Divinazione
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli dèi comunicano con i Romani attraverso segni che possono essere richiesti dagli uomini o inviati spontaneamente. Per capire il loro significato a Roma ci si affida a specialisti, come gli àuguri e i quindecimviri che ne comprendono il valore e conoscono le procedure per calmare eventualmente la collera divina.
“Tutta la religione del popolo romano è divisa in riti e auspìci, a cui si è aggiunta una terza suddivisione: le predizioni degli interpreti della Sibilla e degli aruspici basate sui portenti e sui prodigi; io non ho mai pensato che si dovesse trascurare alcuna di queste pratiche e mi sono persuaso che Romolo con gli auspìci, Numa con l’istituzione del rituale abbiano gettato le fondamenta della nostra città, che certamente non avrebbe mai potuto essere così grande se gli dèi immortali non fossero stati sommamente propizi” (Cicerone, De natura deorum, 3, 5).
Nessun passo sembra più adatto di questo per introdurre il discorso sulla divinazione presso i Romani. Per Cicerone, la religio si compone essenzialmente di riti e di auspìci (“osservazione degli uccelli”, da avis “uccello” e specio, specere “guardare”) cui si aggiungono gli avvertimenti comunicati tramite presagi e prodigi. Gli auspìci dunque, come i riti, sono fondamentali nel rapporto tra uomini e dèi. A essi i Romani fanno ricorso, secondo la tradizione, sin dalla fondazione di Roma. È Romolo che istituisce gli auspìci, mentre Numa è all’origine dei riti: gli uni e gli altri sono il fondamento della grandezza di Roma. Questo significa in altri termini che i Romani sono convinti di aver trovato la buona formula per comunicare con gli dèi offrendo loro doni durante i riti e interpretando correttamente i messaggi divini tramite le pratiche divinatorie.
Questo passo informa anche sui differenti tipi di divinazione in uso nella religione romana, cioè principalmente la presa degli auspìci e la lettura dei prodigi. Questi sono i modi di comunicazione impiegati nei culti pubblici cui si devono aggiungere la consultazione degli organi interni dell’animale durante i sacrifici (l’exstispicium) e la consultazione di oracoli che si trovano all’esterno della città, cioè nel Lazio, e più in generale in Italia, ma anche in Grecia. Si racconta infatti che la consultazione dell’oracolo di Delfi sia alle origini della repubblica romana.
Durante il regno di Tarquinio il Superbo, secondo la tradizione, i suoi figli da Roma si recano a Delfi accompagnati da un cugino, Bruto, che ha la fama di essere uno stolto e un incapace, con il proposito di chiedere chi tra loro succederà al re. Quando l’oracolo predice che sarà re “colui che per primo darà un bacio alla madre”, i figli di Tarquinio, rientrati a Roma, si precipitano nella casa natale. In realtà è il solo Bruto ad aver capito che il dio Apollo si riferisce alla Terra, madre di tutte le creature: scendendo dalla nave, egli fa finta di cadere e tocca con le labbra il suolo. Grazie a quest’astuzia, Bruto prende la guida della città di Roma quando Tarquinio il Superbo e la sua famiglia sono esiliati, divenendo, lui che ha saputo interpretare le parole dell’oracolo, il primo console della neonata repubblica dei Romani (questo mito è stato studiato in tutte le sue varianti letterarie e significati antropologici da Maurizio Bettini, “Bruto lo sciocco”, in Le orecchie di Hermes, Einaudi 2000, p. 55 sgg.). La consultazione dell’oracolo di Delfi non è solamente un motivo mitico per i Romani, ma una realtà storica. Quando si manifestano i prodigi che precedono l’introduzione del culto della Magna Mater (204 a.C.), non solo si consultano i libri sibillini, ma si invia anche una delegazione a Delfi per conoscere le disposizioni del dio Apollo. La consultazione di oracoli che si trovano all’esterno della città rimane comunque una pratica eccezionale per i Romani, che preferiscono affidare la loro comunicazione con gli dèi a specialisti che agiscono sul territorio romano.
Questa comunicazione avviene principalmente in due modi: o sono i Romani a chiedere di ottenere dei segni (auguria impetrativa, “segni ottenuti”, perché richiesti) o sono gli dèi a inviare segni di loro spontanea volontà (auguria oblativa, “segni che si presentano” spontaneamente). Il collegio degli àuguri si occupa in generale dell’interpretazione di questi segni. È di loro competenza in particolare l’“inaugurazione”, cioè la consultazione dei segni divini che concernono una persona (in epoca preistorica forse il rex, in seguito alcuni sacerdoti come il flamen Dialis) o un luogo (il territorio di una città, lo spazio riservato a un tempio). In questi casi gli àuguri intervengono tra la decisione presa dalla comunità degli uomini, per esempio la designazione di una persona per una determinata carica religiosa, e la sua entrata in carica effettiva. Gli àuguri hanno la possibilità di bloccare un’impresa pubblica dichiarando che gli auspìci sono sfavorevoli (obnuntiatio). Hanno pertanto un potere politico assai importante. Le descrizioni antiche, soprattutto quella mitica dell’investitura del re Numa, fanno capire che l’augure opera accanto alla persona che chiede i segni. Insieme a lei scruta quel quadrato di cielo (templum), all’interno del quale si deve manifestare il segno richiesto e controlla che la procedura non sia invalidata da segni fortuiti di valore negativo, che testimoniano il disaccordo divino.
Tito Livio
Ab urbe condita, Libro I, cap. XVIII
Fattolo chiamare [scil. Numa], come Romolo nel fondare la città aveva assunto il potere dopo aver preso gli àuguri, così egli volle che anche per lui si consultassero gli dèi. Condotto quindi sulla rocca da un augure, che da allora in segno d’onore ebbe sempre quella carica sacerdotale, si sedette su una pietra, rivolto a mezzogiorno. L’augure prese posto alla sua sinistra, col capo velato, tenendo nella mano destra un bastoncino ricurvo, senza nodi, che fu chiamato lituo. Quando poi, rivolto lo sguardo alla città e alla campagna, e invocati gli dèi, ebbe delimitato le zone da oriente e da occidente, e proclamate fauste quelle verso mezzogiorno, infauste quelle verso settentrione, fissò mentalmente il punto più lontano cui poteva spingersi lo sguardo; allora, passato il lituo nella mano sinistra e posata la destra sul capo di Numa, così pregò: “Giove padre, se è destino che questo Numa Pompilio, di cui io tocco il capo, sia re di Roma, daccene sicuri segni entro i limiti che io ho tracciato”. Enumerò poi gli auspìci che desiderava gli fossero inviati. Quando li ebbe ricevuti, Numa, proclamato re, discese dal recinto augurale.
T. Livio, Ab urbe condita, trad. it. M. Scandola, Milano, BUR, 1987
I magistrati prendono gli auspìci sotto il controllo degli àuguri, i quali fanno attenzione che vizi di forma non invalidino la procedura. Questa pratica divinatoria accompagna tutte le imprese pubbliche. Il mito racconta come Romolo abbia preso gli auspìci prima di fondare Roma. I Romani continuano a farlo alla vigilia di momenti cruciali, come prima di partire per una campagna militare oppure prima di iniziare una battaglia. La pratica di consultazione si è semplificata nel corso del tempo. Alla fine della repubblica, secondo Cicerone (De divinatione 2, 71-72) il messaggio degli dèi non si legge più nel volo degli uccelli, ma nel comportamento dei polli, tenuti in gabbie e fatti uscire al momento opportuno. Se si precipitano sul cibo mangiandone con ingordigia fino a farne cadere delle briciole dal becco, il messaggio degli dèi è particolarmente favorevole (tripudium sollistissimum), mentre il rifiuto di cibo al contrario corrisponde a un dissenso divino.
Gli àuguri costituiscono uno dei quattro collegi sacerdotali maggiori. Il loro nome è collegato etimologicamente a auctor, auctoritas, augustus, e al verbo augere (aumentare). In altri termini, si può dire che l’àugure è una figura autorevole, cioè dotata di auctoritas, la quale ha il compito di accertare se un’azione godrà o meno della benedizione divina. Le etimologie antiche tuttavia spiegavano il termine augur in modo molto più semplice, cioè come il risultato della contrazione di avem gerere cioè colui che “gestisce il volo degli uccelli” (Paolo Diacono, Epitome di Festo, De verborum significatu, p. 2, ed. Wallace M. Lindsay, Teubner, Stuttgart 1997).
Gli auspicia oblativa, cioè i segni che si manifestano quando e dove vogliono gli dèi, servono ad avvertire gli uomini che la pax deorum (cioè l’accordo tra uomini e dèi) è in crisi. Tali segni a volte possono essere particolarmente significativi ed essere indicati con nomi diversi, che hanno la funzione di sottolineare aspetti diversi della manifestazione del messaggio divino. Il termine prodigium per esempio deriva da prod- e agere che significa “mettere davanti”. Il prodigium è dunque il messaggio che gli dèi presentano davanti agli occhi degli uomini. Il termine non ha in sé una connotazione negativa. Il termine omen, di cui è difficile stabilire l’etimologia, significa “segno”, “presagio” e come il precedente non designa un segno esclusivamente negativo.
Lo stesso si può dire di praesagium che mette piuttosto l’accento sul fatto di conoscere in anticipo: “previsione, presentimento”. Anche il termine monstrum ha preso una connotazione negativa solo in un secondo tempo. All’origine significa piuttosto “segno premonitore” (da moneo, monere che significa “avvertire”), poi si è specializzato per indicare una “mostruosità” della natura. Anche i verbi che descrivono il trattamento di questi segni meritano attenzione. Se la percezione dei segni è indicata da verbi come capere o accipere che significano “accogliere, accettare”, per esprimere la maniera in cui devono essere trattati vengono usati verbi come curare o procurare che normalmente traduciamo come “espiare” ma che propriamente significano piuttosto “prendersi cura di”, “occuparsi di”. I segni dunque vengono “curati” e per farlo ci sono diversi modi. I segni che si manifestano durante l’anno a Roma o nei dintorni sono riferiti al senato romano, che decide quali fra questi sono i messaggi effettivamente inviati dagli dèi. Questi devono essere interpretati. La pratica più semplice consiste nel rivolgersi ai pontefici che prescrivono la soluzione da applicare, per esempio l’esecuzione di un sacrificio.
In certi casi però si sente la necessità di far intervenire degli esperti più specifici come gli aruspici o i quindecimviri (“quindici uomini”). Gli aruspici (haruspices) sono degli specialisti che conoscono l’arte divinatoria etrusca e che, sulla base di questa, possono spiegare il significato di segni particolarmente inquietanti. Il mito della testa del Capitolium (Campidoglio) racconta una consulenza di questo genere.
Dionigi di Alicarnasso
Storia di Roma arcaica, Libro IV, 59-61
Si dice che in quel luogo si era verificato un mirabile prodigio: mentre scavavano le fondamenta e lo scavo era ormai sceso in profondità, fu rinvenuta una testa di un uomo sgozzato da poco, che aveva il volto ancora simile a quello di un uomo vivo, mentre dal taglio sgorgava sangue ancora tiepido e fresco. Tarquinio alla vista di tale prodigio, ordinò agli operai di sospendere lo scavo; fatti venire gli indovini della regione volle sapere da loro che cosa volesse significare il prodigio. Essi però non riuscivano a fornire alcuna spiegazione, ma rimisero agli indovini tirreni la comprensione di siffatti fenomeni. Egli dunque fece ricerche presso costoro per sapere chi fosse il più famoso tra questi analizzatori di prodigi e inviò da lui come ambasciatori i personaggi più stimati della città.
Dionigi di Alicarnasso, Storia di Roma arcaica, trad. it. F. Cantarelli, Milano, Rusconi, 1984
Dopo l’apparizione di una testa decapitata i Romani decidono di consultare un indovino etrusco che tenta di sviare il prodigio perché diventi favorevole agli Etruschi. Ma non tutti gli aruspici etruschi dovevano essere come quello di questa storia. Si pensa piuttosto che questi specialisti, proprio come dei professionisti del mestiere, mettessero la loro arte al servizio di chiunque richiedesse una consulenza. La lettura di questo mito fa comprendere che il segno in sé non ha un contenuto univoco, ma riceve un valore dall’interpretazione che ne viene data. Tale aspetto è ancora più evidente quando per interpretare un segno si fa ricorso ai quindecimviri (prima duomviri, poi decemviri, infine quindecimviri sacris faciundis) che consultano i Libri Sibillini su ordine del senato. I quindecimviri si recano a consultare i libri conservati nel tempio di Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio, una raccolta di oracoli scritti in esametri greci su un supporto di lino. Le modalità di consultazione si possono solamente immaginare perché nessun testo antico le descrive precisamente. Cicerone (De divinatione 2, 111), quando discute dell’efficacia della divinazione, ne dà qualche informazione, che non risulta però molto chiara.
Marco Tullio Cicerone
De divinatione, Libro II, 111-112
Che quel carme, poi, non sia il parto di uno spirito invasato, lo rivela sia la fattura dei versi stessi (che sono un prodotto di arte raffinata e accurata, non di eccitazione e di impeto), sia quel tipo di composizione che si suol chiamare “acrostico”, nella quale leggendo di seguito le prime lettere di ciascun verso, si mette insieme un’espressione di senso compiuto […] E nei libri sibillini, l’intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di seguito le prime lettere di quella frase.
Cicerone, De divinatione, trad. it. S. Timpanaro, Milano, BUR, 1988
Il responso formulato da questi interpreti del volere divino consiste nel prescrivere un’espiazione (generalmente dei riti di supplica o un sacrificio, più raramente l’introduzione di un nuovo culto) che viene trasmessa al senato. I quindecimviri si occupano anche di eseguire l’espiazione dopo aver avuto l’accordo del senato. È opportuno ricordare che i Libri Sibillini godono a Roma di un grande rispetto. Il mito racconta che furono dati al popolo romano da una vecchia (si tratta di una Sibilla, cioè una profetessa che agisce su ispirazione divina), la quale propose al re Tarquinio Prisco o Tarquinio il Superbo di comprarli per un prezzo esorbitante e, in qualche modo, crescente.
Aulo Gellio
Noctes Atticae, Libro I, cap. XIX
La seguente storia sui libri Sibillini è stata registrata negli antichi annali. Una vecchia, straniera e sconosciuta, si presentò al re Tarquinio il Superbo con nove libri in mano: diceva che erano oracoli divini e che li voleva vendere. Tarquinio s’informò sul prezzo. La donna chiese una cifra enorme, spropositata; il re la prese in giro, come vecchia rimbambita. Allora essa, sotto i suoi occhi, apparecchia un fornello, fa fuoco, ci brucia tre dei nove libri; poi chiese al re se era disposto a comprare allo stesso prezzo i sei rimasti. Tarquinio a quella vista rise ancora di più e disse che la vecchia senza dubbio ormai sragionava. La donna, lì su due piedi, bruciò altri tre libri; poi con tutta calma torna a chiedergli di comprare i tre rimasti, sempre a quel prezzo. Tarquinio a questo punto si fa serio in viso e ci pensa su bene; capisce che una costanza e una fermezza di quel genere non è da prendere con leggerezza; acquista i tre libri residui allo stessissimo prezzo richiesto per tutt’e nove. E quella donna, una volta allontanatasi da Tarquinio, si seppe che poi non fu vista in nessun luogo. I tre libri furono riposti in un santuario e chiamati “sibillini”; a essi, come a un oracolo, si rivolgono i quindecemviri quando bisogna consultare nell’interesse pubblico gli dèi immortali.
A. Gellio, Le notti attiche, trad. it. di G. Bernardi-Perini, Torino, UTET, 1996
Il re li depose nel tempio di Giove Capitolino dove rimasero fino all’83 a.C., un incendio li bruciò insieme al tempio. Nel 76 a.C. il senato fa fare delle ricerche a Samo, in Sicilia e in Africa per ricostruire gli oracoli. Questi libri vengono di nuovo deposti nel tempio che è stato ricostruito fino al 12, anno in cui Augusto li sposta nel tempio di Apollo sul Palatino e ne fa fare una revisione. Le vicende mitiche e storiche dei Libri Sibillini fanno capire che i Romani li considerano molto preziosi, anche se a essi non viene attribuito uno statuto di “libro sacro”, com’è dimostrato dal fatto che possono essere sostituiti quando gli originali sono bruciati. Anche il loro contenuto non sembra importante in se stesso, altrimenti i quindecimviri, che li conoscevano bene, avrebbero potuto riscriverli una volta scomparsi.
Sortes e divinazione privata
Un’altra interessante forma di divinazione romana è quella costituita dalle sortes, cioè le tessere in osso o in legno, proprie di alcuni riti di divinazione come quello praticato nel Tempio della Fortuna di Preneste. In questo santuario si fa scivolare un bambino nella caverna sotterranea dove vengono conservate le sortes per prenderne in modo casuale alcune (cioè per “tirarle a sorte”). Le riporta poi in superficie dove sono interpretate da esperti. Le sortes come i libri sibillini costituiscono degli strumenti per far parlare gli dèi, che si esprimono attraverso segni da interpretare.
Accanto alle pratiche divinatorie proprie della religione pubblica, esiste anche la divinazione privata, affidata a specialisti ai quali i cittadini si rivolgono per conoscere la disposizione degli dèi su questioni precise, ponendo loro forse le stesse domande che sono ancora oggi poste alle cartomanti. Di questi specialisti chiamati vates o harioli si sa molto poco. A volte sembra trattarsi di persone itineranti che difficilmente si distinguono dai magi o dagli astrologi. A differenza degli specialisti della divinazione pubblica, che godono di grande rispetto, questi indovini privati sono presi di mira dalla satira che rimette in questione la fondatezza del loro sapere o le loro buone intenzioni.
Marco Tullio Cicerone
De divinatione, Libro I, 132
Ora, però, dichiarerò solennemente che io non do credito ai volgari estrattori di sorti, né a quelli che fanno gli indovini per trarne guadagno, né alle evocazioni delle anime dei morti, alle quali ricorreva il tuo amico Appio. Non stimo un bel nulla gli àuguri marsi, né gli arùspici di strada, né gli astrologi, né i profeti di Iside, né i ciarlatani interpreti di sogni. Essi non sono indovini per scienza e per esperienza, ma sono “vati (vates) superstiziosi e impudenti spacciatori di frottole (harioli), incapaci o pazzi o schiavi del bisogno: gente che non sa andare per il proprio sentieruccio e pretenderebbe d’indicare la strada al prossimo. Da quelli a cui promettono richezze, chiedono un soldo. Da quelle richezze prendano per sé un soldo di ricompensa, e ci diano, come è dovuto, tutto il resto”. E questo lo dice Ennio. Che pochi versi prima afferma che gli dèi esistono, ma ritiene che non si curino delle cose umane. Io invece, che ritengo che gli dèi non solo se ne curino ma anche ci ammoniscano e ci predìcano molte cose, credo nella divinazione, quando se ne siano escluse le forme sciocche, mendaci, fraudolente.
M.T. Cicerone, De divinatione, trad. it. S. Timpanaro, Milano, BUR, 1988