso regime impositivo) tra: a) quanto ricevuto a titolo di riparto del capitale e delle riserve di capitale, il quale rappresenta il valore cui raffrontare il costo fiscale della partecipazione al fine di determinare la plus/minusvalenza (da sottoporre integralmente a tassazione secondo le regole stabilite dall’art. 86, salva l’applicazione della participation exemption ex art. 87 TUIR); b) la restante parte, che è assimilata a utile da partecipazione e, come tale, sottoposta a tassazione nella misura del 5%.
Le società di capitali che adottano i principi contabili internazionali IAS/IFRS sono sottoposte ad un particolare sistema di rilevazione del reddito che viene comunemente denominato “principio di derivazione rafforzata”. Tale principio si ritrae dall’art. 83 TUIR, in base al quale per tali soggetti valgono i criteri di qualificazione, imputazione temporale e classificazione in bilancio previsti da detti principi contabili, anche in deroga ai principi stabiliti dal TUIR (Fransoni, G., L’imputazione a periodo nel reddito d’impresa dei soggetti IAS/IFRS, in Corr. trib., 2008, 3145, ss.; Zizzo, G., Criteri di qualificazione IAS/IFRS nella determinazione dell’imponibile IRES, in Corr. trib., 2008, 3137, ss.).
Per quanto a noi interessa in questa sede, i criteri di classificazione dei titoli in bilancio stabiliti dai predetti principi contabili internazionali rilevano anche al fine di determinare la misura della imponibilità del dividendo.
Ed infatti, ove il titolo sia classificato in bilancio, ai sensi del principio IAS n. 39, tra le attività finanziarie detenute per la negoziazione (cd. held for trading), in deroga ai principi stabiliti dal legislatore tributario per la generalità dei casi, assumono rilevanza a fini fiscali tutte le componenti economiche rilevate in bilancio in relazione a tale titolo (cfr. Melis, G., La nozione di dividendo, cit., 1047) e pertanto concorrono integralmente a determinare il reddito imponibile dell’investitore: a) le minusvalenze e le plusvalenze iscritte in bilancio e derivanti dalle valutazioni del fair value dello strumento finanziario (cfr. art. 94, co. 4-bis , TUIR); b) i dividendi percepiti nel corso dell’esercizio (cfr. art. 89, co. 2-bis, TUIR).
Siccome i titoli detenuti per la negoziazione non costituiscono immobilizzazioni ai fini fiscali (cfr. art. 85, co. 3-bis, TUIR), le minusvalenze e le plusvalenze generate dalla cessione di tali titoli concorreranno anch’esse integralmente alla determinazione del reddito della società partecipante, senza quindi poter trovare applicazione il regime cd. participation exemption.
Viceversa, ove il titolo sia iscritto in un portafoglio diverso da quello delle “attività finanziarie detenute per la negoziazione” (attività finanziarie disponibili per la vendita, finanziamenti e crediti, attività finanziarie detenute fino alla scadenza, nonché attività finanziarie rilevate a conto economico al fair value in base alla cd. fair value option), esso sarà sottoposto alle ordinarie regole di rilevazione ai fini fiscali e, pertanto: a) le eventuali componenti valutative (plus e minus) iscritte in bilancio non rilevano ai fini della determinazione del reddito dell’investitore; b) i dividendi percepiti nel corso dell’esercizio sono attratti a tassazione nella misura del 5% (art. art. 89, co. 2, TUIR); c) le plus e le minus derivanti dalla cessione della partecipazione (presenti i requisiti di legge) sono sottoposte al regime cd. participation exemption (Padovani, F., Investimenti in società di capitali, cit., 164, ss.).
Per gli strumenti finanziari diversi dalle azioni propriamente dette, ai fini della qualificazione dello strumento come assimilato alle azioni ed alla conseguente tassazione del provento come dividendo, è intervenuto il d.m. 8.6.2011. Tale decreto ha chiarito, all’art. 5, che il principio di derivazione rafforzata non opera con riguardo alle qualificazioni e classificazioni in bilancio di tali titoli, dovendosi comunque fare riferimento alle caratteristiche previste dall’art. 44, co. 2, TUIR al fine di individuare gli strumenti, diversi dalle azioni, che sono considerati assimilati alle azioni e la cui remunerazione è, conseguentemente, trattata ai fini fiscali alla stregua di un dividendo.
Quindi, uno strumento atipico qualificato in bilancio, in base ai principi IAS, come uno strumento di capitale (quale, ad esempio, uno strumento irredimibile) che non soddisfacesse le condizioni stabilite dall’art. 44, co. 2, per essere considerato ai fini fiscali assimilato alle azioni né assimilato alle obbligazioni, dovrebbe ancora considerarsi un titolo atipico e, pertanto: a) la relativa remunerazione dovrebbe seguire il regime degli interessi e non dei dividendi (sia lato emittente, sia lato investitore); b) non qualificandosi coma una partecipazione, le plus e minus generate in occasione e per effetto della cessione del titolo non dovrebbero rientrare nel regime PEX.
Gli utili da partecipazione ed i proventi assimilati distribuiti da soggetti non residenti partecipano alla formazione del reddito nella stessa misura di quelli di fonte interna (5%) ove siano rispettate le seguenti condizioni: 1) le remunerazioni percepite ed i proventi assimilati devono essere totalmente indeducibili nella determinazione del reddito nello Stato estero di residenza dell’ente erogante; 2) i suddetti proventi devono essere erogati da soggetti residenti in Stati o territori che consentono un adeguato scambio di informazioni e nei quali il livello di tassazione non è sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia. Ove non sia rispettata la seconda delle anzidette condizioni, è comunque possibile che gli utili siano tassati nella stessa misura di quelli erogati da soggetti residenti qualora sia dimostrato, mediante interpello, che dalla partecipazione non consegue l’effetto di localizzare i redditi nei suddetti Paesi non compresi nella white list. La prima delle suddette condizioni rappresenta, in buona sostanza, una previsione antielusiva, mirante a limitare le strategie di pianificazione fiscale finalizzate allo sfruttamento delle asimmetrie di tassazione degli utili tra i vari Stati e, in ultima analisi, a beneficiare dei salti d’imposta che vengono a crearsi in tutti quei casi in cui l’importo erogato rappresenta una componente deducibile per la società estera. Invero, il nostro sistema di tassazione dei dividendi è correlato, come abbiamo visto, alla matrice reale dell’IRES ed alla tassazione del reddito (esclusivamente) in capo all’ente che lo ha prodotto: ciò comporta che in tanto i successivi passaggi di ricchezza tra soggetti IRES sono esenti da tassazione in quanto il primo soggetto (il quale ha in effetti prodotto il reddito) sia assoggettato a tassazione sulla ricchezza che ha generato. Sotto tale profilo, la suddetta condizione può assumere il carattere di una norma mirante ad assicurare anche nei rapporti transnazionali l’equilibrio e la coerenza del sistema di prelievo delineato con l’IRES. La seconda condizione, viceversa, rappresenta una previsione antievasione, con la quale s’intende scongiurare manovre tese alla localizzazione del reddito in Paesi o territori a bassa fiscalità per ivi scontare prelievi più contenuti.
Qualora la prima condizione non sia soddisfatta, lo strumento finanziario, dal punto di vista fiscale, non risulta assimilabile alle azioni (sulla base di quanto disposto dall’art. 44, co. 2, lett. a, ultimo periodo) e, di conseguenza, le remunerazioni ad esso collegate non possono essere sottoposte al medesimo regime tributario previsto per gli utili dall’attuale assetto dell’IRES. Esse (remunerazioni), pertanto, saranno interamente attratte a tassazione, concorrendo per il complessivo loro ammontare alla determinazione del reddito d’impresa quali componenti positive di esso. Viceversa, ove sia la seconda condizione a non essere integrata, scatta il meccanismo di tassazione previsto dall’art. 167 TUIR in materia di CFC tutte le volte in cui risultino integrati i requisiti previsti da tale previsione normativa, talché il reddito prodotto dalla controllata estera viene imputato alla controllante residente in proporzione alle partecipazioni da essa detenute, e sottoposto a tassazione separata; correlativamente, gli utili distribuiti non concorrono a formare il reddito della società residente fino all’ammontare del reddito della partecipata assoggettato a tassazione per imputazione, mentre gli utili eccedenti tale ammontare concorrono integralmente alla formazione dell’imponibile IRES del percipiente. Se la partecipazione non integra gli estremi del controllo previsti dall’art. 2359 c.c. e neppure quelli del collegamento (nel qual caso si rende applicabile il meccanismo di cui all’art. 168 TUIR), non scatta il meccanismo CFC e, anche in questo caso, gli utili distribuiti dalla partecipata estera concorrono integralmente alla determinazione del reddito della partecipante residente. Si precisa che, per effetto del comma 8-bis dell’art. 167, il meccanismo CFC si applica anche alle società che non siano localizzate in Stati o territori a bassa fiscalità, ove la controllata non residente: a) sia assoggettata a tassazione effettiva inferiore a più della metà di quella a cui sarebbe stata soggetta ove residente in Italia; b) abbia conseguito proventi per più del 50% ritratti da attività di carattere finanziario. Per effetto di tale previsione (che, applicandosi anche alle controllate residenti in territorio UE, solleva non pochi dubbi di coerenza con i principi di libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali, consacrati, rispettivamente, dall’art. 56 e dall’art. 58 del Trattato UE), anche gli utili distribuiti da tali soggetti non dovranno essere sottoposti a tassazione nei limiti di cui al predetto art. 167 TUIR.
Artt. 5, 44, 45, 46, 47, 81, 83, 85, 86, 87, 89, 94, 167, 168, l. 22.12.1986, n. 917; artt. 2359, 2433, 2437-sexies, 2473, 2473-bis c.c.; artt. 26, 27 d.P.R. 29.9.1973, n. 600; d.l. 30.9.1973, 512; d.lgs. 1.4.1996, n. 239; d.lgs. 12.12.2003, n. 344; art. 2, d.lgs. n. 18.11.2005, n. 247; d.l. 4.7.2006, n. 223; l. 24.12.2007, n. 244; d.m. 2.4.2008; d.m. 8.6.2011.
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