Abstract
Viene esaminata la seconda fase del procedimento che conduce allo scioglimento del matrimonio, ossia l’istituto del divorzio, le cause e gli effetti dello stesso, dalla sua introduzione fino alle recenti riforme della negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio e della richiesta congiunta di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio innanzi all’ufficiale dello stato civile di cui alla legge 10.11.2014, n. 162 e del cd. divorzio breve con la legge 6.5.2015, n. 55.
Prima dell’introduzione della l. 1°.12.1970, n. 898 Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, l’ordinamento italiano, facendo proprio il principio di diritto canonico di indissolubilità del matrimonio, prevedeva quale unica causa di scioglimento del matrimonio la morte di uno dei coniugi (o la morte presunta) in base al disposto dell’art. 149 c.c.
La l. n. 898/1970, novellata in seguito dalla l. 6.3.1987, n. 184, disciplina l’istituto del divorzio (termine in realtà mai utilizzato dal legislatore) quale rimedio da attivare nei casi di irreversibile frattura della comunione di vita e di affetti dei coniugi.
Il giudice, infatti, può pronunciare lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario (cioè celebrato con il rito religioso regolarmente trascritto) quando, dopo avere esperito inutilmente il tentativo di conciliazione (v. art. 4), accerta che non può essere mantenuta né ricostruita la comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
La dottrina ha ritenuto che con tale istituto sono stati ampliati gli spazi riservati all’autonomia privata ed accentuata la cd. “privatizzazione del matrimonio” (Auletta, T., Diritto di famiglia, Torino, 2014), in ragione del fatto che le motivazioni di un solo coniuge prevalgono sia su quelle contrarie dell’altro sia sull’interesse generale alla stabilità del vincolo.
L’art. 3 della legge sul divorzio prevede cause tassative in base alle quali il giudice può ritenere cessata la comunione materiale e spirituale tra i coniugi.
Lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato anche da solo uno dei coniugi in uno dei seguenti casi: 1) quando, dopo la celebrazione del matrimonio, l’altro coniuge è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, anche per fatti commessi in precedenza: a) all’ergastolo ovvero ad una pena superiore ad anni quindici per uno o più delitti non colposi, ad eccezione dei reati politici e quelli commessi per motivi di particolare valore morale e sociale, b) a qualsiasi pena detentiva per alcuni delitti contro la moralità e il buon costume, come incesto, violenza carnale, ratto a fine di libidine o di matrimonio, ovvero inerenti alla prostituzione come induzione, costrizione, sfruttamento o favoreggiamento, c) qualsiasi pena per omicidio volontario di un figlio o tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio, d) a qualsiasi pena detentiva con due o più condanne per lesioni personali aggravate, violazioni degli obblighi di assistenza, maltrattamenti, circonvenzione di incapace, in danno del coniuge o di un figlio ed in questi casi il giudice deve verificare l’inidoneità del coniuge convenuto a mantenere o ricostruire la convivenza familiare; 2) in caso di assoluzione del coniuge per i delitti indicati alle lettere b) e c), a causa di vizio totale di mente e sempre che il giudice verifichi l’inidoneità del coniuge convenuto a mantenere o ricostruire la convivenza familiare.
La causa di divorzio statisticamente più frequente è rappresentata dalla separazione legale pronunciata nei confronti dei coniugi. Ai fini della pronuncia di divorzio il giudice deve accertare che la separazione si sia protratta per un certo periodo di tempo ininterrottamente; la riconciliazione, infatti, determina l’interruzione del termine.
Prima della riforma sul divorzio cd. “breve”, la durata della separazione era fissata in tre anni. La nuova l. 6.5.2015, n. 55 riduce ad un anno soltanto in caso di separazione giudiziale e addirittura a sei mesi in caso di separazione consensuale i termini per la richiesta di divorzio.
Per accedere, quindi, al divorzio, la separazione deve essere sempre “titolata”, cioè non può fondarsi sulla mera separazione di fatto, ma è necessario che la stessa abbia, appunto, “titolo” o nella sentenza (parziale o definitiva) che abbia pronunciato la separazione giudiziale o nel decreto di omologa della separazione consensuale, ed oggi, in base alla riforma contenuta nella l. n. 162/2014 ed una lettura sistematica dell’art. 3 lett. b) del n. 2, anche nell’accordo raggiunto mediante negoziazione assistita o innanzi al Sindaco in funzione di ufficiale civile.
Le riforme del 2014 e del 2015, comunque, non hanno previsto la possibilità per i coniugi di ottenere il divorzio diretto.
Il termine dal quale computare il periodo di separazione ai fini della richiesta di divorzio è la data dell’omologazione, dell’udienza di comparizione davanti al presidente del tribunale, ovvero la data di certificazione dell’accordo di separazione raggiunto a seguito di convenzione di negoziazione assistita da avvocati, ovvero dell’atto contenente l’accordo di separazione concluso innanzi all’ufficiale di stato civile (art. 3, n. 2, lett. b), l. n. 898/1970).
Tuttavia, soprattutto in caso di procedimento di separazione giudiziale, si possono creare delle incongruenze, tenuto conto che il termine di separazione potrebbe essere decorso ancor prima dell’ottenimento di una sentenza di separazione passata in giudicato. Sarebbe auspicabile, quindi, che la prassi già adottata dai giudici, di emettere subito sentenze parziali sullo status, diventasse regola al fine di consentire l’effettiva abbreviazione dei tempi voluta dal legislatore.
In Italia non è previsto il divorzio diretto, tuttavia, deve segnalarsi che il Regolamento UE n. 1259/2010 (in tema legge applicabile alla separazione e al divorzio) prevede che i coniugi in presenza di elementi di internazionalità (ad esempio, entrambi cittadini italiani, ma residenti all’estero, oppure di diversa cittadinanza) possano scegliere di comune accordo, anche nel procedimento di fronte ad un giudice italiano, la legge applicabile alla loro separazione o divorzio tra quelle di comune residenza abituale, di ultima residenza abituale ove uno di essi vi risieda ancora, di cittadinanza di uno dei coniugi, e la legge del foro, potendo, quindi, optare per una legge che prevede di ottenere il divorzio senza necessità di separazione legale.
Altra causa di divorzio è rappresentata dalla pronuncia definitiva di annullamento o scioglimento del matrimonio, ottenuta all’estero dal coniuge straniero, ovvero celebrazione, da parte sua, di un nuovo matrimonio (nei Paesi in cui è consentita la bigamia) (art. 3, n. 2, lett. e).
La mancata consumazione del matrimonio dopo la sua celebrazione rappresenta una causa riconducibile alla tradizione canonica e risponde alla necessità di armonizzare la disciplina del matrimonio civile con quello concordatario. Non hanno, comunque, rilevanza le ragioni della mancata consumazione e la prova può essere fornita con qualunque mezzo.
La l. 14.4.1982, n. 164 ha introdotto un’altra causa di divorzio rappresentata dal passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso (v. art. 3, n. 2, lett. g).
Sul punto va rilevato che la Corte costituzionale, con l’ordinanza dell’11.6.2014, n. 170, in relazione al caso di una coppia sposata che aveva richiesto il mantenimento del vincolo matrimoniale nonostante l’avvenuto cambiamento di sesso di uno dei coniugi, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore» (Bartolini, F., Divorzio del transessuale e «conversione» del matrimonio eterosessuale: un nuovo inizio?, Riv. crit. dir. priv., 2014, fasc. 2, p. 235).
Il legislatore italiano ha previsto un procedimento ordinario e un procedimento abbreviato su domanda congiunta degli sposi.
Per quanto riguarda il procedimento ordinario, la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio si propone con ricorso al tribunale del luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi o in mancanza del luogo in cui il coniuge convenuto ha la residenza o il domicilio.
Il procedimento si svolge in camera di consiglio. I coniugi devono comparire davanti al Presidente del tribunale personalmente, fatti salvi gravi e comprovati motivi, e con l’assistenza di un difensore. È obbligatorio l’intervento del pubblico ministero.
Il procedimento si svolge in due fasi: la prima davanti al Presidente del tribunale che deve tentare la conciliazione; qualora questa si raggiunga viene redatto il verbale di conciliazione; se, invece, la conciliazione non riesce, il Presidente, sentiti i coniugi e i difensori, disposto l’ascolto del minore che abbia compiuto i dodici anni e anche di età inferiore ove capace di discernimento (d.lgs. 28.12.2013, n. 154), dà, anche d’ufficio, con ordinanza, i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell’interesse dei coniugi e della prole, nomina il giudice istruttore e fissa l’udienza di comparizione e trattazione innanzi a questo per la prosecuzione del giudizio.
Per quanto riguarda il procedimento abbreviato, la domanda di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio è congiunta e deve indicare anche compiutamente le condizioni relative alla prole e ai rapporti economici. Il tribunale, verificati i presupposti di legge e valutata la rispondenza delle condizioni all’interesse dei figli, decide con sentenza (v. art. 4, co. 16).
Con la l. n. 162/2014 – con cui è stato convertito in legge con modificazioni il d.l. 12.9.2014, n. 132, cd. “Decreto sblocca giustizia” – entrata in vigore l’11.11.2014, il legislatore italiano ha inteso semplificare l’iter della separazione e quello del divorzio, come anche il procedimento di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.
L’art. 6 e l’art. 12 l. n. 162/2014 hanno introdotto due opzioni procedimentali per addivenire alla separazione o al divorzio senza il tramite del giudice.
La prima opzione è rappresentata dalla negoziazione assistita da uno o più avvocati per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio (art. 6 l. n. 162/2014), la seconda opzione è rappresentata dalla procedura davanti al sindaco (art. 12 l. n. 162/2014).
Presupposti della negoziazione assistita di cui all’art. 6 sono: a) essere marito e moglie (ciò significa che la normativa non trova applicazione al caso di coppie non coniugate con prole laddove intendano regolare i rapporti con i figli nati dalla loro relazione – tale soluzione normativa presenta, tuttavia, dubbi di costituzionalità alla luce della riforma che ha equiparato i figli nati nel matrimonio a quelli nati fuori dal matrimonio); b) marito e moglie intendono collaborare con correttezza e lealtà per ricercare una soluzione consensuale alla loro crisi; c) i coniugi devono essere disposti a condurre la trattativa entro il termine massimo di tre mesi prorogabili fino a quattro.
La negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio è ammessa in ogni caso, sia in presenza di figli (minori, non economicamente autonomi, portatori di handicap grave) che in mancanza di figli.
Tuttavia, la presenza di figli minori o figli non autonomi comporta un controllo più incisivo da parte del pubblico ministero.
L’accordo raggiunto mediante negoziazione assistita è equipollente ai provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione e divorzio.
L’art. 12 l. n. 162/2014 consente ai coniugi di concludere un accordo di separazione o di divorzio conseguente a separazione personale innanzi al Sindaco quale ufficiale dello stato civile del Comune di residenza di uno di essi o del Comune presso cui è iscritto o trascritto l’atto di matrimonio. In tal caso è facoltativa la presenza dell’avvocato.
Rispetto alla negoziazione assistita, questa procedura semplificata incontra limitazioni più stringenti, infatti, possono avvalersene solo i coniugi senza figli minori o con figli maggiorenni indipendenti e che non debbano pattuire tra loro alcun trasferimento patrimoniale.
L’effetto principale del divorzio è per ciascun coniuge il riacquisto della libertà di stato ed una volta passata in giudicato la sentenza di divorzio e annotata nei registri dello stato civile, i coniugi hanno la possibilità di addivenire ad un altro matrimonio.
Per quanto riguarda il cognome, in base al disposto dell’art. 143 bis c.c., la moglie con il matrimonio aggiunge al proprio il cognome del marito e lo conserva durante lo stato vedovile.
Con il divorzio vengono meno tutti i doveri coniugali e la moglie perde il diritto di usare il cognome del marito, anche se il tribunale, su istanza della medesima e qualora sussista un interesse meritevole della donna o dei figli, interesse prevalente su quello del marito, può autorizzarne la conservazione. La moglie perde, comunque, il diritto in caso di passaggio a nuove nozze, tuttavia, qualora il cognome del marito sia divenuto per la donna un segno distintivo si applicano i principi che disciplinano lo pseudonimo, la ditta, il marchio e, quindi, in questi casi, non necessariamente viene meno con il passaggio a nuove nozze.
In caso di uso indebito del cognome, l’ex marito può domandare la cessazione dell’atto lesivo e il risarcimento danni.
Con il divorzio sorgono obblighi di carattere patrimoniale di un coniuge nei confronti dell’altro che si fondano sulla perdurante solidarietà postconiugale (Sesta, M., Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2011).
In presenza di determinati presupposti il coniuge divorziato ha diritto ad un assegno divorzile, alla tutela previdenziale, ai diritti successori, all’abitazione della casa familiare.
Si tratta di una prestazione periodica o una tantum di un assegno a favore del coniuge economicamente più debole, cioè il coniuge che non abbia mezzi adeguati o comunque non possa procurarseli per ragioni oggettive.
Presupposto per l’erogazione dell’assegno è dato, quindi, dallo squilibrio reddituale tra i coniugi.
Come ha rilevato la giurisprudenza (da ultimo v. Cass., 9.6.2015, n. 11870) l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due fasi: a) il giudice verifica l’esistenza del diritto in astratto, in relazione all’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, b) il giudice procede alla determinazione in concreto dell’ammontare dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (sul punto si veda anche Cass., 15.5.2013, n. 11686).
Nell’ambito di tale accertamento rilevano, sotto il profilo dell’onere probatorio, le risorse reddituali e patrimoniali di ciascuno dei coniugi, quelle effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e familiari, nonché le rispettive potenzialità economiche.
L’assegno di divorzio, pertanto, oggi ha assunto una natura assistenziale (Cass., 12.6.2013, n. 3398), in quanto volto a soccorrere quel coniuge che a causa del divorzio si è venuto a trovare in difficoltà economiche; inoltre, secondo la giurisprudenza, sulla sua determinazione influisce la durata del matrimonio, durata che – salvo nei casi eccezionali in cui non si sia realizzata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi – non influisce, invece, sul riconoscimento dell’assegno (v. Cass., 26.3.2015, n. 6164).
Nel caso in cui il coniuge divorziato instauri una nuova famiglia, ancorché di fatto, il diritto all’assegno viene meno; ciò, infatti, rescindendo ogni connessione con il tenore ed il modello di vita caratterizzanti la pregressa fase di convivenza matrimoniale, l’instaurazione di un nuovo rapporto fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge, sicché il relativo diritto non entra in stato di quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Da ultimo la giurisprudenza ha sottolineato come la formazione di una famiglia di fatto – costituzionalmente tutelata ai sensi dell’art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura in cui si svolge la personalità dell’individuo – è espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, che si caratterizza per l’assunzione piena del rischio di una cessazione del rapporto e, quindi, esclude ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l’altro coniuge, il quale non può che confidare nell’esonero definitivo da ogni obbligo (v. Cass., 3.4.2015, n. 6855).
Anche in sede di divorzio, qualora sopravvengano nuove circostanze che incidono sull’equilibrio dei rapporti tra i coniugi, si può procedere alla revisione dell’assegno divorzile sia nel senso di un incremento dell’importo fissato sia nel senso di una sua riduzione.
In materia di revisione dell’assegno divorzile, il giudice, comunque, non può procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei presupposti o della entità dell’assegno sulla base di una diversa ponderazione delle condizioni economiche delle parti, ma, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve limitarsi a verificare se, ed in che misura, le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio così raggiunto ed adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale (v. Cass., ord. 20.6.2014, n. 14143).
L’assegno di divorzio trova la propria fonte nel nuovo status delle parti e rispetto al quale la pronuncia del giudice ha efficacia costitutiva e decorre dal passaggio in giudicato della statuizione di risoluzione del vincolo coniugale (Cass., 10.12.2010, n. 24991). Tuttavia, in base al disposto dell’art. 4, co. 10, l. n. 898/1970, così come sostituito dall’art. 8 l. n. 74/1987, il giudice ha il potere di disporre, in relazione alle circostanze del caso concreto e motivando adeguatamente la propria decisione, anche in assenza di specifica richiesta, la decorrenza dello stesso assegno dalla data della domanda di divorzio (Cass., 24.9.2014, n. 20024).
L’assegno viene liquidato generalmente mediante una somma periodica, per cui il giudice deve stabilire un criterio di adeguamento automatico della somma anche facendo riferimento agli indici di svalutazione monetaria, potendo attraverso il suo potere discrezionale scegliere, in relazione alla peculiarità della fattispecie, altri possibili criteri di adeguamento per rapportare l’interesse del beneficiario ad una totale conservazione del potere di acquisto dell’assegno al grado di elasticità dei redditi del soggetto obbligato (Cass., 18.3.1996, n. 2273).
La corresponsione dell’assegno divorzile può avvenire, su accordo delle parti, anche in un’unica soluzione; tale modalità, comunque, anche in previsione delle esigenze di mantenimento di un minore, «non pregiudica la possibilità di richiedere, ex art. 9 l. n. 898/1970, la modifica delle condizioni economiche del divorzio qualora esse, per fatti intervenuti successivamente alla relativa sentenza, si rivelino inidonee a soddisfare tali esigenze, avendo il minore un interesse, distinto e preminente rispetto a quello dei genitori, a vedersi assicurato sino al raggiungimento dell’indipendenza economica un contributo al mantenimento idoneo al soddisfacimento delle proprie esigenze di vita» (v. Cass., 13.6.2014, n. 13424).
In base al disposto dell’art. 337 sexies c.c., norma inserita dall’art. 55 d.lgs. n. 154/2013, pubblicato in G.U. 8.1.2014, n. 4 ed entrato in vigore a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello della pubblicazione in G.U., il provvedimento di assegnazione della casa coniugale deve essere adottato tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli.
Ciò implica che non è previsto alcun automatismo tra detto provvedimento e affidamento dei figli.
Il provvedimento di assegnazione è posto a tutela dell’interesse prioritario della prole a permanere nell’ “habitat” domestico (inteso come il centro degli affetti, degli interessi e delle consuetudini in cui si esprime e si articola la vita familiare), postulando, oltre alla permanenza del legame ambientale, la ricorrenza del rapporto di filiazione legittima o filiazione naturale cui accede la responsabilità genitoriale (v. Cass., 4.7.2011, n. 14553; Cass., 15.9.2011, n. 18863).
Il provvedimento di assegnazione ed anche quello di revoca sono trascrivibili ed opponibili ai terzi ai sensi dell’art. 2643 c.c.
Come per tutti i provvedimenti conseguenti alla pronuncia di separazione o di divorzio, anche per l’assegnazione della casa familiare vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo per fatti sopravvenuti, non essendo a ciò ostativa la mancanza di una espressa previsione nell’art. 9 l. n. 898/1970, come sostituito dall’art. 13 l. n. 74/1987 (Cass., 28.4.2010, n. 10222).
Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso in cui il coniuge cessi di abitarla stabilmente, intraprenda una nuova convivenza more uxorio o contragga un nuovo matrimonio.
Per quanto riguarda la tutela previdenziale, il coniuge divorziato ha diritto al trattamento di riversibilità, che consiste nel ricevere la pensione di invalidità o di vecchiaia spettante all’ex coniuge defunto, nonché gli altri assegni aventi natura previdenziale (per esempio il trattamento di fine rapporto).
Al fine di poter godere di tali effetti di natura patrimoniale è necessario che ricorrano i seguenti presupposti: a) il rapporto di lavoro deve essere sorto anteriormente alla sentenza di scioglimento del matrimonio; b) il coniuge che li pretende non deve essere passato a nuove nozze; c) il coniuge deve essere titolare dell’assegno divorzile ai sensi dell’art. 9 della legge sul divorzio.
Per titolarità si intende «l’avvenuto riconoscimento dell’assegno medesimo da parte del tribunale» ai sensi dell’art. 5 l. 28.12.2005, n. 263.
La pensione di reversibilità, a seguito della sentenza C. cost., 28.7.1987, n. 286, va riconosciuta anche al coniuge separato per colpa o con addebito, equiparato sotto ogni profilo al coniuge superstite (separato o non), dovendosi applicare ad entrambe le ipotesi l’art. 22 l. 21.7.1965, n. 903, che non richiede, quale requisito per ottenere la pensione di reversibilità, la vivenza a carico al momento del decesso del coniuge e lo stato di bisogno, ma unicamente l’esistenza del rapporto coniugale con il defunto pensionato o assicurato, rispondendo la tutela previdenziale allo scopo di porre il coniuge superstite al riparo dall’eventualità dello stato di bisogno, senza che detto stato (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) ne sia concreto presupposto e condizione (in tal senso v. Cass., ord. 12.5.2015, n. 9649).
Se i soggetti aventi diritto al trattamento di reversibilità sono più di uno, per esempio se sopravvive anche il coniuge del defunto o in caso di una pluralità di ex coniugi, questo va ripartito tra tutti tenuto conto della durata del matrimonio (v. Cass., 25.6.2003, n. 10075).
In tema di attribuzione delle quote della pensione di reversibilità ex art. 9 l. n. 898/1970 a favore dell’ex coniuge divorziato e del coniuge già convivente e superstite, consegue al principio solidaristico – secondo cui il meccanismo divisionale non è strumento di perequazione economica fra le posizioni degli aventi diritto, ma è preordinato alla continuazione della funzione di sostegno economico, assolta a favore dell’ex coniuge e del coniuge convivente, durante la vita del dante causa, rispettivamente con il pagamento dell’assegno di divorzio e con la condivisione dei rispettivi beni economici da parte dei coniugi conviventi – che la ripartizione del trattamento economico va effettuata, oltre che sulla base del criterio primario della durata dei rispettivi matrimoni, anche ponderando ulteriori elementi, come l’entità dell’assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge, le condizioni economiche dei due e la durata delle rispettive convivenze prematrimoniali (in tal senso Cass., 21.9.2012, n. 16093).
Ai fini della determinazione della durata del rapporto si deve fare riferimento all’effettiva durata della convivenza matrimoniale e non alla convivenza precedente al matrimonio.
Con lo scioglimento del matrimonio si perdono tutti i diritti che la legge attribuisce sulla successione del coniuge ad eccezione di un assegno avente carattere alimentare a carico dell’eredità del coniuge defunto e che si configura come legato ex lege.
Devono sussistere i seguenti presupposti: a) stato di bisogno dell’ex coniuge sopravvissuto al momento dell’apertura della successione; b) riconoscimento del diritto all’assegno divorzile non in unica soluzione.
L’assegno a carico dell’eredità, previsto dall’art. 9 bis l. n. 898/1970 (non modificato dalla l. n. 74/1987) in favore dell’ex coniuge in precedenza beneficiario dell’assegno di divorzio, ha natura assistenziale, e postula che il medesimo si trovi in stato di bisogno, cioè manchi delle risorse economiche occorrenti per soddisfare le essenziali e primarie esigenze di vita. Detto assegno va quantificato, quindi, in relazione al complesso degli elementi espressamente indicati nello stesso art. 9 bis, cioè tenendo conto, oltre che della misura dell’assegno di divorzio, dell’entità del bisogno, dell’eventuale pensione di reversibilità, delle sostanze ereditarie, del numero e della qualità degli eredi e delle loro condizioni economiche (Cass., 27.1.2012, n. 1253).
L. 1°.12.1970, n. 898; l. 14.5.2005, n. 80; l. 6.3.1987, n. 74; d.lgs. 28.12.2013, n. 154; l. 14.4.1982, n. 164; l. 10.11.2014, n. 162 (conversione del d.l. 12.9.2014, n. 132); l. 6.5.2015, n. 55.
Auletta, T., Diritto di famiglia, Torino, 2014; Bartolini, F., Divorzio del transessuale e «conversione» del matrimonio eterosessuale: un nuovo inizio?, in Riv. crit. dir. priv., 2014, fasc. 2, p. 235; Bianca, C.M., Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2014; Bugetti, M.N., Separazione e divorzio senza giudice: negoziazione assistita da avvocati e separazione e divorzio davanti al sindaco, in Corr. giur., 4/2015, p. 515; Danovi, F., Al via il “divorzio breve”: tempi ridotti ma manca il coordinamento con la separazione, in Fam. dir., 6/2015, p. 607; Ferrando, G., Diritto di famiglia, Bologna, 2013; Ferrando, G., Il divorzio breve: un’importante novità legislativa nel solco della tradizione, in Corr. giur., 8-9/2015, p. 1041; Finocchiaro, A.-Finocchiaro, M., Diritto di famiglia, III, Il divorzio, Milano, 1988; Finocchiaro, M., Divorzio e transessualismo, in Giust. civ., 1983, fasc. 3 (marzo), pt. 1, pagg. 998- 999; Oberto, G., “Divorzio Breve”, separazione legale e comunione legale tra coniugi, in Fam. dir., 6/2015, p. 615; Quadri, E., Il nuovo intervento delle sezioni unite in tema di comodato e assegnazione della “casa familiare”, in Corr. giur., 1/2015, p. 14; Sesta, M., Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2011.