poteri, divisione dei
Il primo teorico della politica a parlare di divisione o separazione dei p. è stato Locke nel Secondo trattato sul governo (1690): qui egli separa il p. legislativo (che è eletto dal popolo, ed è il p. supremo) dal p. esecutivo (detenuto dal monarca, e senz’altro subordinato al primo). Ma il teorico per eccellenza della divisione dei p. è Montesquieu, che nello Spirito delle leggi (1748) scrive: «Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. […] Tutto sarebbe perduto se la stessa persona o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti e le liti dei privati». Senonché, da un attento esame dello Spirito delle leggi si ricava che i p. che devono essere separati e bilanciati (poiché il giudiziario, in quanto p., deve essere «invisibile e nullo») sono il p. del re, quello della Camera alta e quello della Camera bassa. Separazione e bilanciamento di questi p. significano che la società non può essere governata in modo dispotico da un solo p., ma, appunto, da tre p., che devono accordarsi, affinché ogni decisione politica sia condivisa dal complesso del corpo sociale. Con ciò Montesquieu ha espresso la condizione essenziale del costituzionalismo moderno. Un critico aspro della divisione dei p. fu Rousseau, per il quale la volontà generale è tanto inalienabile quanto indivisibile.