Divismo
Il fenomeno del d. è direttamente legato alla cultura di massa del Novecento e, in origine, al medium per eccellenza di questa cultura, il cinema. Nel 19° sec. erano già emerse stelle del balletto e vedettes del teatro come Eleonora Duse, Sarah Bernhardt e Mademoiselle Mars, ma non si era ancora avviato il processo di massificazione della cultura, e l'industria non aveva ancora colonizzato la sensibilità collettiva. La civiltà occidentale, dominata dalla complessa interazione di economia, tecnica e scienza, ha trovato in sé stessa un antidoto allo spirito razionalizzatore che ha standardizzato le esistenze, atomizzato gli individui e disincantato il mondo: i divi. Proprio in quanto prodotti della cultura di massa e al contempo arcaismo della modernità, i divi simboleggiano la potenza del mito del doppio all'interno della civiltà razionalista. Essi incarnano un bisogno moderno di fede, un bisogno psicologico e affettivo di proiezione e di identificazione dell'individuo con una vita diversa, una vita che potrebbe accordarsi con i suoi desideri, una vita da eroe, da ribelle o da aristocratico, una vita intensa, rischiosa e non soggetta agli obblighi prosaici della banalità quotidiana, fatta di amore, di bellezza, di forza, di piaceri, di felicità e di immortalità.
La comparsa dei divi avvenne intorno agli anni Dieci del 20° sec., ma nel 1895, quando venne inventato il cinema, nulla la lasciava presagire. I fratelli Lumière idearono numerosi 'generi' cinematografici, che furono ampiamente copiati dai loro concorrenti: il burlesque, l'attualità, le scene di vita quotidiana, le scene di viaggio, le vedute 'cinetiche', le prime ricostruzioni di carattere storico e le scene per soli uomini. L'illimitata curiosità dei pionieri non si rivolse spontaneamente alle vedettes del teatro e del music hall, a parte forse quella di W.K.L. Dickson, che, secondo G. Sadoul, per pubblicizzare il cinetoscopio Edison avrebbe ripreso, in un bacio rimasto celebre, gli artisti di scena May Irwin e John C. Rice. Secondo i suoi inventori e i commentatori del tempo, il cinematografo doveva servire a osservare i fenomeni naturali, a descrivere il movimento delle cose, a riprodurre la realtà nella sua effettiva durata. Nessuno dei ricercatori che nel corso del 19° sec. contribuirono alla sua invenzione pensava che un dispositivo in grado di catturare lo spazio-tempo sarebbe stato ghermito dall'immaginario umano, dal teatro, dal romanzo, dalle narrazioni fantastiche o realistiche, dalle immagini prodotte dalla fantasia, dai sogni e tanto meno dai divi. Nel 1897, dopo una grave crisi di pubblico provocata dalla ridondanza dei soggetti e dalla breve durata delle immagini proiettate, poteva apparire fondata la profezia di Louis-Jean Lumière, secondo cui il cinematografo sarebbe stata un'invenzione senza avvenire. Ma proprio allora l'illusionista Georges Méliès si impossessò di una cinepresa e, dopo aver scoperto per un errore di manipolazione il procedimento del trucco, traspose il suo genio teatrale e fantastico in quelle che possono essere definite le prime narrazioni cinematografiche. La durata dei film passò da uno a quindici minuti, gli scenari si fecero più ricercati e le trame divennero più complesse: il tema dell'amore, della salvezza individuale attraverso l'amore, un tema che avrebbe occupato un posto centrale nella cultura di massa, divenne sempre più presente nei film. Il cinema cominciò a reificare l'amore attraverso l'uso di primi piani che incorniciavano i volti, i corpi, gli occhi, le bocche, i busti e le mani.
La prima stella comica della Pathé Frères si affermò nel 1906 con Boireau, personaggio interpretato dall'attore André Deed. In quegli anni Max Linder iniziò a dirigere e a interpretare i suoi film ottenendo un notevole successo. Victorin Jasset girò i primi film polizieschi a episodi, la serie di Nick Carter, interpretato dall'attore André Liabel che, con suo grande stupore, iniziò a ricevere centinaia di lettere d'amore provenienti da tutto il mondo. Il culto delle star non era lontano, ma gli attori non si erano ancora svincolati dai loro personaggi, non avevano ancora avuto il tempo di assimilare le molteplici virtù dei loro diversi ruoli. Il pubblico conosceva il nome dell'eroe, ma non quello dell'interprete.
Tra il 1906 e il 1908 il mondo del cinema subì una grande trasformazione legata sia alla crisi economica sia alla crisi dei soggetti, crisi che determinarono un nuovo calo dei frequentatori delle sale. I produttori cercarono allora di attrarre le classi agiate, che disprezzavano il cinema, poiché lo consideravano inferiore al teatro e alla letteratura e lo accusavano di essere, secondo la definizione di Georges Duhamel, 'un divertimento per iloti'. In Francia si aprì così il periodo effimero dei Film d'art, in cui si mettevano in scena soggetti 'nobili' di derivazione teatrale o storica, ricorrendo ad alcune glorie della Comédie française. I manifesti pubblicitari evidenziavano i nomi di Charles-Gustave-Auguste Le Bargy, di Albert Lambert, di Berthe Bovy e di Gabrielle Robinne, interpreti di un film che riscosse un grande successo anche al di là dell'Atlantico, L'assassinat du duc de Guise (1908) di André Calmettes e Le Bargy stesso, e quello della grande attrice teatrale Sarah Bernhardt, regina dell'espressione e principessa del gesto, interprete di La dame aux camélias (1912) di Henri Pouctal e La reine Élisabeth o Élisabeth reine d'Angleterre (1912) di Henri Desfontaines e Louis Mercanton.
Anche negli Stati Uniti nel frattempo il cinema stava entrando in una fase di espansione commerciale e industriale, dovuta anche alla forte concorrenza tra il Trust Edison, che riuniva le otto società cinematografiche più importanti e controllava la maggior parte delle sale e alcuni produttori indipendenti, come Carl Laemmle, Adolph Zukor e William Fox. Le sale cinema-tografiche statunitensi, che nel 1905 non erano più di dieci, quattro anni dopo avevano raggiunto il numero di diecimila. Ogni società del Trust metteva sotto contratto ogni anno un gruppo di attori e registi, e gli attori venivano lanciati, comprati, venduti e riscattati: erano le prime avvisaglie di quella che sarebbe divenuta in seguito la guerra dei divi nell'ambito dello star system.
I primi divi emersero dunque quasi simultaneamente in Europa e negli Stati Uniti a partire dal 1910, e nel decennio successivo la loro immagine si perfezionò in una progressiva osmosi con i personaggi interpretati: creature in parte reali e in parte immaginarie, doppi idealizzati di attori e attrici su cui si proiettavano le fantasie e i desideri d'evasione del pubblico. Dapprima celebrità isolate, eroi e vamp che univano a un carisma personale l'interpretazione di personaggi di successo, i divi, a partire dalla fine degli anni Venti, divennero progressivamente prodotti standardizzati, costruiti dalle majors come personaggi pubblici, star destinate a incarnare i sogni del pubblico esaltando così la magia del cinema e remunerando i poderosi investimenti effettuati su di loro. Negli anni Trenta il cinema si era ormai completamente industrializzato: grazie all'appoggio delle grandi banche, i produttori dominavano sugli studios, e l'ideazione, la realizzazione e la promozione dei film erano organizzate secondo le regole di divisione del lavoro e di produttività introdotte dal taylorismo. Secondo gli stessi criteri era organizzata la creazione delle star, attori e attrici scelti e plasmati dalle équipes specializzate dello star system (v.). I consigli d'amministrazione degli studios scrutavano costantemente il box office e la popolarità di una star si misurava a partire dal numero di lettere che riceveva presso i Fan-Mail Departments. Se una star di primo piano riceveva 3000 lettere alla settimana, negli anni Trenta Mae West giunse a riceverne ben 5000 al giorno. Hollywood diffondeva informazioni sulla vita, gli amori, i matrimoni, i divorzi, i gusti e gli eccessi dei suoi divi, creando un'atmosfera di leggenda intorno a questi moderni semidei. E la leggenda diveniva reale, sia per i fans sia per i divi, i quali cessavano di essere a tutti gli effetti degli esseri umani e finivano per credersi delle divinità.
I primi divi furono per lo più figure femminili: il processo di trasformazione degli attori in star infatti sembra essere legato alla femminilità. Nel 20° sec. il cinema divenne il principale medium di diffusione nelle società occidentali dell'immagine di un'Eva futura, nata dalla sintesi tra la rappresentazione della donna offerta dalla cultura europea del 19° sec., e in particolare dalla pittura, dalla letteratura e dalla poesia, e la primadonna dell'opera. Le donne potevano essere divinizzate più facilmente degli uomini: le dive incarnavano molti temi fondamentali della cultura di massa, come l'aspirazione alla bellezza e alla giovinezza e la ricerca dell'amore. Erano più costruite, più idealizzate, meno reali e più venerate.
Vi sono diverse tipologie di dive, le più importanti delle quali sono rappresentate dalla donna-bambina (Mary Pickford e Lillian Gish), la donna fatale o vamp (Theda Bara, Mae Marsh e Marlene Dietrich) e la divina, che soffre e fa soffrire oscillando tra il mistero della donna fatale e la purezza della vergine innocente (Greta Garbo e Lana Turner).
La prima diva si può considerare l'attrice danese Asta Nielsen, che acquistò fama mondiale interpretando il film Afgrunden (1910; L'abisso) di Urban Gad. Il pallido volto da attrice tragica, la recitazione misurata, la figura dalle belle linee, le movenze a volte provocanti, i grandi occhi dall'espressione oscura e misteriosa contribuirono a fare di lei la prima donna fatale del cinema. La Nielsen interpretò in Danimarca, e poi in Germania, film drammatici, ambientati nell'alta società e caratterizzati da adulteri, crimini, vendette e scene incentrate su amanti che si baciano con una voluttà decisamente scandalosa per l'epoca. Gli spettatori furono soggiogati da questa creatura sovrannaturale, che i critici francesi canonizzarono come 'la Sarah Bernhardt della Scandinavia' o 'la Eleonora Duse del Nord'. I suoi produttori tedeschi pubblicarono un giornale che portava il suo nome e fecero stampare enormi manifesti pubblicitari all'uscita di ogni nuovo film interpretato dall'attrice. Nacquero teatri a lei intitolati, un musicista le dedicò un valzer che portava il suo nome, un ristorante propose ai suoi clienti la tartina Asta Nielsen, un uomo d'affari lanciò la marca di sigarette Asta Nielsen, i giornali di tutto il mondo parlarono di lei. Alcuni anni più tardi, il suo produttore affermò che nei suoi uffici era stato eseguito un calcolo molto preciso, secondo cui l'attrice sarebbe apparsa tutti i giorni dagli schermi di seicento sale cinematografiche, disseminate ovunque, a un milione e mezzo di esseri umani. Fu così che Asta Nielsen divenne la donna più famosa del mondo.
Negli Stati Uniti si affermava intanto un diverso modello di femminilità: un regista della Biograph (una società del Trust Edison), David W. Griffith, lanciò nel 1909 Mary Pickford, considerata la prima grande vedette del cinema muto. Grazie al suo volto di donna-bambina, all'espressione innocente, ai ruoli interpretati di adolescente vittima della durezza del mondo degli adulti, l'attrice fu ben presto soprannominata 'la fidanzatina del mondo'. Scritturata prima dalla Universal, poi dalla Mutual, l'attrice fu più tardi rilevata dalla Famous Play-ers Film Company di A. Zukor dietro uno smisurato compenso che venne raddoppiato nel 1918, visto che Little Mary negoziava ogni centesimo in funzione dei risultati ottenuti al box office.
Anche la donna fatale occupò immediatamente un posto di rilievo nell'immaginario degli spettatori statunitensi: W. Fox lanciò la figlia di un sarto di Cincinnati, Theodosia Goodman, che in seguito divenne la prima vamp americana. Theodosia giunse alla notorietà interpretando con il nome di Theda Bara il film A fool there was (1915) di Frank Powell, che riscosse un immenso successo. Fox creò un mito: si narrava che l'attrice fosse nata sulle rive del Nilo da un artista francese e da una principessa araba che si nutriva del sangue dei serpenti, e che avesse ammaliato molti uomini del bel mondo che si erano suicidati per lei.
Nello stesso periodo, in Francia, Suzanne Grandais divenne celebre in diciotto mesi grazie ai quarantacinque film realizzati da Léonce Perret. Suzanne era bella, sportiva, entusiasta e divenne il simbolo della ragazza dall'eleganza tutta francese.
E in Italia si aprì l'era delle dive: Lyda Borelli, Francesca Bertini, Lina Cavalieri, Maria Jacobini, Leda Gys, Pina Menichelli interpretavano ruoli di donne fatali e mondane dominate dall'amore, ed erano regine sia sullo schermo sia nella vita. Non erano ancora le star mercificate di Hollywood ed erano tuttavia capaci di dare origine a un culto: gli uomini pronti a morire per la loro bellezza e le donne impegnate a mimare i loro gesti, a copiare i loro abiti e le loro acconciature. Le dive disponevano di società di produzione, registi e sceneggiatori ufficiali, il loro nome era imposto da una massiccia pubblicità, il loro cachet raggiungeva spesso cifre altissime. Il successo di queste dee esuberanti e convulse sarebbe stato, secondo lo storico del cinema G.P. Brunetta (Storia del cinema italiano, 1° vol., Il cinema muto 1895-1929, 1993², p. 78), una conseguenza della crisi sociale ed economica dell'Italia coloniale (la campagna di Libia ebbe luogo tra il 1911 e il 1912): in esse si sarebbe incarnata la rivalsa delle classi medie, che avrebbero goduto nel vedere queste donne fatali dominare nei film e nella vita i grandi borghesi o gli aristocratici che guidavano il Paese. La diva sembrava inoltre esprimere il desiderio di emancipazione delle donne italiane che, secondo alcune studiose, volevano liberarsi di una concezione misogina della femminilità, in virtù della quale le donne venivano collocate nelle opposte polarità di madre o puttana, santa o peccatrice, dea o bestia.
Nel corso del Novecento queste tipologie subirono un processo di trasformazione. La diva del muto era un idolo ieratico e spiritato o puro e innocente che, sia nei film sia nella vita, si muoveva in una sfera superiore a quella in cui vivevano gli esseri umani ordinari, era un'eroina in via di divinizzazione destinata a un pubblico in gran parte ancora popolare. Ma a partire dal 1930, in risposta alla crisi del 1929, i produttori tentarono di raggiungere tutti i vari tipi di pubblico, mescolando tra loro i generi cinematografici, introducendo l'happy end e ricorrendo a sceneggiature più elaborate sul piano psicologico e più realiste, a trame più verosimili e più ottimiste, in un processo di imborghesimento che toccava sia l'immaginario cinematografico sia la psicologia popolare. Le dive, o almeno quelle che superarono l'ardua transizione dal muto al sonoro, si umanizzarono, avvicinandosi nei film alla vita dei comuni mortali. La bellezza ideale del volto non fu più un requisito necessario alla trasformazione in star e alcune attrici divennero tali nel corso della maturità, come dimostra il caso di Bette Davis. A partire dagli anni Quaranta il modello della donna-bambina si trasformò progressivamente in quello della giovane compagna innamorata, incarnato per es. da Audrey Hepburn, la giovane principessa di Roman holiday (1953; Vacanze romane) di William Wyler. A sua volta, la vamp si trasformò in good-bad-girl, una figura ibrida che dietro l'apparenza di donna fatale nasconde un animo puro e un cuore generoso. Nonostante le severe norme del Codice Hays, in vigore negli Stati Uniti tra il 1930 e il 1968 come sistema di censura cinematografica, la nascita di nuovi modelli femminili nell'immaginario cinematografico fu affiancata da un profondo processo di erotizzazione delle star, che si avvalsero sempre più frequentemente del loro sex appeal. Molte star, come Clara Bow, Silvana Mangano, Ava Gardner e Gina Lollobrigida, emersero dai concorsi di bellezza. Negli anni Cinquanta l'immagine della diva del cinema fu rilanciata dall'enfasi erotica sul seno delle attrici e, in particolare, su quello di Jane Russell, di Jayne Mansfield, di Sophia Loren, di Martine Carol e ovviamente di Marilyn Monroe. Tutte queste dive indossavano abiti dalle profonde scollature, a volte apparivano mentre facevano il bagno, si vestivano e si svestivano tra strip tease e suggestione. Oltre che erotica, tuttavia, la diva doveva essere anche spirituale e la sua bellezza morale doveva rispecchiare la sua straordinaria bellezza fisica: consigliava e consolava i suoi fans per corrispondenza, promuoveva non soltanto prodotti cosmetici, abiti o concorsi di bellezza, ma anche feste di beneficenza o associazioni umanitarie.Negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta nacquero molte grandi star: Brigitte Bardot, che secondo uno slogan era 'la più sexy delle giovani star e la più giovane delle star sexy'; Ava Gardner, che incarnava il nuovo modello di donna fatale e di dea dell'amore, così come Silvana Mangano e Sophia Loren, e più tardi l'angelica Claudia Cardinale e l'enigmatica Monica Vitti. Naturalmente, non si può non ricordare l'attrice che ha segnato sia l'apogeo sia il declino dello star system, Marylin Monroe. In un primo momento vamp e poi good-bad-girl, Marylin rappresenta l'ultimo tentativo di sintesi tra sensualità e spiritualità; nella sua caduta trascinò con sé l'intero star system, insieme a James Dean, il ribelle senza causa prematuramente scomparso, che annunciava la rivolta studentesca, la nascita della controcultura e l'ascesa dei valori giovanili.
Le diverse nouvelles vagues cinematografiche hanno dimostrato poi che la presenza dell'autore può rendere superflua quella delle star, dando origine alla tenden-za a trasformare in star i registi. L'immaginario cine-matografico è cambiato. Le eroine dello schermo sono progressivamente apparse meno trionfanti e più problematiche: Lana Turner, Rita Hayworth e Vivien Leigh hanno ceduto il passo a Monica Vitti, a Jeanne Moreau e a Hanna Schygulla, e quindi a Meryl Streep e a Isabelle Huppert.
Se le dive sono soprattutto il supporto dell'immaginario legato all'amore, oggetto del desiderio degli uomini e del mimetismo delle donne, i divi, pur avvalendosi del proprio potere di seduzione, non si limitano ai ruoli di dongiovanni. Gli eroi dello schermo sono quasi sempre attori giovani, idioti (burlesque), avventurieri, good-bad-boys, ribelli o seduttori. La bellezza non è un requisito irrinunciabile per il divo, che può fare a meno degli espedienti del trucco, dell'acconciatura, della chirurgia plastica e delle toilette ricercate su cui si basa l'idealizzazione dell'attrice. L'eroe è travolto dall'azione e lotta non solo per amore ma anche contro il male, il destino, la società, la legge, l'ingiustizia e la morte. Nei film comici poi, l'eroe è spesso un antieroe, brutto, maldestro, ingenuo e ridicolo.
Verso il 1910, nel momento in cui nel mondo stavano emergendo le dive, il solo attore in grado di rivaleggiare con Asta Nielsen, Mary Pickford e le dive italiane era una star comica, Max Linder. Conosciuto dal pubblico con il nome di Max, egli incarnò nei suoi film il personaggio, nato nel teatro boulevardier, del dandy sorridente, elegante e imprevedibile. Linder girava un film alla settimana, controllava le sceneggiature e le messe in scena ed era profumatamente pagato dal suo produttore, la Pathé. La sua genialità era conosciuta non solo in tutta Europa, ma anche negli Stati Uniti e l'attore era acclamato ovunque da folle di ammiratori.
Nel 1912 Mack Sennett fondò negli Stati Uniti la società di produzione Keystone che ben presto sarebbe divenuta 'la fabbrica americana delle risate' grazie a un genere specifico, quello della slapstick comedy. Sennett scoprì Charlie Chaplin, insieme al quale costruì il personaggio di Charlot, che integrava il burlesque con la sua arte della pantomima di tradizione europea e con il suo personaggio dai gesti meccanici: il vagabondo e perseguitato Charlot, una combinazione di accenti comici e patetici, suscitava le risate del pubblico e, al tempo stesso, risvegliava il suo senso di solidarietà. Grazie ad alcuni grandi film come The kid (1921; Il monello), The gold rush (1925; La febbre dell'oro), City lights (1931; Luci della città) e Modern times (1936; Tempi moderni), da lui stesso diretti, Chaplin divenne la più grande star della storia del cinema. Tuttavia, i meccanismi di idealizzazione e di divinizzazione delle star comiche sono diversi da quelli delle altre star. I divi non comici, infatti, incarnano i sogni e i desideri di benessere, di bellezza, di forza, d'amore, di successo individuale, di giovinezza o persino di immortalità del pubblico. Non è sorprendente che le donne si innamorassero di Cary Grant e di Tyrone Power o che gli uomini ammirassero Clark Gable e Gary Cooper. Ma l'attrazione degli spettatori di tutto il mondo per Charlot, per Buster Keaton e per gli altri personaggi innocenti del cinema comico può essere spiegata, secondo E. Morin (1972), con il fatto che l'idiota dei film comici svolge il ruolo di capro espiatorio, di vittima sacrificale: il divo comico è possibile non solo perché l'attore è contaminato dal suo ruolo e, al tempo stesso, il suo genio individuale modella questo ruolo molto più profondamente di quanto avvenga negli altri generi, ma anche perché la sua personalità è investita della funzione sacrificale dell'eroe comico. Il cinema, e soprattutto quello di Chaplin, sviluppa l'inclinazione alla comprensione e persino all'empatia dello spettatore nei confronti di chi è emarginato o della miseria umana in generale, un'inclinazione che sistematicamente si dimentica emergendo dall'oscurità delle sale cinematografiche. Il divo comico interpreta sempre lo stesso personaggio, come nel caso di Buster Keaton, che in tutti i suoi film incarna lo stesso eroe dall'aria attonita, un uomo di gomma perseguitato dagli elementi, che non sorride mai.I divi seduttori, da Rodolfo Valentino a John Gilbert, apparvero sullo schermo solo negli anni Venti, come del resto la grande star dei film d'avventura, Douglas Fairbanks. Per questi attori la strada che conduceva all'Olimpo del cinema seguì il classico percorso hollywoodiano della trasformazione degli attori in star. Gli attori iniziavano a interpretare ruoli di eroe, di cui assimilavano le diverse essenze mitologiche: l'attore unificava in sé tutte le doti di ognuno dei suoi personaggi e, a sua volta, ciascuno degli eroi che egli incarnava era trasfigurato dalla sua personalità e dal suo aspetto fisico. 'Doug', cioè Douglas Fairbanks, era la star dell'avventura: bello, scattante, acrobatico, impetuoso, senza macchia e senza paura, simboleggiava l'eroe positivo moderno dell'America degli anni Venti. Valentino fu il primo grande seduttore del cinema, un vero e proprio fenomeno erotico che suscitò grandi passioni nel pubblico delle sue ammiratrici, alcune delle quali si suicidarono al momento della sua morte (1926).
Nell'era del muto non nacquero molti divi e tra questi alcuni, come John Gilbert, l'altra grande figura di amante del muto, non superarono il difficile passaggio al sonoro. John Barrymore, già molto ammirato dal pubblico del teatro, riscosse nel 1920 un successo di livello mondiale con Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Il dottor Jekyll e Mr Hyde) diretto da John S. Robertson. Sia nei film sia nella vita, Barrymore era un eroe esuberante, tragico e romantico, tutto 'genio e sregolatezza'.I divi degli anni Trenta incarnavano invece eroi più ricchi di sfumature, più umani, più vicini alle preoccupazioni pragmatiche e borghesi del pubblico, meno singolari e provvidenziali di quelli emersi durante l'era del muto. Questa tendenza seguitò a svilupparsi nel corso del secolo attraverso differenti universi cinematografici di stile realistico: il realismo poetico o il realismo sociale. Anche questo stile aveva le sue star, come per es. Jean Gabin, considerato da André Bazin l'eroe tragico per eccellenza del cinema francese d'anteguerra, che interpretò La bête humaine (1938; L'angelo del male) di Jean Renoir e Le jour se lève (1939; Alba tragica) di Marcel Carné, o Henry Fonda di Grapes of wrath (1940; Furore) di John Ford. Questa tendenza giunse a compimento nel dopoguerra con il Neorealismo italiano, e in particolare con i film di Roberto Rossellini, Vittorio De Sica e Giuseppe De Santis, e più tardi con le nouvelles vagues degli anni Sessanta e nel cinema documentario. Inoltre, questa tendenza realistica era accompagnata dall'orientamento a rendere più complessa la psicologia dei personaggi e a problematizzare le loro motivazioni. A opera di Ford il personaggio di John Wayne in Stagecoach (1939; Ombre rosse) subì un significativo cambiamento, trasformandosi prima in una figura paterna e benevola in She wore a yellow ribbon (1949; I cavalieri del Nord-Ovest), poi in quella tormentata e cupa di Ethan Edwards in The searchers (1956; Sentieri selvaggi). Così la figura mitologica di Wayne divenne tetra e ossessiva.
Dal 1930 al 1950 Hollywood conobbe la sua epoca d'oro, grazie alla nascita di un gran numero di star: Robert Taylor, idolo del pubblico femminile, Gary Cooper, attraente e taciturno, James Stewart, romantico grazie alla sua affascinante goffaggine, Cary Grant, il grande seduttore, o Clark Gable, che con Gone with the wind (1939; Via col vento) di Victor Fleming divenne il re di Hollywood. Nel 1941 Humphrey Bogart, divenuto una star nel corso della sua maturità, interpretò il ruolo di un investigatore privato in cui le caratteristiche positive si fondono con quelle negative creando una figura complessa ed estremamente moderna in The Maltese falcon (Il falcone maltese o Il mistero del falco) di John Huston. La figura del good-bad-boy, il personaggio dall'aria dura dietro la quale si nasconde un uomo profon-damente giusto, dette origine alla trasformazione di molti attori in star, tra i quali William Powell, Marlon Brando e Clint Eastwood.
Negli anni Cinquanta James Dean divenne una grande star grazie a due film, East of Eden (1955; La valle dell'Eden) di Elia Kazan e Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di Nicholas Ray, in cui interpretava il ruolo di un adolescente angosciato che si ribella al modello di vita americano. Dean incarnava l'incomprensione tra le generazioni e il rifiuto del sistema capitalistico borghese, che si sarebbe prolungato negli slanci rousseauiani del movimento hippy e nella controcultura degli anni Sessanta e Settanta. Egli aprì la strada, decisamente feconda, degli eroi problematici e tormentati che si ribellano alla società o tentano di dare un senso alla loro esistenza, come il Jean-Paul Belmondo di À bout de souffle (1960; Fino all'ultimo respiro) di Jean-Luc Godard o il Marcello Mastroianni di La notte (1961) di Michelangelo Antonioni.
A partire dagli anni Sessanta e Settanta, quando ormai altri media si apprestavano a condurre nell'Olimpo moderno le celebrità, le star cinematografiche non incarnarono più i modelli euforici della felicità ma la sua ricerca problematica, come quella condotta da Steve McQueen in The Thomas Crown affair (1968; Il caso Thomas Crown) di Norman Jewison. All'inizio del 21° sec., benché non rappresenti più la chiave di volta della cultura di massa, il cinema continua a produrre ancora nuove star che danno origine a fenomeni di venerazione e imitazione, come Tom Cruise, Johnny Depp, Brad Pitt e Leonardo DiCaprio.
Accanto a quella dei divi, nel corso del Novecento nel mondo occidentale è venuta a delinearsi la figura dei fans, di coloro che, per la maggior parte giovani e donne indipendentemente dal sesso dei loro idoli, praticano il culto delle star, cercando di procacciarsi il maggior numero possibile di notizie attraverso le riviste specializzate o i siti web per tentare di penetrare nella sfera intima della loro vita. Queste informazioni permettono ai fans di materializzare l'icona a volte astratta e irreale della star, di rendere presente il dio assente. I fans scrivono alle star chiedendo fotografie con autografi e dediche, consigli o feticci, come indumenti intimi o ciocche di capelli, così da fissare il loro amore impossibile su oggetti che simboleggiano la persona amata. Il culto praticato dai fans si istituzionalizza poi attraverso la partecipazione ai fanclubs, che consentono di moltiplicare gli scambi di informazioni o di oggetti, fino ad arrivare al contatto diretto con i tanto amati idoli nel corso delle anteprime o di quella sorta di grandi commemorazioni 'religiose' costituite dai festival.
Nelle lettere scritte dai fans ai propri oggetti del desiderio, spesso argomento di studio sociologico, sono espressi instancabilmente sempre gli stessi sentimenti di possessione amorosa o mentale; ma si può dire che, a loro volta, le star siano possedute dall'amore dei loro fans. La vita delle star è effimera e coincide con il periodo della giovinezza, della bellezza e del sex appeal. Nell'epoca d'oro di Hollywood il fan fissava la star in un'immagine idealizzata che corrispondeva a una sorta di mito del superuomo o della superdonna, in cui l'amore si combina con l'immortalità.
I fans protestano quando le star non rispondono alle loro lettere o quando modificano i dettagli del loro aspetto fisico, e il rapporto di reciproca possessione che lega le star ai propri fans a volte assume forme deliranti: basti pensare alle giovani donne che, come già detto, si suicidarono durante gli imponenti funerali di Rodolfo Valentino. I membri dell'associazione Hollywood Underground si dedicano alla ricerca delle tombe di star recentemente decedute o alla rivisitazione delle sepolture di celebri attori del passato, le decorano di fiori, le fotografano e archiviano i negativi, disegnando una mappa di tombe diffusa nel Web.
Anche dopo la fine dell'epoca d'oro di Hollywood, benché il cinema non sia più il principale medium responsabile della produzione dei modelli di identificazione della cultura di massa, il culto delle star è molto praticato, e i fans seguitano a intrattenere con loro rapporti epistolari, anche se ormai queste relazioni si svolgono soprattutto via Internet: ogni star, infatti, dispone di uno o più siti, attraverso i quali si può entrare in possesso di fotografie accompagnate da autografi e da certificati di autenticità. Molte riviste, sia popolari sia destinate ai cinefili, concedono un grande spazio alle indiscrezioni sulle star, e sulle loro pagine si ritrovano gli stessi bisogni di conoscenza feticistica emersi negli anni Trenta. Il culto delle star si è però diversificato. Le star si sono avvicinate al pubblico e possono emergere dal cinema ma anche dalla televisione, dalla musica, dalla moda o dallo sport. In ogni modo seguitano a nascere, a vivere e a morire e il cinema si rivela ancora in grado di produrre idoli, come dimostrano i casi di Sharon Stone interprete dello scandaloso Basic instinct (1992) di Paul Verhoeven e di Leonardo DiCaprio in Titanic (1997) di James Cameron.
E. Morin, Le cinéma, ou l'homme imaginaire, Paris 1956 (trad. it. Milano 1982).
E. Morin, L'esprit du temps, 2 voll., Paris 1962, 1975 (trad. it. del 1o vol., L'industria culturale, Bologna 1963).
E. Morin, Les stars, nouvelle édition, Paris 1972 (trad. it. I divi, Milano 1995).
G. Sadoul, Histoire du cinéma mondial, nouvelle édition, Paris 1990.
Stars au féminin: naissance, apogée et décadence du star system, sous la direction de G.L. Farinelli, J.-L. Passek, Paris 2000.