Divisione del lavoro
La vastissima area tematica che si riferisce alla divisione del lavoro contiene alcuni dei problemi fondanti delle due maggiori discipline scientifiche della società, economia e sociologia. Per problema fondante qui s'intende quel tipo di problema rispetto al quale una disciplina definisce uno dei suoi paradigmi di base. Nel caso dell'economia e della sociologia, ci riferiamo dunque a quei paradigmi che, nel corso del XVIII e del XIX secolo, le distaccarono progressivamente dall'amalgama indifferenziato della storia e della filosofia morale e politica preesistenti alla separazione delle discipline. Quali sono questi problemi? Rispondere a questa domanda comporta una drastica selezione tematica e bibliografica, i cui criteri, dopo l'abbozzo storico del capitolo seguente, sono resi espliciti in quello successivo. (Per avere una prima idea dei temi omessi dalla presente trattazione e della bibliografia che a essi si riferisce, v. Cavalli e Tabboni, 1981; si consiglia altresì, per una migliore comprensione dei capitoli 3 e 4, la consultazione di una buona storia dell'analisi economica: v. ad esempio Screpanti e Zamagni, 1989).
La divisione del lavoro è antica quanto la società o, meglio, è un carattere essenziale della 'società': senza divisione del lavoro un insieme di individui è solo un insieme di individui, non una società in grado di riprodursi e prosperare. Una ripartizione dei compiti necessari alla sopravvivenza e alla prosperità di un gruppo sociale è stata praticata sempre, anche dalle più piccole e primitive comunità di cacciatori-raccoglitori di cui siamo a conoscenza. Coll'avvento dell'agricoltura stanziale e con la formazione di un'eccedenza stabile di beni alimentari e di materie prime, lentamente si sviluppa una ripartizione delle attività tra le persone sempre più articolata e permanente. Nella famiglia contadina e in comunità piccole e isolate i beni necessari alla sussistenza - il cibo, gli indumenti, l'abitazione, i semplici strumenti utilizzati nella produzione - sono pur sempre prodotti mediante attività a tempo parziale dai membri della famiglia o da un gruppo plurifamiliare poco esteso. Ma nelle comunità più grandi, e soprattutto nelle città, compaiono i mestieri, attività a tempo pieno per le quali è indispensabile un periodo di addestramento non breve e che, nel corso del tempo e per progressive differenziazioni, creano una gamma sempre più vasta di attività artigianali e commerciali ben distinte: dalla falegnameria alla concia delle pelli, dalla tessitura alla tinteggiatura dei tessuti, dalla lavorazione dei metalli a specifiche attività di carpenteria, dal trasporto delle merci per terra o per via d'acqua al loro acquisto e vendita nei mercati.
Non solo. Accanto alla specializzazione per mestieri - dunque per la produzione artigianale e commerciale di beni o servizi finiti, aventi sia un valore d'uso per i loro fruitori, sia, di solito, un valore di scambio realizzabile sul mercato - si viene ben presto a definire un'altra forma di divisione del lavoro. Questa ha luogo in alcune imprese di notevoli dimensioni, di cui esempi tipici sono le opere edilizie e idrauliche di utilità comune, l'estrazione dei minerali, le grandi costruzioni navali: tutti casi in cui si rende necessario il lavoro coordinato di numerosi lavoratori. Anche in questo caso troviamo lavoratori a tempo pieno e con mansioni specializzate. Essi però non si dedicano, in condizioni autonome, alla costruzione/fornitura di un bene/servizio finito e vendibile sul mercato; bensì sono addetti all'esecuzione di un segmento di un grande lavoro d'insieme - di solito un segmento ripetitivo e di facile apprendimento - e svolgono il loro lavoro in condizioni di stretta subordinazione gerarchica. I lavoratori di un cantiere edile o di una miniera dell'antichità erano di solito schiavi; ma la forma di divisione del lavoro cui erano soggetti non differiva molto da quella cui saranno soggetti i fanciulli e le donne 'liberi' in una manifattura alla fine del XVIII secolo.
Queste due forme archetipiche di divisione del lavoro - per diversi prodotti o servizi normalmente venduti sul mercato, ovvero per diversi aspetti della lavorazione di un singolo prodotto - erano già assai sviluppate agli inizi dell'epoca storica, nelle grandi civiltà della Mesopotamia, dell'Egitto e della Cina. E i vantaggi che conseguivano a una più elevata specializzazione dei compiti - in particolare i vantaggi in termini di qualità del prodotto - erano perfettamente noti ai Greci dell'età classica.
"Proprio come i vari mestieri sono maggiormente sviluppati nelle grandi città, così il vitto, a palazzo, è preparato in maniera di gran lunga superiore. Nei piccoli centri lo stesso uomo fabbrica letti, porte, aratri, tavoli, e spesso costruisce anche le case, e ancora è ben felice se può trovare abbastanza lavoro per sostenersi. Ed è impossibile che un uomo dai molti mestieri possa farli tutti bene. Nelle grandi città, invece, poiché sono molti a richiedere i prodotti di ogni mestiere, per vivere basta che un uomo ne conosca uno solo, e spesso anche meno di uno. Per esempio, un tale fabbrica scarpe da uomo, un altro scarpe da donna, e vi sono luoghi dove uno può guadagnarsi da vivere riparando scarpe, un altro tagliando il cuoio, un altro cucendo la tomaia, mentre un altro ancora non esegue nessuna di queste operazioni, ma mette insieme le varie parti. Di necessità, chi svolge un compito molto specializzato lo farà nel modo migliore".
Questo brano della Ciropedia di Senofonte (v. Cavalli e Tabboni, 1981, p. 9) - analogo a passaggi simili in Platone e Aristotele - non solo connette la qualità del prodotto alla divisione del lavoro, ma connette l'intensità della divisione del lavoro all'ampiezza del mercato. Se avesse ragionato in termini di quantità invece che di qualità, di valori di scambio invece che di valori d'uso, Senofonte sarebbe stato in grado di cogliere l'intera catena di causazione circolare cumulativa che sostiene la ricchezza delle nazioni e la sua crescita (v. Myrdal, 1957; tr. it., pp. 22-30). Certo, l'intensità della divisione del lavoro dipende dall'ampiezza del mercato; ma a sua volta l'ampiezza del mercato dipende dalla divisione del lavoro, poiché questa accresce la quantità del prodotto (non solo la qualità) a parità di risorse impiegate nella produzione. Ora, poiché da ultimo le merci si scambiano l'una con l'altra, un'intensa divisione del lavoro, causando una grande offerta di tutte le merci, alimenta una sostenuta domanda reciproca per ognuna di esse. A sua volta, una domanda sostenuta induce a intensificare la divisione del lavoro, il che crea mercati ancor più ampi e così di seguito.
Senofonte, naturalmente, non poteva cogliere la catena di causazione che abbiamo appena descritto, poiché essa non operava nelle società da lui conosciute: le città antiche, attraverso gli scambi coll'estero, ma soprattutto attraverso il loro potere politico sulle campagne, si appropriavano di un'ampia eccedenza e potevano quindi sostenere un vasto stuolo di artigiani e commercianti. Qui però la catena si interrompeva, poiché i rapporti di produzione nelle campagne e la stessa organizzazione artigianale e commerciale nelle città impedivano di ricavare un'eccedenza ancora maggiore, quindi una maggiore domanda per i prodotti della città. E la catena continuò a interrompersi sino al tardo evo moderno: le grandi città commerciali del basso Medioevo furono sedi di un'attività produttiva ben più specializzata e vitale delle città antiche, ma anch'esse non riuscirono a muovere il passo decisivo che avrebbe trasformato l'artigianato corporativo in una vera e propria industria manifatturiera. Dai tempi in cui Senofonte istruiva Ciro, dovevano passare più di due millenni prima che si creassero, nelle campagne e nelle città, rapporti sociali e politici capaci di alimentare il circuito di crescita economica - di intensificazione rapida e continua della divisione del lavoro - che più sopra è stato appena delineato. E tutto questo si realizzerà con il capitalismo.In astratto, il capitalismo non è l'unico involucro sociale idoneo a contenere una divisione del lavoro intensa e capace di autointensificarsi. Lo è stato però nell'esperienza storica concreta: agli osservatori coevi la rivoluzione industriale - una intensificazione senza precedenti nella divisione del lavoro e per conseguenza un incremento straordinario della produzione materiale - e la rivoluzione dei rapporti sociali di produzione che prenderà il nome di capitalismo appaiono indistinguibili. Non li distingue certo Adam Smith nei celeberrimi tre capitoli iniziali del primo libro della Ricchezza delle nazioni (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 9-25), quando considera la divisione capitalistica del lavoro che andava sviluppandosi sotto i suoi occhi come il frutto naturale di una innata propensione umana allo scambio. Ma non li distingue propriamente neppure Karl Marx che, all'opposto, accentua in modo esasperato il legame tra divisione del lavoro e rapporti sociali di produzione, e in particolare tra divisione manufatturiera del lavoro e capitalismo (v. Marx, 1867-1894, vol. I, 2, cap. 12; tr. it., pp. 34-70). L'analogia che più sopra abbiamo istituito tra un cantiere edile dell'antichità e una manifattura alla fine del XVIII secolo - poiché in entrambi si coordinano gerarchicamente lavoratori addetti a diversi aspetti della lavorazione di un'unica opera collettiva - sarebbe stata respinta come fuorviante da Marx. È invece un'analogia molto utile, e su questo tema importante torneremo nell'ultimo capitolo.
L'accelerazione e l'intensificazione della divisione del lavoro - la rivoluzione industriale - e la trasformazione dei rapporti sociali di produzione che la rese possibile - il capitalismo - furono i grandi processi riflettendo sui quali prima l'economia e poi la sociologia si costituirono in discipline autonome; è da questa riflessione che nascono i problemi fondanti cui abbiamo fatto cenno all'inizio. Data l'enorme dimensione del campo d'indagine - non c'è argomento economico o sociologico che non possa essere ricollegato alla divisione del lavoro - alcune restrizioni sono inevitabili.Innanzitutto, in base all'epoca storica e alla complessità economico-sociale: i problemi cui faremo riferimento sono problemi di società complesse e di società moderne, che stanno attraversando o hanno portato a termine la rivoluzione industriale. Questa restrizione tematica comporta naturalmente una restrizione disciplinare, poiché non potremo considerare molti e importanti contributi storici e antropologici.Secondariamente, una restrizione in base al tipo di attività di cui si considera la divisione: sia pure in senso lato, ci riferiamo alla divisione delle attività economiche, e neppure all'intero campo su cui essa opera. Non tratteremo dunque i molteplici fenomeni di differenziazione e specializzazione di natura non economica: ad esempio, la divisione del lavoro intellettuale o la differenziazione delle funzioni politiche.In terzo luogo, in base ai ruoli, piuttosto che ai soggetti. Una distinzione rigida è difficilmente praticabile, poiché tra i ruoli e le persone che li occupano esistono sovente relazioni assai strette. Sono però i ruoli definiti dalla divisione del lavoro l'oggetto di questo articolo, non le caratteristiche personali di chi normalmente li svolge. Questa terza restrizione è necessaria, ma piuttosto grave; in parte essa è implicita nella prima, poiché i caratteri personali sono inseparabili dai ruoli soprattutto nelle società primitive o antiche. Ma casi in cui è difficile trattare dei ruoli senza considerare i caratteri personali di chi li occupa sono frequenti e importanti anche nelle nostre società: la divisione sessuale del lavoro, in particolare, renderebbe necessaria la stesura di una voce apposita.
Fatte queste restrizioni, i problemi cui faremo riferimento sono quelli relativi ai tre principali modi di coordinamento della divisione del lavoro operanti in società industrializzate: il mercato, il piano sociale e il piano organizzativo. Questi tre modi coordinano due diverse forme di divisione del lavoro, le eredi contemporanee di quelle 'forme archetipiche' che abbiamo già incontrato (per diversi prodotti, normalmente destinati al mercato, ma distribuibili anche mediante un piano; o per diversi aspetti della lavorazione di un singolo prodotto, all'interno di una struttura organizzativa stabile).
Abbiamo usato intenzionalmente lo stesso termine - 'piano' - per designare due modi di coordinamento diversi allo scopo di sottolineare l'unità concettuale degli stessi: che si applichi all'intera società o a una singola unità produttiva, il concetto di piano rende l'idea di una distribuzione dei compiti lavorativi plasmata da ordini provenienti da un centro. Abbiamo però poi distinto i due modi di coordinamento per segnalare una diversità fenomenica di cui la crisi delle economie pianificate rivela oggi la straordinaria importanza: il coordinamento 'pianificato' di una singola unità amministrativo-produttiva immersa in un sistema di mercati rappresenta una questione ben diversa - e non solo per ragioni di dimensioni e di complessità - dal coordinamento pianificato di un'intera società moderna e altamente differenziata.
Il mercato e il piano sociale costituiscono modi di coordinamento di quella forma 'archetipica' che normalmente è definita come divisione sociale del lavoro. Come abbiamo già visto, con essa ci si riferisce alla differenziazione sempre maggiore di prodotti e servizi, la fornitura dei quali costituiva l'attività economica prevalente di singoli artigiani e commercianti prima della rivoluzione industriale; dopo di questa, molte attività artigianali e commerciali si sono trasformate in vere e proprie imprese, costituenti industrie o settori relativamente omogenei. La vendita sul mercato delle merci e dei servizi - o comunque la trasmissione in altro modo agli utenti - è normalmente il mezzo con cui i produttori ottengono le risorse per soddisfare i propri bisogni e reintegrare gli strumenti e le materie prime necessarie alla continuazione del processo produttivo. Il mercato costituisce oggi il modo di gran lunga prevalente attraverso il quale i beni e i servizi vengono trasmessi da chi li ha prodotti a chi li utilizza. Il piano sociale - un sistema di trasmissione imposto e regolato da un'autorità centrale - ha rappresentato il modo di coordinamento della divisione sociale del lavoro sino a oggi dominante nelle economie dei paesi comunisti; in forme meno ampie che nel passato, è possibile che esso continuerà a regolare segmenti importanti di quelle economie, così come regola non pochi aspetti della divisione sociale del lavoro in alcuni paesi capitalistici.Il piano organizzativo è il modo di coordinamento della seconda forma archetipica di divisione del lavoro, quella mediante la quale i lavoratori svolgono come mansione stabile solo un frammento del lavoro d'insieme; ed è solo il lavoro d'insieme, coordinato in una struttura organizzativa permanente, a produrre un bene o un servizio utile per i fruitori, ad essi trasmesso mediante quei modi di coordinamento della divisione sociale del lavoro che abbiamo appena visto. Comunemente, anche se impropriamente, questa seconda forma archetipica viene definita come divisione 'tecnica' del lavoro. Marx, come abbiamo già visto, la definisce come divisione 'manifatturiera' del lavoro, espressione che ne accentua troppo sia il carattere capitalistico, sia il carattere industriale. In modo più generico, ma valido per ogni modo di produzione e per ogni settore di attività, possiamo definirla come divisione organizzativa del lavoro.Va infine ricordato che, in società complesse e moderne, la stessa distinzione tra divisione sociale e organizzativa del lavoro deve essere intesa in senso logico e non implica una differenziazione netta e stabile delle attività che ricadono sotto le due 'forme archetipiche'. Un prodotto - ad esempio una ruota dentata di un certo materiale, diametro e spessore - può costituire il risultato finale di un'impresa che produce ruote dentate, e dunque essere una merce comprata sul mercato da altri soggetti che la utilizzano, come può costituire un componente intermedio fabbricato all'interno di un'impresa che produce come merce finale trattori, ad esempio. I confini tra divisione sociale e organizzativa del lavoro, tra mercato e gerarchia, si spostano in continuazione nel tempo e sono diversi tra luogo e luogo, in risposta a logiche sulle quali torneremo più avanti.Queste definizioni sono sufficienti. Sulla loro base è ora possibile affrontare i problemi 'fondanti' che la divisione del lavoro e la sua straordinaria accelerazione nel modo di produzione capitalistico hanno posto agli studiosi, contribuendo così alla formazione dei paradigmi di base delle grandi discipline scientifiche della società.
È stato sovente osservato come la celebre trattazione della divisione del lavoro con cui si apre la Ricchezza delle nazioni (v. Smith, 1776) non sia né originale né completa. Non originale, in quanto trattazioni assai simili erano disponibili nella letteratura nota ad Adam Smith, dai classici greci all'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert; non completa, in quanto un'osservazione accurata della divisione organizzativa del lavoro nelle manifatture coeve avrebbe consentito di scoprire altre cause di crescita della produttività del lavoro e di graduare diversamente l'enfasi posta sulle cause analizzate (v. Groenewegen, 1987, pp. 902-903). Per indagini più ricche e penetranti sarà necessario attendere osservatori con una vasta esperienza di prima mano dei processi di produzione industriale - Charles Babbage (v., 1832) è giustamente l'autore più famoso in questo ambito - o, ancora più tardi, studiosi capaci di riflettere con forte spirito critico su un'ormai molto ampia letteratura tecnica e aziendale (v. Marx, 1867-1894).
Se poi consideriamo l'approfondimento teorico, anche in questo l'analisi di Adam Smith non procede molto oltre quanto era allora comunemente noto: che la divisione del lavoro dipendesse dall'ampiezza del mercato già lo diceva Senofonte, come abbiamo appena ricordato. È vero che Smith, nella realtà protocapitalistica in cui opera, vede chiaramente che l'ampiezza del mercato stimola non solo una migliore qualità dei prodotti, ma anche una maggiore quantità, e questa, in misura assai più ampia di quanto avvenisse nel mondo di Senofonte, va anche a vantaggio dei ceti più umili della società. E certamente Smith intuisce che nella società in cui viveva la divisione del lavoro stava approfondendosi e intensificandosi: dunque, che la ricchezza delle nazioni aumentava (v. Kindleberger, 1976). Ma in nessuna delle sue opere egli descrive in modo chiaro quel processo di causazione circolare cumulativa cui abbiamo fatto cenno precedentemente, aggiungendo all'affermazione di Senofonte (la divisione del lavoro dipende dall'ampiezza del mercato) quella secondo la quale l'ampiezza del mercato dipende a sua volta dalla divisione del lavoro. Per far questo mancava a Smith una piena consapevolezza della 'legge di Say', come verrà in seguito chiamata (la capacità di comprare dipende dalla capacità di produrre, e dunque una più intensa divisione del lavoro, cioè una maggiore capacità produttiva, crea potenzialmente mercati più ampi: v. Sowell, 1987). Gli faceva inoltre difetto una precisa comprensione del fatto che il gioco tra le due proposizioni ora descritte crea effetti dinamici, un processo espansivo in cui un incremento nella divisione del lavoro allarga i mercati in modo tale da provocare un ulteriore incremento della divisione stessa. Bisognerà attendere studiosi assai più vicini a noi - Allyn Young (v., 1928) e poi Gunnar Myrdal (v., 1957) e Nicholas Kaldor (v., 1972) - per ottenere un'analisi approfondita del processo di causazione circolare e cumulativa da cui è alimentato lo sviluppo economico.
Non è però la completezza e l'originalità dell'analisi della divisione del lavoro, presa in se stessa, ciò che costituisce il grande contributo di Adam Smith, e neppure il rigore teorico della sua trattazione; il contributo più importante è la connessione che egli stabilisce tra divisione del lavoro e crescita della ricchezza delle nazioni; ovvero, come oggi diremmo, tra divisione del lavoro e sviluppo economico. Attraverso questa connessione, Smith abbozza un primo, importante paradigma per la nascente economia politica, un paradigma che con alterne fortune rimarrà parte integrante della disciplina sino ai giorni nostri.In breve e molto schematicamente. Per Smith lo sviluppo economico dipende da tre fattori: la produttività del lavoro (cioè: la quantità di prodotto conseguente a ogni unità di tempo di lavoro), la frazione dei lavoratori impiegata produttivamente (grosso modo: nella produzione di merci per il mercato) e il salario percepito da costoro. Se lasciamo da parte la questione del lavoro produttivo (più rilevante ai tempi di Smith che non ora) e se facciamo l'ipotesi che la differenza tra produttività e salario (per la stessa unità di tempo di lavoro) sia investita per estendere il processo produttivo mentre il salario è consumato, allora è evidente che la crescita economica sarà tanto maggiore quanto maggiore è la produttività e quanto minore è il salario. Dunque, sarà tanto maggiore, a parità delle altre condizioni, quanto più intensa è la divisione del lavoro, dalla quale la produttività del lavoro dipende. Molto semplice, ma non si tratta di un risultato di poco conto. La nascente economia politica si dà come obiettivo quello di studiare le cause che rendono più elevata la crescita del reddito nazionale e correttamente le identifica in cause storico-strutturali (la proporzione tra lavoratori produttivi e improduttivi), in cause tecnico-organizzative (la divisione del lavoro e i livelli di produttività che ne conseguono) e in cause distributive (che governano la spartizione del prodotto tra capitalisti, salariati e proprietari terrieri). Per analizzare in modo coerente queste cause - e anzitutto per misurare le grandezze rilevanti - era poi necessario affrontare la questione dei prezzi ai quali le merci si scambiano e in base ai quali esse possono essere sommate come aggregati complessivi: reddito, consumi, profitti, ecc. Dunque, progresso tecnico (cioè: intensificazione della divisione del lavoro e crescita della produttività), distribuzione del reddito e valori di scambio: questo il programma dell'economia politica 'classica' (o quantomeno, il programma principale) quale emerge dalla grande opera smithiana.
Fino a quando questo programma rimarrà predominante - all'incirca fino alla fine del XIX secolo - l'analisi della divisione del lavoro avrà un posto tra i compiti 'rispettabili' dell'economista: gli economisti saranno dunque disposti a riflettere sui materiali sempre più copiosi prodotti dai tecnici e dagli uomini d'affari. Questo non è solo il caso di Marx, sicuramente eccezionale per l'ampiezza dell'indagine e la penetrazione critica; è anche il caso di John Stuart Mill, i cui Principles of political economy (v., 1848) domineranno l'insegnamento dell'economia nel Regno Unito dalla metà alla fine del secolo. Ancora nel 1890, quando già il programma di ricerca dell'economia era sostanzialmente cambiato, Alfred Marshall dedicherà tre capitoli dei suoi Principles of economics (v., 1890) alla divisione del lavoro e molti anni dopo, in un ambiente teorico ormai largamente indifferente al problema, pubblicherà un grosso lavoro di analisi empirica di cui il progresso tecnico e la divisione del lavoro sono uno dei motivi conduttori (v. Marshall, 1919).Al volgere del secolo, tuttavia, l'interesse per la crescita (e, con essa, per il progresso tecnico e la divisione del lavoro) è scomparso dalla teoria economica dominante e solo pochi eterodossi lo coltivano. Già Sidgwick (v., 1883, pp. 104-107) aveva suggerito di rimuovere dall'economia la trattazione degli aspetti tecnici della produzione e Robbins, nella tarda sistemazione metodologica dell'indirizzo teorico che aveva soppiantato l'economia classica, sosterrà che il tema della divisione del lavoro va lasciato agli ingegneri e agli psicologi (v. Robbins, 1932, pp. 32-38). Ciò è più che comprensibile, dato il nuovo centro d'attenzione della teoria economica: poiché questo è ora costituito dal problema dell'allocazione efficiente di beni e servizi a partire da preferenze, risorse e processi produttivi dati, ne consegue che il livello raggiunto dalla divisione del lavoro costituisce un elemento esogeno da cui si parte per risolvere il problema, non una parte del problema stesso. E, se si tratta di un elemento esogeno, lo si può ben prendere come dato dagli ingegneri. Sono loro che ci indicheranno quali 'funzioni di produzione' devono essere inserite nel modello economico affinché questo possa risolvere il problema cui è finalizzato: determinare i prezzi di tutti i beni e i servizi e le quantità di questi di cui ogni soggetto si appropria.
Ma è proprio scomparsa, la divisione del lavoro, dall'ambito problematico della teoria economica dominante nel corso del XX secolo? Con la scomparsa di un interesse forte per lo sviluppo economico sicuramente è venuto meno per un lungo periodo anche l'interesse a indagare le cause che sono all'origine della crescita della produttività. E lo spostamento dell'attenzione teorica sulla funzione allocativa dei mercati (piuttosto che sulla loro funzione di stimolo della produttività e del progresso tecnico) sembra lasciare ben poco spazio per ogni residuo interesse degli economisti verso la divisione del lavoro. Quest'ultima sarebbe però una conclusione erronea, in quanto la divisione del lavoro pone alla teoria economica moderna - neoclassica o marginalistica, come è comunemente denominata - problemi altrettanto fondanti di quelli che aveva posto all'economia classica. Problemi diversi, naturalmente, e che accentuano aspetti diversi della divisione del lavoro: non più la divisione tecnico-organizzativa, ma la divisione sociale del lavoro.
Esiste infatti un nesso fortissimo tra un'indagine rigorosa della funzione allocativa dei mercati e la divisione sociale del lavoro: di questa, infatti, il mercato costituisce il principale modo di coordinamento. Ma come fanno i mercati a funzionare? Com'è possibile che milioni di produttori e consumatori - animati soltanto dal proprio interesse, dedito ognuno di essi a un'attività produttiva che è in grado di soddisfare solo una frazione infinitesima dei propri bisogni, non coordinati da alcuna autorità centrale, ma liberi di acquistare da o vendere a chicchessia - riescano a soddisfare i loro bisogni in modo adeguato, o almeno tale in condizioni normali? Il coordinamento della divisione sociale del lavoro mediante il piano è facilmente comprensibile: il 'piano sociale', in fondo, non è se non l'evoluzione e l'adattamento all'intera società di quei processi di attribuzione dei compiti lavorativi mediante routines e ordini provenienti da un centro di cui tutti abbiamo un'esperienza immediata, a partire dalla famiglia in cui siamo nati per finire alle organizzazioni nelle quali gran parte di noi lavora. Il mercato è problematico; anzi, è poco meno di un miracolo il fatto che esso non soltanto funzioni, ma funzioni anche in modo ottimale, conducendo all'uso più efficiente delle risorse disponibili e alla massima soddisfazione dei consumatori finali."
La risposta di senso comune alla domanda 'ma come può funzionare un'economia composta di un gran numero di singoli agenti indipendenti?' è probabilmente questa: 'ci sarà un gran caos!' Una risposta ben diversa, invece, ha permeato il pensiero economico di un gran numero di persone, e non solo degli economisti" (v. Arrow e Hahn, 1971, p. VII). Questa risposta ben diversa, che gli autori ora citati formalizzano mirabilmente nel loro libro, ha un processo di gestazione molto lungo, che precede e poi accompagna lo sviluppo capitalistico delle società europee. Essa è preparata - come Albert Hirschman (v., 1977) ci ha ricordato - da una crescente considerazione sociale per il doux commerce: con alterne fortune, nel tardo Medioevo e nel corso dell'evo moderno, i valori aristocratici della nobiltà combattono con i valori mercantili della nascente borghesia e il successo del commercio - il fatto stesso che il commercio non dia luogo a 'un gran caos', ma ponga le basi per una più duratura ricchezza (e forza militare) delle nazioni - è decisivo nel conflitto ideologico. Rimaneva, e rimane tuttora, la convinzione che gli incentivi individuali di cui si alimenta il commercio siano di natura più bassa di quelli che sostenevano l'ordine aristocratico: non la gloria o l'onore, ma il tornaconto economico, il self-interest; vizi, dunque, non virtù. Ma i private vices possono diventare publick benefits: questo è scritto nella Fable of the bees di Bernard de Mandeville (v., 1714; v. anche Rosenberg, 1963). È lo stesso messaggio che trasmette il passo forse più citato della Ricchezza delle nazioni: "Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità, ma dei loro vantaggi" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 18).
Adam Smith è all'origine, come abbiamo visto nel capitolo precedente, del paradigma classico dello sviluppo economico, il primo dei due grandi modi attraverso i quali la riflessione sulla divisione del lavoro contribuisce alla nascita dell'economia politica. Ma egli è anche all'origine del secondo: le sue analisi sui benefici della concorrenza tra produttori numerosi e indipendenti, le sue critiche ai monopoli, privati o statali che fossero, il suo sostegno - cauto e costellato di eccezioni, ma chiarissimo in linea generale - a politiche di laissez faire, tutto contribuisce a una visione dei mercati concorrenziali come modalità naturale e benefica di organizzare la divisione sociale del lavoro. Mercati liberi e concorrenza inducono i produttori all'uso delle tecniche più efficienti e quindi - con l'aggiunta di un ragionevole profitto - consentono la formazione dei prezzi minimi compatibili con i costi associati a quelle tecniche. Mercati liberi e concorrenza risolvono nel modo storicamente più spontaneo e più efficace il problema essenziale della divisione sociale del lavoro, problema via via più complesso mano a mano che il progresso economico frammenta e specializza le attività lavorative e accresce il numero di prodotti intermedi e finali: quello di trasferire in modo spedito e senza ritardi le merci e i servizi da chi li produce a chi li utilizza.
Questa visione del mercato concorrenziale come "mano invisibile" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 444) che risolve efficacemente un problema di coordinamento sociale di straordinaria difficoltà senza che coloro i quali partecipano alla soluzione siano consapevoli di risolverlo e neppure di affrontarlo - perché ognuno di essi persegue obiettivi individuali e non coordinati; questa visione, appunto, come abbiamo già notato, non è Smith il primo a farla propria e neppure la conduce a formulazioni rigorose e coerenti. Smith è certo colpito, come Mandeville, dall'eterogenesi dei fini individuali, dal fatto che i 'vizi' privati si trasformino in pubblici benefici. Ma non è veramente sorpreso dal fatto che i mercati concorrenziali funzionino: che funzionino, che risolvano bene il problema del coordinamento economico, egli lo assume dall'osservazione della realtà, che accompagna con commenti di grande buon senso, ma non con analisi di grande rigore. Così come il buon senso prevale sul rigore nell'analisi dell'altro argomento cruciale: quello secondo il quale i mercati concorrenziali non solo funzionano in modo spedito ed efficace, ma anche in modo efficiente, tale cioè da utilizzare le risorse e le tecniche disponibili in modo da soddisfare al meglio i bisogni della popolazione. Come abbiamo già osservato a proposito dello sviluppo economico e del ruolo che in esso gioca la divisione organizzativa del lavoro, anche per l'analisi dei mercati concorrenziali come modo efficace ed efficiente di coordinare la divisione sociale del lavoro non è né l'originalità né il rigore che dobbiamo ricercare in Adam Smith. In Smith dobbiamo cercare, e la troviamo, una formulazione suggestiva e ben congegnata di problemi in precedenza considerati in modo parziale e disorganico; una formulazione problematica e fondativa, capace di definire e circoscrivere il campo di una nuova disciplina sociale.Il rigore verrà dopo; verrà con la rivoluzione neoclassica degli ultimi decenni del XIX secolo.
Saranno i neoclassici, anzitutto, a definire con precisione l'obiettivo rispetto al quale può essere valutata l'efficienza: alla nozione di 'ricchezza delle nazioni' essi sostituiranno il concetto di una funzione di utilità o di preferenza, una funzione che il singolo consumatore massimizza dati i prezzi dei beni e il bilancio a sua disposizione. Una teoria dell'utilità e del consumo così formulata mina alla base il paradigma 'classico' prima descritto: non più un processo circolare, che si ripete nel tempo su scala allargata, e in modo tanto più intenso quanto minori sono i salari e maggiore la produttività indotta dalla divisione del lavoro; bensì, per dirla con Piero Sraffa (v., 1960, p. 121), "un corso a senso unico", che conduce da risorse e da tecniche date alle preferenze dei consumatori finali, anch'esse assunte come funzioni individuali note dei beni, naturali o producibili. E saranno i neoclassici a chiarire in modo rigoroso il ruolo dei prezzi concorrenziali come segnali che provocano lo spostamento dell'offerta e della produzione verso i beni e i luoghi in cui c'è maggiore richiesta, là dove la domanda è più intensa; dunque a rappresentare i mercati come un gigantesco calcolatore, spontaneo e decentrato, al cui funzionamento ognuno di noi contribuisce semplicemente reagendo ai segnali di prezzo sulla base dei propri interessi, acquistando o non acquistando, producendo o non producendo.
Questa trattazione rigorosa dei mercati concorrenziali come modo ottimale di coordinamento della divisione sociale del lavoro costituisce la teoria dell'equilibrio economico generale, già definita nei suoi tratti essenziali da Léon Walras nella seconda metà del secolo scorso (v. Walras, 1874-1877) e condotta a livelli assiomatici di grande coerenza ed eleganza nel corso di questo, in opere come quella di Arrow e Hahn da cui abbiamo tratto una significativa citazione. Ci si può chiedere - e molti continuano effettivamente a chiederselo - se la ricerca del rigore e dell'eleganza formale non si sia troppo discostata dall'originario buon senso di Adam Smith. Ci si può chiedere, in altre parole, se l'equilibrio economico generale sia una rappresentazione adeguata (da ultimo, anche empiricamente adeguata) di come i mercati effettivamente funzionano; se riesca a chiarire del tutto il mistero del coordinamento economico di attività minutamente frammentate, indipendenti e finalizzate a scopi strettamente individuali. Molti, a questa domanda, hanno dato e danno una risposta negativa sulla base di argomenti piuttosto seri (v. per tutti Nelson e Winter, 1982; v. anche Ingrao e Israel, 1987).
Anzitutto i singoli agenti che compongono il grande calcolatore decentrato dei mercati concorrenziali non si comportano come i massimizzatori implacabili e onniscienti rappresentati dall'equilibrio economico generale: non bastano i segnali dei prezzi a compiere scelte univoche di massima utilità o profitto in tema di tecniche produttive, beni prodotti, attività lavorative e modelli di consumo in un mondo di complessità straordinaria, dove l'informazione è incompleta e costosa e dove il futuro proietta sul presente lunghe ombre d'incertezza. Gli agenti, dunque, decidono in condizioni d'incertezza e informazione incompleta, spesso sulla base di abitudini e di routines, e non di rado sbagliano. E se sbagliano il calcolatore funziona male, non assicura la congruenza tra scelte individuali ed esiti di benessere collettivo. Oltretutto esiste un'inconfutabile evidenza empirica sul fatto che il calcolatore decentrato dei mercati spesso funziona male, generando in tal modo sia squilibri locali sia vere e proprie crisi generali di sovrapproduzione, con conseguenze sull'occupazione talora drammatiche. L'elegante modello dell'equilibrio economico generale non ha risposte convincenti a queste obiezioni di natura teorica ed empirica: l'introduzione nel modello di condizioni d'incertezza, di problemi di squilibrio e di aggiustamento temporale all'equilibrio, di agenti operanti sulla base di informazioni incomplete e di routines non massimizzanti, rovina l'eleganza e la generalità delle soluzioni e conduce a risposte ad hoc, non uniformemente condivise.
Dunque, un bel po' di mistero aleggia ancora sul modo in cui i mercati, di fatto, riescono ad assolvere il ruolo di coordinamento della divisione sociale del lavoro, un problema che l'economia neoclassica si è proposta di risolvere in modo rigoroso. Il mistero si infittisce se consideriamo l'altro ruolo che i mercati assolvono, un ruolo che gli economisti neoclassici non hanno mai voluto o potuto considerare: quello di stimolo all'innovazione, al mutamento tecnico e organizzativo. Una buona efficacia allocativa, la capacità di distribuire in modo sollecito e a basso costo beni e servizi da chi li produce a chi li utilizza, costituisce sicuramente uno dei grandi vantaggi del mercato. Ma un altro vantaggio - e forse superiore, come vedremo fra poco raffrontando il mercato al 'piano sociale' - è quello di consentire, anzi di stimolare, un'incessante tensione innovativa nei partecipanti alla gara concorrenziale. È a questo carattere dei mercati e del capitalismo che fa riferimento David Landes, quando intitola la sua opera più famosa The unbound Prometheus (1969). È a questo che si riferisce Schumpeter (v., 1942; tr. it., p. 77) nella sua critica all'economia neoclassica: proprio all'incapacità di rappresentare "il turbine incessante della distruzione creatrice" che l'innovazione comporta. A questo si riferiva Kaldor (v., 1972) - e vi abbiamo già accennato - quando distingueva tra la funzione allocativa dei mercati e la loro funzione di stimolo del progresso tecnico e della divisione del lavoro. Ma se consideriamo il ruolo del mercato come stimolo al mutamento e all'innovazione ritorniamo al primo paradigma dell'economia, quello dello sviluppo. Per ora, almeno, nessuno è riuscito a legare in una teoria unitaria l'ottica neoclassica dell'allocazione efficiente con quella classica della crescita, dell'innovazione, delle crisi e dei cicli economici: è solo la realtà che salda insieme, anche se con crisi frequenti e costi non piccoli, questi due aspetti dei mercati capitalistici.
Seguendo Adam Smith, abbiamo presentato i mercati come una modalità storicamente spontanea di organizzare la divisione sociale del lavoro, come l'esito di un processo evolutivo che ha conosciuto bensì una forte accelerazione col capitalismo e la rivoluzione industriale, ma non soluzioni di continuità, brusche rotture provocate da interventi autoritari su una società che si auto-organizza. È possibile, com'è noto, avere un'idea ben diversa del capitalismo e vedere una rottura netta in ciò che abbiamo appena definito come una 'accelerazione'. Questa non è soltanto la visione di Marx. È anche l'idea di Karl Polanyi, documentata in modo stringente ne La grande trasformazione (1944): i mercati capitalistici - e in particolare quello che definisce il capitalismo stesso, il mercato del lavoro - non emergono da una lenta, tranquilla, molecolare evoluzione; non sono una costruzione socialmente spontanea nel senso comune di questo termine. Sono il frutto di una lotta violenta, in cui lo Stato e il potere politico svolgono un ruolo essenziale; sono l'esito di un progetto deliberato; sono dunque, in questo senso, costruzioni 'artificiali', che poi lentamente la società ha assimilato nei suoi modi di auto-organizzazione.
La ricostruzione di Polanyi è sicuramente più fedele alle turbolenze, alle lotte, agli interventi politici avvenuti durante la grande trasformazione di quanto non lo sia un racconto ingenuamente evoluzionistico. È però questione di misura e di proporzioni. La stessa ricostruzione di Polanyi, se confrontata con quanto avvenne in Unione Sovietica negli anni venti e trenta di questo secolo e dopo la seconda guerra mondiale negli altri paesi che imitarono il modello sovietico, sembra descrivere un processo di blanda e spontanea evoluzione: il 'piano sociale' costituisce infatti una rottura delle modalità preesistenti di organizzazione della divisione sociale del lavoro ben più radicale e drammatica del capitalismo, un disegno interamente calato dall'alto dal potere politico e quasi del tutto sprovvisto di forze spontanee e di interessi diffusi che lo andassero anticipando e prefigurando nella società. L'organizzazione della divisione sociale del lavoro mediante il 'piano sociale' - se si tiene conto della radicalità del disegno e del numero di paesi e persone coinvolti - è stato il più grandioso e tragico episodio di ingegneria sociale, l'esempio più sconvolgente di hybris prometeica mai verificatosi nella storia umana.Il disegno in sé, lo abbiamo già notato, è assai meno misterioso dei mercati, in quanto modo di organizzare la divisione sociale del lavoro, altro non essendo se non l'estensione all'intera società di quei sistemi di distribuzione gerarchica delle attività lavorative che vediamo funzionare nelle grandi organizzazioni o che in passato avevano regolato società e comunità semplici. Ma se il disegno del piano sociale è poco misterioso, in compenso la sua attuazione pratica in una società economicamente progredita e altamente differenziata, caratterizzata da milioni di lavoratori e consumatori, da milioni di prodotti e centinaia di milioni di atti di scambio, è mostruosamente complessa. E forse è stata proprio la semplicità del concetto di piano sociale, l'idea - in fondo - che si trattasse 'solo' di buona amministrazione, a trarre in inganno l'intera tradizione socialista: perché è a questa tradizione, e in particolare all'influenza su di essa del pensiero di Marx, che l'obiettivo del 'piano sociale' è intimamente legato; ed è al movimento politico di tradizione socialista, in particolare al movimento comunista, che l'attuazione di quell'obiettivo è dovuta.
Torneremo in seguito sui motivi per cui la critica marxiana al capitalismo è stata costretta a sfociare nella rivendicazione del 'piano sociale', di una modalità di coordinare la divisione del lavoro che, insieme alla proprietà privata, escludesse i mercati e dunque l'autonomia individuale che questi implicano. Dobbiamo ora comprendere quali siano gli ostacoli sistemici che incontra il piano sociale; come mai un'economia totalmente diretta dal centro, ridotta a una singola gigantesca organizzazione, funzioni male. Ci renderemo allora conto che la semplicità concettuale del piano è illusoria, che l'irriducibile complessità e aleatorietà della vita economica non può essere prevista e dominata da un piano e soprattutto che - in presenza di ordini necessariamente incompleti e imprecisi da parte dell'autorità centrale - le motivazioni dei singoli agenti coinvolti nel processo sono in grado di distorcere in modo significativo le finalità del pianificatore.
Queste sono conclusioni forti, che, a rigore, potrebbero essere sostenute solo da un'analisi che prendesse in considerazione tutte le possibili varianti di pianificazione. Di fatto, noi disponiamo di un numero di varianti piuttosto limitato e tutte derivanti da una matrice comune, la pianificazione sovietica degli anni trenta. Disponiamo inoltre sia di una ricca riflessione empirica legata a queste varianti, sia di una speculazione teorica più globale e astratta, in parte precedente a ogni esperienza concreta di pianificazione: si pensi che uno dei contributi più importanti, l'articolo di Enrico Barone su Il ministro della produzione nello Stato collettivista, è del 1908! Ora, è vero che la speculazione teorico-economica non ha escluso che un'economia in cui le singole imprese siano di proprietà pubblica possa replicare le modalità di funzionamento e raggiungere la stessa efficienza allocativa di un'economia decentrata, se si impongono opportune regole che i direttori delle imprese pubbliche e i responsabili della pianificazione sono tenuti a rispettare. L'astrattezza del modello teorico usato (il modello walrasiano di equilibrio economico generale), l'assenza di ogni considerazione dinamica e soprattutto la mancanza di ogni indagine motivazionale circa l'effettivo comportamento dei direttori delle imprese e dell'autorità di pianificazione, tolgono tuttavia a questa conclusione gran parte del suo significato (v. Brus e Laski, 1989, pp. 51-60). Ed è vero che le varianti di 'piano sociale' effettivamente messe alla prova non esauriscono tutte le varianti possibili; non si può dunque escludere che ne esista qualcuna che possa sfuggire alle difficoltà incontrate sinora dalla pianificazione centralizzata. Queste difficoltà, tuttavia, sembrano essere di natura sistemica e generale e non è facile immaginare come possano essere evitate da varianti di pianificazione non ancora sperimentate (v. Brus e Laski, 1989, capp. 6 e 8).
Quali sono queste difficoltà? In una sintesi estrema - analisi più approfondite possono trovarsi in Kornai (v., 1980) e in Nove (v., 1983) - esse sembrano scaturire dal modo in cui l'autorità di pianificazione affronta fenomeni inevitabili di complessità e aleatorietà e dal modo in cui gli agenti - le unità produttive in particolare - reagiscono alle indicazioni del pianificatore: sembrano scaturire dunque da fenomeni di motivazione. Una pianificazione centralizzata, che escluda i mercati dei prodotti intermedi e l'autonomia delle unità produttive (circa che cosa e quanto produrre, a chi vendere, da chi e quanto comprare, quanto investire), in definitiva consiste in un insieme di ordini di produzione e di destinazione del prodotto, nonché nella disponibilità di risorse provenienti, in tempi certi, da altre unità produttive: la disponibilità di risorse per un'unità produttiva è dunque la conseguenza di un corretto adempimento degli ordini di produzione e di consegna imposti ad altre unità produttive. Nel disegno originario della pianificazione tutti questi ordini dovevano riguardare quantità espresse in termini fisici. Data la quasi infinita varietà di prodotti, una specificazione in termini fisici è impossibile e, per quanto il dettaglio degli obiettivi sia molto spinto, l'autorità di pianificazione è costretta ad aggregare oggetti fisici tra loro diversi, dunque ad usare indicatori di valore: per esempio x rubli di elettropompe da 25 cavalli, categoria apparentemente ben circoscritta, ma che può contenere una dozzina di elettropompe diverse. (Va subito notato - e questo è un argomento di grande importanza, ma del quale non possiamo occuparci - che i prezzi utilizzati per compiere tali aggregazioni sono prezzi contabili, che non trasmettono le stesse informazioni dei prezzi competitivi. In particolare, essi non informano circa quanto veramente costi alla società la produzione di un certo prodotto: su questo argomento v. Nove, 1977).
Poiché l'incentivo per i direttori è quello di raggiungere (e superare) l'obiettivo prefissato dal piano, la situazione ora descritta induce comportamenti inefficienti e conservatori, di cui ci limitiamo a indicare i tre principali.Anzitutto essa induce a manipolare le priorità assegnate dal piano. Poiché gli obiettivi sono specificati in termini di valore, all'interno di ogni categoria si sceglieranno quei prodotti (quelle particolari elettropompe, nell'esempio di prima) che rendono più facile raggiungere l'obiettivo e non quelli che sono effettivamente richiesti: le imprese destinatarie o i consumatori saranno costretti ad arrangiarsi, poiché, dal punto di vista formale, l'ordine di produzione è stato rispettato e al direttore nulla può essere rimproverato. In secondo luogo, la situazione descritta induce i direttori a perseguire una perversa strategia di 'minimax': cioè a cercare di ottenere gli obiettivi meno impegnativi e insieme il massimo di risorse e dunque a fornire al pianificatore una sottostima sistematica della produttività potenziale dell'unità produttiva. Questo è possibile, naturalmente, poiché il pianificatore decide sulla base delle informazioni che riceve dall'unità produttiva stessa e non è in grado di fare abbastanza spesso dei controlli accurati e indipendenti. In terzo luogo, il sistema induce una profonda avversione al mutamento, che deriva dalle stesse motivazioni precauzionali che agivano nel caso precedente: preparare e introdurre una innovazione richiede sforzo e risorse, implica un mutamento nelle destinazioni del piano e, soprattutto, può non avere successo. Perché rischiare dunque?
Si tratta solo di esempi, ma essi danno un'idea chiara degli svantaggi del piano sociale come modo di coordinare e stimolare la divisione sociale del lavoro. Esistono anche vantaggi, naturalmente: in un'economia relativamente semplice e in una fase di prima industrializzazione, un'élite modernizzatrice capace e dotata del massimo potere politico può imporre, attraverso il piano, una destinazione di risorse agli investimenti produttivi che supera quella che il mercato spontaneamente attuerebbe e compensa ampiamente gli inconvenienti che abbiamo appena esemplificato. Ma, in fasi più avanzate di sviluppo, le tendenze al ristagno e al conservatorismo prevalgono e l'economia si trasforma in un gigantesco sistema burocratico, dove gran parte degli agenti - ovviamente con alcune eccezioni - cerca di rischiare il meno possibile e utilizza alla lettera le regole esistenti, in modo da evitare obiezioni da parte dei superiori gerarchici e nello stesso tempo ampliare i margini di sicurezza e di tranquillità operativa.
È questa tendenza al conservatorismo e al ristagno - di fronte a domande di benessere crescente della popolazione e di fronte allo sviluppo e alle innovazioni del confinante capitalismo - che ha decretato l'abbandono del piano sociale nella versione sovietica, anche se la transizione al mercato si presenta difficilissima. Ha vinto il mercato, in ogni caso, e ha vinto su entrambi i fronti che più sopra abbiamo descritto attraverso i due paradigmi fondamentali dell'economia politica: il fronte dell'innovazione e della crescita e il fronte dell'allocazione efficiente delle risorse. E su entrambi, in definitiva, il mercato ha vinto per una superiore capacità di motivazione.
Le unità produttive collegate dal piano, per quanto fisicamente simili alle loro controparti capitalistiche, non sono imprese, 'intraprese', unità indipendenti soggette alla sfida permanente di contenere i costi ed innovare per non soccombere, motivate dalla possibilità di appropriarsi dei frutti di ogni iniziativa che abbia avuto successo; sono degli agenti che eseguono ordini, semplici ingranaggi di una gigantesca organizzazione burocratica. Su scala ben più vasta, il 'piano sociale' presenta molti dei problemi di motivazione che devono affrontare tutte le organizzazioni gerarchiche, comprese le stesse imprese capitalistiche, quando superano certe soglie dimensionali: e questo è uno dei problemi che verranno discussi trattando della divisione organizzativa del lavoro. Ma la dimensione conta, e ancor più conta il fatto che le imprese sono unità indipendenti soggette a un continuo confronto competitivo nel mercato: per quanto grande sia l'impresa, per quanto sia difficile motivare gli agenti all'interno di una complessa struttura gerarchica, alla fine l'impresa combatte con altre imprese in un contesto di mercato e i suoi dirigenti sono motivati da considerazioni d'interesse personale al successo dell'organizzazione. Nel piano sociale non esistono imprese autonome, non esiste un gran numero di soggetti che subiscono i costi e si appropriano dei profitti conseguenti all'aver rischiato: ci sono solo agenti che devono scrupolosamente obbedire a regole e a ordini. Non è dunque la presenza di grandi organizzazioni, di lunghe e complesse catene gerarchiche a costituire un problema: queste ci sono anche nel capitalismo. Il problema discende dall'assenza del mercato; dal fatto, cioè, che le catene gerarchiche non terminano in un ampio numero di decisori autonomi che interagiscono nei mercati, ma continuano sino al vertice dell'autorità suprema di pianificazione, e questa stessa è composta da ... 'agenti'!Ma se è un fenomeno di motivazione e di incentivi ciò che rende superiore il mercato al piano sociale, sia nella funzione allocativa sia in quella di stimolo all'innovazione, ne discende che è difficile pensare a un mercato ben funzionante senza proprietà privata dei mezzi di produzione: senza la proprietà, com'è possibile garantire una vera autonomia alle imprese? Com'è possibile attribuire agli agenti i vantaggi di un'iniziativa che ha avuto successo e imporre loro i costi di un'altra iniziativa che si è risolta in un fallimento? In questi anni di difficoltà crescenti della pianificazione centralizzata si è molto discusso della possibilità di un mercato composto prevalentemente o esclusivamente da imprese pubbliche. I risultati della ricerca teorica e i non pochi esperimenti che si sono tentati non sembrano tuttavia essere favorevoli, almeno per ora, all'ipotesi di un mercato ben funzionante in assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione (v. Salvati, 1989, pp. 193-201; v. Brus e Laski, 1989, pp. 138-149).
Se il piano si è (sinora) rivelato inefficiente quando è stato condotto al limite estremo di coordinare l'intera divisione sociale del lavoro, nei suoi ambiti propri - come modo di coordinamento della divisione organizzativa del lavoro - esso è l'esito di un'evoluzione storica altrettanto lunga e altrettanto 'spontanea' di quella del mercato e, come il mercato, costituisce un modo di coordinamento flessibile ed 'efficiente'. Sugli aggettivi 'spontaneo' ed 'efficiente' è aperta la discussione: sul primo essa è alimentata soprattutto (ma non soltanto: v. § 8b) dalla tradizione marxista, che vede un salto qualitativo e una frattura deliberata nel passaggio tra le grandi organizzazioni precedenti il capitalismo e le manifatture capitalistiche; la discussione sul secondo ha origini ideologiche, culturali e disciplinari molto varie. Nessuno nega che il 'piano organizzativo' sia un modo efficace di coordinare numerosi lavoratori in vista di un valore d'uso finale che non può essere prodotto (o prodotto efficientemente) dai singoli in diretto contatto col mercato. Ma se le forme e le dimensioni effettive dell'organizzazione siano dovute solo a ragioni di efficienza; e qualora non lo siano, a quali altre esigenze rispondano; e, comunque, anche se il piano organizzativo è inevitabile, quali siano le sue disfunzioni e quali i modi per superarle: queste e altre sono state e sono questioni attivamente dibattute (per un'ampia rassegna, v. Bonazzi, 1989).
Dibattute sia da economisti, sia da sociologi, sia da studiosi con approcci disciplinari meno definiti. Dibattute con due orientamenti polari e molti intermedi: un orientamento descrittivo (come le organizzazioni effettivamente funzionano) e uno esplicitamente normativo (come le organizzazioni, o alcune organizzazioni, debbano funzionare). Dibattute, infine, a partire da diversi orientamenti ideologici e giudizi di valore. Basta questo riferimento alla pluralità di approcci disciplinari e di orientamenti problematici e ideologici per comprendere come il campo di studio della divisione organizzativa del lavoro sia non solo molto vasto, ma anche molto frammentato. Una rassegna esauriente essendo impossibile, ci limiteremo a isolare tre aree di riflessione, prescelte sulla base della loro rilevanza storica e paradigmatica.
La prima è quella che accompagna lo sviluppo della fabbrica capitalistica (v. Berg, 1980). Alla fine del Settecento, nel Regno Unito, le grandi organizzazioni o non riguardavano attività produttive (le forze armate erano di gran lunga la maggiore organizzazione), oppure si limitavano a sporadiche iniziative in pochi settori, spesso di natura occasionale e quasi sempre con un predominante intervento pubblico. La quasi totalità della popolazione attiva o lavorava in condizioni indipendenti, oppure era alle dipendenze di singole persone fisiche, o si trovava, comunque, al di fuori di qualsiasi contesto organizzativo sviluppato: servitori, braccianti, garzoni di bottega, commessi di negozio, muratori in piccole imprese di costruzione. Cinquant'anni più tardi, al censimento del 1851, il quadro era profondamente cambiato (v. Clapham, 1926-1938, vol. II, capp. II e IV) e la crescita della grande industria e delle grandi concentrazioni operaie era al centro dell'interesse politico e della riflessione delle nascenti scienze sociali.Tralasciando sia le riflessioni di natura più generale (sull'origine e sulla natura del capitalismo e della rivoluzione industriale), sia quelle di natura esclusivamente tecnico-ingegneristica, una questione è al centro degli interessi di chi studia la fabbrica capitalistica: la questione del controllo, della disciplina, della motivazione e dell'efficienza del lavoro operaio. L'attenzione è rivolta dunque all'ultimo gradino della gerarchia organizzativa, quello in cui è concentrata (e lo era soprattutto in passato) la grandissima parte dei lavoratori e da cui fondamentalmente dipende l'efficienza e la redditività dell'impresa. Le riflessioni esplicite sull'intera struttura organizzativa, e in particolare sulle diverse funzioni della dirigenza (produttive, finanziarie, di vendita, di controllo, ecc.), saranno più tarde: in parte daranno luogo a una rigogliosa letteratura tecnico-aziendale e in parte confluiranno nella seconda e terza area d'indagine cui facciamo riferimento in questo capitolo.
La questione dell'organizzazione del lavoro operaio è appassionatamente discussa sia da chi si pone dal punto di vista dell'impresa e fa propri gli obiettivi di profitto e di sviluppo che questa persegue, sia da chi non li condivide e critica i metodi che l'impresa adotta per ottenere dai suoi operai lo sforzo di lavoro ritenuto necessario. Ed è discussa a partire dai più diversi contesti disciplinari: sempre meno da economisti, come è stato già notato, ma sempre di più da storici, sociologi, psicologi industriali, ingegneri, studiosi di organizzazione e di discipline aziendali. Seguire l'intera querelle sull'organizzazione del lavoro operaio ci è dunque impossibile e dobbiamo rinviare ad altri lavori per una rassegna dei suoi passaggi essenziali: le pratiche effettive e la riflessione su di esse nella fase di prima industrializzazione (Babbage, Ure, Marx: v. Berg, 1980; v. Landes, 1987); lo straordinario contributo, pratico e di riflessione insieme, di Frederick Taylor (v., 1911); l''ammorbidimento' del taylorismo predicato dalla scuola delle relazioni umane (v. Mayo, 1945); la situazione post-tayloristica prodottasi a partire dagli anni settanta e il dibattito contemporaneo (v. Kern e Schumann, 1984; v. Bonazzi, 1989, pp. 72-154).
È possibile invece accennare a due punti di natura più generale. Il primo riguarda la permanente vitalità e importanza del problema. L'organizzazione del lavoro operaio forse ha perso quelle risonanze politiche più generali che aveva avuto in passato: i ceti operai in senso proprio costituiscono una percentuale oggi minoritaria e decrescente della popolazione lavorativa nei paesi industriali avanzati e comunque ad essi è difficile attribuire il ruolo che Marx e la tradizione socialista avevano loro affidato: quello di portatori di un progetto sociale radicalmente alternativo al capitalismo. Ma l'organizzazione del lavoro degli strati più bassi delle grandi organizzazioni (non solo gli operai dell'industria) ha tuttora ripercussioni profondissime, che ne fanno un problema a parte all'interno del più generale problema della divisione organizzativa del lavoro. Anzitutto ripercussioni evidenti sulle finalità che le grandi organizzazioni perseguono, e dunque sui profitti, sullo sviluppo e sul benessere collettivo: coinvolgere i lavoratori esecutivi nelle finalità dell'organizzazione - ciò che, a differenza della fase taylorista, sempre più è richiesto dalle moderne tecniche produttive - è un problema del tutto aperto e che sinora ha avuto solo risposte locali e solo moderatamente soddisfacenti. In secondo luogo - e soprattutto in congiunzione col precedente problema - vi sono ripercussioni politiche e sociali di natura più generale: i lavoratori alla base delle grandi organizzazioni non saranno la 'classe generale' di Marx, ma sono pur sempre i lavoratori meno pagati, meno gratificati nel lavoro, più esposti, nel settore privato, alle fluttuazioni economiche. Come ottenere da loro disciplina e diligenza, anzi, come oggi si chiede, una partecipazione appassionata e intelligente alle finalità dell'organizzazione? Quali saranno le trasformazioni culturali e politiche che dovranno imporsi per raggiungere questo scopo? (V. Dore, 1987).
Il secondo punto riguarda la pluralità dei punti di vista - sia disciplinari che ideologici - con cui si è riflettuto e si continua a riflettere sull'organizzazione del lavoro; dunque la natura controversa di gran parte delle conclusioni raggiunte in contesti storici di grande complessità. Un esempio illuminante di questo conflitto di opinioni è offerto dal dibattito tra J. Zeitlin, C. F. Sabel e S. A. Marglin, da una parte, e D. S. Landes dall'altra (v. Landes, 1987). Il dibattito tocca vari temi specifici, ma ruota intorno a una questione centrale: l'organizzazione del lavoro operaio in genere o alcune sue forme concrete - il taylorismo, ad esempio - sono state imposte da superiori ragioni di efficienza, e dunque hanno consentito di soddisfare a costi inferiori determinate domande di consumatori? Oppure sono state introdotte e sviluppate per altri motivi, ad esempio per sconfiggere certe aggregazioni politiche e sindacali operaie, o per ottenere maggiori profitti, o una più facile controllabilità dei lavoratori o per mille altre ragioni non necessariamente coincidenti con una maggiore efficienza? Potevano dunque - una maggiore efficienza e un maggior benessere - essere raggiunti in altri modi? Chiunque può farsi un'opinione personale sul peso degli argomenti addotti in questo dibattito da una parte e dall'altra (per una rassegna equilibrata v. Berg, 1991); quale che sia tale opinione, l'invito d'obbligo è quello di tenerla in sospeso: potrebbe benissimo essere che - per casi storici diversi - il peso degli argomenti sia favorevole all'opinione contraria.
La seconda area di riflessione riguarda non lo strato più basso dell'organizzazione gerarchica, ma la sua intera struttura; in essa troviamo non una molteplicità di approcci disciplinari, ma un predominio quasi esclusivo della sociologia; l'orientamento dell'indagine, infine, è descrittivo e teorico, non prescrittivo, anche se oggi questo filone di ricerca ha perso la sua specificità originaria ed è confluito nell'eclettico insieme degli studi organizzativi, in cui prevale un orientamento normativo (v. Bonazzi, 1989, pp. 157-276).L'origine della problematica risale a un tipo ideale di Max Weber, uno di quei modelli in cui l'esperienza storica è deliberatamente semplificata ed estremizzata per mettere in evidenza gli aspetti essenziali di un fenomeno sociale e identificare per differenza le varietà storiche concrete. A sua volta, il tipo ideale di burocrazia e agire burocratico è parte - e parte importante - della visione weberiana della società moderna, come società caratterizzata da uno sviluppo sempre più accentuato della legalità formale, della calcolabilità di tutti gli aspetti della vita economica e - su queste basi legali ed economiche sempre più esplicite e prevedibili - di modalità d'azione razionale rispetto al fine (basate dunque su un esplicito calcolo mezzi/obiettivi, quali che siano questi ultimi). Proprio per mostrare la congruenza delle moderne burocrazie - pubbliche e private - coll'avanzata implacabile della società moderna, Weber intenzionalmente accentua gli aspetti di razionalità e di efficienza dell'agire burocratico e li mette a contrasto con la situazione predominante nelle (poche) grandi organizzazioni premoderne, soprattutto con le burocrazie patrimoniali dei grandi imperi dell'antichità (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, pp. 260-303).
È solo nelle burocrazie moderne che l'attività dell'intera struttura organizzativa è regolata minuziosamente dalla legge e da regolamenti amministrativi interni. Sono questi che anzitutto definiscono la struttura organizzativa stessa, come insieme di posizioni gerarchicamente connesse, e stabiliscono poi i poteri e i compiti inerenti a ogni posizione, considerata in via astratta e generale. In tal modo si distacca nettamente il ruolo (l'ufficio) dalla persona fisica che temporaneamente lo occupa: è questo il più importante carattere distintivo rispetto alle organizzazioni premoderne. A loro volta i burocrati, le singole persone fisiche, sono assunti all'ufficio - normalmente un'attività a tempo pieno - mediante procedure uniformi e sulla base di competenze documentate e dimostrabili. In cambio della loro attività - lo svolgimento dei compiti inerenti all'ufficio, cui anche appartengono i mezzi necessari al loro svolgimento - i burocrati ricevono una remunerazione monetaria e il rapporto di lavoro, specie nelle organizzazioni pubbliche, è minutamente regolato allo scopo di evitare influenze personali o di parte.
A questo tipo ideale di organizzazione burocratica Max Weber attribuisce la stessa efficienza, la stessa superiorità tecnica rispetto a soluzioni premoderne di analoghi problemi, che egli riconosce a tutte le istituzioni delle società ad economia capitalistica: è il dominio progressivo e inesorabile della razionalità formale in tutti i campi della vita associata che Weber vuol mettere in evidenza, e la forte sottolineatura dell'efficienza delle burocrazie moderne è finalizzata a questa visione. L'agire burocratico può certo dar luogo a disfunzioni o difficoltà; logiche individuali interne all'organizzazione possono ostacolare il perseguimento degli scopi dell'organizzazione stessa. Ma a Weber non interessava aprire una linea di ricerca empirica sulle organizzazioni burocratiche, capire da dove derivino quelle disfunzioni e come contrastarle. Gli interessava - lo ripetiamo ancora - disegnare un modello di burocrazia che articolasse la sua visione della società moderna, il cui sviluppo egli andava registrando con profonda angoscia.
Una volta accettata questa visione, quei successori di Weber che si interessano di organizzazioni burocratiche - che si interessano proprio delle logiche che possono rendere inefficace una burocrazia e impedirle di raggiungere (appieno) gli scopi per cui è stata creata - si trovano però nelle mani un modello inadatto ai loro propositi: inadatto proprio perché i loro propositi non sono più quelli di Weber, ma assai più circoscritti e specifici. Merton (v., 1949; tr. it., pp. 315-333) ha buon gioco, pertanto, nel mostrare che proprio i caratteri su cui Weber fonda la sua definizione di razionalità burocratica sono all'origine di profonde disfunzioni delle burocrazie, e soprattutto della loro incapacità di raggiungere gli obiettivi per cui sono state istituite in un contesto in continuo mutamento. È proprio l'elevata specializzazione dei funzionari, il loro dovere primario di seguire procedure rigide e standardizzate per evitare il rischio sempre incombente di abusi e discriminazioni, che impedisce loro di rispondere al mutare delle circostanze in modo innovativo ed efficace. Nella loro azione, i funzionari non possono riferirsi direttamente ai fini dell'ente in cui operano: devono riferirsi a regole e a procedure, anche se si accorgessero (ciò che avviene di rado, data la mentalità indotta dalle routines burocratiche) che l'osservanza di queste regole allontana l'organizzazione dai suoi obiettivi. E Crozier (v., 1963), in una famosa ricerca empirica su due amministrazioni pubbliche francesi, ribadisce ed accentua queste osservazioni, giungendo a conclusioni ancor più pessimistiche di quelle di Merton. Le burocrazie sono organicamente incapaci di correggere i propri errori e di reagire efficacemente all'ambiente circostante: i funzionari 'usano' le norme che dovrebbero garantire la razionalità e l'imparzialità della loro azione in modo opportunistico, per garantirsi margini di quieto vivere, prevedibilità, assenza di rischio o altri vantaggi, il tutto a spese dei fini cui l'organizzazione è preposta. Non si tratta di disfunzioni di un modello che dovrebbe e potrebbe operare in modo efficiente: un basso livello di efficienza, uno spreco di risorse rispetto ai fini dichiarati, è consustanziale alla burocrazia.
Non tutte le ricerche danno un'immagine così deprimente (quasi sovietica) delle strutture burocratiche come quella che emerge dall'indagine di Crozier. Comprensibilmente, le ricerche che hanno per oggetto imprese private danno un'immagine diversa, in particolare per i livelli più elevati della gerarchia: questi sono esposti al mercato e sono dunque costretti a trasmettere lungo la catena gerarchica i messaggi che provengono dall'esterno. Se vi riescano e in che misura vi riescano sono questioni che dipendono da un insieme di fattori sociali, psicologici, culturali e organizzativi ben più ampio e complesso di quello preso in considerazione nel tipo ideale weberiano: due classiche ricerche empiriche americane (v. Selznick, 1949; v. Gouldner, 1954) ne forniscono un'analisi giustamente famosa. In questa sede non possiamo entrare nei dettagli di queste ricerche e dobbiamo limitarci, come impressione conclusiva, a correggere, ma non a cancellare l''immagine deprimente' che avevamo tratto da Crozier: ottenere da una struttura organizzativa un'efficacia accettabile, un ragionevole grado di adattamento al mutare delle circostanze - parlare di efficienza e ottimizzazione sarebbe eccessivo - costituisce sempre una fatica di Sisifo, in cui gli sforzi della dirigenza (se e quando la dirigenza effettivamente si sforza) possono essere frustrati da innumerevoli effetti inattesi o addirittura perversi. Sacche d'inefficienza, sottoutilizzazione di risorse, distorsione sistematica dei fini dichiarati sono praticamente inevitabili. Ma allora, perché esistono le organizzazioni? Perché si espandono sempre di più e sembrano essere inevitabili in una società differenziata e complessa?
Questa stessa domanda - in riferimento all'organizzazione tipica di una società capitalistica, l'impresa - era già stata affrontata in un famoso articolo di Ronald Coase (v., 1937) e costituisce oggi l'asse di un importante filone di ricerca aperto dai lavori di Oliver Williamson (v., 1975 e 1985). Il grande merito di Williamson consiste nella generalità della domanda di partenza, che pone come problema da risolvere ciò che normalmente viene assunto come dato iniziale: il confine tra mercato e strutture gerarchiche, dunque tra la divisione sociale e la divisione organizzativa del lavoro. Il merito, in altre parole, è quello di affrontare in termini concettualmente unitari l'intero spazio della divisione del lavoro. L'unità analitica di base è ora la transazione, definita come lo scambio che si determina quando un bene o un servizio viene trasferito attraverso un'interfaccia tecnologicamente separabile: la transazione può dunque essere di mercato o interna all'organizzazione e la tesi di fondo di Williamson è che, in un contesto competitivo, le transazioni finiranno per venire racchiuse in una struttura organizzativa o si svolgeranno sul mercato a seconda dei costi dell'una o dell'altra soluzione.
Per poter prevedere in che ambiti e in che misura si svilupperanno le organizzazioni gerarchiche o i mercati bisogna dunque definire i fattori da cui dipendono i 'costi di transazione'. Questi fattori sono sia ambientali che umani e ne vengono descritti insiemi più o meno numerosi. I fattori che Williamson di fatto utilizza nei suoi lavori e da cui fa dipendere la maggiore efficienza (e quindi, tendenzialmente, l'effettiva predominanza) dell'una o dell'altra 'forma di governo' delle transazioni, dell'organizzazione gerarchica o del mercato, sono due fattori ambientali e due umani: le condizioni di complessità-incertezza dello scambio, la numerosità degli scambi, le condizioni di razionalità limitata degli agenti e la loro propensione all'opportunismo, ovvero alla mancanza di sincerità e onestà nelle transazioni. Meno numerosi sono gli scambi, più complessa e incerta è la valutazione dei vantaggi per le parti, più ampi i margini per comportamenti opportunistici, più alti saranno anche i costi delle transazioni se si usa la 'forma di governo' del mercato e più bassi se le transazioni vengono internalizzate in una struttura gerarchica. Per questo tipo di transazioni finiranno allora per prevalere le organizzazioni, poiché queste manifestano maggiore efficienza rispetto ad agenti individuali operanti sul mercato e gradualmente li elimineranno nella lotta competitiva.
Questo è il modo più breve per descrivere sommariamente la teoria dei costi di transazione. È ovviamente anche un modo molto schematico, che non dà alcuna idea della sua capacità esplicativa e previsiva rispetto ad altre teorizzazioni: su questo il dibattito è ancora aperto, con posizioni anche molto distanti tra loro. Non essendo qui possibile una rassegna adeguata, dobbiamo limitarci a menzionare due punti tra quelli su cui il dibattito si è soffermato, che ci sembrano importanti dal nostro punto di vista (per una più ampia rassegna critica, v. Trigilia, 1989).Il primo riguarda la struttura della spiegazione, cioè il fatto di basare la prevalenza del mercato o delle gerarchie sulla diversa efficienza (sui diversi costi di transazione) dei due meccanismi di coordinamento, nonché su un processo di selezione naturale - dovuto alla concorrenza - che alla fine rende predominante il meccanismo più efficiente. Molti critici di formazione non economica o di orientamento politico radicale non sono convinti da questa spiegazione. Anzitutto - essi osservano - la pressione competitiva può non essere abbastanza forte da selezionare i modi più efficienti di coordinare la divisione del lavoro; e poi, e soprattutto, che cosa vuol dire efficienza (ovvero, bassi costi di transazione) in un contesto in cui non si considerano soltanto fenomeni di superiorità-inferiorità tecnica, ma anche fenomeni psicologici e sociali? Non è forzato, per esempio, ricondurre ad asettiche ragioni di efficienza il fatto che la fabbrica capitalistica abbia eliminato i produttori artigiani operanti sul mercato perché ha consentito di far lavorare di più, controllare meglio e pagare di meno donne e fanciulli? Non è meglio, in questi casi, parlare di potere? In un contesto più generale ritorna dunque la contrapposizione tra efficienza e potere che abbiamo già ricordato a proposito dell'organizzazione del lavoro operaio (v. Francis, 1983).
Il secondo punto, e il più importante, riguarda l'efficacia della spiegazione, anche se ne accettiamo la struttura d'insieme. Dire che lo sviluppo di gerarchie o di mercati dipende dalla loro efficienza relativa può facilmente convertirsi in un'affermazione incontrollabile, priva di qualsiasi potere di previsione, se non vengono specificati prima, e in modo molto preciso, i fattori da cui i costi di transazione dipendono. Di ciò Williamson è perfettamente consapevole, e profonde molti sforzi per definire in modo rigoroso e operativo i quattro fattori che sono stati prima ricordati e alcuni altri talvolta adottati in via sussidiaria. Né si può negare che i fattori siano ben scelti e che alcuni problemi (l'integrazione verticale, le economie di scala, ecc.) siano illuminati dall'analisi. Alcuni critici hanno però obiettato, con controesempi calzanti, che i fattori da cui dipende la convenienza relativa delle due 'forme di governo' delle transazioni sono molto più numerosi di quelli descritti da Williamson e variabili a seconda del tempo e del luogo (v. Trigilia, 1989, pp. 144-148). Non solo, ma che gli stessi fattori prescelti da Williamson non si prestano a definizioni univoche, essendo culturalmente condizionati. L''opportunismo', ad esempio, non è una propensione innata, ma un atteggiamento presente in diversi contesti nazionali con intensità e forme diverse: la sua più debole presenza in Giappone, ovvero la maggiore facilità che sembrano avere gli operatori economici di quel paese nell'allacciare relazioni fiduciarie e di lealtà interpersonale, sembra essere all'origine dello sviluppo di mercati in aree in cui - nel mondo anglosassone - si sono imposte strutture di controllo gerarchico (v. Aoki, 1990; v. Dore, 1987).
Se così stanno le cose, gran parte della semplicità e della generalità della teoria dei costi di transazione, della sua capacità di spiegare e prevedere dove si sono formate (o si formeranno) organizzazioni invece di mercati e viceversa, si perde e si ritorna alla complessità e alla contingenza storica cui i sociologi delle organizzazioni ci hanno abituato. Questo sicuramente contrasta con le aspettative di Williamson, ma non pregiudica l'importanza e la fecondità della sua teoria: come la teoria dell'equilibrio economico generale per i mercati competitivi, così la teoria di Williamson per l'intero ambito della divisione del lavoro costituisce un brillante tentativo di ridurre la complessità delle relazioni economico-organizzative al principio di efficienza. Ma né i mercati, né le organizzazioni rispondono soltanto all'imperativo dell'efficienza e la stessa efficienza acquista dimensioni e connotazioni diverse in diversi contesti sociali e culturali: modelli così ambiziosi sono uno stimolo alla riflessione e alla ricerca, non una rappresentazione adeguata alla realtà. Per ottenere una rappresentazione adeguata occorre costruire modelli più circoscritti localmente e contingenti storicamente; modelli che riconoscano l'inesauribile varietà di mercati e gerarchie e siano consapevoli che è una ragionevole efficacia, non l'efficienza, il massimo che si può ottenere da costruzioni sociali così complesse.
Abbiamo esaminato due linee di ricerca sociologica trattando della divisione organizzativa del lavoro: lo studio delle burocrazie e dell'organizzazione del lavoro operaio. A molte altre potremmo fare riferimento, legate sia alla divisione organizzativa sia a quella sociale: si pensi soltanto all'ovvio legame di entrambe con il problema della stratificazione sociale, uno dei temi maggiormente approfonditi dai sociologi sotto un profilo sia teorico, sia empirico. Non è però con un riferimento a linee di ricerca empirica o di livello teorico intermedio che si chiude questo articolo, bensì tornando allo stesso livello di massima generalità con cui era stato iniziato: ai grandi paradigmi, alle visioni fondative delle due maggiori discipline della società. Per l'economia ci siamo riferiti sia al paradigma classico sia a quello, neoclassico, cui oggi aderisce la grandissima maggioranza degli studiosi di questa disciplina. La sociologia, com'è noto, non conosce un'analoga schiacciante predominanza di un unico paradigma e per essa non è dunque possibile un riferimento che abbia lo stesso grado di generalità. È invece possibile - ed è questo che verrà fatto - considerare due tra i padri fondatori della disciplina, le cui opere hanno avuto e hanno tuttora una profonda influenza, e mostrare come il problema della divisione del lavoro sia quello rispetto al quale essi costruiscono la loro 'visione', il centro del loro edificio teorico: Durkheim e Marx, dunque, in quanto sono loro ad affrontare il problema nel modo più esplicito e fecondo di sviluppi futuri. Nessuna delle due 'visioni' è oggi condivisa nella sua interezza e le aporie teoriche e le distorsioni ideologiche di entrambe sono apertamente riconosciute. Seguire gli sviluppi contemporanei è però impossibile: il nostro solo conforto è la consapevolezza che gli errori dei grandi sono più istruttivi della precisione degli epigoni.
Come abbiamo visto nel quinto capitolo, alla radice del paradigma economico oggi dominante sta la sorpresa per il funzionamento del mercato: come sia possibile che milioni di agenti indipendenti - ognuno dei quali esegue un frammento minuto del lavoro d'insieme e persegue soltanto il proprio interesse individuale - riescano a tessere attraverso il mercato una trama coerente ed efficace di scambi e a soddisfare i propri bisogni. Alla radice delle riflessioni dei padri fondatori della sociologia sta una sorpresa di natura analoga, ma riguardante un problema ancor più generale: una società che ha spezzato ormai i legami che tenevano insieme le società tradizionali - legami religiosi, di deferenza per l'autorità, di accettazione irriflessa delle gerarchie esistenti; una società secolarizzata, in cui i singoli sono liberi di perseguire la loro sorte individuale e hanno gli strumenti per farlo; una società in cui il mercato e il progresso vertiginoso della divisione del lavoro sconvolgono le gerarchie e le stratificazioni tradizionali e ne creano di nuove, non santificate da alcuna eredità ideologica e culturale profondamente sentita dai singoli; questa società, la società moderna, come fa a stare insieme? Come fa a funzionare e riprodursi senza soccombere al conflitto dovuto alle tensioni, alle sofferenze, alle diseguaglianze generate dall'intensità del mutamento e non giustificabili sulla base dell'eredità culturale del vecchio ordine sociale? Il 'miracoloso' funzionamento del mercato - ciò su cui si definisce il paradigma economico - è solo una parte del problema: il mercato è una delle istituzioni della società e può funzionare soltanto all'interno di un tessuto normativo esplicito e di un tessuto culturale, non codificato ma più profondo, che orienta i giudizi morali degli agenti, ne condiziona le aspettative e ne influenza le aspirazioni in modo congruente allo svolgimento ordinato e non conflittuale delle transazioni. Ma come si forma questo tessuto culturale, questo collante di solidarietà sociale che sostituisce le tradizioni immutabili della società tradizionale, che consente al mercato di funzionare e alla società di non disgregarsi?
La celebre risposta di Émile Durkheim è: esso si forma a seguito dello stesso operare della divisione del lavoro. La divisione del lavoro sociale (1893) è la prima delle grandi opere del sociologo francese e in essa è ancora percepibile l'influenza dell'evoluzionismo sociale prevalente verso la fine del secolo scorso. È però netto il distacco dalle analogie biologiche estreme allora diffuse e molto forte è anche l'accentuazione degli aspetti etico-culturali - "morali", avrebbe detto Durkheim - che accompagnano, sorreggono e indirizzano l'evoluzione sociale. I termini usati - solidarietà meccanica o solidarietà organica, forme fisiologiche o forme patologiche di divisione del lavoro - sono ancora mutuati dal vecchio impianto organicistico ed evoluzionistico; il loro contenuto, però, e i problemi che essi contribuiscono a formulare, sono già quelli della sociologia moderna.
Qui non possiamo seguire Durkheim nell'analisi delle forze che sospingono la società da forme primitive e a scarsa differenziazione a forme evolute e altamente differenziate; ci limitiamo pertanto a caratterizzare brevemente i tipi estremi per poi dedicare maggiore attenzione alla divisione del lavoro nelle società moderne. Il cemento morale che tiene insieme le società primitive e poco differenziate - la solidarietà meccanica - è prodotto dalla stessa semplicità di queste società, dalla somiglianza dei destini, dalla coincidenza degli interessi, dalla comunanza dei sentimenti, dall'omogeneità delle credenze, dalla sostanziale intercambiabilità degli individui all'interno dei pochi 'segmenti' di cui la società è composta. Il cemento morale delle società differenziate e moderne - la solidarietà organica - è prodotto dalla complessità, dall'intreccio di un numero sempre maggiore di diverse funzioni specializzate. Ora, da dove deriva Durkheim la sua fiducia che la divisione del lavoro delle società moderne secerna in via normale, quasi come un prodotto congiunto, un'elevata adesione morale da parte degli individui che vi sono sottomessi? La fiducia che essa crei solidarietà laddove in apparenza sembra creare divisione di interessi e conflitto? Le basi teoriche ed empiriche della fiducia durkheimiana sono piuttosto esili e sembrano risiedere, da una parte, in una connotazione positiva delle attività divise ai fini dello sviluppo della personalità individuale; dall'altra, nella convinzione che la divisione del lavoro vada di pari passo con la produzione di regole di cooperazione e di condotta (v. Lukes, 1973).
In forte contrasto con la visione del lavoro umano che Marx deriva da Rousseau e Hegel - vi torneremo tra poco - per Durkheim le attività specializzate sono considerate un bene per l'individuo. Il fenomeno, tutto moderno, dell'individualismo, della liberazione dei singoli dai vincoli religiosi, culturali e di ceto che ne facevano una massa di soggetti intercambiabili, l'esplodere delle libertà, tutto questo non solo è permesso dalla divisione del lavoro, ma può attuarsi solo attraverso la divisione del lavoro: è attraverso la scelta e il perseguimento di attività specialistiche che si sviluppano le inclinazioni e le potenzialità dei singoli; è attraverso la specializzazione che il singolo può integrarsi nel processo produttivo sociale, partecipare a una comunità che lo trascende e lo sostiene e, allo stesso tempo, raggiungere la sua massima realizzazione come individuo. Una divisione del lavoro normale, ben organizzata e ben vissuta, dovrebbe dunque creare un buon bilanciamento tra le esigenze collettive e l'impulso all'autorealizzazione dei singoli.Questo buon bilanciamento, in particolare, dovrebbe essere favorito dall'esperienza consapevole della cooperazione e dal fitto tessuto di regole di condotta che essa crea spontaneamente. La reciproca dipendenza, sperimentata consapevolmente, modera l'egoismo e fa dell'uomo un essere morale; le azioni, le aspettative, le aspirazioni dei singoli sono plasmate dalle norme e dagli usi che la reciproca dipendenza e la divisione del lavoro sviluppano, da "una rete di vincoli che a poco a poco si tesse da sola e fa della solidarietà organica qualcosa di permanente" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 359). Lo specialismo è dunque la base materiale per la percezione consapevole del vincolo sociale: "il gioco di ogni funzione specifica esige che l'individuo [...] si tenga costantemente in contatto con le funzioni vicine, che diventi cosciente dei loro bisogni, dei mutamenti ai quali sono soggette e così via. La divisione del lavoro suppone che il lavoratore, lungi dal restare chino sul suo compito, non perda di vista i suoi collaboratori, agisca su di essi e riceva la loro azione. [...] Il lavoratore non è quindi una macchina che ripete movimenti dei quali non scorge la direzione, ma sa che essi tendono da qualche parte, verso un fine che comprende più o meno distintamente. Egli è consapevole di servire a qualcosa [...], la sua attività, per quanto specifica e uniforme, è l'attività di un essere intelligente, perché ha un senso ed egli lo sa" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 364).
Un lettore malevolo, sulla base del resoconto schematico e delle poche citazioni precedenti, potrebbe osservare che la visione di Durkheim non è poi molto diversa dall'apologo di Menenio Agrippa; e non occorre essere malevoli per rimpiangere la robustezza e il realismo delle analisi marxiane sulla divisione del lavoro nelle manifatture e nelle fabbriche capitalistiche. Se queste sono le basi della fiducia durkheimiana nella spontanea coincidenza tra divisione del lavoro e solidarietà sociale, è giocoforza riconoscere che si tratta di basi realmente assai esili. Una conclusione liquidatoria è tuttavia fuor di luogo. Fuor di luogo, anzitutto, perché essa sottovaluta la ricchezza e la forza con la quale Durkheim articola un tema crucialmente importante e destinato a rimanere al centro della ricerca sociologica: lo studio dei processi sociali attraverso i quali si rafforza o si lacera quel tessuto normativo, quell'insieme denso di valori e credenze condivisi, quel sentimento di partecipare a una comunità morale, che è indispensabile quanto il buon funzionamento dell'economia affinché una società possa stare insieme e prosperare.
È fuor di luogo, inoltre, perché Durkheim è in fondo consapevole della fragilità dei suoi argomenti a sostegno di una spontanea generazione della solidarietà organica. Egli sa benissimo che la solidarietà fondata sulla divisione del lavoro è intrinsecamente più difficile, più minacciata, di quella che caratterizza società meno differenziate e che la divisione del lavoro, se devia dal suo corso 'normale', se non si forma "una regolamentazione [...] che determini i rapporti reciproci tra le funzioni" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 357), può impedire ai singoli di percepire il vincolo sociale che li collega, può soffocare o impoverire la stessa coscienza collettiva, che è il modo in cui Durkheim chiama l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni ai membri della società. Lo sa talmente bene, che egli dedica l'intera terza parte della sua opera all'analisi delle forme 'anormali' o 'patologiche' della divisione del lavoro, forme nelle quali si ritrova una buona parte degli sviluppi effettivi della divisione del lavoro nella fabbrica capitalistica analizzati da Marx. Per questi aspetti le conclusioni di Durkheim non sono poi troppo diverse da quelle di Marx: l'estrema parcellizzazione del lavoro, la stupidità e ripetitività delle mansioni, il rigido inquadramento gerarchico-burocratico - specie se accompagnati dalla percezione di ingiustizie e diseguaglianze al di fuori dell'ambiente di lavoro - rendono impossibile la solidarietà organica, minano la convinzione profonda di appartenere a una comunità che abbracci l'intera nazione. Essi rafforzano semmai forme tipiche di solidarietà meccanica, la condivisione di interessi, visioni del mondo, speranze, solo con chi si trova nella stessa condizione (tale è, per Durkheim, la coscienza di classe). Ma per quale ragione dovrebbe trattarsi di 'patologia' o di 'anormalità'? E anche se si vogliono usare queste espressioni, perché mai le forze della normalità e della fisiologia dovrebbero prevalere? Non c'è risposta in Durkheim. C'è solo la speranza che esse prevalgano e - soprattutto evidente nella prefazione all'edizione del 1902 (v. Durkheim, 1893; tr. it., pp. 9-36) - c'è la proposta politica di aiutare, per così dire, la formazione della solidarietà organica mediante lo sviluppo di una regolamentazione molto estesa che faccia perno su corporazioni professionali. Di questa proposta è qui impossibile discutere (v. Lukes, 1973, pp. 538-541) e dobbiamo limitarci a sottolinearne la radicalità e la corrispondenza a ideali rigorosi di giustizia e di eguaglianza nelle condizioni di partenza: senza una diffusa percezione di giustizia, la solidarietà organica non può reggere.
Le conclusioni politiche di Durkheim non sono sorprendenti e discendono quasi di necessità dalla sua visione dello sviluppo sociale. Se il progresso si accompagna inevitabilmente a una crescente divisione del lavoro e non esistono disegni progressivi di organizzazione della società moderna che ne possano fare a meno; se la divisione del lavoro, dal punto di vista dell'individuo, non costituisce un male in sé, ma può consentire sia il perseguimento delle vocazioni personali sia una forte percezione di legami interpersonali che fanno di un insieme di individui una società, ne consegue che l'unica posizione politica progressiva è quella di 'stare dalla parte' della divisione del lavoro e cercare di eliminarne quegli aspetti estremi o ingiusti che impediscono ai singoli, a coloro che svolgono funzioni inevitabilmente limitate e parziali, di sentirsi parte di un unico corpo sociale, di una collettività morale ancor prima che produttiva.
Nell'opera di Marx la divisione del lavoro è, insieme, l'oggetto di un'analisi teorica ed empirica straordinariamente minuziosa e approfondita e il tema sul quale è modulata una filosofia della storia altrettanto straordinaria per generalità, ambizione e carica utopica. Comprensibilmente è alla prima che si fa di solito riferimento quando si parla di Marx e della divisione del lavoro, e in particolare alla trattazione della manifattura e dell'industria capitalistica contenuta nel primo libro del Capitale. È invece alla seconda che faremo riferimento in questo paragrafo conclusivo, sia perché i meriti di Marx come studioso della divisione sociale e manifatturiera del lavoro nella prima fase della rivoluzione industriale inglese non hanno bisogno di ulteriori sottolineature, sia, e soprattutto, perché il confronto con Durkheim e la tradizione sociologica 'borghese' ci impone di considerare i tratti più profondi e generali della visione marxiana (v. Cohen, 1978).
Anche per Marx, come per gli altri padri fondatori, il problema è la 'grande trasformazione'. Anche Marx vede - e descrive nel Manifesto del Partito comunista (v. Marx ed Engels, 1848; tr. it., pp. 94-102) con ineguagliato vigore - le conseguenze, insieme devastanti ed esaltanti, della dissoluzione del vecchio ordine sociale. Ma da subito egli prende una strada profondamente diversa: il capitalismo - e non la società moderna, come in Durkheim e Weber - è l'oggetto della sua analisi. Non la modernità in genere, ma un modo storicamente particolare di entrare nella modernità; non la divisione del lavoro in genere, imposta da ragioni tecniche e di differenziazione sociale ineluttabili, ma la divisione capitalistica e manifatturiera del lavoro, dovuta a un modo di produzione storicamente determinato e dunque diversamente organizzabile in un involucro sociale diverso. Anche se di questo diverso involucro sociale Marx parla assai poco, la sua esistenza potenziale è teoricamente indispensabile: è infatti alla luce di un modo di organizzare la divisione del lavoro diverso rispetto a quello del capitalismo - e che però ne conserva la stessa efficienza o ne promette addirittura una superiore - che Marx può definire come 'capitalistici', storicamente contingenti, un insieme di aspetti della divisione del lavoro che a Durkheim e a Weber sembrano connessi in modo inevitabile all'efficienza, alla razionalità, alla produttività, alla modernità.
L'influenza di questo modo di guardare alla 'grande trasformazione' è stata ed è tuttora profonda nelle scienze sociali, e non senza ragioni. Anzitutto è logicamente ineccepibile distinguere tra un problema generale - la divisione del lavoro - e una sua soluzione storicamente particolare, il capitalismo. E poi può essere molto utile: se si distingue, l'attenzione spontaneamente si rivolge all'esame di forze storiche concrete e ci si chiede perché sia prevalsa una soluzione invece di altre pur possibili e capaci di risolvere il problema efficacemente. Il dibattito su efficienza e potere, di cui abbiamo visto due esempi nel capitolo precedente, è una conseguenza immediata e feconda della storicizzazione del problema. Più in generale, un metodo d'analisi storicizzante impedisce l'identificazione ideologica dello stato di cose presente con quello necessario e induce nell'osservatore una più aperta considerazione delle forze che operano per il mutamento: il confronto con Durkheim - con la sua resistenza a riconoscere il conflitto, la sua ostinazione a definirlo come 'patologico' - è rivelatore dei meriti del metodo marxiano. Ma invocare la specificità storica e l'esistenza di alternative può essere fuorviante e ideologico; può essere un modo per evitare di fare i conti con trade-offs, con incompatibilità e contrasti di natura del tutto generale; può indurre a configurare alternative potenziali non solo storicamente inesistenti, ma economicamente e sociologicamente insostenibili. Ed è questo che avviene nella filosofia della storia di Marx.
A Marx piaceva assai poco l'esasperata divisione del lavoro di cui era testimone: non gli piaceva la divisione sociale del lavoro attuata attraverso i mercati e l'acquisto e la vendita della forza lavoro come una merce qualsiasi; non gli piaceva la divisione manifatturiera del lavoro, che frantumava le polivalenti capacità lavorative dell'uomo in frammenti privi di significato, che andava riducendo il lavoratore a una semplice appendice della macchina; non gli piaceva, più in generale, che l'uomo - nella sua manifestazione più alta e tipicamente umana, quella lavorativa - stesse diventando un elemento inconsapevole di un processo mosso da forze autonome e cieche ai suoi veri bisogni: il processo di autovalorizzazione del capitale. Molti osservatori coevi, lo stesso Adam Smith prima di Marx, hanno parole di fuoco contro l'abbrutimento causato dalla divisione del lavoro; ma la reazione di Marx ha radici più profonde e risale a una visione dell'uomo che Marx deriva da Rousseau e Hegel, a un'antropologia in cui l'essenza dell'umanità consiste sì nell'esperienza del lavoro, ma un'esperienza universale, polivalente, indivisa, indipendente sia dai bisogni concreti sia dalle strettoie della cooperazione (v. Bedeschi, 1981, pp. 184-198).
Il Marx della maturità è uno studioso troppo esperto e sottile per non accorgersi che la cooperazione è sia una costrizione, sia una risorsa e che senza di essa è impossibile raggiungere il più essenziale prerequisito della libertà, la libertà dal bisogno: l'umanità e il lavoro polivalente degli antichi erano basati sulla schiavitù, quelli dei moderni devono basarsi su di un grande sviluppo delle forze produttive. Dunque il superamento della divisione del lavoro non può configurarsi "come un impossibile e reazionario ritorno a modi di vita precapitalistici, bensì come [...] un superamento che conserva le acquisizioni e la ricchezza della civiltà capitalistica" (v. Bedeschi, 1981, p. 198). Di più: esso deve fondarsi su tendenze già operanti nella stessa economia capitalistica, su una coincidenza sempre più necessaria tra lo sviluppo delle forze produttive e la riduzione degli aspetti più estranianti della divisione del lavoro. Di qui l'insistenza sulla ricomposizione del lavoro che la grande industria già richiede e sempre più richiederà in futuro, sul suo interesse a "sostituire all'individuo parziale, mero veicolo di una funzione sociale di dettaglio, l'individuo totalmente sviluppato, per il quale le differenti funzioni sociali sono modi di attività che si danno il cambio l'un con l'altro" (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. I, 2, p. 201). Di qui la convinzione che "la natura della grande industria porta con sé variazioni del lavoro, fluidità delle funzioni, mobilità dell'operaio in tutti i sensi" (ibid., p. 200).
Le conseguenze delle dimensioni d'impianto e del progresso tecnico sulla ricomposizione o ulteriore parcellizzazione delle mansioni è un tema d'indagine empirica che ha accompagnato l'intero sviluppo capitalistico ed è tuttora discusso in riferimento alla rivoluzione elettronico-informatica che stiamo attraversando (v. OECD, 1988). Per Marx, tuttavia, non si tratta di un tema empirico sul quale si possono raggiungere conclusioni diverse; è una convinzione profonda su cui poggia l'intera sua visione della storia. Nell'ambito del capitalismo devono già maturare quelle modalità di organizzazione dell'industria che renderanno possibili, nel socialismo, sia un grande sviluppo delle forze produttive, sia la scomparsa delle forme parcellizzate, gerarchiche, strumentali, di divisione del lavoro. L'eliminazione dell'involucro sociale capitalistico - della proprietà privata e del mercato - e il disegno politicamente deliberato delle forme di cooperazione che rimarranno necessarie, non creeranno una società povera e prigioniera del bisogno; saranno anzi la condizione indispensabile per un'ulteriore crescita della ricchezza sociale.
Le poche osservazioni empiriche che Marx dedica alla ricomposizione delle mansioni nella fabbrica moderna non bastano a cancellare la natura profondamente utopica di questa convinzione: infatti progresso tecnico ed economico, divisione del lavoro e differenziazione sociale sembrano legati in via del tutto generale e non solo nel capitalismo. Certo, questo particolare involucro sociale - la proprietà privata dei mezzi di produzione e il mercato - può esasperare i caratteri più odiosi della divisione del lavoro, l'estraneità del lavoratore rispetto al prodotto, la parcellizzazione delle mansioni, la disciplina gerarchica, l'arbitrio del mercato. Ma la compatibilità tra elevata ricchezza e complessità sociale, da una parte, e limitata (e non conflittuale) divisione del lavoro, dall'altra, è tutta da dimostrare, di fronte a ragioni logiche ed empiriche che sembrerebbero negarla. In nessun luogo Marx affronta questa dimostrazione con il rigore imposto dalla sua natura 'controintuitiva' e dal suo ruolo essenziale nella visione della storia da lui professata. Né costituisce una dimostrazione il riferimento a un disegno di organizzazione dell'economia politicamente consapevole, invece che affidato alle forze anarchiche del mercato: quale che sia il modo di coordinamento, la divisione del lavoro resta, ed è assai dubbio che passando dalla padella del mercato alla brace del piano sociale si attenuino quei caratteri di specializzazione e atrofia delle facoltà umane, di gerarchia e conflitto che Marx voleva sradicare.
La convinzione che fosse il capitalismo - e non la complessità sociale in genere - a produrre una divisione del lavoro estrema e conflittuale; la convinzione che - estintosi il capitalismo per le sue contraddizioni interne - sarebbe stato non solo possibile, ma facile organizzare la cooperazione umana su basi consensuali e a bassa specializzazione, queste convinzioni sono il nucleo utopico profondo della filosofia della storia marxiana e la causa di una forte distorsione ideologica in un metodo storico in sé fecondo. Esse sono ciò che più radicalmente distingue Marx e la tradizione che l'ha seguito dai grandi sociologi 'borghesi'. Marx non avverte l'angoscia weberiana di fronte alla gabbia d'acciaio della razionalità formale che si espande in ogni ambito della società; non si preoccupa - come Durkheim - del possibile conflitto tra la divisione del lavoro e i legami di solidarietà necessari alla vita associata. Ogni angoscia è fuori luogo ed è insensato il timore del conflitto per chi è convinto che il dominio ferreo della razionalità capitalistica sia destinato a finire, che il conflitto sia non solo ineliminabile, ma benemerito, perché accelera le contraddizioni e la crisi finale del capitalismo; per chi è convinto, soprattutto, che al capitalismo farà seguito un nuovo modo di produzione in cui i processi anarchici di valorizzazione del capitale, dominio di una razionalità formale disancorata da ogni finalità umana, saranno sostituiti da un disegno produttivo politicamente consapevole e che la libera cooperazione prenderà il posto di un'esasperata e autoritaria divisione del lavoro.Al di là di una divaricazione insanabile con l'indirizzo prevalente nella teoria sociologica, il nucleo utopico e ideologico della visione della storia marxiana ha ostacolato la ricerca proprio su ciò che a Marx maggiormente premeva: come contenere gli effetti della divisione del lavoro sullo sviluppo della personalità umana, come rendere compatibile un'elevata ricchezza sociale con una specializzazione lavorativa meno frammentata e strutture organizzative meno rigide e gerarchiche di quelle oggi predominanti. Questo problema non lo si può affrontare in modo proprio se si parte dall'ingiustificata convinzione che la causa di tutti i mali siano il mercato e la proprietà privata dei mezzi di produzione; se non si mette a fuoco, in via del tutto generale, il rapporto tra produttività e ricchezza, da una parte, e divisione del lavoro e differenziazione sociale, dall'altra; se non si riconosce - da ultimo - che si tratta di un tipico tradeoff, in cui esistono due finalità in parziale contrasto tra loro e l'obiettivo da perseguire è un compromesso, un arrangiamento sociale che consenta, a seconda dei valori politici che s'intendono soddisfare, il massimo raggiungimento di una finalità compatibile con il livello minimo accettabile di soddisfazione dell'altra. Il problema di valore che Marx pone (anche se non lo riconosce come tale) è importante e condivisibile, ma la strada lungo la quale egli ha indirizzato gran parte di coloro che a quel problema sono stati più sensibili li ha allontanati dalla sua soluzione (v. Beccalli e Salvati, 1970).
(V. anche Disoccupazione; Economia e politica del lavoro; Lavoro; Occupazione; Produttività; Salari e stipendi; Sviluppo economico).
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