DIVORZIO
(XIII, p. 68; App. II, 1, p. 797; IV, 1, p. 603)
La l. 1° dicembre 1970 n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), già parzialmente modificata dalla novella di cui alla l. 1° agosto 1978 n. 436 (Norme integrative della legge 1° dicembre 1970, n. 898, sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), è stata profondamente innovata con la promulgazione della l. 6 marzo 1987 n. 4 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio). Questa legge, prendendo effettivamente atto della consapevolezza, ormai largamente diffusa nella società italiana, della famiglia come istituzione essenzialmente umana, diretta al raggiungimento della felicità individuale e fondata sul libero consenso, ha portato alle conseguenze ultime quel processo di modificazione delle cause di scioglimento del matrimonio che aveva scalfito il principio della sua indissolubilità.
Il referendum del 1974, infatti, aveva largamente dimostrato come l'opinione pubblica, respingendo l'ipotesi abrogativa del d., ritenesse superata del tutto la visione autoritativa di un matrimonio destinato a durare nei suoi effetti indipendentemente dal venir meno della comunione di vita spirituale e materiale dei due coniugi e della pratica impossibilità di ricostruirla in caso di perdurante dissenso di essi. Aveva altresì fatto apparire in tutta evidenza come l'opinione pubblica considerasse opportuni una semplificazione e uno snellimento delle procedure tendenti all'accertamento delle condizioni necessarie alla pronuncia di scioglimento del matrimonio, fissate originariamente in forma considerata troppo rigida. Nel dibattito, infatti, che aveva accompagnato lo svolgimento del referendum abrogativo e, più ancora, nelle successive discussioni in materia, emergeva un orientamento largamente favorevole sia alla diminuzione del periodo di separazione personale dei coniugi necessario secondo la legge del 1970 per la pronuncia del d., sia alla estensione delle ipotesi di applicazione della legge.
Tale orientamento ha trovato la sua definitiva sanzione con la cit. novella del 1987 che, raccogliendo anche le indicazioni provenienti da una giurisprudenza largamente sensibile alla libertà e parità dei coniugi, considerate fondate su un principio di ordine pubblico ormai alternativo rispetto a quello superato della indissolubilità del matrimonio, ha stabilito un periodo di tre anni di durata della separazione personale, anziché quello precedentemente fissato di cinque, quale presupposto della proposizione della domanda di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Ha altresì stabilito l'applicazione della legge sul d. al coniuge straniero di cittadina italiana, nell'ipotesi in cui la legislazione del paese di origine del primo non preveda il d., e ciò sempre in applicazione del principio di uguaglianza che è ritenuto fulcro del nuovo diritto di famiglia.
Con lo scioglimento − che con la nuova disciplina introdotta nel 1987 può essere pronunciato anche, oltre che nei casi previsti dalla citata l. 1° dicembre 1970 n. 898, se uno dei coniugi è stato condannato a qualsiasi pena detentiva per il delitto di cui all'articolo 564 del codice penale (incesto) o per uno dei delitti di cui agli articoli 519 (violenza carnale), 521 (atti di libidine violenta), 523 (ratto a fine di libidine), 524 (ratto di minore di anni 14 o di infermo, a fine di libidine o di matrimonio), ovvero per induzione, costrizione, sfruttamento, o favoreggiamento della prostituzione, o anche per omicidio volontario di un figlio ovvero per tentato omicidio a danno del coniuge o di un figlio − cessano naturalmente gli effetti del matrimonio, salvo gli obblighi di contenuto patrimoniale e, naturalmente, i doveri nei confronti dei figli. Cessa ai sensi della novella del 1987 anche il diritto della donna di usare il cognome del marito in aggiunta al proprio, salvo che il tribunale l'autorizzi a usarlo ancora nell'interesse suo o dei figli meritevoli di tutela. Tale novella detta tra l'altro anche una serie di disposizioni di carattere patrimoniale profondamente innovative in materia di assegno periodico che uno dei coniugi deve corrispondere all'altro, in tema di mantenimento del diritto all'assistenza sanitaria in favore del coniuge che non ne godeva per altro titolo se non in forza del matrimonio, e in materia di obbligo di mantenere, educare e istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio.
Si tratta di disposizioni che innovano la normativa del 1970 in punti qualificanti e dettano le linee cui deve attenersi il tribunale investito della competenza a deliberare sul divorzio.
Infatti con la sentenza che pronuncia lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico di ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente un assegno a favore dell'altro, quando quest'ultimo non abbia mezzi adeguati o comunque sia nell'oggettiva impossibilità di procurarseli. La sentenza deve stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso, non può essere proposta alcuna successiva richiesta di natura economica. I coniugi devono presentare all'udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull'effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria.
La durata del matrimonio appare pertanto come uno degli elementi di valutazione nel determinare l'entità dell'assegno che, nel caso di brevità dell'unione, può essere sostituito da una forma di liquidazione con la quale il coniuge cui essa è addebitata si libera da ogni impegno finanziario ulteriore.
Per quanto attiene ai figli, la novella, modificando in modo sostanziale il disposto della legge del 1970, stabilisce che l'obbligo, ai sensi degli articoli 147 e 148 del codice civile, di mantenere, educare e istruire i figli nati o adottati durante il matrimonio di cui sia stato pronunciato lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili, permane anche nel caso di passaggio a nuove nozze di uno o di entrambi i genitori. Il tribunale che pronuncia lo scioglimento e la cessazione degli effetti civili del matrimonio dichiara a quale genitore i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Il tribunale, ove lo ritenga utile nell'interesse dei minori, anche in relazione all'età degli stessi, può disporre l'affidamento congiunto o alternato. In particolare, il tribunale stabilisce la misura e il modo con cui il genitore non affidatario deve contribuire al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi. Il genitore cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del tribunale, ha l'esercizio esclusivo della potestà su di essi e deve attenersi alle condizioni determinate dal tribunale. Salva diversa disposizione al riguardo, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i genitori. Il genitore cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al tribunale quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse. Qualora il genitore affidatario non si attenga alle condizioni dettate, il tribunale valuterà detto comportamento al fine del cambio di affidamento.
L'abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età. In ogni caso, ai fini dell'assegnazione di tale casa, il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione, e favorire il coniuge più debole. Il tribunale dà inoltre disposizioni circa l'amministrazione dei beni dei figli e, ove l'esercizio della potestà sia affidato a entrambi i genitori, circa il concorso degli stessi al godimento dell'usufrutto legale su tali beni. In caso di temporanea impossibilità di affidare il minore a uno dei genitori, il tribunale procede all'affidamento familiare di cui all'art. 2 della l. 4 maggio 1983 n. 184. Nell'emanare i provvedimenti relativi all'affidamento dei figli e al contributo per il loro mantenimento, il giudice deve tener conto dell'accordo fra le parti: i provvedimenti possono essere diversi rispetto alle richieste delle parti o al loro accordo ed emessi dopo l'assunzione di mezzi di prova dedotti dalle parti o disposti d'ufficio dal giudice, ivi compresa, qualora sia strettamente necessario anche in considerazione della loro età, l'audizione dei figli minori. All'attuazione dei provvedimenti relativi all'affidamento della prole provvede il giudice del merito. Nel fissare la misura dell'assegno di mantenimento relativo ai figli, il tribunale determina anche un criterio di adeguamento automatico dello stesso, almeno con riferimento agli indici di svalutazione monetaria. In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all'altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l'avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio.
La legge del 1987 ha sancito inoltre il principio in base al quale il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento e di cessazione degli effetti civili del matrimonio (espressione normalmente usata dal legislatore invece del termine d.) ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto titolare di assegno, a una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro, e ciò anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza: tale percentuale è pari al 40% dell'indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio.
Tale principio è stato ritenuto legittimo e pienamente valido dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 1991, che ha mostrato come il d. abbia ormai salde radici nell'ordinamento italiano.
Bibl.: C. M. Bianca, Diritto Civile. ii. La famiglia. Le successioni, Milano 19852; AA. VV., Commentario alla riforma del divorzio, ivi 1987; A. Trabucchi, Un nuovo divorzio: il contenuto e il senso della riforma, in Riv. Dir. Civile, 1 (1987), p. 114; A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, iii: Il divorzio, Milano 1988.